La Filosofia del diritto nella storia della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università di Sassari [1]
A proposito del recente libro di Antonello Mattone sulla
Facoltà giuridica sassarese[2]
VIRGILIO MURA
già Professore ordinario di Filosofia politica
e Preside della Facoltà di Scienze politiche
nell’Università di Sassari
1. – Il
libro di Antonello Mattone è ponderoso e molto accurato, ricco di dati,
d’informazioni e anche di testimonianze. Ponderoso in un duplice senso:
nell’accezione letterale del termine, perché la carta pesa e il
libro consta di oltre 1000 pagine; ma ponderoso anche in senso figurato per
l’impegno che l’autore ha profuso nel portare a termine
un’opera monumentale (e la fatica che indubbiamente gli è
costata), perché è impressionante la mole dei documenti
consultati e degli scritti esaminati.
Mi
chiedo se sia stato dettato da una precisa scelta editoriale o da
un’esigenza storiografica chiudere il libro alla fine degli anni
’60, perché gli ultimi tre decenni del XX secolo sono stati per la
Facoltà di Giurisprudenza anni di crescita e di sviluppo, che andrebbero
analizzati e ricordati. Basti pensare all’istituzione del corso di laurea
in Scienze politiche, all’ampliamento e ringiovanimento
dell’organico che ne è derivato, alla vivacità culturale
che caratterizzò quel periodo e che riguardò anche il delicato
tema dell’innovazione della governance
interna (i famosi Consigli di Facoltà allargati). Basti pensare al
livello e alla qualità del corpo docente e al fatto singolare che nei
primi anni settanta insegnarono contemporaneamente tre giuspubblicisti –
Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida e Ugo De Siervo – ognuno dei quali
sarebbe poi diventato Presidente della Corte costituzionale. Un primato che non so
quante altre facoltà di giurisprudenza possano vantare. Senza contare
che gli anni Settanta furono anni di semina, d’investimento nelle risorse
umane, che diedero frutti nei decenni successivi. Mai la facoltà di
giurisprudenza aveva avuto tanti professori ordinari locali quanti ne ebbe a
partire dalla metà degli anni Ottanta.
Questa,
beninteso, non è una critica, ma un invito a continuare e un augurio a
completare l’opera.
2. – Per
molti secoli, praticamente fino alla seconda metà del XIX secolo,
l’insegnamento del diritto nella Facoltà di giurisprudenza,
secondo tradizione, era riservato (o ridotto, scegliete voi) al diritto romano
e al diritto canonico, cui si aggiunsero nel tempo il diritto commerciale e il
diritto penale (p. 184).
Per
avere un piano di studi organico e coerente bisogna aspettare il Regolamento
universitario emanato nel 1876, che articolava il corso di laurea in quattro
anni accademici e prevedeva il superamento di diciotto esami fondamentali, fra
cui la filosofia del diritto, che però, osserva Mattone, «veniva
considerata una disciplina secondaria» (p. 337), il cui insegnamento in
quegli anni a Sassari era affidato per incarico a professori di altre materie,
neppure affini: al civilista Antonio Piras (1871-73) e al docente di Scienze
delle finanze Girolamo Pitzolo dal 1876 al 1878.
La
storia della filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Sassari ha dunque poco più di un secolo,
anzi meno di un secolo se ci atteniamo alla periodizzazione del libro di
Mattone.
Per
la verità, c’è pure un periodo di breve preistoria prima
degli anni ’70 del XIX secolo, che, secondo M., sono anni di vita di
grama per la Filosofia del Diritto che rischia perfino di scomparire per
incorporamento o assorbimento in una strana disciplina denominata Introduzione enciclopedica delle scienze
giuridiche (Ibidem).
La
preistoria comincia (e finisce) con Pietro Esperson, dapprima incaricato nel
1860 e dall’anno successivo straordinario, che tiene l’insegnamento
di filosofia del diritto fino al 1865, quando si trasferisce
nell’Università di Pavia per insegnarvi diritto Internazionale.
Oggi Esperson è ricordato come uno dei padri fondatori del diritto internazionale
in Italia. La filosofia del diritto ha rappresentato nel suo curriculum solo una stazione di
transito, in cui effettuare una breve sosta.
