Storia e Tradizione. Orientamenti
storico-religiosi e concezioni del mondo *
Professore aggregato di Diritto romano
Università di Sassari
* E. MONTANARI, Storia e
Tradizione. Orientamenti storico-religiosi e concezioni del mondo [I Saggi, 58], Lithos Editrice, Roma 2016, 233 pp. – ISBN: 978-88-99581-17-6.
Tra le
pubblicazioni giunte in Redazione, segnalo il volume dello storico delle
religioni Enrico Montanari, Storia e Tradizione. Orientamenti storico-religiosi e
concezioni del mondo, Roma 2016.
Nell’opera si rielaborano studi, per la maggior parte già pubblicati, al fine,
dichiarato in Premessa, di «mostrare alcuni
processi di formazione di due indirizzi metodologici»(11) attualmente
accreditati, quello storicistico e quello fenomenologico: due orientamenti
contrapposti nel panorama storico-religioso, agli antipodi, tra Storia e
Tradizione, evocati nel titolo del libro. Secondo Montanari, infatti, la
lettura critica del pensiero dei singoli esponenti delle due scuole
permetterebbe di «riaprire un percorso comune, che non sembra impraticabile»
(28).
Il Capitolo Primo, De Martino e Pettazzoni: aspetti di un confronto
metodologico, riguarda il dibattito relativo alle impostazioni
metodologiche intercorrente tra due figure di spicco dell’indirizzo
storicistico: Raffaele Pettazzoni, il fondatore, ed Ernesto de Martino, fautore
della sua radicale formulazione. Nel suo periodo giovanile, de Martino,
accogliendo la posizione dei suoi maestri, Adolfo Omodeo e Benedetto Croce,
contestò a Pettazzoni il carattere speciale che quest’ultimo riconosceva alla
storia delle religioni. Il piano della discussione metodologica si spostò
quando de Martino elaborò il tema della “destorificazione” mitico-rituale:
secondo lo studioso, la religione mitologica era “in agonia”, per cui essa
avrebbe ceduto il passo a un nuovo umanesimo storicistico, privo di ogni forma
religiosa; mentre, per Pettazzoni, le esperienze del sacro dovevano essere
conosciute storicamente, in quanto la religione era un “elemento immanente
della civiltà”, e la sua storia possedeva un carattere salvifico sia indicando
alle confessioni religiose tradizionali una prospettiva vitale, sia ritrovando
una fede laica. Un “riavvicinamento” di de Martino alle posizioni di Pettazzoni
si avviò a partire dal 1955, soprattutto per due ragioni più evidenti,
individuate da Montanari: l’attenuazione della sua militanza politica e la
possibilità di riattivare l’insegnamento di Storia delle religioni, di cui era
stato titolare Pettazzoni, ormai fuori ruolo. La massima espressione di questo
nuovo atteggiamento demartiniano è rappresentato dall’opera Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di
Maria, del 1958, che orienterà favorevolmente la
commissione giudicatrice del concorso per la cattedra di Storia delle
religioni. Ormai inserito in ambiente accademico, de Martino poteva godere di
un’ampia autonomia intellettuale, eppure «farà un uso misurato di questa
“libertà”» (50). Alla morte di Pettazzoni, avvenuta a Roma l’8 dicembre del
1959, de Martino lo celebrerà in due circostanze ufficiali (il 27 febbraio 1960
e l’8 dicembre 1962), accomunando le proprie idee con quelle dello studioso
scomparso. Questa “lettura” demartiniana generalmente è stata condivisa, e ha
concorso alla formazione di una posizione concorde di “laicismo intollerante”;
soltanto recentemente si è dato vita a un processo di ricostruzione critica «che potrà contribuire a restituire a ciascuno il suo, evitando una “vulgata”
unificatrice e fuorviante che, forse, non era neppure nelle intenzioni di de
Martino» (54). In
chiusura Montanari afferma di essersi limitato in questa sede
a “considerazioni preliminari”, auspica quindi una valutazione più dettagliata
che consideri i differenti ambienti storico-culturali dei due studiosi, al fine
di favorire «un’operazione invero ardua, che è quella di “storicizzare gli
storicisti”, al di là di banalizzazioni apologetiche o di immeritati oblii. Se
per molti versi le “vie” indicate da Pettazzoni e da de Martino furono
divergenti, la presa d’atto di tali divergenze non deve intendersi alla stregua
di un “leso storicismo”: essa non è affatto svalutativa, ma vuol essere anzi
motivo di arricchimento» (57).
