Si pubblicano, col consenso degli
Autori e dell’Editore, le Osservazioni conclusive (335-357)
del manuale: LEONID L. KOFANOV - OSVALDO SACCHI, IL
SISTEMA “ESTERNO” DEL DIRITTO ROMANO. Ius naturae ius gentium e diritto
commerciale nel pensiero giuridico antico, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, XVIII-387. ISBN
978-88-495-3561-7
Indice del
volume
Osvaldo Sacchi
Università della Campania
Luigi Vanvitelli
Osservazioni
conclusive
Sommario: 1. Il commercio come fattore
di progresso e la vocazione egemonica della moneta. – 2. Il diritto commerciale
come categoria autonoma e come fattore di mutamento storico. – 3. Notazioni etimologiche sul
concetto di oeconomia. – 4. La lex Rhodia: una lex
mercatoria per il mondo antico? – 5. Sull’idea di sistema
“esterno” del diritto romano.
La tragedia di Nietzsche che evolve a imbecille
anticipa l’esito della
felicità moderna e delle sue
mistiche; marxiste, o new age,
fa poca differenza.
Geminello
Alvi, L’anima e l’economia, 2005
Una tra le più celebri citazioni del Quoèlet – «niente di nuovo avviene sotto il sole» – sembrerebbe aver fatto il suo tempo[1]. L’invenzione dei computers, l’energia nucleare, la scoperta del DNA, gli smartphone, le foto degli anelli di Saturno, sono certamente qualcosa di nuovo accaduto sotto il sole. Non bisogna però farsi fuorviare troppo dall’euforia tecnologica. Anche se nel nostro tempo accadono cose mai viste prima, questa non è una novità per la storia dell’uomo e comunque non rende l’esperienza del passato inutile. Per buona parte delle cose che governano la nostra vita, il detto dell’Ecclesiaste è ancora valido.
La chiave di lettura forse più giusta per inquadrare questa ricerca dedicata al commercio, al mercato e alla storia delle regole che disciplinano ambedue i fenomeni, guardate dal punto di vista del diritto antico, è che questa è stata condotta secondo la prospettiva (convergente) di due diverse scuole di formazione: quella degli storici del diritto e del mondo antico russa e italiana. La rilevanza riscontrata in ordine a questi temi di concetti come il diritto di natura e il diritto delle genti è stata un’esperienza di ricerca molto interessante per entrambi perché - prendendo questi temi, per dir così, alle spalle – ci ha portato a riflettere, al di là dei troppo angusti concetti di nazione e di nazionalità, anche sul nostro tempo.
In un saggio pubblicato recentemente, Matt Ridley (un autorevole divulgatore scientifico americano)[2], ha sostenuto la seguente tesi: «L’intelligenza e il linguaggio, da soli, non sono sufficienti a spiegare l’esplosione di prosperità che ha preso il via in Africa circa duecentomila anni fa, perché non ci fu nessun grande cambiamento nelle dimensioni del cervello e le evidenze genetiche sembrano dimostrare che il linguaggio era già presente. Tecnologia e prosperità sono decollate quando i primi esseri umani hanno inventato l’abitudine allo scambio di beni e servizi. I grandi progressi sono stati provocati dal commercio»[3].
Niente di sorprendente se pensiamo all’idea evoluzionistica o di matrice illuministica di una tendenza naturale del genere umano al miglioramento. Già Nietzsche nella Genealogia della morale (1887) aveva indicato il comprare e vendere come la relazione che precede ogni altra possibile tra esseri umani: «Fissare i prezzi, misurare i valori, inventare equivalenze, scambi […] in un certo senso il pensare “è questo”: qui è stata allevata la forma più antica di intelligenza, qui si potrebbe supporre anche l’avvio primo dell’orgoglio umano, il suo sentimento di superiorità nei confronti degli altri animali»[4].