C’è
da presumere che la vita grama per la disciplina, affidata per incarico a
professori di altre materie non necessariamente affini, si sia protratta fino
al 1882, quando vinse il concorso a professore straordinario Carmine Soro
Delitala, che tenne l’insegnamento fino al 1896, anno in cui ottenne la
cattedra di diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione, che
poi erano le discipline verso le quali aveva principalmente rivolto i propri
interessi scientifici nel corso della sua carriera accademica. Soro Delitala
insegnava filosofia del diritto, secondo un indirizzo vagamente positivistico,
ma studiava le tematiche legate al campo del diritto amministrativo e della
scienza dell’amministrazione, cui attengono la maggior parte dei suoi
lavori. Paradossalmente
l’unica pubblicazione pertinente rispetto all’insegnamento è
la voce “Filosofia del diritto” scritta per l’Enciclopedia giuridica italiana nel 1903-1904, sette anni
dopo essere transitato alla cattedra di Diritto amministrativo. Troppo poco per
essere etichettato, come riferisce Mattone, come un “filosofo
amministrativista”, secondo l’improponibile ossimoro scelto dallo
storico del diritto Giulio Cianferotti per definirlo (p. 346).
A
Soro Delitala succede Salvatore Fragapane, che tiene la cattedra di filosofia
del diritto dal 1900 al 1902.
Filosofo positivista, anzi “positivistissimo” come lui stesso
amava definirsi, Fragapane è un rigoroso interprete di
quell’indirizzo di pensiero antimetafisico, allora piuttosto diffuso, che
concepiva la filosofia come una disciplina non speculativa, orientata a
osservare i fatti e a spiegare i fenomeni reali secondo un’ottica e un
approccio che ricalcavano, mutatis
mutandis, il metodo scientifico. Di qui, fra l’altro, l’accusa
di scientismo mossa ai positivisti
dai cultori della filosofia tradizionale, ma anche un modo tipico di accostarsi
allo studio del diritto, un modo molto simile a quello delle nascenti scienze
sociali, tanto che non è azzardato considerare il positivismo come il
lontano progenitore della sociologia giuridica, una disciplina che
otterrà la piena cittadinanza nel mondo accademico italiano solo nella
seconda metà del secolo XX per impulso, soprattutto, di Renato Treves.
La
filosofia positivistica del diritto, di cui Fragapane è
un’eminente esponente, non va, però, confusa con il positivismo
giuridico. Entrambi gli indirizzi di pensiero condividono la medesima istanza
antimetafisica e antigiusnaturalistica, ma si collocano agli antipodi per
quanto riguarda l’approccio e la definizione dell’oggetto. A
differenza della filosofia positivistica del diritto, che considera il fenomeno
del diritto in relazione agli altri fenomeni sociali e opera dunque secondo un
approccio in senso lato “contenutistico”, il positivismo giuridico
si caratterizza invece per l’approccio formale allo studio del diritto e
s’identifica, appunto, con il c.d. formalismo giuridico, una concezione
monista, in quanto riconosce esclusivamente il diritto positivo, e, dunque,
conseguentemente statualistica.
Nel
1900 Mattone registra a Sassari, dove consegue la libera docenza in Filosofia
del diritto, la presenza di Francesco Cosentini, una singolare figura di
operatore culturale, di matrice positivistica, impegnato su più fronti
(da quello delle biblioteche a quello dei licei a quello editoriale);
poliedrico e poligrafo, Cosentini appare sostanzialmente un divulgatore affetto
da una leggera forma di grafomania.
Nell’a.a.
1904-05, fresco vincitore di concorso, arriva a Sassari Alfredo Bartolomei, che
non fa in tempo nemmeno a disfare le valigie. L’anno successivo è
già a Messina, anche perché il concorso sassarese era stato nel frattempo
annullato per vizi di forma. Lascia, tuttavia, come segno della sua fugace
visita, un saggio dal titolo Su alcuni
concetti di diritto pubblico generale pubblicato su “Studi
sassaresi” nel 1905, nel quale
critica il dogma della personalità giuridica dello Stato.
