Si pubblica, col consenso
dell’Autrice e dell’Editore, il Capitolo Terzo «Una rilettura in prospettiva europea» (185-204) della monografia di
MARIA LUISA
SERRA, «VALORI FUNZIONALI» DEL PROCESSO E
DOMANDA GIUDIZIALE. Contributo breve in tema di oggetto del processo, Napoli, Jovene Editore, 2018, pp. X-212. ISBN 978-88-243-2530-1
Indice del
volume
Maria Luisa Serra
Professore aggregato di Procedura civile
nell’Università di Sassari
Una
rilettura in prospettiva europea
Sommario: 1. Una rilettura. – 1.1. La centralità dei principi funzionali
del processo nella individuazione e delimitazione degli istituti processuali. – 1.2. I risultati della giurisprudenza e la
loro incidenza sul diritto processuale civile italiano: la nozione di causa petendi e la rilevanza dell’omogeneità
funzionale delle norme di diritto sostanziale ai fini della determinazione
dell’identità delle domande. – 2. Ricostruzione del concetto di oggetto
del processo. – 2.1. I principi cardine del processo. – 2.2. Quando si ha domanda nuova o modifica
della stessa?
– 2.3. Rilievo officioso e decisione del
giudice. – 3. Il processo come sintesi
dell’elemento processuale e sostanziale: la dinamicità del processo.
Una prima considerazione emerge dai principi affermati in
dottrina e dall’esame della giurisprudenza più recente. L’esercizio della
tutela giurisdizionale impone di tenere conto, da un lato, della posizione di
diritto soggettivo vantata dal singolo e, dall’altro, della funzione del processo.
Funzione del processo che svolge un ruolo determinante nell’interpretazione e
applicazione delle norme dell’ordinamento.
Il processo persegue non solo effetti sostanziali ma anche
processuali. Pertanto, il noto dibattito circa l’individuazione della funzione
primaria assolta dall’attività giurisdizionale – se essa consista nel garantire
la tutela del diritto sostanziale ovvero nella mera composizione delle liti
ovvero ancora l’attuazione della legge, o, infine, l’attuazione
dell’ordinamento, mezzo offerto al giudice per applicare la legge nel caso
concreto – deve muovere da questa premessa. Il processo, o meglio l’oggetto del
processo, rappresenta la sintesi dell’elemento sostanziale e di quello
processuale.
Il processo, peraltro, persegue non solo effetti
sostanziali ma anche processuali. Pertanto il noto dibattito circa
l’individuazione della funzione primaria assolta dall’attività giurisdizionale
– se essa consista nel garantire la tutela del diritto sostanziale ovvero nella
mera composizione delle liti ovvero ancora l’attuazione della legge; infine
l’attuazione dell’ordinamento, mezzo offerto al giudice per applicare la legge
nel caso concreto – deve muovere da questa premessa. Il processo, o meglio
l’oggetto del processo, rappresenta la sintesi dell’elemento sostanziale e di
quello processuale.
Alla luce di questa considerazione preliminare può dirsi che l’interpretazione delle norme processuali e sostanziali vada condotta tenendo presente i valori funzionali del processo. E’ quanto già emerso nella determinazione del concetto d’identità della domanda ai fini della dichiarazione di litispendenza comunitaria e internazionale, nel qual caso l’interpretazione di tale concetto di fronte alle diversità delle leggi applicabili negli stati membri è da compiersi in una prospettiva strumentale a tali valori. In particolare, la lettura sistematica delle norme sulla litispendenza deve privilegiare una definizione di identità di domande finalizzata ad evitare che sullo stesso oggetto della domanda si svolgano procedimenti paralleli, con conseguente rischio del formarsi di giudicati contraddittori al fine di consentire il perseguimento di uno degli obiettivi primari della Corte di Giustizia.
Tutto ciò ha portato, in ambito comunitario, all’elaborazione di una nozione di oggetto del processo più ampia rispetto a quella utilizzata per il diritto interno, ciò in quanto le Corti nazionali hanno recepito i principi enunciati dalla Corte di Giustizia. È, dunque, pertanto un’interpretazione non strettamente vincolata a «criteri formalistici e restrittivi», che supera la coincidenza formale degli elementi della domanda e che si basa sulla «identità dei risultati pratici perseguiti». La c.d. teoria del Kernpunkt – secondo la quale la coincidenza del fulcro delle domande costituisce il requisito che ne determina l’identità – pone l’accento sul profilo processuale rappresentato dall’efficacia vincolante del giudicato. L’applicazione di tale teoria nella determinazione della litispendenza ha lo scopo di: i) impedire il contrasto fra due decisioni; ii) evitare il mancato riconoscimento della decisione da parte di in un altro stato membro per contrarietà ad altra precedente sentenza.
In altre parole, la Corte di Giustizia applica la disciplina della litispendenza non solo all’ipotesi di identità di domande (ipotesi in cui potrebbe porsi un problema di ne bis in idem), ma anche quando – secondo il diritto interno di alcuni ordinamenti – potrebbe porsi un problema di efficacia vincolante della prima decisione in un altro processo. Lo scopo è quello di attribuire la decisione ad un unico giudice al fine di evitare la contraddittorietà dei giudicati.
Più
precisamente, la sussistenza del requisito dell’identità delle domande sussiste
indipendentemente dalla piena coincidenza del petitum, essendo sufficiente la coincidenza del fulcro delle
domande. Al riguardo basta richiamare i differenti
casi oggetto di pronuncia della Corte di Giustizia e delle Corti Nazionali, per
valutare le conseguenze di questa impostazione sul piano applicativo[1].
La disciplina della litispendenza regolata dal diritto interno non ha recepito appieno tale impostazione in ambito domestico, anche perché, come ricordato, non ne è ravvisabile la necessità, essendo previsti strumenti processuali atti ad evitare lo svolgimento di procedimenti paralleli aventi lo stesso oggetto[2].