Idee come quella di un primato della ragione sulla violenza (razionalità) e il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (isonomia) anticipano di secoli lo stesso Illuminismo storico[5]. La razionalità e l’abitudine al calcolo razionale servirono ai primi mercanti per curare i propri interessi, mentre l’uguaglianza, allora come oggi, è stato il presupposto perché si realizzassero gli scambi commerciali. Una relazione formalmente e sostanzialmente tra pari è, oggi come allora, il primo e indispensabile requisito perché il rapporto commerciale possa funzionare bene[6]. Questa parità nel mondo antico veniva sancita con i trattati (foedera), ma si coltivava predisponendo regole (ius gentium, ius commercii, lex mercatoria?) che permettevano di gestire al meglio tali rapporti.
Lo sviluppo di un’economia mercatistica aiutò quindi senza dubbio gli individui a liberarsi dai vincoli di status che costituivano la struttura di società antiche, come anche quella greca e romana, nella loro fase storica più risalente. Nell’età classica ad Atene, così come in età arcaica e medio repubblicana a Roma, i rapporti basati sul commercio si posero infatti sin dall’inizio come alternativi alla rigidità degli schemi di società “bloccate” (embedded), sostanzialmente olistiche, perché di tipo aristocratico e, sin dalla primissima età storica, con scarse possibilità di mobilità sociale, sia interna che esterna.
Ecco perché, come è stato messo in evidenza nella parte introduttiva di questo libro, per valutare la natura e la rilevanza dei rapporti economici e l’incidenza di questi anche in una realtà sociale come Roma, si sarebbe dovuto considerare prima di tutto il debito e non lo scambio[7]. È quasi superfluo ricordare l’importanza che ebbero le crisi del debito per l’evoluzione della società romana repubblicana. Motivi di spazio non hanno tuttavia consentito di approfondire la questione.
Il tema della moneta viene subito dopo, perché questo strumento non fu inventato per favorire il commercio, ma per pagare gli eserciti. Le monete già nell’antichità servirono per combattere guerre finalizzate a fare bottino; queste portavano alla cattura di schiavi che, a loro volta, servivano per estrarre i metalli preziosi con cui le città-stato coniavano le loro monete. In tal modo cominciò ad alimentarsi un circolo, non certo virtuoso, che nella sostanza è rimasto più o meno invariato fino ad oggi[8].
In condizioni ottimali, un’economia di scambio, in un ambiente agricolo-pastorale con scarsa propensione verso l’esterno, non ha bisogno del denaro come unità di misura del valore. È sufficiente la circolazione di una moneta come promessa di pagamento e quindi come una sorta di denaro virtuale[9].
Lo schema dell’incorporazione dell’economia in situazioni di status, che fu tipica dei sistemi socio-economici delle poleis e delle civitates arcaiche, entrò però in crisi quando nuovi modelli provenienti d’oltremare (compravendita consensuale, moneta come misura del valore, come mezzo di scambio e come bene fruttifero, gli altri contratti iuris gentium) cominciarono a emergere.
Il celeberrimo SC Claudiano del 218 a.C. che inibì ai senatori, e ai figli di senatori l'esercizio delle imprese transmarine (si vietava ai senatori di possedere navi di portata superiore alle 300 anfore, ossia circa 8 tonnellate), così come l’esclusione dei senatori dagli appalti pubblici, sono stati certamente un segno del conservatorismo dell’aristocrazia romana del tempo[10], ma forse anche il sintomo di un cambiamento d’epoca. È stato detto, molto probabilmente fu anche la reazione di una classe che cominciava ad avvertire i primi segni di cedimento di un sistema che fino ad allora l’aveva vista protagonista[11]. Ragionando ex post, si potrebbe dire che queste nuove attività trasformarono la società romana e la sua economia in una sorta di sistema precapitalistico (qualcosa di simile, ma ovviamente di diverso dal capitalismo moderno) dove le forze economiche cessarono di trovare la loro ragione di essere solo in posizioni di status e gli uomini cominciarono a praticare anche attività economiche indipendenti da questo sistema (solo così “autonome” o “speciali”) e quindi più libere[12].