Nel
triennio 1906-09 la cattedra di Filosofia del diritto è tenuta da
Giorgio Del Vecchio, un giovane dal
luminoso avvenire, destinato a diventare nei decenni successivi
l’autentico dominus della
filosofia del diritto in Italia. E
non mi riferisco solo, volgarmente, all’influenza che costantemente
eserciterà nelle vicende concorsuali, ma soprattutto al fatto che,
muovendo da premesse neo-kantiane e rivalutando il giusnaturalismo, fonda su
nuove basi la disciplina, sottraendola all’egemonia esercitata dal
positivismo. La svolta operata da Del Vecchio è annunciata in tre libri
– I presupposti filosofici della
nozione del diritto (1905), Il
concetto del diritto (1906), Il
concetto della natura e il principio del diritto (1908) - tutti pubblicati
a cavallo o durante la sua esperienza sassarese. Autore prolifico e aperto al
confronto internazionale – la maggior parte dei suoi libri sono tradotti
in diverse lingue straniere – Del Vecchio non solo rinnova, ma
sprovincializza la filosofia del diritto italiana. Nel 1921 fonda la
“Rivista internazionale di filosofia del diritto” che
dirigerà fino al 1938, l’anno nel quale per effetto delle leggi
razziali sarà sollevato dall’insegnamento universitario,
benché fosse un fascista militante. Al 1930 risale la prima edizione a
stampa delle Lezioni di filosofia del
diritto, un libro che conoscerà ben tredici riedizioni, un autentico
manuale adottato nella maggior parte delle facoltà di giurisprudenza,
non solo in Italia, sul quale si sono formate per oltre un trentennio intere
generazioni di studenti.
Nel
1910 Giorgio Del Vecchio lascia il testimone ad Antonio Falchi, sassarese di
nascita, proveniente dalla libera Università di Perugia, che
terrà l’insegnamento di Filosofia del diritto fino al 1918.
Studioso solido, di grande spessore e dai molteplici interessi culturali,
Falchi amplia l’orizzonte della disciplina con frequenti incursioni nel
campo della storia delle idee politiche. Inaugura questo filone di ricerca con
la pubblicazione nel 1908 di un ponderoso volume intitolato Moderne dottrine teocratiche, nel quale
affronta il tema, che sarà poi centrale nella filosofia politica, dei
criteri di legittimità del potere e della loro validità o
sostenibilità. Falchi continua a coltivare questo filone con studi su
Zenone, Grozio e i fisiocratici, fino ad arrivare nel 1933 a dare un ordine
sistematico e un quadro d’insieme all’intera materia, pubblicando
un volume dal significativo (e impegnativo) titolo: Storia delle dottrine politiche. Ma l’oggetto principale della
riflessione di Falchi è un altro ed è strettamente collegato alla
crisi del positivismo, la corrente filosofica alla base della sua formazione.
Il tema centrale è lo statuto epistemologico della filosofia del
diritto, il problema della sua peculiare identità da cogliere esaminando
le connessioni e le differenze con la filosofia in generale, la scienza
giuridica, la sociologia. In questo percorso, che lo allontana gradualmente (ma
non definitivamente né radicalmente) dall’iniziale positivismo,
Falchi propone una concezione non formalistica dello Stato, inteso non
semplicemente come ordinamento giuridico, ma, come Stato-collettività,
come “organizzata universalità dei cittadini”
(un’espressione per la verità poco perspicua). Fermo oppositore
del neoidealismo, sia nella versione crociana sia in quella gentiliana, nella
ricerca di un nuovo approdo filosofico, Falchi riscopre Gianbattista Vico, che
egli interpreta come un filosofo attento alla realtà empirica e allo
svolgersi concreto della storia, un pensatore che, a suo giudizio, può
essere considerato un antesignano delle moderne scienze sociali. Nel 1918
Falchi si trasferisce, dopo aver vinto l’apposito concorso,
nell’Università di Parma, poi nel 1923 in quella di Cagliari e,
infine, nel 1925 in quella di Genova dove rimase fino alla pensione. Rara avis. Non sono, infatti, frequenti
i casi di professori di ruolo sassaresi che scelgono di proseguire la carriera
in altre sedi.
Nell’a.a.
1921-22 è il turno di Benvenuto Donati, proveniente
dell’Università di Perugia e con il biglietto già in tasca
per Cagliari, dove approda l’anno successivo, prima di trasferirsi nel
1923 nell’Ateneo di Macerata e in seguito, nel 1925, in quello di Modena.