I tre
capitoli successivi tratteggiano il pensiero dell’esponente a cui fa capo
l’orientamento storicistico. In La “fede laica” di Raffaele Pettazzoni,
Montanari concentra la sua attenzione sulle critiche generalmente mosse a
Pettazzoni, per tutto il corso della sua esistenza: “modeste attitudini
speculative” e “scarse esperienze religiose”. Questi rilievi furono espressi,
nonostante un giudizio nel suo insieme encomiastico, nel novembre del 1923
dalla commissione del concorso di Storia delle religioni per l’Università di
Roma, e ribaditi dai commissari per la conferma all’ordinariato nel dicembre
del 1926. Secondo Montanari, il giudizio concorsuale «sembra un caso tipico di
deformazione percettiva» (59), poiché la prima osservazione, circa le “modeste
attitudini speculative” di Pettazzoni, si basava su un errore, in quanto lo
studioso aveva scientemente scelto di far ricorso al criterio classificatorio e
comparativo in chiave storico-filologica; mentre il giudizio sulle sue “scarse
esperienze religiose” era frutto di equivoco, poiché egli costruì la sua
religiosità nel corso del tempo, in connessione con la sua produzione
scientifica. Montanari passa così a illustrare le “tappe” di formazione della
religiosità di Pettazzoni. Le componenti politico-religiose del periodo
giovanile sono rappresentate dal magistero di Carducci, propugnatore di una
religiosità laica, dalla vicinanza alla ideologia mazziniana di ascendenza
massonica e, soprattutto, dall’orientamento socialista. I concetti principali
della sua produzione scientifica furono elaborati durante l’intervallo tra le
due guerre mondiali; in particolare Pettazzoni constatò con favore il risveglio
di una religione arcaica e la sua attualizzazione nell’emersione delle
religioni nazionali che in Occidente avrebbe comportato la ripresa di una
tradizione superata dall’affermarsi del cristianesimo. In particolare, nella
seconda metà degli anni Trenta, lo studioso concentrò i suoi studi sulla Roma imperiale,
evidenziandone il carattere sovranazionale da cui poteva scaturire il concetto
di Stato con una religiosità da contrapporre al cristianesimo. Così Pettazzoni
elaborò una religione “strutturale”, incentrata su una forma di salvazione,
distinta dalle religioni “funzionali”, basate su una tipologia di diffusione,
come quelle nazionali, sovrannazionali e misteriche. Questi temi saranno
approfonditi a partire dal dopoguerra quando «sarà possibile cogliere
pienamente “il nesso fra la vita interiore e l’opera”» (63) di Pettazzoni. In
tale periodo lo studioso avvierà – come afferma Montanari – «il
suo progetto più ambizioso» (68), la “Storia religiosa d’Italia”, promuovendo
una “coscienza religiosa” alternativa, risalente al paganesimo dell’Italia
antica. In tal modo egli propugnò una fede laica, foriera di salvezza per lo
Stato e connessa con la libertà civica, che si concentrava, sul piano sociale e
su quello storico, nella militanza nei partiti politici, nella celebrazione di
feste civili e di riti di passaggio, quali, ad esempio, gli esami e il
matrimonio. La “religione dello Stato” propugnata non avrebbe interferito con
le confessioni religiose tradizionali, poiché modello «inclusivo, compatibile e
completivo» (79) che conviveva con la “religione dell’Uomo”. Questa religione
non era assoluta, ma, essendo componente di ogni cultura e immanente alle
civiltà, si manifestava in forme storiche da studiare attraverso una
prospettiva relativistica. L’impegno di diffondere la fede laica fu perseguito
da Pettazzoni non solo a livello teorico, ma anche attraverso progetti
editoriali, non tutti però andati a buon fine, con la partecipazione
associativa, e l’ideazione di istituzioni, come la proposta di erigere un museo
della civiltà religiosa; tuttavia, i tentativi dello studioso furono degli
insuccessi poiché – conclude Montanari – egli «visse nel suo
ambiente quasi come un isolato» (86).