Ciò non toglie che i principi enunciati dalla Corte di Giustizia e, in particolare, quello fondamentale per il quale l’interpretazione delle norme deve essere orientata ai valori funzionali del processo, abbiano fortemente influenzato il diritto processuale civile interno attraverso le recenti pronunce della Corte di Cassazione.
Le recenti pronunce della Corte di Cassazione mostrano che
la definizione dell’oggetto della lite, da un lato con riferimento alla
possibilità di mutamento e precisazione della domanda e, dall’altro, al
giudicato, non si basa più oggi sulla coincidenza formale degli elementi di
identificazione della domanda.
In particolare, in materia di emendatio e di mutatio libelli la Cassazione si preoccupa di chiarire quando la domanda sia da considerare nuova e, quindi, inammissibile ai sensi dell’art. 183 c.p.c. Così, secondo la Suprema Corte la domanda non è nuova, ma semplicemente modificata, quando resta immutata la situazione di fatto dedotta e, quando la domanda modificata non si aggiunge a quella iniziale ma la sostituisce, ponendosi pertanto, rispetto a quella iniziale, in un rapporto di alternatività.
Il rilievo
della Corte consente, pertanto, di giungere a concludere – anche tenendo conto della pronuncia della stessa Corte in tema di
impugnative negoziali – che, al fine di valutare se vi sia identità della
domanda considerare la funzione svolta dalla norma di diritto sostanziale
applicabile alla fattispecie concreta. Da ciò discende che la domanda non può
definirsi nuova se le fattispecie legali applicabili a tali fatti perseguono la
medesima funzione o, meglio, consentono di raggiungere lo stesso risultato. Ciò
significa che le norme di diritto sostanziale applicabili alla situazione di
fatto – (in un caso di specie, la stipulazione di un contratto, dapprima
qualificato come preliminare e successivamente individuato come contratto
definitivo) – alla quale corrispondono, sotto il profilo processuale,
rispettivamente azioni diverse (un’azione costitutiva e un’azione di
accertamento), perseguono il medesimo risultato funzionale (ossia, nell’ipotesi
considerata, la realizzazione del medesimo bene della vita, il diritto di
proprietà). Diventa quindi irrilevante – ai fini della individuazione delle
modifiche ammesse ai sensi dell’art. 183 c.p.c. – la natura dell’azione di
tutela esercitata nel senso che la stessa non modifica l’oggetto della domanda.
Sotto questo profilo è da precisare, infatti, che le domande modificate
sono domande diverse rispetto a quella iniziale e comportano, pertanto, una modifica parziale
degli elementi identificativi della domanda[3],
che però – occorre aggiungere – non determinino una variazione del risultato
perseguibile sul piano sostanziale.
Da ciò consegue che la domanda iniziale e quella
modificata, se proposte in due processi differenti, non daranno luogo ad
un’ipotesi di litispendenza, che presuppone la coincidenza di tutti gli
elementi di identificazione della domanda. A ciò si aggiunga che, in tale
valutazione, rientra anche il tipo di azione esercitata dalle parti (la forma
della tutela prescelta).
Alla luce delle considerazioni che precedono, con riferimento agli elementi di identificazione della domanda, si deve ritenere che la causa petendi sia composta dai fatti, così come indicati nella domanda rivolta al giudice – al quale soltanto spetta la qualificazione giuridica della fattispecie, nella quale incanalare le affermazioni dell’attore – e dalle norme ad essi applicabili, ordinate in base allo scopo perseguito dalla tutela giuridica richiesta. L’oggetto del processo non muta se le norme applicabili a quegli stessi fatti perseguono la medesima finalità, per quella che – con efficace espressione – i tedeschi chiamano la Ordnungsfunktion.
Ciò significa che nella nozione di oggetto del processo un ruolo determinante è svolto dal fatto storico, nel senso di rapporto sostanziale che ne scaturisce determinato, o meglio, orientato in base alle fattispecie legali ad esso applicabili, seconda la funzione da queste perseguita.
La prima considerazione dalla
quale muovere riguarda il fatto che nella definizione di causa petendi deve essere svalutato il ruolo della fattispecie
legale dedotta al fine dell’individuazione del diritto. Da questo punto di vista,
dunque, assume un ruolo determinate la centralità della vicenda sostanziale dedotta in giudizio. Circa il
concetto di petitum, esso è inteso
come bene della vita o meglio, nel senso di effettiva volontà coltivata dalla
parte e scopi di utilità pratica perseguiti tramite il ricorso all’autorità
giurisdizionale. Causa petendi e petitum sono due facce della stessa
medaglia, che si fondono alla luce dell’obiettivo scopo della tutela giuridica
perseguito dall’attore con la domanda, fine che si sostanzia nella sintesi dei
fatti o, anche, dell’ «accadimento della vita» posti/o a base della domanda rivolta al giudice, unico titolare del potere di
qualificazione giuridica della fattispecie. Di qui è possibile, a mio
avviso, far discendere i seguenti corollari: l’oggetto del processo non muta se
le norme applicabili a quegli stessi fatti perseguono la medesima Ordnungsfunktion; l’attenzione allo
scopo oggettivo della tutela voluto dall’attore nella determinazione
dell’oggetto del processo consente, dunque, nel rispetto delle preclusioni, di
modificare anche uno degli elementi della domanda se immutato resta il
risultato cui tende la domanda.
Il ricorso a questo primo criterio di individuazione degli elementi della domanda giudiziale risulta ancor più condivisibile allorché si consideri che l’interpretazione della legge deve essere orientata ai «valori funzionali del processo», nel senso che l’ammissibilità della domanda così modificata trova la sua ragione nel fatto che l’attore la ritiene «più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio». Conclusione che risulta pienamente rispondente all’orientamento dei giudici di legittimità, che appare oggi irreversibilmente indirizzato verso la valorizzazione del collegamento tra processo e diritto sostanziale, in modo da far sì che il processo si configuri quale strumento essenziale per il raggiungimento della più «soddisfacente» tutela degli interessi sottesi alla vicenda esistenziale dedotta in giudizio.
