Il diritto penale
nella storia della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari [1]
A proposito del recente libro di
Antonello Mattone sulla Facoltà giuridica sassarese[2]
GIAN PAOLO DEMURO
Università
degli Studi di Sassari
Direttore
del Dipartimento di Giurisprudenza
Il diritto penale porta un contributo ideale profondo nella storia
della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari. Sono tanti i
docenti di straordinario rilievo che dovrei citare (tra i tanti Manzini, Rocco,
Florian, Battaglini, Antolisei, Vannini, Delogu, Frosali, Scarano, Bricola,
Marinucci, senza dimenticare Delitala che da qui è partito) ma oltre che sulle
loro persone mi concentrerò su alcune idee guida che hanno segnato e
contraddistinguono tuttora la scienza del diritto penale. Lascio da parte,
segnalandone però il valore storico, gli esponenti della Scuola positiva,
autorevolmente rappresentati qui a Sassari da professori come Berenini e
Florian.
A) È il 15 gennaio 1910 - come
rievoca Antonello Mattone a pagina 423 della sua Storia - quando Arturo Rocco,
dopo aver preso servizio nel novembre precedente qui a Sassari, svolge la sua
famosa prolusione (prelezione) al corso di diritto e procedura penale: le idee
professate in quella prolusione e poi trasfuse in numerosi scritti segnarono la
nascita dell'indirizzo tecnico-giuridico, che caratterizzò profondamente la
scienza del diritto penale nel XX secolo. Secondo Arturo Rocco, sulla scia di
concezioni giuspositivistiche già affermatesi in Germania con Karl Binding, il
giurista in quanto tale deve disinteressarsi di fondamenti extragiuridici
(politici, sociali, morali, psicologici, ecc.) del diritto penale per
concentrarsi sullo studio tecnico delle norme penali vigenti. La scienza del
diritto penale - cito alla lettera dalla sua prolusione - si deve limitare a «studiare il delitto e la pena sotto il lato
puramente e semplicemente giuridico, cioè come fatti giuridici di cui l'uno è
la causa e l'altro l'effetto o conseguenza giuridica», lasciando ad altre
scienze di studiarli come fatto individuale e sociale. In questo modo si apriva
una via nuova, tra la scuola classica e la scuola positiva: alla scuola
classica Rocco rimproverava di considerare il diritto penale come immutabile e
universale, sganciato dalla realtà della legislazione; alla scuola positiva di
trattare il diritto penale come fosse un'appendice della sociologia o della
criminologia. La strada intrapresa da Rocco era quella maggiormente
consona alla congerie culturale dell'epoca, come dimostra l'impostazione simile
anticipata da Vittorio Emanuele Orlando per il diritto pubblico. E il
contributo di Rocco fu decisivo - come osserva Paolo Grossi - per il diritto
penale, perché non ne rivendicherà solo l'autonomia, ma fonderà
metodologicamente quella autonomia.
Oggi in un autorevole manuale di diritto penale, quello di
Fiandaca e Musco, si riconosce che l'impostazione teorica sviluppata nella
prolusione sassarese era fondamentalmente corretta. Rocco infatti nel
rivendicare il primato del metodo giuridico non intendeva con questo affatto
disconoscere l'esigenza di uno studio interdisciplinare dei fenomeni criminosi:
«Distinzione
non è separazione e tanto meno divorzio scientifico».
Altro discorso è quello dell'utilizzo che del metodo
tecnico-giuridico venne fatto negli anni. Dire che per il penalista il
principale oggetto di indagine deve essere costituito dalle norme vigenti,
valide in quanto emanate dallo Stato, era pienamente funzionale alle tendenze
autoritarie che si manifestavano già in uno Stato liberale sempre più in crisi
e preoccupato ormai di salvaguardare piuttosto l'ordine costituito. Fu con il
codice fascista, a cui contribuirono proprio i fratelli Rocco e Massari e un
altro grande penalista che insegnò a Sassari, Vincenzo Manzini, che l'indirizzo
tecnico-giuridico si trovò nella migliore condizione per dominare il campo.
