Osservazioni su Livius 6.39.1-2:
un momento cruciale della storia della repubblica romana
ANDREA SANGUINETTI
Professore
aggregato di Istituzioni di Diritto Romano
Università di
Modena e Reggio Emilia
Sommario: 1. Impostazione dell’indagine. – 2. L’antefatto. – 3. La seconda votazione
del 368 nel racconto di Livio. – 4. Conclusioni. – Abstract.
In una
recente ricerca[1] ho avuto occasione di soffermarmi di sfuggita su un noto
passo liviano, che si inquadra nella lunga narrazione che lo storico dedica
alla vicenda che condusse a quel momento cruciale del conflitto tra il
patriziato e la plebe che è la legislazione – o, come alcuni preferiscono
chiamarlo, il compromesso – licinia-sestia.
Nella
ricostruzione liviana la vicenda, che si estende su un arco di ben dieci anni,
occupa otto capitoli del sesto libro, da 6.35.4 sino alla fine del libro,
6.42.14.
E’
superfluo dire che la narrazione liviana non può essere ritenuta degna di fede
in tutti i suoi particolari; diverse sono le incongruenze (anche rispetto al
racconto di altri autori), le sconnessioni, a volte persino le contraddizioni
che caratterizzano il racconto, che la dottrina ha da tempo messo a fuoco,
sicché sarebbe ingenuo pensare che attraverso le parole dell’annalista si possa
ricostruire con precisione l’andamento dei fatti[2].
Nella
presente ricerca vorrei soffermarmi su un momento particolare del racconto, non
per ricostruire come si sono veramente svolti i fatti, impresa forse non
possibile, ma, più modestamente, per capire come lo stesso Livio intendesse
essersi svolti certi fatti che narrava. Infatti il racconto dell’episodio sul
quale tra poco ci concentreremo sembra passibile di due diverse
interpretazioni, e poiché queste due interpretazioni non sono conciliabili,
ritengo meritevole di approfondimento questa sezione del racconto per
verificare se sia possibile stabilire che una delle due interpretazioni è
preferibile rispetto all’altra.
Prima di
affrontare il tema che costituisce il cuore dell’indagine non sarà inopportuno
presentare un riassunto degli eventi che fanno parte della vicenda di Licinio e
Sestio narrati da Livio prima del cap. 39.
La vicenda[3] prende l’avvio, com’è noto, nel 377 a.C., quando Licinio
e Sestio, eletti tribuni della plebe, presentano all’assemblea plebea le tre rogationes de consule plebeio, de aere alieno e de modo agri (Livius 6.35.4-6). La questione si rivela
immediatamente spinosa, poiché le tribù, chiamate al voto, sono impedite
nell’esercizio della loro attività dalla intercessio
opposta dai colleghi di Licinio e Sestio. I due tribuni reagiscono esercitando
a loro volta l’intercessio nei
confronti dei comizi elettorali. Ne consegue un lungo (cinque anni!) periodo di
vacanza delle magistrature, significativamente chiamato da Livio solitudo magistratuum, che si sarebbe dunque
protratto sino al 371 (Livius 6.35.7-10). Alla fine del quinquennio Licinio e
Sestio sospendono la intercessio per
consentire l’elezione dei tribuni militari che si occupino della guerra contro
Velletri, la quale in verità si trascina più a lungo del previsto (Livius
6.36.1-6). In Roma, e siamo ormai al 369 a.C., gli animi si scaldano
nuovamente, poiché Licinio e Sestio, spalleggiati ora dal tribuno militare
Fabio Ambusto, suocero del primo, ripresentano le tre proposte; ora soltanto
cinque degli otto colleghi nel tribunato oppongono la intercessio. Segue un tentativo dei due proponenti di convincere
alcuni esponenti dell’aristocrazia riguardo alla opportunità di appoggiare le
loro proposte. Poiché le loro parole sembrano fare presa sugli interlocutori, i
due tribuni presentano una nuova rogatio
in cui propongono di istituire un collegio di decemviri sacris faciundis, riservato per metà ai plebei, che
sostituisca l’omonimo duumvirato esistente. La convocazione dei comizi per
deliberare su tutte le loro proposte (le tre già avanzate in precedenza, più,
sembrerebbe, quella nuova) viene rimandata al rientro dell’esercito da Velletri
(Livius 6.36.7-37.12). Ma nei fatti passa un altro anno prima che l’esercito
venga richiamato da Velletri, e poi la questione delle rogationes viene ancora rinviata a dopo l’elezione dei nuovi
tribuni militari. Al tribunato della plebe intanto, e siamo giunti al 368 a.C.,
vengono confermati ancora una volta Licinio e Sestio. All’inizio dell’anno si
giunge ad uno scontro decisivo sulla questione delle leggi: dal momento che le
tribù sono state chiamate al voto, e poiché l’opposizione degli altri tribuni plebis risulta ormai superata, i
patrizi ricorrono ad una nuova arma: la nomina di un dittatore nella persona di
Furio Camillo, il quale nomina come magister
equitum Lucio Emilio. Nonostante questa manovra, i proponenti chiamano
ugualmente le tribù al voto. Tenuta la regolare discussione tra i tribuni
proponenti e coloro che intendono esercitare il diritto di veto, e mentre le
prime tribù stanno votando a favore delle proposte, Camillo, vista la mala
parata che va profilandosi, tiene un discorso in cui afferma che la condotta di
Licinio e Sestio è distruttiva del diritto di veto conquistato dalla plebe a
prezzo di una secessione, e minaccia che se essi persisteranno nel loro
atteggiamento egli, magistrato patrizio, interverrà nell’assemblea della plebe
per evitare che il potere tribunizio si distrugga con le sue stesse mani
(Livius 6.38.1-7). Ma poiché i tribuni persistono nella loro condotta, il
dittatore fa disperdere la plebe. Dopo questi fatti, inopinatamente, Furio
Camillo si dimette, per cause che nel racconto di Livio rimangono almeno in
parte inspiegate. Lo sostituisce quasi immediatamente Publio Manlio (Livius
6.38-8-13).