Conclusione che, quando riferita alla nozione di oggetto del processo,
porta a individuare l’oggetto della domanda nel diritto individuato sulla base
di «tutti i fatti», che oggettivamente (i.e.,
per il diritto sostanziale) sono idonei e necessari al fine di produrre le
conseguenze giuridiche domandate.
In questa ottica, piuttosto, si deve ribadire la difficoltà di rinvenire un criterio univoco idoneo a definire l’ambito della discrezionalità entro cui possa esercitarsi legittimamente il potere del giudice di ricostruire i fatti oggetto del processo e, nel contempo, si deve notare che proprio la denuncia di tale difficoltà consente altresì di sottolineare come la soluzione del problema, relativo al potere d’ufficio del giudice di rilevare la sussistenza di un fatto costitutivo non dedotto dalla parte, dipenda necessariamente dalla nozione di oggetto del processo di volta in volta assunta.
Sotto questo profilo, un ruolo determinante deve riconoscersi al fatto storico che di tale diritto costituisce la fattispecie concreta, o il «fatto generatore». Ciò perché dal fatto storico e dal rapporto sostanziale che da esso scaturisce, qualificato con riferimento alle (possibili) fattispecie legali applicabili, discende la stessa possibilità di effettiva tutela del diritto che la parte intende fare valere in giudizio.
Una simile conclusione, del resto, ben si concilia con la realizzazione delle esigenze funzionali del processo, sui corollari applicativi delle quali ci si è soffermati nel corso di questo lavoro, che certamente spingono a «massimizzare la portata dell’intervento giurisprudenziale richiesto».
Tale risultato si consegue, infatti, dal punto di vista delle parti, consentendo la possibilità di apportare modifiche alla domanda, che permettano all’attore di proporre una domanda «più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio». La modificabilità della domanda – nei termini esposti in questa sede – comporta il vantaggio obiettivo, che si traduce nel risultato di «risolvere in maniera tendenzialmente definitiva i problemi che portano le parti dinanzi al giudice, evitando che esse tornino nuovamente in causa in relazione alla medesima vicenda sostanziale».
Del resto i valori funzionali del processo ai quali deve ispirarsi l’interpretazione della disciplina processuale non sono valori fini a sé stessi, nel senso che devono compenetrarsi con altri principi-cardine del processo, come quello del contraddittorio e di imparzialità dell’organo giudicante e, nel caso specifico, con il rispetto del principio della domanda, al fine di evitare che l’esito del processo sia interamente rimesso alla discrezionalità, ancorché tecnica, del giudice, che è soggetto terzo rispetto agli interessi concreti sottoposti al vaglio del processo.
Alla luce di
quanto esposto, si ritiene più conforme all’impostazione prescelta circa
l’individuazione dell’oggetto della domanda e a principi ai valori funzionali
del processo (e tenuto altresì conto del principio di uguaglianza delle parti),
la soluzione a favore dell’ammissibilità del rilievo officioso dei fatti
costitutivi secondari, cioè di quei fatti che non servono ad individuare il
diritto ma a precisare il contenuto della corrispondente pretesa.
Tale conclusione
mi pare che possa trovare conforto negli ampi poteri riconosciuti al giudice
con riferimento ai fatti estintivi, modificativi ed impeditivi [4],
come conferma anche l’orientamento recente della giurisprudenza in tema di
rilievo officioso delle nullità negoziali. A mio avviso, pertanto, il medesimo
potere va attribuito al giudice quanto ai fatti principali costituivi non
individuatori del diritto; in particolare ritengo che al giudice debba
permettersi, con riferimento alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto
introduttivo o comunque a questa collegata, di ricavare tutte le indicazioni
utili ad ordinare i fatti attraverso le norme ad essi applicabili secondo
una connessione interna che si realizza, consentendo al giudice – parafrasando
un’espressione di autorevole dottrina – di «andare» dai fatti verso la norma e
viceversa ai fini dell’individuazione
dell’oggetto della domanda[5].
Fermo restando che tale potere debba essere esercitato nei limiti segnati dal
rispetto del principio della domanda, non deve peraltro escludersi che il
giudice possa porre a fondamento della decisione fatti costitutivi differenti da quelli indicati dalle parti se
pertinenti alla realtà fattuale dedotta nel processo, salvo sempre il rispetto
del principio del contraddittorio ex art.
184 co. 4 e 101, co. 2°, c.p.c. [6].
Alla luce di queste
considerazioni, poiché a norma dell’art. 183 c.p.c. sono sempre ammesse le modificazioni della domanda,
è necessario individuare i criteri per valutare se la domanda diversa – in quanto modificata – proposta in
sede di udienza di trattazione possa essere intesa quale domanda iniziale
modificata ovvero quale domanda nuova.
Alla luce di quanto precede la domanda non può considerarsi nuova rispetto a quella originariamente proposta dall’attore, nel caso di modifica del fatto costitutivo della domanda avente ad oggetto un diritto autodeterminato. Con riferimento all’individuazione dell’ambito di tali diritti, sono pacificamente ricondotti in tale fattispecie i diritti assoluti a carattere non patrimoniale[7] e, secondo la dottrina maggioritaria, i diritti ad una prestazione specifica. Nelle ipotesi nelle quali la domanda ha per contenuto un’obbligazione specifica, infatti, muovendo dalla considerazione che la tutela del creditore nel processo non va intesa in funzione esclusivamente risarcitoria, ma – capovolgendo la prospettiva – deve garantire il diritto del creditore a un risultato corrispondente alla soddisfazione di un suo interesse, «l’unità o la pluralità dei diritti dipende dall’unità o pluralità dei risultati conseguibili e degli interessi correlati: sicché se uno ed uno solo è il risultato garantito dalla legge, unico pure è il suo diritto» [8]. Pertanto, a titolo di esempio, unicità si avrà se la domanda ha ad oggetto il diritto alla consegna di una cosa, a prescindere dal titolo generatore del diritto, al contrario di quanto accade con riferimento ai diritti di credito ad una prestazione generica, ove il fatto storico generatore del diritto rileva nella determinazione del diritto.
