Il
Diritto pubblico
nella storia della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari [1]
A proposito del recente libro di
Antonello Mattone sulla Facoltà giuridica sassarese[2]
OMAR Chessa
Professore
ordinario di Diritto costituzionale
Dipartimento
di Giurisprudenza
Università
di Sassari
Mi è stato assegnato il compito di illustrare il contributo
che gli studi giuridici sassaresi hanno apportato nel campo del diritto
pubblico.
Dapprincipio confesso che avevo preso un pò sottogamba l’impegno.
Poi confrontandomi a fondo col volume che qui oggi presentiamo, mi sono reso
conto che non sarebbe stato un compito di semplice svolgimento. Vista la mole
del libro, si potrebbe dire – con una facezia neanche troppo spiritosa – che
Antonello abbia scritto un Mattone. Ma non si renderebbe giustizia al lavoro,
che offre invero una grande piacevolezza di lettura: le notazioni biografiche e
la rapida ricostruzione delle vicende concorsuali si alternano
all’illustrazione dei lavori scientifici dei maestri che si sono succeduti
nelle cattedre sassaresi. Mi ha particolarmente impressionato il modo in cui il
prof. Mattone riesce a cogliere con esattezza e padronanza “tecnica” il profilo
scientifico di ciascuno per restituircelo nella sintesi di poche battute.
Insomma appena iniziata la lettura ho capito subito che soltanto con grande
difficoltà avrei potuto aggiungere qualcosa di originale a quello che
Antonello aveva già mirabilmente colto.
La prima difficoltà che mi si è parata dinanzi è
la questione di cosa si debba intendere per “diritto pubblico”. Da studiosi non
ci possiamo accontentare troppo delle partizioni convenzionali consegnateci
dalla tradizione. Ma il potere di stabilire ex novo dei confini è
quasi come il potere di dare nomi alle cose, che è – come sappiamo – una
prerogativa divina: il rischio di peccare di hybris è dietro
l’angolo.
La stessa grande distinzione tra diritto pubblico e diritto
privato è assai problematica. Risente per certo versi della separazione
ottocentesca e hegeliana tra Stato e società civile, ed è
indubbiamente collegata alla grande tradizione statualistica che si afferma
egemone a cavallo tra i secoli XIX e XX. C’è qui una traslazione di
significato rispetto allo ius publicum romano, che era ius populi,
mentre in epoca moderna il diritto pubblico è diritto che pertiene
essenzialmente allo Stato (ed è assai discusso se popolo e Stato siano la
medesima cosa): ad ogni modo, la distinzione moderna tra diritto pubblico e
diritto privato si costruisce in relazione al concetto di Stato e alle
categorie statualistiche.
Faccio questa premessa, perché il dato interessante è
che proprio la tradizione statualistica – come rimarcherò nella
conclusione del mio intervento – ha costituito un obiettivo polemico costante
delle opere scritte negli anni sassaresi da maestri come Giovanni Miele,
Giuseppe Treves, Massimo Severo Giannini, Giuseppe Sperduti. E quando non
c’è un esplicita polemica anti-statualistica, come nel caso di Giuseppe
Guarino (ma anche, per ovvie ragioni, come nel caso di Carlo Alberto Biggini),
c’è comunque un approccio metodologico che si colloca ben al di là
del c.d. «metodo giuridico»per come era inteso dalla scuola germanica e
italiana del diritto pubblico statale a cavallo tra Ottocento e Novecento.
***
Questa sensibilità inizia a manifestarsi nelle opere di
Giovanni Miele e Giuseppino Treves, che si succedono nella cattedra di diritto
amministrativo dell’ateneo turritano (il primo inizia il suo insegnamento nel
1928, il secondo nel 1932).
Antonello
ricorda come Miele abbia scoperto negli anni sassaresi il libro di Francesco
Ruffini del 1926 su I diritti di libertà, scovandolo per caso
nella biblioteca giuridica della nostra Università; e come questo libro
abbia lasciato un segno profondo nella sua formazione di giurista: un segno che
ci compendia nell’affermazione del Miele, anch’essa riportata da Mattone,
secondo cui è «idea sacrosanta» che «il diritto tenda a confondersi con
la morale, a costituire una morale rafforzata dal potere sociale».