Sino a
questo momento, dunque, il racconto liviano lascia intendere, con una certa
chiarezza, che le tribù sono state convocate per votare le rogationes di Licinio e Sestio in due occasioni: una prima volta
nel 377 (Livius 6.35.7), occasione in cui però le operazioni di voto non hanno
luogo a causa dell’intercessio degli
altri tribuni della plebe, e una seconda volta nel 368, all’inizio dell’anno
(Livius 6.38.3-4): in questa seconda occasione le procedure di voto iniziano,
poiché Licinio e Sestio tentano in questo modo di forzare la mano a Furio
Camillo, o quanto meno di scoprire il gioco del dittatore. Ma le operazioni non
si possono concludere perché il loro avversario sollecita i littori e fa
disperdere la plebe. In questa occasione Licinio e Sestio sono davvero arrivati
vicino all’obiettivo, ma, ormai in vista del traguardo, qualcosa impedisce
loro, ancora una volta, di realizzare il progetto a lungo vagheggiato.
Siamo così
giunti al punto del racconto liviano sul quale si concentrerà la nostra
attenzione. Sarà bene dunque riportare l’esordio del capitolo 39, per ascoltare
dalla viva voce di Livio il seguito degli avvenimenti:
Livius 6.39.1: Inter priorem dictaturam
abdicatam novamque a Manlio initam ab tribunis velut per interregnum concilio
plebis habito apparuit quae ex promulgatis plebi, quae latoribus gratiora
essent. 2 Nam de fenore atque agro rogationes iubebant,
de plebeio consule antiquabant; et perfecta utraque res esset, ni tribuni se in
omnia simul consulere plebem dixissent.
Dopo la
deposizione della carica da parte di Furio Camillo, e prima dell’inizio della
dittatura di Publio Manlio, Licinio e Sestio, come se si trattasse di un interregnum, convocano l’assemblea della
plebe per far votare le proposte. In questa occasione si palesa un fatto nuovo,
del quale sino ad ora non si era trovata traccia nella narrazione di Livio;
nella plebe, infatti, si manifesta una inattesa duplicità di atteggiamenti: due
soli dei provvedimenti sottoposti al voto risultano graditi al popolo, l’altro
invece ai soli proponenti. Il racconto spiega che l’assemblea, mentre iubebat le rogationes riguardanti i prestiti e le terre, cioè quelle di
carattere economico, antiquabat
quella de consule, più strettamente
politica, la quale stava a cuore ai proponenti più che alla gente comune.
Entrambe le cose sarebbero andate a finire in questo modo, dice Livio – cioè le
prime due proposte sarebbero state approvate e la terza rigettata – se i due
tribuni proponenti non avessero fatto ricorso a un espediente: dicono infatti
alla plebe che i provvedimenti sono da votare in blocco, rivelando che quella
che vogliono è, in sostanza, una votazione per
saturam.
Il seguito
del racconto vede Licinio e Sestio impegnati, durante l’assemblea indetta per
l’elezione dei nuovi tribuni della plebe, a tentare di convincere la plebe ad
accettare questa condizione; infine i due devono ricorrere ad un vero e proprio
ricatto: la plebe dovrà scegliere se accettare la votazione in blocco,
ricevendo in cambio l’ennesima candidatura al tribunato di Licinio e Sestio,
che promettono di continuare a perorare anche le cause gradite alla massa,
oppure rassegnarsi ad eleggere nuovi rappresentanti che dovranno ripartire da
zero per ottenere ciò per cui da tempo si sta lottando. In questo caso nessuno,
né i due tribuni né il popolo, otterrà ciò che desidera (Livius 6.39.5-12).
A questo
punto nell’assemblea interviene il patrizio Appio Claudio Crasso, che tiene un
lungo discorso (Livius 6.40.1-41.12, due interi capitoli) in cui reiteratamente
biasima il comportamento dei due tribuni perché, con la loro condotta, privano
di fatto la plebe del diritto di scelta.
L’interrogativo
che sorge quasi spontaneo dalla lettura di Livius 6.39.1-2 è il seguente:
secondo Livio in quella seconda seduta del 368 la plebe votò o no? E se votò,
lo fece su un’unica rogatio
comprensiva di tre punti, come volevano Licinio e Sestio, oppure espresse tre voti
distinti sulle tre diverse proposte? Mi pare che su questo punto valga la pena
soffermarsi e approfondire l’indagine, perché in passato, ma anche in tempi
relativamente recenti, sono state date risposte diametralmente opposte a questi
quesiti[4].
Indubbiamente
nel racconto – intendo dire nelle poche righe riportate poc’anzi, ma anche nel
prosieguo della narrazione – sono contenuti indizi che potrebbero deporre tanto
in un senso quanto nell’altro. Pertanto è opportuno, a mio parere, soffermarsi
su questi indizi, per poi vedere, in un secondo momento, se essi siano
veramente inconciliabili.
A favore
di una votazione portata a termine depone essenzialmente un solo indizio, ma
piuttosto “pesante”, e cioè l’uso dei verbi iubere
e antiquare, che fanno parte del
lessico tecnico utilizzato per indicare il voto espresso dai cittadini nelle
assemblee popolari. Per quanto riguarda iubere
sarà sufficiente ricordare le famose definizioni della legge comiziale (e anche
del plebiscito) di Capitone: «Lex est …
generale iussum populi aut plebis rogante magistratu» (definizione riferita da Gellius, Noctes Att. 10.20.2), e di Gaio: «Lex est quod populus iubet atque constituit. Plebiscitum est quod plebs
iubet atque constituit» (Gaius, Inst.