Con riferimento ai diritti eteroderminati si ritiene condivisibile l‘orientamento della giurisprudenza più recente, secondo il quale non concreta domanda nuova la decisione che riconosca la condanna al risarcimento di danni a titolo di responsabilità contrattuale quando la domanda si sia limitata a fare valere una responsabilità di tipo aquiliano. La ragione è da individuare nel fatto che «la domanda, con la quale si chiede il risarcimento dei danni provocati da un determinato fatto, è una ed unica seppure il medesimo fatto possa costituire illecito aquiliano e inadempimento contrattuale; è una sola, perché unico è comunque il diritto di credito che può esistere nel medesimo istante e tra le stesse parti”[9].
Analoga conclusione vale nel caso di concorso fra l’azione ex titulo e l’azione derivante dal rapporto causale sottostante, come si verifica per il concorso dell’azione cambiaria e l’azione causale[10].
Infine, con riferimento alle azioni costitutive, anche alla luce del recente orientamento della giurisprudenza, per il quale oggetto dei giudizi di impugnativa negoziale è sempre «il rapporto giuridico sostanziale» [11], risulta condivisibile la conclusione per la quale oggetto delle azioni costitutive non è il diritto potestativo alla modifica bensì il diritto che la parte vuole giudizialmente formato[12].
In questa prospettiva le ipotesi di maggior rilievo concernono «le
impugnative negoziali di annullamento, rescissione, risoluzione», che già di per
sé rappresentano un campo di indagine sufficientemente ampio. Per dirla con le
parole di autorevole dottrina «il quesito da porre è se la specifica tipologia
della (sentenza di) modificazione giuridico-sostanziale richiesta dall’attore –
ovvero il petitum nella sua qui
unitaria accezione – individui la domanda costitutiva di per sé sola, ossia
senza che occorra a quel fine considerare anche il titolo della modificazione
richiesta ed in particolare i singoli fatti che consentono all’attore di
chiederla»[13]. Da
questo punto di vista, facendo proprie le affermazioni espresse
dall’orientamento giurisprudenziale da ultimo richiamato, si ritiene che la
risposta sia da rinvenire nella nozione di oggetto del processo e del
giudicato, che deve essere in grado di ricondurre nell’orbita della regiudicata
il rapporto sostanziale nella sua complessità, non frazionabile o
disarticolabile in una pluralità di segmenti autonomi con la domanda
dell’attore. Posto che oggetto dei giudizi di
impugnativa negoziale è sempre «il rapporto
giuridico sostanziale»[14], premessa la rilevanza dei più volte invocati valori
funzionali del processo, si condivide l’orientamento della S.C. per cui, in
attuazione del principio di eguaglianza formale delle parti, in virtù del quale
è «deducibile tout court anche per
l’attore ciò che è sempre opponibile dal convenuto»[15],
deve ritenersi «di generale applicazione, il principio secondo il quale
l’autorità del giudicato, tendente ad impedire un bis in idem e un eventuale contrasto di pronunce, copre il dedotto
e il deducibile, vale a dire non solo le ragioni giuridiche dedotte in quel
giudizio, ma anche tutte le altre, proponibili in via di azione e di eccezione,
le quali, benché non dedotte specificamente, si caratterizzano per la loro
inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente fatte valere»[16].
Da ultimo, non si può trascurare di
sottolineare il richiamo alla «omogeneità funzionale e di disciplina tra tutte
le azioni di impugnativa negoziale» quale presupposto sul quale si basa –
secondo la S.C. – l’affermazione del principio per il quale la rilevabilità ex officio della nullità va estesa a
tutte le ipotesi di azioni di impugnativa negoziale, senza per ciò solo negarne
le diversità strutturali, che le distinguono sul piano sostanziale (e così, per
esempio, adempimento e risoluzione postulano l’esistenza di un atto
morfologicamente valido, di cui si discute soltanto quaod effecta, mentre rescissione e annullamento presuppongono
un’invalidità strutturale dell’atto, pur tuttavia temporaneamente efficace)[17].
Omogeneità funzionale delle azioni di impugnativa che è «una conseguenza
inevitabile”, una volta esclusa la fondatezza della tesi che considera oggetto
dell’azione di annullamento non già le situazioni soggettive contrattuali sorte
dal contratto, bensì il diritto potestativo di annullamento (sostanziale,
ovvero a necessario esercizio giudiziale)[18].
Pare, dunque, che se l’identificazione della domanda coincide con quella
del diritto che la parte vuole giudizialmente formato, non sia ravvisabile un
diverso effetto prodotto dall’annullamento per errore rispetto a quello per
violenza o dolo[19].
Inoltre, sempre tenendo presente, il
richiamo alla «omogeneità funzionale», dovrebbe darsi risposta affermativa al
quesito se, proposta una domanda di risoluzione, sia consentito all’attore
introdurre nello stesso processo quella di annullamento. In conclusione, gli
effett ìi dell’annullamento e della risoluzione, poiché consistono nella
mancata produzione degli effetti propri dell’atto annullato o risolto, possono
pertanto ritenersi di per sé identici, quale che sia la fattispecie normativa
dedotta dalla parte ed accolta nella sentenza[20].
Un altro profilo che merita di essere segnalato riguarda il rilievo d’ufficio della questione e potere di decisione su tale questione da parte del giudice.