Se tra diritto e morale ci sia una cesura o una continuità,
una separazione netta ovvero un’incorporazione della prima nel secondo è
questione dibattuta da sempre. Ma è certo che per il c.d. «metodo giuridico»,
di cui parlavo prima, il dilemma deve sciogliersi a favore della prima
alternativa, pena l’impossibilità di concepire e costruire la scienza
giuridica come autonoma rispetto ad altre discipline. Diverso era invece
l’orientamento del Miele, come si è visto (un orientamento che ha lasciato
poi traccia – lo dico incidentalmente – nella sensibilità e nelle opere
del suo allievo Andrea Orsi Battaglini, che pure insegnò a Sassari negli
anni Settanta, per poi trasferirsi a Firenze).
Una forte carica di innovazione era altresì presente negli
scritti di Treves del periodo sassarese.
***
Ma, dovendo fare una scelta dettata dalla necessaria brevità
delle relazioni, è sulla figura di Massimo Severo Giannini che merita
soffermarsi in maniera particolare. Il contributo di questo studioso alla
scienza giuridica italiana è vastissimo e di enorme importanza: e il
prof. Mattone lo rammenta.
Al periodo sassarese appartiene la nota prolusione sui Profili
storici della scienza del diritto amministrativo, pubblicata negli Studi
sassaresi nel 1940 (ma ripubblicata nel 1973, su iniziativa del prof. Paolo
Grossi, nei Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico,
con Postilla dello stesso Giannini). In quest’opera si investigano le
origini storiche della scienza del diritto amministrativo e dello stesso
diritto amministrativo come autonomo ramo del diritto. Ma è anche
l’occasione per una riflessione più ampia sul diritto pubblico, sulle
diverse tipologie di forme statali (Stato giurisdizionale, amministrativo,
legislativo), nonché sulla effettiva portata di taluni principi relativi
alle organizzazioni statali (ad esempio, i principi dello “Stato di diritto” e
della divisione dei poteri).
La prima questione affrontata, oltre alla definizione di cosa deve
intendersi per “ramo del diritto”, è se il diritto amministrativo sia
sempre esistito o se invece sia un prodotto dell’evoluzione statale moderna:
Giannini propende, ovviamente, per la seconda ipotesi e cerca di collocare in
modo più preciso quest’origine, interrogandosi sulle condizioni che storicamente
e logicamente hanno reso possibile il costituirsi di questo ramo autonomo del
diritto. È contestata la tesi allora di comune dominio (fatta propria sia
dalla dottrina germanica che da quella italiana), secondo cui non potrebbe
parlarsi di un diritto amministrativo se non coll’avvento dello Stato di
diritto e della divisione dei poteri. Giannini ritiene «dubbio operare con
concetti tanto incerti». È richiamata l’opinione di Kelsen, per il quale
tutti gli Stati, quali ne siano le forme, i criteri organizzativi e i valori
sostanziali perseguiti, sarebbero “Stati di diritto”, ivi compresa la forma
storia dello “Stato di polizia”: vista la necessaria identificazione tra Stato
e ordinamento giuridico, non esisterebbero competenze statali non costituite e regolate
dal diritto. Le differenze tra i diversi Stati sarebbero solo quantitative: in
alcuni il diritto lascerebbe un margine maggiore alla libertà degli
individui rispetto all’autorità degli organi statali, in altri invece il
margine lasciato sarebbe minore. Egualmente incerto è giudicato il
principio della divisione dei poteri. Se con questa formula s’intende la
distinzione funzionale tra funzione legislativa, giurisdizionale ed esecutiva e
quindi quella tra atti legislativi, giurisdizionali ed esecutivi, ciò non
è ancora sufficiente al fine di enucleare la categoria peculiare degli
“atti amministrativi”, ben potendo «l’attività amministrativa esplicarsi
con atti propri del diritto privato o strutturalmente analoghi». E tuttavia,
aggiunge il Giannini, «l’essere il potere esecutivo separato dagli altri, o
meglio il fatto che la funzione esecutiva sia attribuita, istituzionalmente e
in via principale, a un gruppo determinato di organi, costituisce uno dei
presupposti fondamentali per l’esistenza di un diritto della amministrazione il
quale abbia propria fisionomia e individualità». Sennonché si
tratta di «presupposto necessario, ma sempre presupposto, ossia non causa
determinante». Inoltre si fa l’esempio di ordinamenti dove ci sono organi amministrativi
e attività amministrative molto sviluppate, ma senza un diritto
amministrativo propriamente inteso, come è il caso dell’Inghilterra.