Si aprì dunque un lunghissimo periodo storico iniziato intorno al III secolo a.C., ma che durò per tutta l’età classica fino alla spaventosa crisi economica del III secolo d.C. Quando, il mondo di cui Roma diventò centro e punto di riferimento visse una rivoluzione sociale, economica e culturale, direi paragonabile per importanza, al passaggio dal medioevo all’epoca moderna. Basti pensare soltanto alla decadenza del diritto romano del tardo antico e all’avvento della religione cristiana.
Una questione (molto dibattuta tra gli studiosi) a cui in queste pagine non è stato possibile dedicare tutto lo spazio necessario, riguarda la considerazione del diritto commerciale romano come una categoria giuridica autonoma. Di recente la dottrina romanistica, non in disaccordo con specialisti del diritto positivo[13], sembra però aver decisamente cambiato la prospettiva di approccio a questo tema cominciando a considerare il “diritto commerciale” (incluso il contenuto della lex Rhodia) come categoria storica, abbandonando quindi il postulato della specialità di questo diritto inteso come una categoria ontologica a sé stante[14]. È infatti da condividere la cautela con cui Mario Bretone ha commentato la celebre proposizione di Levin Goldschmidt per cui il diritto commerciale sarebbe un ramo speciale dell’ordinamento giuridico[15]: «né nel mondo greco, né in quello romano […] si costituisce un diritto commerciale come un ramo autonomo dell’ordinamento»[16]. Questo però implica di dover considerare anche il nesso imprescindibile tra la dimensione storica del commercio e la politica[17].
L’idea che anche il diritto commerciale antico fosse una categoria “autonoma” rispetto allo ius civile va negata anche per un’altra ragione. Come è stato giustamente affermato, il diritto commerciale - quindi anche quello romano - non è un diritto speciale[18]. Se così fosse avremmo rilevato anche nel diritto romano un regolamento esclusivo dei rapporti commerciali, una prevalenza di questi e degli usi a questi connessi; avremmo riscontrato dei principi generali propri dei rapporti commerciali diversi da quelli di tipo non commerciale; avremmo constatato una tendenza a colmare le lacune del diritto commerciale con l’applicazione analogica di norme desunte soltanto da questa categoria di diritto; avremmo infine accertato una gerarchia delle fonti costruita sulla distinzione tra norme commerciali e norme civili[19].
Niente di tutto questo è emerso in queste pagine in termini così netti e dato che i Romani intesero le norme del diritto commerciale come norme del ius civile (Cic. de off. 3,69), si può parlare con sufficiente sicurezza di un’autonomia del diritto commerciale romano solo nel senso di una «descrizione separata delle norme attinenti a specifici rapporti»[20]; e, si potrebbe aggiungere, inquadrando ogni fattispecie nel suo momento storico (incluso quindi il contenuto della lex Rhodia) perché la pratica della mercatura internazionale, come detto, si affiancava a un sistema economico (embedded) in cui questa non era neanche contemplata. Poiché, inoltre, l’origine di tali rapporti (il tema è affrontato nel terzo capitolo) si rinviene nell’ambito del ius gentium, si può anche dire che un’altra caratteristica del diritto commerciale romano sia stata di essersi dimostrato un fattore decisivo per la determinazione delle dinamiche storiche[21].