Se la questione riguarda una questione mista di fatto e diritto, il giudice deve attivare il contraddittorio ai sensi degli artt. 101, co. 2 e 183, co. 4, c.p.c.[21]. Se non c’è domanda di parte il giudice, non potrà decidere tale questione con efficacia di giudicato, ma su quella questione si formerà preclusione extraprocessuale[22].
Con riferimento al vincolo dell’accertamento
negli altri processi, lo stesso sussiste «se, nel nuovo processo, si discuta di
un effetto giuridico non solo dipendente, ma indiscutibilmente legato per
ragioni di funzionalità sostanziale con l’effetto su cui si è già deciso»[23].
Tale conclusione riprende il nucleo fondamentale della nota teoria per la quale
– come efficacemente riassunto – in concreto, «la preclusione a discostarsi
dalla precedente valutazione del rapporto fondamentale opererà in presenza di
connessione corrispondente fra i due consecutivi processi, e così allorché si
deduca un effetto giuridico contrattuale legato da un nesso sinallagmatico
rispetto a quello già accertato (…)»[24].
Detto ciò, emerge anche dai recenti
orientamenti giurisprudenziali già ricordati che non sempre l’oggetto della
domanda e del giudicato coincidono, atteso che «oggetto del processo, oggetto
della domanda giudiziale e oggetto del giudicato risultano allora cerchi
sicuramente concentrici, ma le cui aree non appaiono sempre perfettamente
sovrapponibili»[25].
Questo perché il giudice – proprio in forza dei valori funzionali del processo,
in particolare tenuto conto del principio di speditezza, economia e celerità
delle decisioni – può emettere una pronuncia «fondata sulla ragione più liquida
del rigetto della domanda»[26].
Ciò significa che – muovendo dalla considerazione per cui l’ordine della
trattazione delle questioni va distinto dall’ordine di decisione delle stesse –
l’ordine con il quale il giudice esamina e decide le questioni preliminari di
merito in rapporto al medesimo petitum (inteso
come bene della vita) «deve essere stabilito caso per caso»[27].
Sotto questo profilo il criterio che deve indirizzare la scelta del giudice è
la «ricerca di un equilibrio tra la discrezionalità di scegliere e le questioni
da trattare anche in ragione della necessità o meno di istruttoria (e quindi in
funzione del principio di economia processuale che sostiene il c.d. canone
della ragione più liquida) e il principio dispositivo che permea di sé il
processo civile», con la conseguenza che «il giudice deve rigettare sic et simpliciter la domanda se la
ragione che fonda la decisione non esige alcuna attività istruttoria».
Da quanto finora osservato, si può constatare che le
esigenze di funzionalità hanno finito per pervadere le motivazioni delle
pronunce della Suprema Corte e superare – con maggiore o minore consapevolezza
– un’interpretazione basata su criteri formalistici.
In particolare, emerge sempre più
chiaramente che il processo assolve a un proprio autonomo ruolo, che implica
innanzitutto che non si possa riduttivamente individuarne l’oggetto nel diritto
sostanziale dedotto in giudizio. Il processo è sintesi dell’elemento
processuale e sostanziale, nel senso che attraverso il giudicato il risultato
processuale si trasferisce sul piano sostanziale. Ciò comporta che sulla realtà
sostanziale incidono anche le regole processuali. La diversa ampiezza degli
effetti del giudicato è determinata all’interno del processo, il quale, a sua
volta, si pone come strumento di attuazione del diritto in esso dedotto, tanto
che la definizione dell’oggetto del processo e del giudicato è segnata da norme
processuali (un esempio è la c.d. ragione più liquida) [28].
Funzione del processo è dunque attuare e garantire la tutela del diritto
sostanziale, ma – ma nel contempo – dell’ordinamento nel suo insieme. In questa
prospettiva può dirsi, appunto, che scopo primario è l’attuazione del diritto
sostanziale nel rispetto e nel perseguimento dei valori funzionali del processo[29].
Da quanto detto deriva che la nozione di
oggetto del processo non può essere unica, ossia di assoluta coincidenza fra
oggetto della domanda e contenuto della sentenza.
Si ricava da quanto finora illustrato che –
anche secondo la giurisprudenza in precedenza ricordata – «oggetto del
processo, oggetto della domanda giudiziale e oggetto del giudicato risultano
cerchi sicuramente concentrici, ma le cui aree non appaiono sempre
perfettamente sovrapponibili». In altri termini, l’oggetto del giudizio non può
essere determinato in modo statico, avendo riguardo unicamente all’oggetto
della domanda ovvero all’oggetto della sentenza, ma è necessario considerare
anche la finalità perseguita dalla tutela giudiziale esercitata dall’attore,
ossia i possibili effetti della sentenza. L’oggetto del processo, dunque, deve
tenere conto – unitamente al diritto dedotto – del potenziale oggetto del
giudicato, derivante dalla combinazione della pretesa dell’attore, dei fatti
posti a suo fondamento e della fattispecie legale applicabile, raggruppabili in
base alla funzione concretamente perseguita dalla tutela giudiziale esercitata
dall’attore.
Conclusione che riporta all’impostazione
teorica degli studi esaminati in questa sede, e in particolare all’intuizione
di Böhm, per il quale il giudicato va inteso come effetto processuale
determinante, nel senso che ha lo scopo di trasferire il risultato processuale
sul piano sostanziale.
Più precisamente, nel valutare l’oggetto del processo occorre guardare agli elementi di identificazione della domanda, da un lato attenendosi alla valutazione compiuta ex ante e, dall’altro, per quanto attiene alla determinazione del contenuto facendo capo all’ipotetica classificazione delle conseguenze giuridiche e al potenziale oggetto del giudicato, quindi sui possibili effetti della sentenza. In altri termini, occorre guardare – in ciò risulta attuale l’intuizione di Böhm – all’oggetto del processo non soltanto, staticamente, al momento della proposizione della domanda, ma attraverso una visione dinamica che guardi a ritroso, il possibile sviluppo del procedimento, dal possibile contenuto della sentenza all’oggetto della domanda.