Dopo questa disamina critica, arriva il contributo originale di
Giannini: perché si abbia un diritto amministrativo occorre non solo una
condizione di autonomia del potere amministrativo-esecutivo rispetto agli altri
poteri statali, ma altresì che l’attività da questo svolta sia
disciplinata da un complesso di «norme giuridiche esteriormente obbligatorie», aventi
una propria fisionomia peculiare che le rende irriducibili al diritto comune.
Ciò spiega, a giudizio di Giannini, perché nella fase storica dello
«Stato giurisdizionale», caratterizzato dalla pluralità dei «diritti
signorili territoriali», tutti di stampo privatistico, non ci fosse un diritto
amministrativo; e perché non ci fosse neppure nella fase dello «Stato di
polizia», visto il carattere “interno” e non “esteriormente obbligatorio” delle
norme rivolte all’amministrazione.
Un vero diritto amministrativo e una vera scienza del diritto
amministrativo potè sorgere, dunque, solo nell’Ottocento, in qualche misura
sulle ceneri della “scienza della polizia” e della “scienza camerale”. E
precisamente quando questo corpo di norme pubblicistiche esteriormente obbligatorie
ebbe acquisito carattere di organicità, coerenza interna,
complessità e vastità, in correlazione all’estensione progressiva
dei compiti amministrativi statali. In Germania, ad esempio, fu dopo il 1870
che il diritto amministrativo si distaccò dallo Staatsrecht, dal diritto
statale, per acquistare piena autonomia come ramo giuridico autonomo, mentre lo
Staatsrecht si ridusse al solo diritto costituzionale.
Quanto alla scienza del diritto amministrativo, la sua
elaborazione ha seguito le orme dell’elaborazione della scienza del diritto
pubblico in genere, come era proposto dalla scuola germanica di Laband, Gerber,
Jellinek, Mayer, e dalla scuola italiana di Orlando. Ossia un «metodo
giuridico» costruito sulla falsariga di quello della scienza del diritto
privato e quindi basato sulla pandettistica. Qui le notazioni di Giannini nei
confronti del magistero orlandiano si fanno particolarmente critiche. Se questa
scienza deve costituirsi quale «sistema di principi giuridici sistematicamente
coordinati» (principi che debbono essere “giuridici” e che pertanto debbono
essere tenuti distinti dai principi filosofici e politico-morali), non si
capisce però come debbano essere «raggiunti e utilizzati»: come si
perviene, cioè, alla loro elaborazione e in che modo operano con riguardo
alle varie fattispecie concrete, ossia quale deve essere la loro funzione nel
lavoro pratico del giurista? Insomma, «come individuarli, come impiegarli, come
giudicarne I’esattezza?». Orlando, a giudizio di Giannini, «indicò molto semplicemente
quei criteri che la scienza del diritto romano si era costruiti in due
millenni».
La critica alla pandettistica non è però radicale,
perché Giannini consente sul fatto che, sul piano tecnico, abbia
costituito un apporto decisivo allo sviluppo della scienza del diritto
amministrativo e pubblico in genere (così come indubbiamente feconda
sarebbe stata la sua importanza per la scienza del diritto privato). Il difetto
sta nella «problematica», ossia nel fatto che ha indotto la scienza giuridica a
interrogarsi su questioni di poco rilievo e a investigare problemi meno
importanti di quelli cui naturalmente si rivolge l’attività
amministrativa. Insomma, un «metodo giuridico» troppo fissato nei suoi astratti
presupposti dogmatici, che non consentono di cogliere e problematizzare le
novità che emergono dalla vita sociale reale, dalla concreta esperienza
giuridica.
***
Nel campo del diritto internazionale merita particolare menzione
il nome di Giuseppe Sperduti, docente dal 1947 al 1954. Agli anni del suo
insegnamento sassarese risalgono due lavori importanti: la monografia L’individuo
nel diritto internazionale. Contributo all’interpretazione del diritto
internazionale secondo il principio di effettività (Milano,
Giuffré, 1950) e il saggio La dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo (Sassari, Gallizzi, 1950 e in Riv. inter. fil. dir.,
1951). Nel contributo monografico si propone un approccio originale al diritto
internazionale, che mira a smarcarsi dalle impostazioni veteropositiviste, ancora
troppo legate all’idea che i soli soggetti dei rapporti di diritto
internazionale siano gli Stati: questa era la visione – come dire – “classica”
del diritto internazionale, una visione di stampo “westfaliano”, secondo la
quale le norme internazionali sono solo quelle stabilite dal diritto pattizio,
dai trattati conclusi liberamente dagli Stati in condizione di formale
uguaglianza.