In questo senso, la concezione del giurista sovietico Pašukanis che ha visto nel commercio un fattore di sviluppo per il diritto civile, appare condivisibile a condizione però che ci si intenda bene sul significato di queste parole[22]. Quando la politica economica che accompagna la pratica commerciale (anche se il controllo dei mezzi di produzione è di tipo statale e non lasciato solo ai privati come accadde per il controllo del mercato del grano che fu la principale forma di sostentamento alimentare per le società antiche) è fatta per l’interesse di pochi a discapito della collettività, il commercio diventa, nel medio e lungo periodo, sempre portatore di valori negativi. Anche l’economia sovietica, per dire, fu essa stessa un modello estremo di mercantilismo, perché l’ideologia di una prevalenza dello Stato e della guerra sull’economia, non impedirono alla Russia di Lenin di stringere accordi con i capitalisti tedeschi o americani[23]. La vita degli uomini, poi, non è mossa, né può esserlo, da leggi di sviluppo inventate a tavolino (ex post) e applicate meccanicamente. Per dirla con Dostoevskij «se ogni cosa cosa sulla Terra fosse razionale, non accadrebbe nulla»[24]. E, in ogni caso, anche il tentativo liberista (moderno e postmoderno) di ritornare al free trade (accelerato in modo esponenziale dopo la caduta del muro di Berlino), si può dire fallimentare perché oggi vediamo come quest’idea si sia trasformata nell’applicazione al mercato di una legge di sviluppo globale il cui principale effetto è stato di collocare il commercio internazionale in un campo di forza sottratto al controllo degli Stati democratici[25].
Sono dinamiche che ritornano. Il mercantilismo non è una teoria, ma un agire storico[26]. E i problemi che esso pone, mutatis mutandis, incisero nel mondo antico e in quello medievale; così come hanno inciso in quello moderno e oggi incidono su quello contemporaneo. Oggi si è passati dal timore (tipico della modernità) di un controllo ideologico (statale) dei mezzi di produzione, a una situazione di fatto (tipica della postmodernità) in cui il controllo reale dei prodotti e dei consumatori (non più cittadini) è nelle mani di enti non elettivi dislocati su scala globale che rifiutano qualsiasi controllo di tipo democratico[27].
Alla fine tutto si riduce sempre in un conflitto tra forze in contrasto. Il più forte che cerca di prevalere sul più debole e il commercio, in questo modo, smette di essere un fattore di progresso e diventa uno strumento di sopraffazione e di annientamento: delle persone, delle idee, delle istituzioni democratiche, dello stare in comunità. Si è detto di come il mondo greco-romano abbia vissuto il passaggio dal sistema della polis/civitas a quello dell’impero sovrannazionale e, sul piano dell’economia, la trasformazione da un sistema di mercato embedded e autoreferenziale a dinamiche commerciali “esterne” di tipo interstatale e - si dice così per non fare confusione col capitalismo moderno - di tipo precapitalistico. Le conseguenze di tutto ciò sono state straordinarie. Il “mercantilismo antico” (a partire da una certa epoca) interagì con un’idea di società che fu a lungo elaborata (dai filosofi ellenisti) e poi messa in pratica (dai giuristi romani) in regole giuridiche che di queste idee seppero tenere conto. Il risultato è stato, come abbiamo visto, l’elaborazione di schemi che ancora oggi costituiscono l’ossatura tecnica dei sistemi giuridici contemporanei. Solo in tal senso diremmo che il commercio abbia favorito lo sviluppo del diritto civile.
Ius naturae, ius gentium e regole del commercio, esercitarono una profonda influenza nella formazione degli ordinamenti giuridici antichi. Da elementi “esterni” riuscirono prima a convivere e poi a integrarsi con i sistemi delle singole poleis o civitates. Epifenomeni in tal senso, come si è messo in evidenza in queste pagine, furono per il mondo greco le corti anfizioniche e la lex Rhodia sul commercio internazionale marittimo; per il mondo romano, i collegi dei recuperatores e i rapporti obbligatori nascenti da consenso (emptio-venditio, locatio-conductio, societas e mandatum); per non dire del mutuo o del prestito di consumo. Queste fattispecie nacquero dalla pratica commerciale affermandosi in configurazione autonoma più o meno a cavallo del terzo secolo a.C., ossia da quando Roma, da realtà agro-pastorale, si aprì alle guerre di conquista e ai traffici mediterranei, conoscendo il latifondo, la schiavitù su larga scala, i commerci anche transmarini e, come detto, un’economia monetaria, non prima però del 338 a.C., con le prime coniazioni romano-campane delle zecche di Capua e Napoli.