Anche se pervasi di tendenze autoritarie, sia l'indirizzo tecnico-giuridico,
sia lo stesso codice Rocco, mantennero fermi alcuni capisaldi della tradizione
penale liberale, a cominciare dal principio di legalità e dal divieto di
analogia in materia penale. Gli studiosi seguaci dell'indirizzo applicarono i
suoi postulati con ancor maggiore rigore di Rocco, nella convinzione che le
questioni di ordine filosofico-politico non rientrino come tali nella
competenza scientifica dello studioso di orientamento rigorosamente dogmatico:
basti pensare proprio a Vincenzo Manzini e al suo Trattato di Diritto penale.
L'indirizzo dominò fino agli sessanta e produsse come risultati
innanzitutto e certamente una ricostruzione tecnica degli istituti del diritto
penale che rimane ancora oggi salda; d'altro canto, però, il rifiuto di
affrontare le questioni di fondo del diritto ha portato a insterilire la
scienza penalistica, che ha dovuto faticare per riappropriarsi del suo ruolo,
altrettanto essenziale, di istanza critica del diritto vigente.
B) Una straordinaria traccia nel diritto penale di oggi è poi
quella lasciata da Giacomo Delitala e dalla sua scuola (c.d. milanese) che ha
visto poi insegnare qui a Sassari docenti come Giorgio Marinucci, Emilio
Dolcini e Francesco Angioni. Giacomo Delitala nacque, studiò e si laureò nel
1924 a Sassari (con una tesi sulla «Violazione della legge penale e violazione
della legge civile», discussa con Ottorino Vannini). Tra le pagine dell'opera
del prof. Mattone mi sono rimaste impresse le vicende di vita universitaria
sassarese di tre colossi della scienza giuridica italiana, Lorenzo Mossa,
Giacomo Delitala e Salvatore Satta. Penso a Salvatore Satta che incontra Lorenzo
Mossa, con cui poi si laureerà, in via Carlo Alberto, il quale accomiatandolo
dopo un'ora e mezza di conversazione (o meglio di monologo) sui libri,
salutandolo gli dice guardandolo negli occhi: «Nella vita si possono fare molte cose, e si può fare a meno di
studiare diritto. Per me il diritto è tutto»; e Salvatore Satta che scrive (in Soliloqui e colloqui di un giurista): «Mi precipitai per le scale, mi
slanciai felice nella notte. Avevo trovato la mia vocazione». E poi sempre Salvatore Satta,
che preso dal suo impeto, va alle quattro del mattino dal suo coetaneo Giacomo
Delitala, compagno di classe anche all'Azuni, col quale aveva divorato
biblioteche intere, a bussare alle finestre del suo amico (definito
"dormiglione" ma erano le quattro!) «per conquistare insieme tutto lo scibile giuridico». Si laureeranno tutti e due
nel 1924.
Anni di passione giuridica che segneranno Giacomo Delitala, autore
nel 1930 (a 28 anni!) della monografia "Il fatto nella teoria generale del reato", che sulle orme di
Beling, segnerà indelebilmente la scienza penalistica italiana, in senso
liberale e garantista (suoi allievi, e anche ciò ne segnala la grandezza,
furono tra gli altri Vassalli, Nuvolone e Bettiol). Delitala aderì
all'indirizzo tecnico-giuridico, ma lo fece senza cadere nel concettualismo,
adottando cioè un metodo rigorosamente tecnico legato alle norme del diritto
positivo e inteso a scoprire gli elementi sistematici che le spiegano e le
collegano (così spiegava Vassalli nel suo ricordo del Maestro su "La Giustizia
Penale"), e con una dimensione aperta all'impegno "politico" (in
senso ampio) del giurista. La monografia di Delitala, 221 pagine divise in una
prima parte dedicata alla nozione di fatto e una seconda centrata sugli
elementi essenziali del fatto, ebbe un successo clamoroso, lo portò a vincere
il concorso per ordinario precedendo proprio Antolisei, ma Delitala che già era
tentato anche dall'attività professionale preferì la chiamata alla Cattolica di
Milano.