Era una visione che Sperduti aveva provato a sfidare già in
un lavoro monografico del 1946, precedente quindi il suo magistero sassarese e
dedicato a La fonte suprema dell’ordinamento internazionale, fonte che
veniva identificata nella «consuetudine pregiuridica», ossia in una
realtà normativa che deriva la propria forza e validità da altro
che non da manifestazioni di volontà statale in forma pattizia. E del
resto, sotto il profilo logico, in tanto il diritto internazionale pattizio
può considerarsi giuridicamente valido in quanto si postuli un fondamento
di validità che operi come una sorta di condizione trascendentale, qual
è infatti il principio o regola pacta sunt servanda, la cui forza
normativa è logicamente intrinseca e fattualmente legata alla dimensione
consuetudinaria (peraltro ricordo che nel 1961 Carlo Esposito svilupperà
in modo teoricamente approfondito l’idea che alla base di ogni ordinamento
positivo ci sia una consuetudine confermativa o di riconoscimento provvista di
valenza fondativa).
Ma è con la monografia del 1950 che il pensiero di Sperduti
realizza la svolta rispetto agli indirizzi tramandati, ravvisando negli
individui dei nuovi soggetti di diritto internazionale. Un orientamento che
trova conferma e ulteriore sviluppo nello scritto su La dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, legato evidentemente alla novità
costituita dall’approvazione di questo Bill of rights da parte
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e recante la tesi innovativa
secondo cui gli individui e i loro diritti sarebbero, sotto il profilo
teleologico e quindi assiologico, i destinatati per così dire “naturali”
del diritto internazionale e, perciò, anche degli Stati. È nitido
il trapasso da una concezione statualistica (del diritto in genere e non
soltanto del diritto internazionale) a una visione basata su un diverso “centro
spirituale di riferimento”. Sono – come ognuno vede – considerazioni che vanno
oltre la scienza internazionalistica e che valgono per ogni ramo del diritto, e
segnatamente per il diritto costituzionale o pubblico: è sempre discusso
se il suo centro o nucleo profondo sia lo Stato con le sue prerogative sovrane
oppure l’individuo o la persona con i suoi diritti inalienabili.
***
A partire dal 1948 e fino al 1951 la scienza sassarese del diritto
costituzionale si arricchisce del contributo straordinario di Giuseppe Guarino.
È superfluo – credo – spendere parole per illustrare quale importanza
abbia avuto e ancora oggi abbia la produzione scientifica del decano italiano
degli studi giuspubblicistici, che quest’anno (2018) si accinge a compiere il
96esimo anno d’età. Come tutti i grandissimi studiosi, la vastità
delle sue ricerche non può essere circoscritta a un solo ramo del diritto
e in particolare al solo campo del diritto costituzionale propriamente inteso:
come tutti sanno, Guarino è anche un grande amministrativista, un grande
conoscitore del diritto comunitario o dell’Unione Europea, un raffinato esperto
di diritto dell’economia, ecc.
Fedele all’impegno preso di considerare soltanto i lavori
scientifici legati agli anni sassaresi, ricordo solo la monografia con cui a
soli 26 anni Guarino ottenne la libera docenza, e cioè Lo scioglimento
delle assemblee parlamentari (Napoli, Jovene, 1948).
È un libro giovanile solo da un punto di vista puramente
anagrafico, perché dal punto di vista della maturità scientifica
è un libro “adulto”, anche per la tematica trattata, che ha per oggetto
un istituto d’importanza cruciale nella dinamica delle forme di governo
parlamentari e che era discusso se avesse mantenuto lo stesso significato e la
medesima funzione nel passaggio dalla monarchia costituzionale alla monarchia
parlamentare.
In questo lavoro monografico, che era coevo all’entrata in vigore
della nuova Costituzione repubblicana, Guarino traccia un bilancio, proponendo
però un approccio di metodo che si discosta non poco dal «metodo
giuridico» basato sulla sola esegesi del testo costituzionale. Afferma infatti
che «lo scioglimento [...] acquista significato solo relativamente alle
condizioni in cui agisce. Esso è spiegato da queste condizioni ed a sua
volta le spiega». La ricostruzione dogmatica dell’istituto deve considerare
anche il dato contestuale; non solo il testo, quindi, ma anche il contesto, e
in particolare la struttura e il rilievo concretamente assunto dal sistema dei
partiti. Anticipa perciò un metodo nello studio della forma di governo
che poi, negli anni Settanta, sarà teorizzato in modo approfondito da
Leopoldo Elia.