L’indole predatoria insita nelle politiche mercantilistiche originatesi da matrici provenienti dall’oriente ellenizzato fu però temperata da correnti filosofiche come il pitagorismo e lo stoicismo ellenistico che, esercitando una profonda influenza anche a Roma, produssero l’effetto di contenere lo sviluppo di questa esperienza giuridica (a cui molto devono i sistemi giuridici moderni), mantenendola a un livello eticamente sostenibile.
Si può dire quindi, in tal senso, che regole “esterne” come il ius naturae, il ius gentium e il diritto commerciale abbiano costituito un fattore di sviluppo per il diritto civile. Esse contribuirono a migliorare la sensibilità giuridica degli uomini di fronte al pericolo che logiche di sopraffazione prevalessero sulla coscienza comune. L’aspetto interessante è che il conseguimento del profitto, come esito principale dell’attività imprenditoriale, trovava comunque un limite nel dover essere conforme a un utile (telos) qualificato da connotazioni valoriali (non quindi l’utilitarismo egoistico degli epicurei, ma qualcosa di assimilabile al “bello funzionale” dei Sofisti dell’Ippia maggiore di Platone e del Socrate di Senofonte[28]). Tutto ciò portò anche a una costante politica di controllo pubblico sul commercio dei beni di prima necessità (grano, olio, vino) di cui si trova traccia almeno fino all’epoca imperiale (il tema viene trattato nel sesto capitolo).
La morale che forse si può cogliere da tutto questo è che per il mercantilismo antico, così come per quello moderno, il vero problema è di trovare un modo efficace per esercitare un controllo istituzionale su chi gestisce le dinamiche commerciali per evitare che se ne faccia abuso come troppo spesso accade. Di fronte a questo, il dogma della libertà del mercato è solo una mistificazione. Ecco da dove può essere nata quindi, come abbiamo visto, sin dall’epoca più risalente, l’esigenza di opporre a tutto questo correnti di pensiero antagoniste. Il pitagorismo antico e lo stoicismo ellenistico svolsero sicuramente anche questa funzione, alimentando un dibattito che incise significativamente anche nella costruzione del diritto romano preclassico e classico, come si spera di aver evidenziato in questo lavoro.
Neanche la parola “economia” si risolve solo in funzione del calcolo mercantile. La sua esistenza è dovuta a ragioni precise che vanno cercate nella storia e nella filosofia antiche.
La definizione data da Rousseau nel V libro della grande Encyclopédie come oŒkoj = “casa” + nÒmoj = “legge”, infatti, non tiene conto più della nozione omerica di oἶkoj come “ospitalità generosa”: da nomÒj come sostantivo a indicare la “guida e il pascolo di un gregge” del pastore (nomeÚj) e nέmw come verbo per l’ospite generoso che dispensa cibo e bevande. Non fu un caso quindi se l’istituto romano dell’amicitia si sviluppò nel campo del diritto internazionale e anche del commercio marittimo. Il diritto di ospitalità, fin dai tempi più antichi, fu una delle applicazioni più concrete dell’istituto romano del fas, cioè di un diritto naturale che nel mondo antico ebbe uno statuto epistemologico suo proprio che sarebbe una forzatura assimilare tout court al giusnaturalismo moderno[29].