Anche Donati, studioso di Ludovico Muratori e di Vico, è in cerca di una
nuova strada per allontanarsi dall’iniziale positivismo che lo porta,
passando per il criticismo neokantiano, a un’inedita (e poco frequentata)
posizione filosofica che egli stesso definisce “idealismo
gnoseologico”.
Dal
1922 al 1925 la Filosofia del diritto è priva di titolare:
l’insegnamento viene svolto, se così si può dire, per
incarico, dapprima dal Preside, Benvenuto Pitzorno, storico del diritto
italiano, che si lamenta, come ricorda Mattone, di aver solo uno studente,
peraltro neppure in regola con il pagamento delle tasse; poi dal
processual-civilista Antonio Segni e infine, impegni permettendo, dal Rettore
Giuseppe Castiglia, amministrativista.
Dal
1926 al 1932 l’insegnamento viene affidato per incarico al giovane
Tommaso Antonio Castiglia, figlio di Giuseppe, che si fa da parte nel 1933, su
sollecitazione del dominus Del
Vecchio, per lasciare il posto a Giuseppe Capograssi, fresco vincitore di
concorso, che rimane a Sassari fino al 1935.
Capograssi
– il “più cristiano dei filosofi cristiani” secondo la
definizione di Antonio Pigliaru – arriva in cattedra relativamente tardi,
ma ha alle spalle numerose pubblicazioni, fra cui la trilogia che lo
renderà celebre fra i giuristi cattolici del Novecento, costituita da Analisi dell’esperienza comune
(1930), Studi sull’esperienza
giuridica (1932) e Il problema della
scienza del diritto, pubblicato nel 1936 ma già in fase di avanzata
elaborazione e avviato a conclusione nel corso della breve stagione sassarese.
In questo periodo Capograssi scrive
anche un saggio intitolato Alcune
osservazioni sopra la molteplicità degli ordinamenti giuridici,
pubblicato su “Studi sassaresi” nel 1936, che ripropone, dopo
averlo riveduto e corretto, con un nuovo titolo (Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici) nel
1939 sulla ”Rivista internazionale di Filosofia del diritto”. Si
tratta di un saggio importante perché chiude un lungo dibattito
incentrato, nella prima parte, sulla natura del diritto e, nella seconda, sul
pluralismo giuridico, un dibattito che aveva preso le mosse dalla
pubblicazione, all’inizio del secolo, dell’Ordinamento giuridico, il libro in cui Santi Romano espone in forma
sistematica la propria teoria del diritto come istituzione, (un dibattito) che
aveva coinvolto a più riprese, oltre che Vittorio Emanuele Orlando, la
maggior parte dei filosofi del diritto italiani (Alessandro Bonucci, Giuseppe
Maggiore, Vincenzo Miceli, Giorgio Del Vecchio, Sergio Panunzio, Angelo Ermanno
Cammarata, Widar Cesarini Sforza, Arnaldo Volpicelli, Giacomo Perticone, Franco
Asturi, Orazio Condorelli, Ennio Paresce, Vincenzo Viglietti). Capograssi
svolge la propria tesi a favore del pluralismo giuridico, cioè della
coesistenza all’interno di un medesimo contesto sociale di una
molteplicità di ordinamenti giuridici, ma, a differenza dei monisti che
ritengono che esista solo un tipo di diritto, quello posto dallo Stato, si
scontra con la difficoltà di spiegare e giustificare l’esistenza
delle associazioni criminali – che lui chiama eufemisticamente
“bande di ladroni” – le quali si danno proprie regole di
organizzazione e di condotta. Capograssi indica la soluzione
nell’individuazione di un ordinamento universale, che contiene in
sé l’intera esperienza giuridica e, dunque, valorizza il principio
dell’unità, in base al quale sia possibile stabilire la
compatibilità, la comparabilità e la gerarchia fra i singoli e
diversi ordinamenti. In questo modo è possibile, secondo Capograssi,
giustificare la soppressione da parte dello Stato delle organizzazioni
criminali, che costituiscono una contraddizione vivente perché dal
momento in cui nascono allo stesso tempo riconoscono e negano il valore
dell’ordinamento universale. Questo è il loro peccato originale,
perché l’ordinamento universale appartiene all’ordine naturale
delle cose. Non è, quindi, difficile scorgere nella soluzione proposta
da Capograssi l’impronta del giusnaturalismo tomista.