La conclusione cui perviene il libro ha fatto scuola, ma più
nella parte destruens che in quella construens. Fa piazza pulita
della tesi tradizionale secondo cui «l’unica funzione dello scioglimento era
quella di regolare i rapporti tra governo e Parlamento»: una tesi che poteva
avere senso nella logica dualista della monarchia costituzionale e parlamentare
classica, quando la Corona costitutiva un centro autonomo di direzione
politica, in concorrenza e competizione con la Camera bassa, ma che era ormai
priva di senso nel contesto ormai compiutamente monistico dei regimi
parlamentari novecenteschi, dove la funzione di governo, di direzione politica
è attratta, per il tramite dei partiti, nel raccordo tra Governo e Camere
con la sostanziale marginalizzazione politica del Capo dello Stato.
Certo, poi Guarino, nell’interpretare l’art. 88 della Costituzione
ricostruisce il decreto di scioglimento come un atto che è presidenziale
anche sotto il profilo sostanziale oltre che sotto quello formale, con
ciò ribadendo un’impostazione dogmatica che era tipica delle fasi in cui
c’era un governo costituzionale “puro”, ma va detto che non si trattava di
un’opinione isolata, visto che fu fatta propria anche da Paolo Barile e poi
dalla sua scuola fiorentina del diritto costituzionale.
In ogni caso ciò che veramente conta è la parte
analitico-demolitoria del libro di Guarino, che pure oggi è utile per
fare piazza pulita di luoghi comuni che ancora circolano nella dottrina
costituzionalistica italiana, come – ad esempio – quello per cui in un governo
parlamentare il potere di scioglimento non può che spettare al Primo
Ministro: luogo comune che si vale di un’errata ricostruzione del sistema
costituzionale britannico e che Guarino aveva smascherato già nel 1948.
Ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano e non abbiamo il tempo di
svilupparlo come meriterebbe.
***
Non si può dire che, negli anni considerati dalla ricostruzione
storica di Mattone, ci sia stata una scuola sassarese del diritto pubblico nel
senso proprio del termine: per un verso gli interessi scientifici e gli
approcci di metodo dei vari studiosi erano troppo eterogenei tra loro, per
l’altro va detto che praticamente nessuno di loro lasciò allievi in loco
(è vero che Guarino formò due sassaresi, Francesco Cossiga e Sergio
Fois, ma il primo si avviò da subito su un’altra strada che non su quella
della ricerca accademica e il secondo svolse la sua attività
prevalentemente in sedi universitarie del Continente, facendo ritorno nella
città natale solo a fine carriera, negli anni Novanta del secolo scorso).
C’è però un filo rosso che accomuna le ricerche di
tutti: una sensibilità anti-formalistica e anti-statualistica, che si
compendia nel rifiuto della centralità assoluta della legge (e del metodo
esclusivamente testuale, eventualmente integrato dalla ricostruzione
dell’intenzione del legislatore). Le loro opere non celebrano certo la
sacralità della volontà legislativa e della legge quale punto di
origine e di destinazione della fenomenologia e del discorso giuridici. Hanno
tutti piena consapevolezza del fatto che il ruolo del giurista è
più complesso, così come è più complessa la
realtà dell’esperienza giuridica, che mal si presta alla reductio ad
unum operata dalla statalismo legicentrico.
Sarebbe interessante vedere se e come questa sensibilità di
approccio sia confermata nei giuspubblicisti che insegnarono a Sassari dagli
anni Settanta in poi, sino ai giorni nostri. Rimaniamo dunque in fervida attesa
di un nuovo contributo di Antonello Mattone, anzi direi che lo invitiamo a
produrlo quanto prima.
[1]
Relazione presentata al convegno scientifico tenutosi il 4 maggio 2018
nell'Aula Magna dell'Università degli studi di Sassari.
[2]
ANTONELLO MATTONE, Storia della Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università di Sassari (secoli XVI-XX), [Studi e
ricerche sull’università – Collana del Centro interuniversitario per la storia
delle università italiane, diretta da Gian Paolo Brizzi], Bologna, Società
Editrice il Mulino, 2016, pp. 1037. ISBN 978-88-15-26674-3.