1.3). Che la legge popolare fosse intesa quale iussum populi doveva essere del resto circostanza assai risalente
nel tempo, se già Tab. 12.5 sanciva «ut
quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset» (Livius
7.17.12, dove si afferma tra l’altro iussum
populi et suffragia esse; cfr. anche Livius 9.34.6). Il verbo iubere indica dunque senza dubbio il
voto favorevole che porta all’approvazione della rogatio magistratuale trasformandola in iussum populi. Per quanto riguarda antiquare, basterà ricordare che sulle tavolette cerate su cui i
cittadini esprimevano il proprio voto (quando si era ormai passati al voto
scritto) dovevano essere incise, per quanto riguarda le delibere legislative,
le lettere V (o VR) per il voto favorevole (vti
rogas) e A (antiquo) per il voto
contrario. Non ci sono ragioni per ipotizzare che anche quando il voto era
espresso oralmente si usassero verbi diversi: Livio ricorda che in occasione
della votazione tenuta all’inizio del 368 a.C., la prima di quel denso anno,
prima che il dittatore provvedesse a farle disperdere, le tribù stavano
esprimendo un voto favorevole; e lo fa con le parole “Cum… ‘Uti rogas’ primae tribus dicerentur…”.
Gli indizi
che depongono nel senso che un voto non vi sarebbe stato sono invece più
numerosi. Innanzi tutto Livio, subito dopo aver detto che la plebe approvava
due proposte e ne rigettava una, aggiunge che perfecta utraque res esset, ni tribuni se in omnia simul consulere
plebem dixissent, lasciando chiaramente capire, con un periodo ipotetico
dell’irrealtà, che le cose non erano andate a finire così: infatti lo storico
parla della eventualità che le operazioni fossero condotte in porto in quel
modo con un periodo ipotetico dell’irrealtà, o del terzo tipo che dir si
voglia, costruito canonicamente con il congiuntivo piuccheperfetto tanto nella
protasi quanto nell’apodosi. Inoltre nel prosieguo della narrazione ci sono
diversi momenti in cui si affaccia, ora più ora meno chiaramente, l’idea che il
voto doveva ancora essere espresso. Vediamoli.
In Livius
6.39.5-12 è riportato il discorso che Licinio e Sestio tengono alla plebe in
occasione dell’assemblea che dovrebbe eleggere i tribuni della plebe. Essi
affermano, tra le altre cose, che ormai soltanto la plebe ostacola se stessa e
i propri interessi. Essa potrebbe subito ottenere ciò che desidera[5], cioè la liberazione dai debiti e un’equa spartizione
delle terre pubbliche; ma come potrà apprezzare questi benefici, se nel momento
in cui vota a favore delle proposte che assecondano il suo interesse, nega a
coloro che avevano avanzato quelle proposte la speranza di ricevere il giusto
riconoscimento?
Livius 6.39.10: Quae munera quando tandem
satis grato animo aestimaturos, si inter accipiendas de suis commodis
rogationes spem honoris latoribus earum incidant?
Licinio e
Sestio ne fanno una questione di riconoscenza: non si addice alla dignità del
popolo romano darsi da fare per la liberazione dai debiti e per allontanare dai
campi i potenti che li possedevano iniuria,
e contemporaneamente abbandonare senza la speranza di riottenere la carica i
vecchi tribuni grazie ai quali aveva conseguito questi risultati. Perciò i
plebei devono decidere cosa vogliono:
Livius 6.39.11: Proinde ipsi primum
statuerent apud animos quid vellent; deinde comitiis tribuniciis declararent
voluntatem. si coniuncte ferre ab se promulgatas rogationes vellent, esse quod
eosdem reficerent tribunos plebis; perlaturos enim quae promulgaverint: 12 sin
quod cuique privatim opus sit id modo accipi velint, opus esse nihil invidiosa
continuatione honoris; nec se tribunatum nec illos ea quae promulgatasint
habituros.
Se
desiderano che le leggi proposte siano approvate congiuntamente, non hanno che
da rieleggere gli stessi tribuni, i quali porteranno certo a buon fine
l’approvazione delle proposte promulgate; se invece vogliono semplicemente
prendersi ciò che corrisponde al loro tornaconto immediato, allora non c’è
alcun bisogno di confermare dei tribuni ormai invisi. Licinio e Sestio non
riotterranno il tribunato, e i plebei non vedranno l’approvazione delle
proposte promulgate[6].
E’
evidente che un discorso del genere non avrebbe senso se già la procedura di
voto fosse stata completata con l’approvazione delle due proposte “economiche”
e con il rigetto di quella riguardante l’accesso al consolato per i plebei[7]. Il discorso dei due tribuni è da intendersi, a mio
avviso, nel modo seguente: “siamo disposti a portare fino in fondo le proposte
che abbiamo già presentato, purché voi plebei ci rieleggiate e vi impegniate a
votarle in blocco; in caso contrario, sceglietevi altri candidati (che
presentino soltanto le proposte che vi interessano), ma sappiate che non è
detto che il vostro disegno vada a buon fine”. In particolare l’ultima parte
del discorso non può aver senso se non si ammette che nessuna delle proposte
era già stata approvata, nemmeno quelle rispetto alle quali la plebe aveva
mostrato il proprio gradimento.