Quando oggi diciamo che il nostro è un diritto penale del fatto e
non dell'autore, che cioè prima è necessario accertare sul piano oggettivo
l'esistenza degli elementi che descrivono l'offesa al bene giuridico e solo
dopo si potrà passare ad analizzare il suo autore, quando affermiamo che nessuno
può essere punito per ciò che è, per ciò che pensa, per ciò che vuole, ma
innanzitutto e ineliminabilmente per ciò che ha fatto, lo possiamo dire in
virtù di quella centralità (pietra angolare) che ha il fatto nella sistematica
del reato, che è appunto - come hanno appreso gli studenti del corso di diritto
penale - un fatto tipico, antigiuridico e colpevole. Il diritto penale del
fatto trova la sua più significativa espressione nella disciplina del
tentativo: nella fondamentale esigenza, cioè, che il proposito criminoso si
traduca in un comportamento materiale che, a sua volta, produca una effettiva
lesione, o almeno una messa in pericolo obiettivamente accertabile del bene
giuridico; la teoria c.d. oggettiva del tentativo, contro le teorie soggettive
e le teorie miste. Come diceva Vincenzo Manzini, il più autorevole studioso
della parte speciale del diritto penale, il diritto non punisce le intenzioni,
bensì le positive lesioni degli interessi che esso protegge; sono i beni
giuridici, individuali e collettivi, il perno sul quale poggiano le singole
figure di reato, mentre il ruolo del dolo, della colpa e degli altri elementi
della colpevolezza è quello di limiti alla rilevanza penale dell'offesa ai beni
tutelati.
Dunque il ricordo e la
riconoscenza va a quella straordinaria monografia del 1930 - eccentrica
rispetto a un periodo storico pervaso di tendenze illiberali - di Giacomo
Delitala, della quale oggi leggiamo i riflessi in tanti manuali di diritto
penale, tra i quali, diffusissimo, quello opera di Giorgio Marinucci e di
Emilio Dolcini, entrambi allievi di Delitala e docenti qui a Sassari (proprio
Emilio Dolcini ha voluto chiudere con una lectio magistralis sulla sistematica
del reato la sua carriera qui dove la iniziò). Insomma le tracce di quella
formazione giuridica che avvenne negli anni '20 del secolo scorso, magari di
quelle conversazioni tra queste mura, segnano ancora gli studi dell'attuale
generazione di giuristi penalisti.
C) L'accenno prima fatto alla protezione dei beni giuridici mi
consente di passare al terzo e ultimo profilo di attualità dello studio del
diritto penale, al quale in qualche modo ha contribuito anche la Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università di Sassari. Mi riferisco cioè al principio
costituzionale di offensività e all'idea del reato come offesa di un bene
giuridico.
Franco Bricola
arrivò a Sassari come professore straordinario di Diritto penale nel 1964. A
quel punto della carriera e a soli trent'anni vantava già due monografie e
stava ultimando la terza (Dolus in re ipsa, Milano 1960, Fatto
del non imputabile e pericolosità, Milano 1961, e La discrezionalità nel
diritto penale, Milano 1964). In quegli anni di poco precedenti alla
contestazione studentesca il corpo docente della Facoltà di Giurisprudenza
presentava un equilibrio tra i professori locali e quelli che, per lo più
giovani, venivano da grandi scuole della penisola e si sperimentavano nel campo
della ricerca e dell’insegnamento: tra questi Catalano, Persiani, Cattaneo,
Marinucci (successore immediato di Bricola nella cattedra penalistica) e,
appunto, Bricola. Si trasferì poi a Bologna dove, col suo magistero, prese a
formarsi la scuola bolognese di Diritto penale. Furono gli anni della svolta
nella dottrina penalistica, che, dopo il dominio quasi incontrastato dell'indirizzo
tecnico-giuridico, del quale abbiamo parlato, andava orientandosi non solo
verso una rigorosa e perciò estensiva applicazione dei principi costituzionali,
ma anche per l’attenzione alle problematiche della politica criminale e a
quelle contigue della sociologia della devianza.