Dall’a.a.
1935-36 all’a.a. 1966-67 la cattedra di Filosofia del diritto è
tenuta da Tommaso Antonio Castiglia, sul quale mi soffermerò tra poco,
che ritorna a Sassari dopo l’esperienza nell’Università di
Urbino dalla quale era stato chiamato nel 1934 dopo essere stato ternato nel
concorso a professore straordinario bandito dall’Università di
Ferrara.
Se
si eccettuano i casi di Carmine Soro Delitala, Antonio Falchi e, appunto,
Tommaso Antonio Castiglia, che detiene il record assoluto di permanenza, gli
altri professori di ruolo che si sono succeduti nell’insegnamento di
Filosofia del dritto, nel periodo preso in considerazione da Mattone, sono
stati, a dir poco, delle meteore. Del resto Sassari era considerata una sede
disagiata, difficile da raggiungere. Un conto è, infatti, fare il
professore pendolare viaggiando con l’aereo, altro è farlo
utilizzando la nave in un tratto di mare dominato dai forti venti occidentali.
Inoltre, l’Università non era propriamente accogliente o
allettante, come dimostra l’impietosa testimonianza, riportata da
Mattone, di Arturo Carlo Jemolo che insegna a Sassari nel triennio 1920-23:
Piazza Università poco illuminata e invasa dai cani randagi;
l’Istituto giuridico che chiude prima delle 19,00 ed è privo della
luce elettrica e del riscaldamento; i colleghi, spesso irreperibili, che
discutono solo di concorsi e aumenti stipendiali; pochissimi studenti e
massimamente restii alla frequenza – noto per inciso che niente fa
sentire più inutile un professore della mancanza di un uditorio –
in compenso molte vacanze: un mese per Natale, un mese per il carnevale, un
mese per pasqua. Insomma, c’erano tutte le condizioni per scoraggiare la
permanenza e per attivare le manovre per un rapido trasferimento. Ma non tutte
le meteore sono uguali. Alcune, indirettamente e magari preterintenzionalmente,
hanno lasciato un segno profondo e prodotto effetti duraturi. E’ il caso
di Del Vecchio, attraverso Castiglia, e quello di Capograssi, attraverso
Antonio Pigliaru.
3. – Di
Tommaso Antonio Castiglia - TAC, come lo chiamavano affettuosamente gli
studenti – Mattone ricostruisce minuziosamente le tappe della carriera
accademica. Sottolinea l’importanza del periodo post-laurea trascorso a
Berlino per specializzarsi sotto la guida di Rudolf Stammler, riferisce
dell’adesione alla scuola di Del Vecchio e delle vicende concorsuali,
descrive la genesi e il contenuto delle sue pubblicazioni e, en passant, ricorda anche alcuni
atteggiamenti bizzarri o stravaganti legati allo svolgimento
dell’attività didattica e al giudizio magnanimo sull’esito
degli esami degli studenti. Fra questi atteggiamenti, l’abitudine di far
lezione stando zitto. Citando la testimonianza di Mario Segni, relativa
all’a.a 1959-60, Mattone racconta che Castiglia andava in aula con un
magnetofono portatile, il famoso Geloso dai tasti colorati, in cui aveva
registrato le lezioni e che poi si limitava a premere l’apposito tasto
d’avvio invitando gli studenti a imitarlo, cioè ad ascoltare in
silenzio. Posso confermare la veridicità del resoconto perché
anch’io nell’a.a. 1963-64 ho vissuto la medesima esperienza. Se non avessi avuto in seguito occasione
di sentirlo dal vivo, avrei conservato la falsa impressione che il prof.
Castiglia avesse una voce gracchiante.
Dei
tre libri scritti da Castiglia il più importante è sicuramente Stato e diritto in Hans Kelsen,
pubblicato nel 1932 (e ristampato nel 1936). Il pregio maggiore del libro consiste
nel fatto che è la prima monografia sul pensiero di un autore, destinato
a diventare uno dei massimi esponenti della teoria del diritto nel Novecento,
che in Italia è, però, se non totalmente ignorato, ancora
pressoché sconosciuto. Il suo limite principale, ma Castiglia non ne ha
colpa, è che si tratta di un libro che esce nel momento sbagliato.