Ben più complessa è la genealogia del termine oeconomia. Nel mondo classico la terminologia legata a o„konom…a può essere riferita a tre ambiti semantici principali: a) un senso originario, suffragato dall’etimologia, di “cura delle cose domestiche” (oikos) o del patrimonio (domus) di cui espressione emblematica fu l’o„konomikÒj logÒj di Senofonte; b) un senso retorico indicante la disposizione più efficace del discorso secondo il suo scopo e la visione d’insieme che è un topos ermagoreo riferito da Quintiliano (inst. orat. 3.3.9); c) un senso derivato relativo al cosmo e alla natura (di cui vi è ancora traccia in Gregorio di Nissa col suo amore per le scienze naturali e per la medicina)[30]. A questo si deve aggiungere nel I secolo l’assunzione scritturistica paolina (Ef. 3.9) per cui o„konom…a passa a indicare la “rivelazione” e la “dispensazione” del mistero divino che si compie con l’Incarnazione[31].
Alla fine di questo percorso ancora in Gregorio di Nissa (IV secolo) si coglie la differenza tra “teologia” che indica Dio in sé, ossia la Trinità, e afferma la natura divina di Cristo; e “economia” che indica la natura umana di Cristo con la sua temporalità[32]. L’altro Cappadoce, Gregorio di Nazianzo, chiamò l’insieme di tecniche e procedure che caratterizzava il pastorato cristiano come oikonomia psychon, il cui significato è stato reso tuttavia in modo molto suggestivo da Foucault secondo l’espressione per cui non si possono governare le vite senza un’“economia delle anime”[33].
In questo modo si può dire che il concetto greco antico di oikonomia come habitat o, appunto, “economia delle anime” di ambito gentilizio e familiare, abbia subito nella storia una doppia trasposizione. La prima è opera della riflessione patristica che l’ha inquadrata sul piano sociale come una gestione della comunità dei cristiani. La seconda, e questo mi pare significativo, può ascriversi a quando, anche in ambito sociologico, questo principio è stato reinterpretato secondo una prospettiva, questa volta (e sottolineo questa volta) “laica”, per costruire una teoria moderna di comunità statale dove questo atteggiamento assume un valore determinante (Tönnies, Durkheim, Mauss).
Detto questo sarà utile tener presente anche un quarto modo di definire l’economia che si potrebbe dire una rielaborazione in chiave etico-filosofica (dunque politica) del concetto senofonteo. Si tratta del senso aristotelico (Pol. 1256a) di oikonomia non è quello di una chrēmatistikē technē (l’attività economica di chi mira solo al guadagno ed è per questo un’attività illimitata e quindi contro natura: Pol. 1257a); ma di una oikonomikē technē che è l’amministrazione domestica cui spetta di procurare i beni necessari per vivere (per sua natura limitata e quindi secondo “natura” per il principio pitagorico per cui il male è dell’infinito e il bene è ciò di cui è limitato: Eth. Nic. 1106b,28-30). Per questo gli antichi insegnavano che la “saggezza dell’artefice” avrebbe dovuto esprimere, come dice Aristotele, una “virtù architettonica”.
Anche la scienza politica, tra tutte le virtù, è definita dal filosofo come la più “architettonica” (Eth. Nic. 1094a,27). Il senso di tale definizione è spiegato nell’Etica Nicomachea dove la “saggezza” (phrònēsis praktikē) è qualificata come “architettonica” (architektonikè phrònēsis) in quanto virtù capace di contemplare insieme, nella pratica, il generale e il particolare (Eth. Nic. 1141b, 20-23). Lo Stagirita sottolinea che la saggezza riguarda l’individuo e lui solo (1141b,30), tuttavia, quando essa concerne aspetti particolari, si può chiamare economia, legislazione o politica (1141b,30)[34]. Aristotele non poteva certamente conoscere, al di là degli ™xhg»tej, la figura del giurista, ma l’ars dei giuristi romani potrebbe rientrare agevolmente nella categoria delle architektonikè technai. Sarebbe stato interessante approfondire anche questo tema, ma è un proposito da rimandare ad altra sede.
Nel corso di queste pagine si è cercato ovviamente di ricostruire un sufficiente quadro di riferimento della realtà commerciale antica (cronologicamente orientato al periodo storico che più o meno termina con la fine dell’età classica romana) soprattutto dal punto di vista tecnico-giuridico.