Anche nel
lungo discorso che Appio Claudio Crasso rivolge ai plebei ci sono chiari indizi
che le proposte non erano ancora state votate[8]. Dopo essere intervenuto nell’assemblea in cui Licinio e
Sestio hanno appena perorato la causa della propria ennesima rielezione,
Crasso, unico tra i senatori presenti, prende la parola e, dopo avere respinto
le possibili accuse contro la sua famiglia di essere contraria agli interessi
della plebe, afferma:
Livius 6.40.7: … reticere possim L. illum
Sextium et C. Licinium, perpetuos, si dis placet, tribunos, tantum licentiae
novem annis quibus regnant sumpsisse, ut vobis negent potestatem liberam
suffragii non in comitiis, non in legibus iubendis se permissuros esse? ... 9 Sed quae tandem ista merces est qua vos semper tribunos
plebis habeamus? “Ut rogationes” inquit, “nostras, seu placent seu displicent,
seu utiles seu inutiles sunt, omnes coniunctim accipiatis”.
rimproverando così ai due tribuni di essersi
impadroniti, in nove anni, di un potere esercitato con arbitrio tale da
permettersi di privare la plebe della possibilità di votare liberamente tanto
nei comizi elettorali quanto nell’approvazione delle leggi. E poco più avanti
riporta le testuali parole dei tribuni che indicavano il ‘prezzo’ che la plebe
avrebbe dovuto pagare per averli sempre come tribuni: accettare di votare coniunctim tutte le proposte, gradite o
sgradite, utili o inutili che fossero. La perorazione di Crasso prosegue molto
a lungo, ma il cuore di essa è come un breve tema musicale trattato con
infinite variazioni: “Licinio e Sestio hanno agito contro gli interessi della
plebe, privandola di fatto della possibilità di scelta, per inseguire i propri
sogni di grandezza politica, e voi plebei dovreste valutare più il merito dei
comportamenti che le persone da cui essi sono tenuti; il fatto che essi siano
tribuni non comporta automaticamente che essi agiscano nell’interesse vero
della plebe, e il fatto che io sia patrizio e senatore non rende il mio
discorso contrario alle vostre aspettative”. Va sottolineato, e mi pare che
questa circostanza non sia stata sinora adeguatamente valorizzata, che Crasso
usa il futuro per indicare che i due tribuni intendono privare la plebe del
libero esercizio del voto: “… ut vobis
negent … se permissuros esse”, come a dire: “si sono ormai accaparrati una
tale misura di potere privo di vincoli e controlli, che si potranno permettere
di impedirvi di votare liberamente”. Ed è ovvio che un tale modo di parlare
avrebbe poco senso se già la votazione fosse stata compiuta. Ma la parte del
discorso di Crasso che suona più di tutte rivelatrice ai fini della nostra
indagine è quella finale, che contiene una chiara esortazione ai plebei:
Livius 6.41.11: … nec in mentem venit altera
lege solitudines vastas in agris fieri pellendo finibus dominos, altera fidem
abrogari cum qua omnis humana societas tollitur? 12 Omnium rerum causa vobis antiquandas censeo istas
rogationes. Quod faxitis deos velim fortunare.
Non
comprendono Licinio e Sestio – dice Crasso ai plebei – che anche le rogationes de modo agrorum e de aere alieno si risolveranno in un
danno per lo stato, perché finiranno per spopolare le campagne e minare alla
base quel patto di fiducia reciproco per mezzo del quale ogni società umana si
costruisce? E conclude significativamente invitando esplicitamente i plebei a
rigettare tutte e tre le proposte. E’ evidente che un invito di questo genere
non avrebbe avuto ragione di essere se già il voto disgiunto delle tre proposte
fosse stato portato a compimento[9]. Anzi, il discorso di Crasso contiene una sfumatura che
va valutata con attenzione: prima infatti il senatore aveva rimproverato a
Licinio e a Sestio di voler privare la plebe del diritto di votare scegliendo;
come a dire che l’ideale sarebbe stato che la plebe avesse potuto scegliere
cosa approvare e cosa rigettare. Ma poi finisce invitando a rigettare tutte le
proposte, e ciò non si spiega se non come proposta per così dire ‘subordinata’,
giustificata dal timore che i due tribuni sarebbero riusciti comunque a imporre
il voto congiunto. In questa malaugurata ipotesi – così possiamo parafrasare la
chiusa del discorso di Crasso – “è comunque meglio che voi rigettiate tutte le
proposte, perché anche quelle che vi sembrano apparentemente vantaggiose
finiranno per risolversi in un danno per lo stato”. In ogni caso l’esortazione
conclusiva non si giustifica se non ipotizzando che il voto dovesse ancora
essere espresso. E questa circostanza è comprovata, se mai ve ne fosse bisogno,
da quanto Livio osserva subito dopo:
Livius 6.42.1: Oratio Appi ad id modo valuit
ut tempus rogationum iubendarum proferretur.
Il
discorso di Crasso non sortì altro effetto che quello di differire
l’approvazione delle proposte di legge. Segno, evidentemente, che esse non
erano ancora state votate.
Di fronte
agli indizi che abbiamo ora analizzato, si tratta di vedere come interpretare
la contraddizione che emerge tra l’uso dei verbi iubere e antiquare,
chiaramente allusivi a una formale procedura di voto (disgiunto), e le altre
testimonianze che piuttosto chiaramente depongono nel senso che il voto sulle
proposte di Licinio e Sestio non era stato compiuto.
A questo
fine vale forse la pena ricordare che dal racconto liviano relativo alle
concitate vicende degli anni 377-367 a.C. emerge che già in due occasioni le
tribù erano state chiamate al voto, e che per un motivo o per l’altro
l’operazione non era stata condotta in porto. Nel 377, quando già le tribù
erano state chiamate a votare, gli altri tribuni, d’accordo con i patrizi,
avevano opposto la intercessio,
impedito la lettura delle proposte e l’espletamento di ogni altro atto che
potesse consentire alla plebe di esprimere il proprio parere. In questo caso si
ebbe dunque una chiamata al voto, ma l’assemblea non poté esprimerlo (Livius
6.35.7).