Kelsen, infatti, pubblica nel 1933 in diverse lingue (compreso
l’italiano) la prima edizione della Reine
Rechtslehere, l’opera che completa e definisce compiutamente la sua
teoria del diritto. Quando Castiglia nel 1936 ristampa il suo libro (e in
questo caso ha qualche responsabilità), il libro è già
vecchio, già superato. Il secondo lavoro monografico di Castiglia
è del 1934 ed è intitolato L’esperienza
giuridica e il concetto di Stato, un’opera costruita intorno alle
linee teoriche tracciate da Del Vecchio e perciò considerata scarsamente
originale, più espositiva che critica. Il terzo libro è in
realtà un lungo saggio che esce nel 1938, col titolo L’esperienza giuridica e le regole della
vita, che avrà scarsa circolazione, come spiega lo stesso Castiglia,
“per le circostanze dipendenti dal periodo prebellico e bellico”.
Lo scritto, come del resto indica il titolo, contiene continui ed espliciti
rinvii all’opera di Capograssi. Su suggerimento di Del Vecchio, Castiglia
nel 1958 lo ripropone tale e quale, tranne il titolo che diventa Studi sulla realtà giuridica,
sulla RIFD, rinviando a un secondo volume, che non uscirà mai,
l’aggiornamento bibliografico e premettendo, secondo me con un pizzico di
sana autoironia, che si tratta di un lavoro che è il frutto «di
venti anni di meditazione» e di «un sofferto pensare su gli stessi
problemi perenni della filosofia giuridica».
A
proposito di questo libro ho un aneddoto da raccontare, che mi coinvolge, ma
che rivela anche un aspetto non secondario della personalità di
Castiglia. L’episodio risale ai primi giorni di novembre del 1967.
Castiglia era andato fuori ruolo l’1 novembre ed io dovevo laurearmi il
6. Il mio relatore era Antonio Pigliaru, che però era stato ricoverato a
Roma, al Gemelli, ed era perciò impossibilitato a intervenire alla
seduta di laurea. Pigliaru pregò Castiglia di sostituirlo e Castiglia
accettò di buon grado. Andai a casa sua per portargli copia della tesi
che riguardava, guarda il caso, Il
concetto dello Stato in Capograssi. Dopo i primi convenevoli prese la tesi,
lesse il titolo e mi domandò a bruciapelo: “Mi hai citato?”.
Rimasi di sasso, ero convinto di aver fatto un lavoro molto accurato, anche dal
punto di vista bibliografico, ma non lo avevo citato, che avesse scritto su
Capograssi mi era sfuggito. Imbarazzatissimo farfugliai delle scuse, ma
Castiglia, leggendomi in viso lo sgomento, m’interruppe dicendomi di non
preoccuparmi. Per la verità non disse proprio così, anche se il
concetto era lo stesso. Usò una colorita espressione sassarese, mi
disse: “affuttidinni”. Poi prese un estratto dello scritto
incriminato, vi appose una dedica e me lo donò. Mi disse in sassarese di
non preoccuparmi, non tanto per tranquillizzarmi, certo anche per questo,
quanto e soprattutto per comunicarmi che lui rimaneva indifferente rispetto
alla mia disattenzione, insomma che si sentiva superiore a certe piccolezze che
il vanitoso mondo accademico in genere non perdona.
4. – Mattone dedica un intero capitolo del suo
libro, l’ultimo, a illustrare la figura di Antonio Pigliaru, filosofo del
diritto, organizzatore di cultura, testimone del tempo.
Pigliaru
diventa assistente ordinario di Filosofia del diritto nel 1950 - e bisogna dare
atto a Castiglia per la scelta oculata – e nel 1965 professore
straordinario di Dottrina dello Stato, disciplina che insegnava per incarico
dal 1963. Muore nel 1969, alle soglie della maturità, a soli 46 anni.
Sono
intervenuto sul pensiero e l’opera di Pigliaru in molte e diverse
occasioni. Qui, oggi, mi limito a ribadire che è stato uno studioso
esemplare, lucido e penetrante, un intellettuale eticamente e generosamente
impegnato sul piano civile, come testimoniano le lotte ideali e le numerose
iniziative culturali che l’hanno visto protagonista, a conferma di una
sensibilità e un’apertura non comuni verso i più delicati
problemi del proprio tempo.
