Riconoscimento: alcune riflessioni nell’ottica del
giurista (*)
LUISA BUSSI, Roma
già
Professore di Storia del Diritto
nell’Università di Sassari
(*) A
proposito del libro di: VALERIA TURRA, Ermeneutica del riconoscimento. Fondazione
filologica di un concetto, ed. Mimesis,
Milano-Udine 2018, in 8°, pp. 473. ISBN:
978-8857553115.
Sul tema l’A. aveva di recente pubblicato un saggio ne gli Studi storici Luigi Simeoni (vol. LXVII,
2017, pp. 81-92: V. TURRA, Sul
riconoscimento in Padre Sergij di Lev Tolstoj) e si percepisce che
quello che qui vede la luce è frutto di una lunga ricerca. L’argomento, del
resto, è di quelli che suscitano immediata
sorpresa e interesse. Riconoscimento è – secondo la definizione proposta
dall’A. - termine che si riferisce ad una attività della mente che prende atto
di una identità: quello che il soggetto sta prendendo in esame si rivela essere
il medesimo oggetto che già in precedenza era caduto sotto l’esame dei sensi, o
degli occhi, o della mente (TURRA, Ermeneutica,17)
Nell’ottica del giurista, il concetto ha richiami precisi, pur riferiti a
figure diverse. Rinvia, ad esempio, al riconoscimento di un figlio naturale e
alla evoluzione storica che ha attraversato la normativa in materia, o più in
generale al riconoscimento di un diritto altrui, che per la pandettistica
poteva valere come mezzo di prova, ma anche consistere in una dichiarazione
emessa con l’intenzione di obbligarsi (WINDSCHEID, Il diritto delle pandette, tr. Fadda e Bensa, Torino 1936, 594); ma
forse ancor prima a venire in mente è il riconoscimento che il testimone fa
delle sembianze di un imputato.
Dal punto di vista della neuropsicologia il riconoscimento e
la decifrazione di un evento esterno hanno luogo quando l’input sensoriale che
tale evento trasmette al cervello entra
in risonanza con– o corrisponde a- una delle reti neurali precedentemente costituite: Il riconoscimento
non è altro che la riattivazione di una rete neurale già formata: perché noi
possiamo associare un nome ad un volto «deve essere esistita nella mente una
rete che comprende sia una componente visiva
(che contiene informazioni sui connotati del volto) sia una componente
uditiva (che contiene informazioni sul nome). Malgrado questi due tipi di
informazione risiedano in aree corticali molto diverse (il lobo parietale la prima, quello temporale la seconda ) essi sono
intrecciati in un unico attrattore» (GOLDBERG, Il paradosso della saggezza, Milano 2005, 138). Mentre invece la
corteccia prefrontale è interessata da «quegli aspetti della cognizione
che attengono alla sfera sociale: i lobi
frontali si attivano quando il soggetto riflette su questioni morali o sociali,
o è empatico nei confronti di un’altra persona, o quando gli si chiede di
leggere nella mente altrui» (GOLDBERG, cit., 159). Un danno alle zone cerebrali
indicate può causare l’agnosia cioè l’ incapacità di riconoscere e identificare
un oggetto o un volto (prosopagnosia), e si può spingere sino a non riconoscere
il proprio volto riflesso in uno specchio.
E’ interessante constatare quanto vicine a queste –
elaborate in un campo di ricerca apparentemente lontano - siano le risultanze
della critica filosofica, o della invenzione letteraria. Ad esse l’A. dedica
un’attenzione che attraverso la sua indagine ci conduce – a partire dall’ anagnwrisiV aristotelica - per i sentieri talvolta labirintici della impossibilità del
riconoscimento che, nel recupero moderno del dionisiaco rispetto all’apollineo,
perde il suo significato e la sua ragion d’essere «come resa simbolica di una
volontà esaltata …come opposto vitalistico ad un principium individuationis» nonché come «riappropriazione in una
critica al Cristianesimo e ai suoi valori sentiti come opprimenti e falsi».
L’A. ne segue lo scemare così nel pensiero di Schopenhauer e di Nietsche (letti
in contrappunto con la Poetica
aristotelica) come nel Thomas Buddenbrook o nell’Aschenbach di Thomas Mann,
fino alla impossibilità di fare storia denunciata da Foucault: « La storia effettiva si distingue da quella
degli storici per il fatto che essa non si fonda su alcuna costante: niente
nell’uomo – nemmeno il suo corpo – è abbastanza stabile da comprendere gli
altri uomini e riconoscersi in loro. Occorre fare a pezzi ciò che permetteva il gioco consolatorio dei
riconoscimenti. Sapere, anche nell’ordine storico non significa “ritrovare” e
soprattutto non significa “ritrovarsi” La storia sarà “effettiva” nella misura
in cui essa introdurrà il discontinuo nel nostro stesso essere». (FOUCAULT, Nietsche, la généalogie, l’histoire, in Hommage a Jean Hyppolite, Paris 1971, tr. Turra, 150)
Riguardato dal punto di vista filosofico, il tema apre
dunque scenari tanto ampi quanto profondi, che toccano i fondamenti del pensiero
occidentale, anche attraverso le diverse epifanie letterarie, dai tragici del V
secolo alla poetica di Ritsos e Mandel’stam, dalla Woolf a Proust, passando
attraverso Tolstoj e Dostoevskij. Una
lunga disamina è infatti dall’A. dedicata al complesso personaggio di Anna
Karenina ove Il singolare individuato «ottiene nel finale il più compiuto
inveramento …della legittimità tanto del suo riconoscere quanto del suo essere
riconosciuto». L’A. vede in questo il cuore dei due romanzi tolstojani (Anna Karenina e Resurrezione): si tratta di «riconoscimento gnoseologico ed etico
insieme» che pone Tolstoj «con la sua teoria del riconoscimento ai vertici di
una riflessione che…riesce ad aprirsi …al momento etico costituito dal
riconoscimento dell’altro in quanto individuo unico, che proprio perché
riconosciuto nella sua peculiarità irripetibile può essere restituito a sé
stesso».
Il libro richiama alla mente i percorsi inconsueti di Camus, che è
stato in passato oggetto di uno studio dell’A., (TURRA, Albert Camus, figure dell’antico. Il mito di fronte all’assurdo,
prefazione di Francesco Donadi, Verona 2010) e al cui “Malentendu” essa dedica alcune pagine che contrappongono alla
visione politeistica del mondo – ove ciascuna divinità è portatrice di un
proprio sistema valoriale – l’infrangersi del Senso contro l’assurdo che in
Camus accompagna la crisi del Cristianesimo. E qui il pensiero torna alla
sconcertante incapacità dei discepoli di Emmaus di riconoscere il Cristo
risorto. L’episodio, narrato dal Vangelo di Luca, (24, 13-35) è precisamente
uno dei temi affrontati dal volume in alcune delle sue pagine più intense: la
comprensione ritardata del Kerygma, “il riconoscimento di un altro che essendo
limitrofo al divino diventa insieme contemplazione di assoluto e parziale
riverbero di assoluto in noi”, ma anche
“sostanziale misconoscimento…dell’essenza del riconosciuto”.
E’ dunque un libro ambizioso, come lo definisce Michele
Napolitano nella Prefazione, un libro che offre al lettore un valido filo
d’Arianna per muoversi all’interno di un concetto complesso, e che al contempo
lo stimola a inoltrarvisi molto al di là delle sue aspettative originarie.