Nel 368
poi, cioè nello stesso anno cui si riferiscono gli avvenimenti narrati in
Livius 6.39.1-2, la plebe era stata chiamata a votare una prima volta
all’inizio dell’anno (Livius 6.38.3-4). In questo caso, diversamente da quanto
era accaduto nove anni prima, le operazioni di voto ebbero effettivamente
inizio, perché la intercessio degli
altri tribuni si era rivelata inutile di fronte alla risolutezza di Licinio e
Sestio. Furio Camillo, dittatore la cui nomina era stata richiesta dai patrizi,
tentò di far prevalere le ragioni del veto, ma ormai le procedure di voto erano
state espletate e le prime tribù avevano votato a favore dell’approvazione
delle leggi (Livius 6.38.5-6: Cum … ‘uti
rogas’ primae tribus dicerent). Gli eventi si fanno concitati: Camillo
tenta di persuadere Licinio e Sestio a desistere, essi continuano imperterriti
a fare votare; sicché il dittatore invia i littori a disperdere la plebe. In
questo secondo caso, dunque, le procedure di voto sono iniziate, ma sono state
bruscamente interrotte da un intervento esterno.
Questo
episodio collocato da Livio al principio del 368 costituisce un precedente che
ci consente di chiederci se per caso anche nella seconda assemblea legislativa
di quello stesso anno sia accaduto qualcosa di simile, cioè se anche in quella
occasione sia avvenuto che le procedure di voto, pur iniziate ed in parte
espletate, non abbiano potuto essere portate a termine. Ed invero esiste ad
avviso di chi scrive un indizio decisivo in tale direzione. In Livius 6.39.2
Livio, per spiegare l’affermazione appena fatta secondo cui in quell’occasione
si manifestò chiaramente quali proposte fossero gradite al popolo e quale
invece ai latori, dice: Nam de fenore
atque agro rogationes iubebant, de plebeio consule antiquabant. Abbiamo già
osservato che l’uso dei due verbi iubere
e antiquare depone a favore di una
procedura di voto formale; ma bisogna ora notare che i due verbi sono coniugati
all’imperfetto indicativo. Questa circostanza non può essere trascurata: questo
tempo è utilizzato per indicare un’azione nel pieno del suo svolgimento, non
ancora completata. Usualmente infatti, tanto in latino quanto in italiano,
l’imperfetto indicativo è usato per indicare un’azione passata vista nel suo
svolgersi, senza considerare il suo inizio o il suo completamento. E tra le
varie funzioni che tale tempo può adempiere, mi pare che qui sia chiara quella,
appunto, ‘descrittiva’. Il seguito del discorso, in cui come detto Livio sottolinea
che le cose sarebbero andate a finire proprio così (cioè con l’approvazione
delle due rogationes ‘economiche’, e
con il rigetto di quella de consule
plebeio) se Licinio e Sestio non si fossero inventati l’espediente della rogatio per saturam, conferma senza
possibilità di dubbio che a) la votazione aveva avuto inizio; b) si stava
manifestando un esito gradito alla massa ma non ai due proponenti; c) le
operazioni di voto non si conclusero in questo modo, perché i due tribuni
proponenti corsero ai ripari ‘inventandosi’ la rogatio per saturam[10]. In particolare l’ultima circostanza richiamata
evidenzia che l’intervento di Licinio e Sestio ebbe un effetto interruttivo
delle procedure di voto (et perfecta
utraque res esset, ni tribuni se in omnia simul consulere plebem dixissent).
L’azione è vista dunque nel suo svolgersi e nel suo improvviso e inatteso
arrestarsi per l’intervento dei due tribuni. Questa ricostruzione è del resto
coerente anche con la circostanza, data per presupposta da Livio, che fosse
possibile controllare l’esito delle operazioni di voto mano a mano che esse si
svolgevano, senza bisogno di attendere la conclusione di esse. Questa
possibilità era senz’altro esistente fino a che il voto fu espresso oralmente,
poiché mano a mano che i singoli cittadini votavano i voti erano registrati su
apposite tabelle, e gli osservatori potevano così controllare l’andamento della
votazione. Notizie precise ci dicono che il voto segreto scritto fu introdotto
solo molto tempo dopo il IV secolo a.C., e cioè dalle leges tabellariae del II sec. a.C.[11]; non solo: gli studiosi che si sono occupati delle
modalità di voto delle assemblee romane sono oggi concordi nel ritenere che
nelle assemblee tribute, almeno in età alto- e medio-repubblicana, il voto
orale fosse espresso con modalità ‘successiva’, cioè che le tribù non votassero
tutte contemporaneamente, ma prima l’una e poi l’altra, fino ad esaurimento
delle operazioni[12]. Per queste ragioni è lecito ipotizzare che nella
seconda assemblea legislativa del 368 le operazioni di voto siano iniziate, e
che nel corso dello svolgimento della votazione Licinio e Sestio abbiano avuto
modo di verificare che si profilava un esito diverso da quello che essi
speravano e attendevano. Non si poteva aspettare a lungo, altrimenti la votazione
sarebbe andata in porto; bisognava dunque agire in fretta in modo da vanificare
quell’esito inatteso e sfavorevole. Da questo punto di vista l’espediente di
dichiarare che la plebe stava esercitando tre diversi voti laddove avrebbe
dovuto esprimerne soltanto uno, cumulativo, si rivelò vincente, poiché mise in
evidenza un equivoco che verteva su un aspetto essenziale. Stando così le cose
la votazione non poteva continuare, poiché le modalità del suo svolgimento si
erano rivelate contrarie a quanto voluto dai proponenti.