In altre parole, nello scopo perseguito dalla tutela giudiziale esercitata dalla parte, id est nei possibili effetti della sentenza, si riflettono la finalità e dinamicità, quali elementi della struttura di merito insita nel processo[30].
Pertanto appare sempre più attuale la possibilità –
muovendo da questa nuova idea di oggetto del processo (centrata sui fatti e
l’omogeneità funzionale delle norme giuridiche applicabili alle situazioni
sostanziali affermate nella domanda) – di giungere anche ad una nozione di giudicato
comunitario, come del resto auspicato da quegli studiosi che avevano anticipato
già molti dei risultati cui perviene oggi la Corte di Giustizia[31].
[1] A titolo meramente esemplificativo, è sufficiente
richiamare l’ipotesi di litispendenza comunitaria fra la domanda di
accertamento negativo del diritto e la domanda successivamente proposta dal
medesimo convenuto, volta ad ottenere la condanna dell’attore del procedente
giudizio. In tale ipotesi la Corte ha più volte ribadito che al fine di prevenire una
potenziale incompatibilità delle decisioni pronunciate nei singoli Stati e,
quindi, per stabilire l’identità della pretesa, non sarebbe determinante la
formale identità delle domande, quanto, piuttosto, la coincidenza del Kernpunkt (fulcro) della controversia
giuridica; il tema è stato approfondito nella prima parte del lavoro alla quale
si fa pertanto rinvio.
[2] Si è in precedenza evidenziato che i singoli Stati
hanno a disposizione ulteriori meccanismi per evitare il rischio di
procedimenti paralleli e decisioni contrastanti; in punto cfr. quanto osservato
in precedenza (I parte) par.6, sub
d).
[3] Anche qui si
riportano le affermazioni della S.C. (Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n.
12310, cit.), secondo la quale «la possibilità di una modifica della domanda iniziale
anche con riguardo agli elementi identificativi oggettivi della stessa, non
espone al rischio di trasformare il processo in un “tram” da prendere al volo
caricandolo di tutte le possibili ed eventualmente eterogenee ragioni di lite
nei confronti di una determinata controparte, se si considera che, oltre a
rimanere ovviamente immutato rispetto alla domanda originaria l'elemento
identificativo soggettivo delle personae,
la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda
sostanziale dedotta in giudizio con l'atto introduttivo o comunque essere a
questa collegata, regola sicuramente ricavabile da tutte le indicazioni
contenute nel codice in relazione alle ipotesi di connessione a vario titolo,
ma soprattutto se si considera in particolare che, come sopra evidenziato, la
domanda modificata si presenta certamente connessa a quella originaria quanto
meno per “alternatività”, rappresentando quella che, a parere dell'attore,
costituisce la soluzione più adeguata ai propri interessi in relazione alla
vicenda sostanziale dedotta in lite».
[4] Il dato è
pacifico; in dottrina per un approfondimento del punto e anche per richiami
bibliografici, Merlin, Compensazione e processo, cit., p. 335
ss., nt. 244 e 245; da ultimo, in giurisprudenza, cfr. le recenti pronunce
della giurisprudenza in tema di rilievo officioso delle nullità negoziali,
sulle quali ci si è soffermati in precedenza nel primo capitolo alla nt. 220 e testo corrispondente.
[5] Il riferimento
è alla nota espressione di Engisch;
in punto, cfr. Cap. 1, nt. 198.
[6] Come nel caso
in precedenza citato della pronuncia del Tribunale di Napoli, alla nt. 253 e
testo corrispondente, che ha fondato la decisione su un fatto costitutivo non
dedotto dalle parti, ma – a mio avviso – rilevabile d’ufficio, in quanto
relativo ad un profilo di nullità del contratto o, più in generale, di corretta
applicazione della legge.
[7] In punto, cfr.
quanto osservato al Cap. 2, nt. 51.
[8] Cfr., Cerino Canova, op. cit., p. 183 ss.
[9] Cfr., Cerino Canova, op. cit. p. 204.
[10] In punto si
richiamano le osservazioni di Cerino
Canova, op. cit., p. 220 s. ( e si veda già al Cap. 2,
nt. 58 3 testo corrispondente).
[11] Menchini, Le
sezioni unite fanno chiarezza sull’oggetto di giudizi di impugnativa negoziale:
esso è rappresentato dal rapporto giuridico scaturito dal contratto, in Foro it., I, 2015, c. 941.
[12] Così Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., p. 146 ss.; Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile,
cit., p.,139 ss.; Consolo, Domanda giudiziale (dir. proc. civ.), cit.,
p. 82; per una differente
ricostruzione del sistema delle azioni di impugnativa negoziale, cfr. Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale, Milano, 1998, p. 266 ss.
[13] Così, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, 11a ed., Torino,
2017, p. 141 ss.
[14] Menchini, Le
sezioni unite fanno chiarezza sull’oggetto di giudizi di impugnativa negoziale:
esso è rappresentato dal rapporto giuridico scaturito dal contratto, cit.,
c. 941.
[15] Cass., sez.
un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 4.3.
[16] Cass., sez.
un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 5.2.3; in punto, cfr. Proto Pisani, Rilevabilità d’ufficio
della nullità contrattuale: una decisione storica delle sezioni unite, in Foro it., 2015, I, c. 944.
[17] Cass., Sez.
Un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 6.2. e 6.11. Inoltre, si precisa (punto
6.12) che «l’impugnativa negoziale trova, in definitiva, la sua comune Grundlage, e cioè il suo fondamento di
base, nell’assunto secondo cui, non
sussistendo ragioni di nullità, il giudice procede all’esame della domanda di
adempimento, esatto adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento,
scioglimento contratto ex art. 72 L.F., scioglimento del contratto per mutuo
dissenso».