Nel
Capitolo Terzo, Pettazzoni e il “mistero”,
Montanari ripercorre lo sviluppo della nozione di mistero nelle riflessioni
scientifiche dello studioso. Il concetto di mistero, fin nei primi scritti, è
stato inteso da Pettazzoni come una categoria presente in ogni esperienza
religiosa, comune a tutte le civiltà, antiche e moderne, espressione di
“angoscia esistenziale” e di timore religioso che derivavano all’uomo dal suo
rapportarsi con la volta celeste. Lo studioso inoltre, attraverso uno schema
classificatorio che anticipò la sua distinzione “religioni dello Stato” –
“religione dell’Uomo”, contraddistinse le religioni nazionali da quelle
universalistiche, poiché queste ultime, attraverso un processo di
interiorizzazione, si incentravano sul “mistero della morte”. Intorno agli anni
’50, Pettazzoni, approfondendo il concetto in esame, rinvenne differenti
risposte da parte del pensiero primitivo, dove il fenomeno naturale era
mitizzato nell’Essere Supremo, e da parte dei moderni, per cui, attraverso un
procedimento astrattivo, il mistero rappresentava una categoria religiosa
autonoma. Negli appunti del suo periodo conclusivo, pubblicati con il titolo di
Ora et labora, il mistero è
considerato alla luce della connessione tra il lavoro umano e la preghiera, non
è solo cosmico, ma è presente anche nella quotidianità, e, sebbene si rischiara
grazie alla cultura, non si può eliminare del tutto. Pettazzoni, attraverso la
promozione della fede laica, accolse, così, la religione come “mistero
ineffabile”: una posizione che, secondo Montanari, conduce a «un distanziamento
rispetto a uno storicismo di estrazione demartiniana, ma anche crociana» (101).
Il
Capitolo Quarto esamina Eliade nel pensiero di Pettazzoni:
riflessioni sugli Ultimi appunti, poiché i rapporti intercorrenti fra i
due studiosi rappresentano «un momento esistenziale del processo
costitutivo della storia delle religioni» (105). Le differenze fra i
due luminari non inerivano soltanto all’età, ma derivavano da diversi fattori,
quali, ad esempio, le origini, gli ambiti culturali e le posizioni politiche.
Pettazzoni, dopo la morte di Gerardus van de Leeuw sopravvenuta nel 1950,
considerò lo studioso romeno come un “interlocutore privilegiato” della
fenomenologia (sebbene quest’ultimo non gradiva d’essere annoverato tra gli
esponenti dell’orientamento tradizionale), ed ebbe un atteggiamento duplice nei
confronti di Eliade, infatti, se, come emerge dalla corrispondenza, egli
manifestava “una sincera cordialità”, nella sfera interna mostrava il suo
dissenso scientifico. La distanza dei convincimenti emerge specialmente negli Ultimi appunti, editi nel 1960, dove lo
studioso italiano criticava gli archetipi ipotizzati da Eliade. Se, per
l’autore romeno, la ripetizione ciclica di tali modelli comportava la rimozione
della storia, per Pettazzoni, invece, gli archetipi, in quanto prodotti umani
tratti dalla esperienza di vita quotidiana, non conducevano a una dimensione
metastorica. A fronte di tali critiche, gli Ultimi
appunti di Pettazzoni sono stati letti generalmente in letteratura come un
“manifesto dello storicismo intransigente”; Montanari, tuttavia, evidenziando
la schematicità di questa opera in cui l’autore scrive «con riflessioni di
getto, inattenuate e talora semplificate» (112), dubita che una rigida
avversione verso la fenomenologia fosse nei reali intendimenti di Pettazzoni,
poiché quest’ultimo mostra di tentare una sintesi con il pensiero eliadiano,
considerando gli archetipi del sacro come “il mondo mitico delle origini”, dove
l’uomo si ripara nei momenti di pericolo.