Mi pare
dunque che si possa concludere che i fatti narrati in Livius 6.39.1-2 possono –
ma sarebbe forse meglio dire debbono – essere interpretati nel senso che lo
storico ritiene che nel secondo concilio plebeo tenuto nel corso del 368 a.C.
la plebe aveva effettivamente iniziato a votare, ma non aveva potuto portare a
termine le operazioni di voto perché Licinio e Sestio, visto l’esito
sfavorevole del voto che si stava profilando, avevano deciso di bloccare la procedura
di voto motivando l’intervento con la considerazione che mentre la plebe stava
votando separatamente le singole proposte, essi avevano inteso sottoporre
all’approvazione della plebe tutte e tre le questioni congiuntamente.
Questa
ricostruzione – che naturalmente prescinde, come si è precisato, da una
indagine sulla complessiva affidabilità del racconto liviano – permette di
risolvere la (apparente) contraddizione della narrazione, in cui inizialmente
sembra che effettivamente la plebe abbia già votato disgiuntamente le tre
proposte approvandone due e rigettando la terza (Livius 6.39.2), mentre nel
prosieguo del racconto sono presenti numerosi e reiterati indizi che il voto,
se anche iniziato, non era stato completato. Essa si accorda inoltre con le testimonianze
relative alle modalità di voto osservate nell’epoca cui il racconto si
riferisce, e permette di non dover imputare a Livio una sbadataggine che
sarebbe davvero difficile da comprendere.
The purpose of this study is to try to find out how
Livy interpreted the events of the second part of 368 BC, which are inserted in
the context of the events that led, in the next year, to the famous compromise
(leges Liciniae Sextiae). These facts
are narrated in Livius 6.39.1-2. Several different, almost antithetical
interpretations have been provided about them by the scholars.
After investigating the background and evaluating the
various hypotheses formulated by scholars, the author concludes by proposing an
interpretation according to which the second vote made in 368 BC in the
plebeian assembly would not have been completed, since when Licinius and
Sextius realized the unfavorable outcome of the vote that was looming, decided
to block the voting procedure by motivating the intervention with the consideration
that while the plebs was voting separately the individual proposals, they had
intended to submit to the approval of the plebs all three issues jointly.
[1] A. Sanguinetti, Le rogationes per saturam prima della lex Caecilia Didia, in Jus-Online III.3, 2017, 110 ss., spec.
116 ss. (https://jusvitaepensiero.mediabiblos.it/allegati/pdf/jusonline_2017_3-399.pdf ).
[2] Sulle
incongruenze del racconto liviano vd., tra gli altri: G. Tibiletti, Il possesso dell’ager publicus
e le norme de modo agrorum sino ai
Gracchi, in Athenaeum 26, 1948,
209 ss.; K. von Fritz, The Reorganisation of the Roman Government
in 366 B.C. and the So-Called Licinio-Sextian Laws, in Historia 1, 1950, 7 ss.; F. De
Martino, Storia della Costituzione
romana, I, 2a ed., Napoli 1972, 378 e ss.; F. Càssola - L. Labruna, Linee
di una storia delle istituzioni repubblicane, 3a ed., Napoli 1991, 99 ss.;
E. Hermon, Les lois Licinia-Sextia: un
nouvel examen, in Ktema 19, 1994,
120 ss.; A. Manzo, La lex Licinia Sextia de modo agrorum. Lotte e leggi agrarie tra il V e il IV
secolo a.C., Napoli 2001, 129 ss.
[3] Sulla
quale vd. la bibliografia richiamata da A. Sanguinetti,
Le rogationes, cit., 117 s., nntt.
7-9.
[4]
Ritengono che secondo Livio non vi sarebbe stata alcuna votazione G. Tibiletti, Il possesso, cit., 211 s. (il quale ritiene comunque che la rogatio per saturam sia un’invenzione di
Livio, come già lo riteneva F. Bozza,
La possessio dell’ager publicus, Napoli 1938, 170 nt. 3), e F. Càssola - L. Labruna, Linee, cit., 100. Sono invece
dell’avviso che le proposte siano state votate disgiuntamente K. von Fritz, The Reorganisation, cit., 11, E. Hermon,
Les lois Licinia-Sextia, cit., 126, e A. Manzo,
La lex Licinia Sextia, cit., 133 ss.
Ritiene che sia stata compiuta un’unica votazione per saturam sulle tre proposte T. Mommsen,
Le droit public romain, VI.1, Livre 3eme, Paris 1889, 384 nt. 1.
[5] A
questo proposito A. Manzo, La lex Licinia Sextia, cit., 134 s.,
interpreta in modo che a me non pare convincente quanto Livio dice in 6.39.9 e
12:
Livius 6.39.9: Liberam urbem ac forum a creditoribus, liberos agros ab iniustis possessoribus
extemplo, si velit, habere posse.
Livius 6.39.12: sin quod cuique privatim opus sit id modo accipi velint, opus esse
nihil invidiosa continuatione honoris; nec se tribunatum nec illos ea quae
promulgata sint habituros.