L'idea base di Bricola
(del quale io personalmente ricordo, per interessi scientifici, il suo
magistrale Dolus in re ipsa, scritto
poco prima di venire a Sassari) è stata quella di assumere la Costituzione come
criterio di riferimento nella scelta di ciò che può legittimamente assurgere a
reato, la Costituzione cioè non solo come limite ma come fondamento. Come ci
riferisce uno dei suoi illustri allievi, Massimo Donini, l’analisi del reato,
la concezione del fatto tipico, dell’illecito, della colpevolezza, la
sistematica e la dogmatica classiche, appaiono in parte condizionate dal dettato costituzionale, ma
ancor più importanti sono altre questioni di fondo: quali fini della pena,
quali beni proteggere, contro quali forme di aggressione e livelli di lesività,
quali fonti legittime, con quali tecniche costruire il reato e diversificarlo
dall’illecito civile e da quello amministrativo, quale spazio per logiche
d’autore o per illeciti a struttura contravvenzionale e di pericolo non
concreto, quali margini lasciare ai decreti-legge, alle fonti subordinate alla
legge. Nel dare una risposta a tutti questi interrogativi, la Costituzione -
secondo Bricola - traccia una vera immagine positiva di come l’illecito penale
deve distinguersi dagli altri illeciti.
In particolare segnalo in questo contesto la teoria
costituzionalmente orientata del bene giuridico, che aveva il duplice obiettivo
da un lato di elaborare un concetto di bene giuridico che preesista alla scelta
legislativa, e dall'altro di predeterminare criteri di valutazione dotati di
vincolatività nei confronti del legislatore penale. Quella teoria, di
grandissima rilevanza non solo tecnica ma anche politico-criminale, si rivelò
col tempo insufficiente, nella sua versione originaria, a comprendere i
possibili vincoli al legislatore ordinario e si adattò dunque alla
considerazione dei beni costituzionali impliciti e a quelli non
costituzionalmente incompatibili. D'altro canto, oggi è in discussione proprio
il ruolo del bene giuridico. Ma il monito garantista, contenuto nella teoria, a
vincolare la scelta di penalizzazione a valori superiori e condivisi, rimane
fermo e immutabile.
D) Posso dire - e vengo all'ultimo punto della mia breve relazione
- che ai giovani sardi che hanno studiato a Sassari sia stata offerta la
possibilità di confrontarsi pienamente, grazie a quelli che poi divennero
illustri Maestri, con le più grandi scuole e con le idee di fondo del diritto
penale anche di oggi.
È vero
che Sassari costituì per molti una sede iniziale e magari anche di breve
durata, ma ciascuno ha condotto qui i propri studi nella fase più produttiva
del proprio impegno scientifico e a Sassari hanno lasciato un contributo, un
ricordo, una traccia, magari anche in quella straordinaria esperienza
editoriale e scientifica che fu la rivista "Studi Sassaresi", che mi
piacerebbe tanto far rinascere.
Natalino Irti, nel rammentare la nascita della sua amicizia a
Sassari con Giorgio Marinucci, descrive Sassari come «facoltà giuridica, antica di secoli,
illustre per tradizione di studi e di maestri», racconta le passeggiate con Floriano D'Alessandro, Valerio
Onida, Franco Bassanini e Bernardo Santalucia, le discussioni sui concetti di
norma e di fattispecie, e osserva che «Sassari, nelle consuetudini
universitarie di quegli anni, era soltanto la prima sede, il noviziato, da cui
si moveva verso città più grandi e importanti». E aggiunge queste belle parole:
«Ancora non sapevamo (fu la malinconica scoperta di età mature) di lasciare a
Sassari gli anni più lievi e fervidi della nostra vita».
Le idee volano, soprattutto quelle straordinarie vivono oltre i
loro autori e i luoghi in cui sono nate e si sono sviluppate: ma che, in questo
percorso, abbiano attraversato la nostra Facoltà di Giurisprudenza e la nostra
Università di Sassari, è motivo comunque di orgoglio, di responsabilità e per
tutti noi di spinta a uno straordinario
impegno.
Grazie ancora ad Antonello Mattone, a Paolo Grossi e a voi tutti
per l'attenzione.
[1] Relazione presentata al convegno scientifico tenutosi il 4 maggio
2018 nell'Aula Magna dell'Università degli studi di Sassari.
[2]
ANTONELLO MATTONE, Storia della Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università di Sassari (secoli XVI-XX), [Studi e
ricerche sull’università – Collana del Centro interuniversitario per la storia
delle università italiane, diretta da Gian Paolo Brizzi], Bologna, Società
Editrice il Mulino, 2016, pp. 1037. ISBN 978-88-15-26674-3.