Il
pensiero di Mircea Eliade, unitamente ai suoi rapporti con l’orientamento
storicistico e quello fenomenologico, è analizzato nei quattro capitoli
seguenti. In Eliade ed Evola: aspetti di un rapporto “sommerso”, Montanari
esamina le motivazioni alla base “dell’apparente marginalità” in Eliade del
pensiero di Julius Evola, sebbene la sua formazione fosse significativamente
influenzata dal personaggio italiano, come emerge da un filone di studi,
iniziati a partire dagli anni ’20, sull’attendibilità dei fenomeni
metapsichici. L’autore romeno, infatti, dissimulò tale importanza già dopo il
suo rientro in Romania dall’India, nel dicembre del 1931, quando si
manifestarono «i prodromi di una discordanza che, col tempo, andrà
accentuandosi» (131). Durante la sua esperienza indiana, infatti, Eliade
incentrerà le sue riflessioni sull’“uomo arcaico”, espressione del folclore di civiltà
contadine, che avrebbe generato l’“uomo nuovo” capace di affermarsi in Romania
e di superare il storicismo dell’Europa occidentale, risultato di cultura
borghese-urbana. Quando caddero tali speranze, «perduta la patria, il pensiero
di Eliade si “universalizza” e si concentra soprattutto – pur se non
esclusivamente – sulla disciplina storico-religiosa» (141).
Il
Capitolo Sesto, Eros e cristianesimo nel Diario portoghese di Mircea Eliade, prende spunto dall’edizione italiana del Jurnalul portughez di Mircea Eliade, a
cura di R. Scagno, postfazione di S. Alexandrescu, Milano 2009, che «ha messo a
disposizione degli studiosi un’opera che è al tempo stesso un testo letterario
insostituibile e un documento biografico eccezionale. La mancata revisione del
testo, unita alla drammaticità degli eventi considerati, fa sì che non vi sia
bisogno di scavare sotto i “non detti”, di recuperare il messaggio “vero” che
“s’asconde sotto il velame”» (145). Oggetto dell’analisi di Montanari è l’eros in Eliade, importante tema
interpretativo elaborato durante il soggiorno in Portogallo, inteso dallo
studioso romeno come un elemento metafisico della religiosità arcaica che
sopravvive nelle civiltà moderne, e che permette all’uomo capace di incarnarlo
di trasformarsi in un essere cosmico a cui si rivelano segreti primordiali. Il
tema in oggetto non solo è frutto di riflessione scientifica, ma accompagna
anche l’esperienza interiore di Eliade. Dopo la morte della moglie Nina,
avvenuta per tumore all’utero nel 1944, lo studioso fu preso dal rimorso di non
aver voluto figli, e dal timore che la malattia della consorte fosse stata
causata dall’aborto che lui stesso aveva incoraggiato anni prima. Eliade, così,
fu spinto verso un eros metafisico
per seguire “un percorso ascetico-penitenziale”, alla ricerca di integrità
spirituale e di salvezza personale. Questo cammino interiore, al contempo, gli
diede modo per rivalutare il cristianesimo, seppur in senso dialettico: «Inizia
in questo modo a delinearsi una prospettiva conciliatrice che, anni dopo, si
concretizzerà nella formula del “cristianesimo cosmico”, nella quale l’a.
tenderà a riconoscersi, fino a una sorta di adesione religiosa» (156).
La
sapienza esoterica dello studioso romeno è delineata nel capitolo seguente, Mircea
Eliade: interprete di segreti, segreti di un interprete, che prende le
mosse dall’opera di Marcello De Martino, Mircea
Eliade esoterico esoterico. Iaon Petru
Culianu e i “non detti”, Roma 2008. In merito, Montanari evidenzia che
Eliade, fin dagli anni ’20, rifiutando la cultura illuministica, si dedicò
all’analisi degli indirizzi magico-ermetici del rinascimento italiano,
nell’intento di avvalorare la “scienza della natura”, unitamente alla
metapsichica e a fenomeni, come i poteri psico-magici. Durante il suo soggiorno
in India, egli non fu iniziato a saperi segreti, ma fu solo introdotto alla
meditazione e allo hatha yoga; dopo
il suo rientro dall’Asia, a corollario del suo progetto di “uomo universale”,
lo studioso romeno intenderà l’“oggettività dei poteri psichici” come
fondamento di un nuovo umanesimo. Secondo Eliade, infatti, i fenomeni
parapsicologici erano realtà tangibili di cui le tradizioni popolari
conservavano il ricordo: «Questa posizione muta radicalmente i parametri
epistemologici dell’antropologia moderna. Non si devono più cercare le ragioni
della credulità superstiziosa, ma, semmai, quelle dell’incroyance moderna» (166). A partire dagli anni ’40, l’autore
romeno si interessò alla “religiosità cosmica”, quell’“immaginario” inteso come
il risultato di poteri psico-ideativi, prendendo le distanze da
quell’orientamento da lui definito come “tradizionalismo desueto”. Eliade,
infatti, temeva di essere ritenuto un dilettante: «ciò lo avrebbe escluso dal
novero degli scienziati accademici e dunque avrebbe reso di fatto irricevibile
il suo progetto di sintesi fra i “lumi” e la “filosofia della natura” che si
proponeva di realizzare (soprattutto mediante la dimostrabilità dei fenomeni paranormali e il recupero della
religiosità “cosmica” attraverso il folclore e la sapienza indiana). Questo, in
fondo, è e resterà l’obbiettivo centrale del pensiero eliadiano» (172).