Il fatto
che lo storico faccia dire a Licinio e Sestio che la plebe avrebbe potuto
subito (extemplo) aver liberi il foro
dai creditori e i campi da possessori ingiusti fa ritenere all’autrice che
Livio intenda dire che le relative delibere erano già state approvate, e che
quindi sarebbe stato sufficiente dare ad esse immediata attuazione. Di
conseguenza ella è indotta a interpretare la frase “sin ... accipi velint” del successivo § 12 nel senso che accipere qui non avrebbe il significato
di “accogliere approvando con il voto” (significato che per altro la stessa
Manzo riconosce abbastanza comune al verbo in questione), ma un «significato un
po’ diverso, che implica un concetto di forza, più vicino a quello del verbo capio da cui deriva». Quanto al primo
punto devo dire che mi sembra eccessivo voler interpretare l’avverbio extemplo nel senso letterale di “seduta
stante”, in quell’esatto momento. Anche perché un’affermazione del genere non
avrebbe giovato alla causa dei due tribuni, i quali invece volevano legare
indissolubilmente le due delibere ‘economiche’ a quella ‘politica’, che stava
loro a cuore. Ritengo che qui essi intendano dire semplicemente che la plebe
potrebbe, volendolo, ottenere in brevissimo tempo ciò che desidera, sol che si
rassegni a votare per saturam a
favore di tutte le proposte. Quanto al secondo punto, mi pare che intendere accipere nel senso voluto dalla studiosa
forzi il significato del verbo, il quale pur avendo diverse sfumature implica
sempre l’idea dell’accettare, dell’accogliere; anche quando esso sottintende
una collaborazione attiva da parte di chi riceve, non pare tuttavia avere
quella sfumatura di forza che la Manzo gli attribuisce. Del resto poche righe
prima (in 6.39.10) lo stesso Livio usa il verbo accipere senz’altro nel senso di ‘approvare le proposte dei
tribuni’, come preciso nel testo.
[6] Mi pare
che sia poco convincente l’analisi di K. von
Fritz, The Reorganisation,
cit., 11 s., allorché afferma che non si capisce che cosa mancasse alle
proposte (‘bills’) per essere realizzate (‘to be carried through’). Lo studioso
si riferisce proprio al discorso che Licinio e Sestio tengono alla plebe in
occasione del concilio riunito per l’elezione dei tribuni della plebe (Livius
6.39.5-12), e specificamente alla parte in cui i due tribuni rimproverano alla
plebe la sua mancanza di gratitudine. Von Fritz evidentemente comprende che da
quelle parole di Licinio e Sestio si ricava chiaramente che le rogationes non erano ancora divenute
legge, ma invece di trarre da questa constatazione le dovute conseguenze, si
vede costretto, per fare stare in piedi la sua ipotesi che le rogationes fossero già state votate, a
derubricare innanzi tutto tale difficoltà ascrivendola al novero delle
incongruenze del racconto liviano derivante dalla confusione presente nelle sue
fonti, e poi alla fantomatica mancanza dell’auctoritas
senatoria per i provvedimenti votati dalla plebe. Ma a tale congettura si può
ribattere che di una ratifica non si fa mai cenno in quel punto del testo per
quella fase della vicenda. Se il problema fosse stato quello, è probabile che
Livio ne avrebbe parlato chiaramente. E poi, se il problema fosse davvero stato
quello, difficilmente Licinio e Sestio avrebbero potuto ottenere migliore
risultato con una rogatio per saturam:
era infatti molto più probabile che il senato ratificasse le due delibere
‘economiche’ (come voleva la massa dei plebei) che non una unica comprensiva
anche della norma sul consolato, che era quella più invisa ai patres ma gradita a Licinio e Sestio.
Inoltre, se veramente il patriziato avesse avuto la possibilità di bloccare le
iniziative plebee negando l’auctoritas
alle delibere della plebe, non si vede perché, timorosamente, esso dovette
ricorrere, in occasione della prima votazione del 368 (Livius 6.38.4-5), alla nomina
del dittatore: sarebbe stato sufficiente lasciare votare la plebe e poi
rifiutarsi di ratificare le sue delibere.
Di fatto
di auctoritas patrum si parla
soltanto in Livius 6.42.10, quando è proprio quello, in effetti, l’ostacolo al
compimento di tutto il disegno, poiché i patres
negano la ratifica alla votazione in cui è risultato eletto L. Sestio de plebe primus consul; ma in quella
circostanza nulla lascia intendere, nel racconto di Livio, che anche l’anno
prima il problema fosse costituito dalla mancata ratifica senatoria. Nel 367 le
rogationes sono già state approvate
dall’assemblea della plebe, come testimonia Livius 6.42.9: dictator senatusque victus, ut rogationes tribuniciae acciperentur:
è significativo che von Fritz fatichi a capire, per sua stessa ammissione, il
significato della frase ora riportata (13 s. e 18 s.). Non deve stupire che per
la fazione senatoria il fatto stesso dell’approvazione delle rogationes di Licinio e Sestio da parte
del concilio plebeo fosse considerata una sconfitta: non va dimenticato,
infatti, che dal racconto di Livio si ricava inequivocabilmente che il
patriziato non era contrario alla concessione dell’auctoritas alle delibere della plebe, quanto piuttosto
preoccupatissimo all’idea che le proposte dei due tribuni potessero essere
approvate; lo testimonia chiaramente, a tacer d’altro, il lungo discorso che A.
Claudio Crasso rivolge ai plebei.
[7] Ed
infatti K. von Fritz, The Reorganisation, cit., 11 e nt. 18,
il quale ritiene che le tre proposte siano state votate separatamente, non
riesce a spiegare in alcun modo questa incongruenza, e la ascrive genericamente
al novero delle incoerenze del racconto liviano. Personalmente ritengo che lo
storico romano difficilmente sarebbe incorso in una contraddizione così palese
nel giro di poche righe. Il tutto si può spiegare, come suggerisco nel testo,
ipotizzando che la votazione di cui parla Livius 6.39.1-2 non sia stata portata
a termine.