Così, nel primo capitolo, la diffusione in territorio italico del pensiero pitagorico è stato indagato anche in relazione alla questione della redazione delle XII tavole romane e su come questa corrente di pensiero può aver influenzato il racconto della tradizione sulla storia dei primi secoli di Roma, anche guardando a questioni di taglio più eminentemente giuridico, come i cd. trattati romano-cartaginesi.
Nel secondo capitolo, si è indagato su come il ius naturae e la natura loci (concetto analogo a quello di klímata greco) abbiano potuto influire nella costruzione della disciplina delle servitù prediali (D. 39.3.2 pr.); ma anche su come il ius naturae, come corrispondente aggiornato del concetto più antico di fas, abbia influito nella costruzione del diritto romano in generale e più in particolare per la configurazione della disciplina giuridica di animali e iura praediorum[35].
Il terzo capitolo, è stato dedicato al problema storiografico del ius gentium (come archetipo di un diritto internazionale), analizzato in rapporto al ius naturale, al ius civile, ma anche al regime giuridico delle corti internazionali dei recuperatores romani assimilabile a quello delle corti anfizioniche greche.
Nel quarto e nel sesto capitolo, si è approfondito il tema della lex Rhodia come assetto normativo generale delle norme di diritto commerciale marittimo, per delineare un quadro di ricostruzione attendibile anche sull’origine dei cd. contratti consensuali romani su cui potrebbero aver influito, insieme ad altro, anche l’esperienza del commercio marittimo del grano (di connotazione pubblicistica e interstatale) e l’affermazione del concetto di consensus (esaminato anche in relazione al topos greco della sympatheia)[36].
Nel quinto, inoltre, la questione dell’influenza del pensiero stoico sul diritto romano è stata indagata anche in relazione al problema di come i filosofi stoici (Panezio e Posidonio, Antipatro di Tarso) possono aver infuito nella costruzione da parte dei giuristi romani (la scuola dei Mucii e quella serviana) di una nuova etica negoziale e di alcuni degli archetipi concettuali più significativi del cd. ius civile novum[37].
Si potrebbe dire, sintetizzando, che i giuristi romani operarono una sorta di messa in pratica dell’architektonikē technē teorizzata dalla filosofia greca applicata alla vita di tutti i giorni. La domanda da porre adesso è tuttavia un’altra: tutto ciò è sufficiente per parlare anche per il mondo antico di una lex mercatoria? Premesso che ogni tipo di generalizzazione espone sempre al rischio, più o meno consapevole, di ricostruzioni pregiudiziali, il fatto è che se si può parlare di un diritto commerciale «solo in rapporto a società nelle quali abbia vigore uno specifico corpo di norme, avente l’esclusiva funzione di regolare l’attività commerciale»[38], si può parlare anche dell’esistenza di un diritto commerciale anche a Roma, anche se, come detto sopra, in un senso non “speciale”[39]. Non risponde al vero, infatti, la tesi che «un distinto diritto commerciale, diverso dal diritto che regola i rapporti non commerciali, fa la propria comparsa solo nel Medioevo e, secondo la data generalmente accolta, il dodicesimo secolo»[40].
Molto semplificando, anche se si può dire che il ius gentium dei popoli mediterranei (col requisito dell’universalità) e il ius honorarium romano (col requisito dell’elasticità), come spazi di operatività di un diritto commerciale interstatale, non costituissero un diritto davvero speciale rispetto al ius civile, lo stesso non si può dire per la lex Rhodia (almeno per quanto riguarda il diritto commerciale marittimo), di cui si è cercato di ricostruire la fisionomia in base alle poche fonti disponibili. Su tutte, le leges frumentarie più antiche, il Prologo del Nomos Rodion Nautikos (VII secolo) e il libro 53 dei Basilici (IX secolo). Almeno per il diritto commerciale marittimo e la lex Rhodia si potrebbe dire che tali assetti normativi abbiano costituito l’archetipo di una lex mercatoria antica, riconosciuta e applicata anche dagli imperatori romani, fino almeno al declinare del diritto romano classico.