Questi tratti della figura di Pigliaru
sono presenti nel profilo che ne traccia Mattone, che è molto accurato e
pressoché esauriente. Per integrare il quadro posso riferire di alcuni
episodi che riguardano il mio personale rapporto con Pigliaru, scusandomi se
dovrò ancora parlare anche di me, episodi che né Mattone
né altri conoscono, perché non sono riportati in nessun documento
ufficiale, ma che possono essere utili per meglio cogliere la misura della sua
statura intellettuale e morale.
All’indomani
della laurea, dopo la sua dimissione dall’ospedale, nel corso di un
cordiale colloquio Pigliaru mi chiese che cosa intendessi “fare da
grande”. Gli risposi, senza rendermi conto che potevo dargli un
dispiacere, che desideravo andare a Torino per studiare filosofia con Norberto
Bobbio. Mi rispose: “La filosofia la può studiare anche qui, con
noi”. Lo disse con un sorriso che non era di circostanza, ma di
compiacimento. Non si era sentito né offeso né sminuito dalla mia
scelta e, anzi, scrisse una lettera di presentazione da consegnare brevi manu a Bobbio, senza la quale,
probabilmente, il mio rapporto con Bobbio non sarebbe mai nato. Mi sono sempre
chiesto quale altro professore, nella medesima circostanza, sarebbe stato
capace di avere lo stesso atteggiamento e di fare altrettanto.
Non
solo non si sentì ferito nell’orgoglio professionale, ma nel 1968
Pigliaru si adoperò per farmi ottenere un assegno biennale di
addestramento didattico e scientifico, sapendo che avrei continuato a fare la
spola fra Sassari e Torino e che l’assegno costituiva un supporto
finanziario necessario per consentirmi, appunto, di continuare a fare la spola.
Nell’autunno dello stesso anno mi propose di scrivere un lavoro insieme,
l’ultimo progetto di ricerca, in ordine di tempo, elaborato da Pigliaru.
Si trattava di comparare le due edizioni del saggio di Capograssi sulla
molteplicità degli ordinamenti giuridici, dal quale Pigliaru aveva
tratto ispirazione per l’elaborazione della Vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, il suo libro
più famoso. A me spettava di registrare tutte le varianti, anche quelle
minute, anche quelle ortografiche. Lui si era riservato il compito, una volta
esaminate le varianti, di scrivere “un capo” e “una
coda”. Avevo cominciato a realizzare le prime schede quando Pigliaru
venne a mancare. Chiusi la cartella e la riposi in un cassetto, anche perché
non avevo idea di quali fossero “il capo” e “la coda”
che Pigliaru aveva in mente. Ho ripreso il lavoro di schedatura molti anni
dopo, l’ho concluso e ho aggiunto un “capo” e una
“coda”, presumibilmente lontani dal modo in cui Pigliaru li avrebbe
scritti. Ma non è detto che, solo per questo, li avrebbe disapprovati.
Era abituato (e abituava) a pensare liberamente; ed era coerente con se stesso
nel rispettare la libertà e il pensiero altrui. Ho pubblicato il lavoro nel 1979, nel decennale
della sua morte. Mi pareva di doverglielo.
Nel
caratterizzare la presenza e il peso che molti professori di filosofia del
diritto hanno avuto nel loro transito sassarese ho fatto ricorso a una metafora
astronomica: ho parlato di meteore. Per tentare un confronto, continuando nella
metafora, a proposito di Pigliaru si dovrebbe ricorrere alla categoria delle
stelle fisse. Infatti, com’è noto, la luce emessa dalle stelle
fisse continua a essere visibile ancora per molti anni dopo la loro scomparsa.
[1]
Relazione presentata al convegno scientifico tenutosi il 4 maggio 2018
nell'Aula Magna dell'Università degli studi di Sassari.
[2]
ANTONELLO MATTONE, Storia della
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari
(secoli XVI-XX), [Studi e ricerche sull’università –
Collana del Centro interuniversitario per la storia delle università
italiane, diretta da Gian Paolo Brizzi], Bologna, Società Editrice il
Mulino, 2016, pp. 1037. ISBN 978-88-15-26674-3.