[18] Cass., sez.
un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 6.8.2. e 6.9.4., ove si precisa che le
diverse disposizioni normative richiamate nella motivazione della sentenza
(artt. 1450, 1432, 1446, 1467 e 1450 c.c. e 1430 e ss c.c.), volte a dimostrare che non sussiste una radicale
distinzione – ai fini della rilevabilità d’ufficio della nullità negoziale –
fra le azioni di risoluzione e le azioni c.d. demolitorie del vincolo
contrattuale, «costituiscono un vero e proprio sottosistema normativo,
sicuramente omogeneo, la cui univoca ratio
consiste nel riconoscimento della facoltà di paralizzare l’impugnativa
negoziale della controparte che lamenti l’errore (essenziale e riconoscibile),
il raggiro (determinante del consenso), la violenza morale (ingiusta e
notevole), l’approfittamento dello stato di bisogno». Ciò in evidente sintonia
con quanto previsto in costanza di giudizio di risoluzione per inadempimento o
eccessiva onerosità sopravvenuta. Infine, precisa la S.C., se il potere di
paralizzare l’azione id annullamento o di rescissione attraverso l’offerta banco iudicis di una efficace reductio ad aequitatem del contratto è
destinato a stabilizzarne definitivamente l’effetto negoziale non prohibente iudice (o addirittura
nell’inerte silenzio del giudice!), la originaria nullità di quella convenzione
deve porsi, invece, in termini assolutamente impeditivi del perdurare di un
effetto mai nato, e come tale irrimediabilmente ostativo all’attuazione
dell’originario programma.
[19] In punto giova
sottolineare che secondo autorevole dottrina (Consolo,
Spiegazioni di diritto processuale civile,
I, p. 142), il titolo nelle azioni costitutive è dato nel suo complesso, se non
dall’insieme dei fatti che giustificano e rendono giudizialmente ottenibile
l’effetto di annullamento del contratto, da ciascun sottoinsieme
(giuridicamente) omogeneo di tali fatti: tutti quelli che integrano la
fattispecie astratta di dolo, dell’errore, della violenza, dell’incapacità.
[20] Sebbene vi sia
da osservare che la variazione della fattispecie può indurre a differenti
implicazioni che, però, non qualificano la tutela richiesta (in punto, cfr. Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, cit., p. 170, il quale
osserva che «alcuni motivi consentono alla controparte di evitare
l’eliminazione offrendo una congrua variazione della vicenda giuridica da
caducare»); per l’A. da ultimo citato il discorso può essere esteso anche alla
rescissione, seppure con le riserve suggerite “«all’ambigua natura» di tale
istituto. L’A. precisa inoltre che «l’impostazione adottata impone di considerare,
tra i molti problemi che restano aperti, un’ipotesi di frequente riscontro
nella pratica applicativa: la modificabilità della domanda di annullamento o di
risoluzione in quella di nullità e, altresì, la modificabilità della domanda di
costituzione del diritto in quella di accertamento del diritto stesso». La
soluzione alla quale perviene l’illustre autore non pare condivisibile. Secondo
l’A. «la diversità degli effetti si accompagna alla differenziazione della
norma concreta, poiché l’una è di modificazione giuridica e l’altra riconosce
direttamente una posizione di vantaggio rispetto ad un bene della vita.
Pertanto la trasformazione si svolge tra entità eterogenee e non dovrebbe
essere consentita». Anche se con la necessaria precisazione, che «il rilievo
d’ufficio della nullità e la valutazione della fattispecie costitutiva del
diritto impongono di tenere
conto delle deduzioni comunque avvenute nel processo, dunque anche di quelle
dell’attore. Ciò significa che il giudice dovrà respingere la domanda di
annullamento se comunque gli risulti la nullità e dovrà respingerla perché non
è consentito annullare quanto ab origine non
produce effetti».
[21] In punto, cfr. Chizzini,
Legitimation durch Verfahren. Il nuovo secondo
comma dell’art. 101 c.p.c., in Giust.
proc. civ., 2011, p. 43 ss., spec. p. 50, il quale, circa il rilievo delle
questioni di merito, osserva che la soluzione adottata dal legislatore è volta
«a conciliare la struttura dispositiva del processo, quale recepita dalla
tradizione a tutela dell’imparzialità del giudice, con l’esercizio dei poteri
giudiziali che si ricollegano nel nostro sistema costituzionale al primato
della legge» e «che gli impongono, pertanto il dovere di superare le eventuali
deduzioni di parte incompatibili con la legge». Da ciò consegue, secondo l’A.,
che il “giudice non è vincolato a muoversi nell’alveo tracciato dalle parti,
chiuso nella gabbia in cui questo lo astringono, ma, nel rispetto delle
deduzioni fattuali che si legano al divieto di scienza privata, potrà sviluppare
autonome prospettazioni tramite il corretto esercizio del contraddittorio, al
fine di giungere – secondo coscienza – ad una decisione della lite conforme
alla legge»; in senso più restrittivo, cfr. Verde,
Considerazioni inattuali sul giudicato e
poteri ufficiosi del giudice, in Riv.
dir. proc., 2017, p. 20, per il quale «non spetta al giudice stabilire i
termini della discussione su cui si andrà a formare l’effetto preclusivo». Con
specifico riferimento al giudicato si osserva che l’effetto preclusivo nei
confronti di ciò che non ha formato oggetto di discussione dipende dalla legge
sostanziale. Più precisamente, con riferimento al principio secondo il quale il
giudicato copre il dedotto e il deducibile, in relazione agli accertamenti che
costituiscono il presupposto indispensabile della pronuncia richiesta in via
principale, si rileva che in questi casi in gioco «è (o dovrebbe essere) un
unico rapporto o un’unica situazione giuridica, in quanto il presupposto è che
si tratti di fatti da introdurre necessariamente nel processo pendente non
essendo fatti dotati di efficacia autonoma, così che i fatti deducibili (ma non
dedotti) possono essere identificati più agevolmente in relazione alle
disposizioni di legge regolatrici del rapporto o della situazione»- La
necessità che le questioni siano fatte oggetto di contraddittorio, al fine di
consentire che su di esse si formi il giudicato, è uno dei motivi posti a
fondamento della critica alla teoria del giudicato implicito elaborata dalla
giurisprudenza (in particolare con riferimento alle pronunce della S.C. in tema
di impugnative negoziali, sulle quali ci si è in precedenza soffermati) da
parte di De Cristofaro, Giudicato e motivazione, cit., p. 30 ss.