Dal
canto suo E. Hermon, Les lois Licinia-Sextia, cit., 128,
propone di interpretare il punto in questione nel senso che Licinio e Sestio,
approfittando dei comizi elettorali, avrebbero proposto un emendamento rispetto
al progetto legislativo originale chiedendo l’approvazione per saturam di tutte le proposte. Ma mi risulta incomprensibile
come avrebbe potuto essere proposto un emendamento rispetto ad un progetto già
votato, dato che l’autrice ritiene (126, cit. supra, nt. 4) che le rogationes
fossero già state votate disgiuntamente. E infatti subito dopo la studiosa
afferma che il programma iniziale non poté essere sottoposto una seconda volta
al voto, dato che già una volta la plebe si era espressa su di esso. Ma allora
non si capisce a che pro i due tribuni avrebbero escogitato questo sciocco
espediente, né risolve il problema ritenere che si tratti di un “camouflage” da
parte di Livio ideato al fine di giustificare ancora una volta l’allungamento
dei tempi: per quanto digiuno di nozioni relative alle procedure comiziali,
Livio non poteva non sapere che non avrebbe avuto senso chiedere di sottoporre
nuovamente al voto una o più rogationes già
votate.
[8] Lo
riconosce anche A. Manzo, La lex Licinia Sextia, cit., 136, la
quale pure, come abbiamo visto, mostra di ritenere che le tre proposte fossero
state effettivamente votate disgiuntamente.
[9] Non mi
pare convincente, anche perché priva di qualsivoglia sostegno nelle fonti, la
congettura di K. von Fritz, The Reorganisation, cit., 32, il quale
si vede costretto a tentare di spiegare perché delle proposte già votate
sarebbero state rivotate poco tempo dopo. Egli ritiene che non si trattasse di
veri e propri plebisciti, nel senso di delibere vincolanti per tutta la plebe,
ma di «nothing but an expression of the wishes of the plebs» che doveva essere
periodicamente ripetuta affinché potesse continuare ad esercitare la pressione
politica. A tacer d’altro, a me pare inverosimile che ci si potesse prendere il
disturbo di convocare una massa numerosa quale doveva essere la plebe nella
prima metà del IV secolo per chiederle semplicemente di esprimere i suoi desiderata senza che poi tale
espressione avesse, di fatto, quasi alcuna rilevanza. Mi sembra piuttosto che
la costruzione di von Fritz, al quale pare sfuggire, tra l’altro, che le
votazioni del 376 e dell’inizio del 368 (la prima delle due di quell’anno) sicuramente
non giunsero a compimento, poiché Livio lo dice chiaramente, sia viziata
proprio dalla premessa, errata, di voler interpretare a tutti i costi come
compiuta una votazione che, come vedremo, dovette probabilmente essere
interrotta prima di giungere a compimento. Se si mette da parte tale premessa,
la difficoltà che von Fritz tenta di superare con una poco verosimile
congettura scompare.
[10] Rende
molto bene questa scansione degli avvenimenti la traduzione proposta da P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-339 a. C.).
Lezioni, Milano 1987, 36: «Infatti stavano per essere approvate le leggi
sui debiti e sulla terra, e respinta quella sul console plebeo, e le cose
sarebbero state decise in questo senso, se i tribuni non avessero affermato che
intendevano proporre il voto alla plebe su tutte e tre le proposte in blocco».
[11] E
precisamente: la lex Gabinia del 139
a.C. per le votazioni elettorali, la lex
Cassia del 137 a.C. per le votazioni nei processi pubblici (esclusi i casi
di perduellio), la lex Papiria del 131 (o 130) a.C. per le
votazioni legislative e la lex Caelia
del 107 a.C. per i giudizi di perduellio.
Su queste leggi è fondamentale la testimonianza di Cic., De leg. 3.33-39. Vd. F. Càssola
- L. Labruna, Linee, cit.,
193, A. Guarino, Storia del diritto romano, 12a ed.,
Napoli 1998, 213 e, per quanto riguarda la letteratura più specialistica, G.W. Botsford, The Roman Assemblies from their Origin to the End of the Republic,
New York 1968 [rist. dell’ed. New
York 1909], 359 ss.; G. Rotondi, Leges publicae populi romani, Milano
1912, 142; L. Ross Taylor, Roman voting Assemblies from the Annibalic
War to the Dictatorship of Caesar, Ann Arbor 1966, 34 e 125 nt. 2; E.S. Staveley, Greek and Roman Voting and Elections, London & Southampton
1972, 157 ss. Che nelle vicende che coinvolgono Licinio e Sestio il voto sia
stato espresso oralmente è provato, ad ogni modo, anche dal tenore letterale di
Livius 6.38.5 (che si riferisce alla prima votazione del 368 a.C.), dove si
afferma Cum … primae tribus ‘uti rogas’
dicerent.
[12] A
partire dal fondamentale studio di P. Fraccaro,
La procedura del voto nei comizi tributi
romani, in Atti della R. Accademia
delle Scienze di Torino 49, 1913-1914, 605 ss. [= Opuscula 2, Pavia 1957, 235 ss.], il quale cita numerosi passi
delle fonti a sostegno della sua idea, tra i quali anche Livius 6.38.5. In
particolare da Valerius Maximus 8.1.7, che narra del processo di Q. Flavio
celebrato nel 329 a.C., si ricaverebbe che l’esito del voto di ciascuna tribù era
reso noto prima che la successiva cominciasse a votare. Con i risultati
dell’indagine di Fraccaro concordano U. Hall,
Voting Procedure in Roman Assemblies,
in Historia: Zeitschrift für Alte
Geschichte 13, 1964, 275 ss.; L. Ross
Taylor, Roman voting Assemblies,
cit., 40 s. e 128 s. nt. 26; E.S. Staveley,
Greek and Roman Voting, cit., 169
ss., spec. 171.