Il
Capitolo Ottavo, Storia e Tradizione. Aspetti
recenti di un dibattito storico-religioso, pone a confronto gli
orientamenti di Mircea Eliade (il quale viene inserito di norma nell’ambito
dell’orientamento tradizionale, sebbene non sussistesse una perfetta
coincidenza di vedute) e di Ernesto de Martino (il quale estremizzò le
formulazioni della scuola storicistica), in quanto «nessuno più di loro
rappresenta così chiaramente la divaricazione fra storicismo e fenomenologia,
fra Storia e Tradizione, fra sacro ed etica puramente umana» (180). L’estrema
posizione demartiniana è denominata “storicismo assoluto”, espressione coniata
da Benedetto Croce, il quale intendeva la storia come “assoluto immanentismo
dello spirito”; mentre, per il suo allievo, la religiosità e ogni forma di
irrazionalismo avrebbero compiutamente ceduto il passo nella storia a un’etica
umana. Per de Martino lo “storicismo assoluto” avrebbe permesso alla cultura
occidentale moderna di acquistare coscienza della “storicità dell’esistenza”, e
di conseguenza di liberarsi dal sacro e, in ogni tempo e in ogni cultura,
realizzare nuovi modelli di società. Lo studioso italiano, perciò, polemizzò
contro le posizioni anastoriche di Eliade, considerandolo, al pari di
Pettazzoni, un’importante controparte in seno al dibattito storico-giuridico,
benché il pensiero dello studioso romeno fosse estraneo al tradizionalismo
integrale. Montanari individua un punto di incontro tra i due autori, in quanto
entrambi «– sia pure con sensibilità molto diverse – escludono dai loro sistemi
di pensiero un richiamo alla tradizione, anche religiosa, come fattore vivente
e non “desueto”» (196). La visione umanistica eliadiana, accentuata dal
crescere della sua notorietà, culminò infatti nella enunciazione del mito della
storia delle religioni come ’“arca di Noè”: «una panoramica descrittiva di
simboli e di ierofanie, che può considerarsi complementare rispetto alle
interpretazioni degli storicisti» (195).
Il
capitolo conclusivo, Tempo “ciclico” e tempo “lineare” nella Roma
repubblicana, incentrato sulla concezione romana del tempo, si apre con
l’esposizione delle teorie di Mircea Eliade espresse in Le mythe de l’éternel retour. Archétypes et répétition, Paris 1949.
Secondo lo studioso romeno, il Popolo Romano, accogliendo le posizioni
dottrinali greco-ellenistiche attraverso la mediazione etrusca, intendeva il
tempo come ciclico. I Romani furono perciò “ossessionati” da due scadenze
fatali, che essi cercarono in ogni modo di differire: la fine dell’Urbe dopo
1.200 anni (durata connessa all’avvistamento dei dodici avvoltoi da parte di
Romolo); l’interruzione della storia dovuta al passaggio da un’età cosmica
all’altra, dopo un ciclo di 365 anni. Gli sforzi romani di differire la fine
dell’Urbs sono ipotizzati, sebbene
giungendo a conclusioni opposte, anche da Marta Sordi, la quale in più
occasioni ritorna sull’argomento (I
rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, Roma 1960,
143 ss.; Virgilio e la storia romana del
IV secolo a.C., in Athenaeum 43,
1964, 80 ss.; L’idea di crisi e di
rinnovamento nella concezione romano-etrusca della storia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt
I.2, Berlin-New York 1972, 781 ss.; Il
mito troiano e l’eredità etrusca di Roma, Milano 1989, 31 ss., 77 ss.).