[22] L’esempio è
quello richiamato dalla dottrina (Consolo,
Spiegazioni di diritto processuale civile,
I, p. 227 s.) e dalla giurisprudenza (Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n.
26242 e Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26243), relativo al rilievo da
parte del giudice dell’eccezione di nullità del contratto posto a base della
domanda dell’attore, in difetto di eccezione da parte del convenuto. In punto
si rileva (Consolo, op. ult. cit.) che il giudice può
fondare la sentenza sulla nullità, ma prima di valorizzarla deve suscitare il
contraddittorio fra le parti. In tal caso il giudice può rilevare la questione,
ma in difetto di domanda di parte – atteso che la nullità è una questione
pregiudiziale di merito che può essere decisa con efficacia di giudicato
soltanto su domanda di parte – il giudice non potrà pronunciare con efficacia
di giudicato, ma dovrà limitarsi, se convinto della nullità del contratto, a
dichiararla in motivazione (in questo senso, Consolo,
op. ult. cit. e le pronunce sopra
citate).
[23] Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 5.8.
[24] In punto, cfr. quanto osservato al Cap. 1, nt. 230.
[25] Cass., sez.
un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 4.3e punto 5.4.
[26] V., Cap. 1, nt. 227.
[27] Cfr., Cap. 1,
nt. 228; le espressioni riportate ne testo si leggono in Cass., sez., un., 12
dicembre 2014, n. 26242.
[28] In punto, oltre
a quanto osservato al Cap. 1, nt. 227 e testo corrispondente, si vedano le osservazioni di
chi (Proto Pisani, Oggetto del processo e oggetto del giudicato
nelle azioni contrattuali, in Foro it.,
2016, V, c. 328), ha sottolineato che «in forza di tale principio si può avere
uno scollamento tra oggetto del processo e oggetto del giudicato, oggetto del
giudicato che sarà relativo non più al rapporto sostanziale nel suo complesso,
ma solo alla “questione” dell’esistenza o no di un singolo fatto impeditivo».
[29] In punto è
stato sottolineato in dottrina (Chizzini,
Konvenzionalprozess e poteri delle parti,
in Riv. dir. proc., 2015, p. 52)
che se è assolutamente condivisibile il fatto che «il processo è, per l’avente
diritto, un mezzo predisposto dall’ordinamento giuridico per la realizzazione
del diritto», deve affermarsi con altrettanta certezza che «il diritto processuale civile non
esaurisce l’insieme delle norme giuridiche mediante le quali l’ordinamento
garantisce la tutela dei diritti, ma costituisce solo una parte di esse». Nella prospettiva del più ampio tema
relativo al potere dispositivo delle parti all’interno del processo, l’A. –
dopo avere individuato una serie di norme a conforto della sua conclusione – si
esprime in senso favorevole al riconoscimento di un «Konvenzionalprozess». Con più specifico riferimento al profilo che
in questa sede ci occupa – il rapporto
fra norme di diritto processuale e norme di sostanziale – l’A. precisa che «il
diritto processuale in senso stretto può restringersi al solo diritto riservato
all’attività giurisdizionale specificamente imperativa dello stato che agisce
con gli organi giurisdizionali, in quanto è un’attività questa alla quale certo
non bastano (…) gli strumenti del diritto civile comune e che appare il frutto
(storicamente determinato) di un insieme di peculiari concetti e istituti
giuridici di natura imperativa che si sono differenziati da quelli di diritto
privato e si sono sviluppati in un sistema proprio; nondimeno ciò non toglie
che esso, quel diritto processuale, solo concorra
ad ogni effetto con le norme del diritto privato, quindi con le disposizioni
del codice civile, al fine precipuo di dare concreta attuazione a quella strumentalità rispetto ai diritti che
costituisce il pilastro delle relazioni tra diritto sostanziale e diritto
processuale».
[30] In questo senso, Böhm,
Die Ausrichtung des Streitgegenstandes am
Rechtsschutzziel, cit., p. 123, secondo il quale la sua vista «auf die hypothetische Einordnung und den potentiellen
Rechtskraftgegenstand abstellt», e in
questo modo «kurz gesagt … gleichsam die Statik (dynamisiert), was ihr durch
die Ausrichtung des Streitgegenstandes am Rechtsschutzziel möglich wird». Con riferimento al
profilo della dinamicità del processo, cfr. Goldschmidt,
Der Prozess als Rechtslage: eine kritik
des prozessualen Denkens, Berlin, 1925, p. 227.
[31] In punto, più
di recente, cfr. Stamm, Zum Verzicht auf die Streitgegenstandslehre,
cit., p. 51 ss., il quale evidenzia che questo sembra essere il percorso
intrapreso dalla Corte di Giustizia, la quale – nella formulazione della c.d. Kernpunkttheorie – al fine di evitare decisioni
contraddittorie, non spinge verso un ripensamento del concetto di oggetto del
processo, quanto piuttosto verso l’ampliamento dell’orizzonte dei metodi di
soluzione. In altre parole, la via per l’armonizzazione del diritto processuale
nazionale ed europeo, passa attraverso la rinuncia alla teoria dell’oggetto del
processo, nel senso che l’oggetto del processo non costituisce più il comune
denominatore, ma esso è da individuarsi nelle conseguenze processuali
dell’identità di domande, della contradddittorità di giudicati e della
pregiudizilaità.