Secondo la ricostruzione della studiosa, i Romani acquisirono la concezione
etrusca della linearità del tempo (contrapposta all’idea, di stampo pitagorico,
di tempo ciclico), per cui la storia si articolava in periodi di crisi,
rinviabili attraverso riti di espiazione propri della disciplina Etrusca.
Montanari manifesta alcune perplessità intorno all’interpretazione di M. Sordi,
sebbene la qualifichi come «una delle ipotesi più penetranti e suggestive sulla
formazione dell’idea romana del tempo e della storia» (205). Innanzitutto,
l’Autore sostiene che la visione romana della continuità lineare del tempo non
sia di derivazione etrusca, poiché, nonostante l’elaborazione di strumenti
rituali per il differimento delle scadenze fatali, gli Etruschi presupponevano
forme temporali cicliche. La differenza di orientamento tra la concezione
romana e quella etrusca del tempo emerge dal confronto tra un gruppo iconografico
della Tomba François del IV sec. a.C. e un affresco tombale rinvenuto
sull’Esquilino, risalente al III sec. a.C. Nel dipinto di Vulci si raffigura Vel Saties, uno dei proprietari della
tomba, abbigliato da trionfatore nell’atto di trarre gli auspicia, mostrando la ripetizione dello stesso esito per età
anteriori. Tale rappresentazione dimostra che gli Etruschi intendevano la
storia «come “intuizione del tempo storico”, ossia come ricorso di eventi
simili, simbolicamente equivalenti» (206). L’affresco dell’Esquilino si
presenta invece in tre fasce sovrapposte, dove si ritrae l’ascesa sociale di un
soldato romano secondo uno svolgimento continuo di avvenimenti: «anche quando
questi si ripetono [...] non costituiscono dei “ricorsi”, né delle riattualizzazioni
simboliche a partire da un archetipo fissato in una lontana età “eroica”»
(207). Un’ulteriore evenienza, esibita da Montanari contro la derivazione
etrusca della concezione romana del tempo lineare, risulta dall’impiego della
datazione post Capitolinam dedicatam,
testimoniato dalla notizia della dedicatio
del tempio alla dea Concordia,
celebrata nel 304 a.C. da Gneo Flavio, in qualità di edile curule. Questa
cronologia, connessa alla cacciata dei re, segnava l’inizio della nuova era
repubblicana. Da ciò emerge come, durante la res publica, i Romani
intendessero il tempo svilupparsi con continuità lineare, senza prevedere
alcuna scadenza fatale; questa concezione risulta specialmente dalla presenza
nel calendario festivo del dies Alliensis,
in ricordo della disfatta dell’esercito romano, inflitta dai Galli Senoni nei
pressi dell’affluente del Tevere. Tale ricorrenza non rappresentava un ricorso
ciclico, ma rievocava l’episodio, al fine di impedire il verificarsi di altri
eventi funesti. Secondo l’ideologia etrusca, un sciagura di tale portata era
determinata da un intervento divino preconizzante il termine di un ciclo;
mentre per i Romani la causa si rinveniva in una azione umana che incrinava la pax deorum (nel caso specifico la
violazione del ius gentium),
provocando l’ira divina. Un ulteriore rilievo mosso da Montanari riguarda
l’ipotesi di M. Sordi sul ruolo basilare dell’aruspicina nella formazione della
“concezione romano-etrusca della storia”, almeno a decorrere dal I sec. a.C.
L’Autore ritiene questa ricostruzione “eccessiva” innanzitutto a fronte delle
differenze fra “le tecniche di consultazione” romane e quelle etrusche, poiché
le prime accertavano la volontà degli dèi in relazione a una azione presente
(orientamento “attualistico”), mentre le altre miravano ad anticipare il futuro
(orientamento “profetico”). Sebbene le difformità tra i due metodi di
consultazione si attenuarono con il tempo, a Roma non si arrivò a una loro
piena fusione né durante le guerre civili, nonostante il frequente ricorso, per
motivi politici, alle consultazioni dei sacerdoti etruschi, né tantomeno quando
l’imperatore Claudio ufficializzò l’aruspicina. I Romani infatti, al contrario
degli Etruschi, non temevano una loro fine imminente, ma erano pervasi da
scrupolo religioso per una corretto compimento delle cerimonie: «a Roma,
l’equilibrio della pax deorum
dischiude la prospettiva di una temporalità indefinitamente aperta, che
propizia la realizzazione della civitas
augescens» (216).