In estrema sintesi i seguenti elementi sono apparsi incontestabili:
a) il dato letterale: mercatura e mercatores esistevano in età antica, svolgevano attività commerciale e seguivano regole che non erano solo quelle del ius civile romano. Come detto, pur se in un contesto decisamente volto a enfatizzare l’attività dell’agricoltore, Catone, considerò il mercator (anche se esposto ai pericoli e a rischio di gravi danni) coraggioso e pieno di zelo nella ricerca del guadagno[41]. Cicerone, discusse sul comportamento etico dei mercatores (criticando il piccolo commercio), ma valorizzò quello su grande scala tra cui incluse anche il commercio marittimo[42];
b) non è vero quanto afferma Heichelheim che il commercio - come l’artigianato - era a Roma solo “al servizio del latifondo”, “connesso alla proprietà fondiaria” e non metteva capo a una classe capace di esercitare un autonomo ruolo politico[43]. Già dal IV secolo a.C., come si è dimostrato, il romano Appio Claudio sentì – anche se in un quadro riformista di respiro molto più ampio - senza dubbio le pressioni di un nuovo ceto di commercianti e banchieri formatosi nella Roma dell’epoca. Classi emergenti come quella degli equites diedero un contributo notevole all’espansione dei commerci e all’evoluzione della società romana riuscendo a incidere anche sulle scelte politiche;
c) i rapporti obbligatori nascenti da emptio-venditio, locatio-conductio, societas e mandatum rientrano coerentemente in un quadro ricostruttivo storico-giuridico che sarebbe difficile contestare: «sono tutti contratti del ius gentium in due sensi, cioè applicabili anche agli stranieri (peregrini) e derivanti da traffici commerciali e da matrici provenienti dall’oriente ellenizzato»[44]. Ancora «Il mutuo, o prestito di consumo, nasce dalla pratica commerciale con una configurazione autonoma in età non anteriore al terzo secolo a.C.: infatti tra il terzo e il secondo secolo a.C. la lex Silia, come sappiamo, introdusse la legis actio per condictionem per il prestito di certa pecunia (somme di danaro determinate) e poco dopo la lex Calpurnia la estese alle certae res (condictio triticiaria, da triticum = frumento, perché, a parte il danaro, da epoca antica questo era l’oggetto più frequente di mutuo)»[45]. Infine «Il depositum, per la sua funzione, si collega storicamente alla fiducia cum amico, anzi ne segna il superamento, essendo inammissibile in una società mercantile il trasferimento della proprietà per la custodia di una cosa»[46]. Ci sarebbe da dire poi sui nomina arcaria di Gaio (quod genus obligationis iuris gentium est)[47], i chirographa e i syngrapha[48], ma ogni ulteriore approfondimento su questi temi dev’essere rinviato ad altra sede.
Insomma, se come ha giustamente affermato Francesco Galgano, in origine, il ius mercatorum o lex mercatoria, è tale «non solo perché regola l’attività dei mercatores, ma anche e soprattutto perché è diritto creato dai mercatores, che nasce dagli statuti delle corporazioni mercantili, dalla consuetudine mercantile, dalla giurisprudenza della curia dei mercanti. È ius mercatorum, direttamente creato dalla classe mercantile, senza mediazione della società politica, imposto a tutti nel nome di una classe, non già nel nome dell’intera comunità»[49], mutatis mutandis, negare che condizioni analoghe siano esistite anche nel mondo antico significherebbe far torto all’evidenza storica.
Nel corso di questa ricerca è emerso anche il problema di inquadrare le nozioni di ius naturale e di ius gentium (il “diritto delle genti”) rispetto alla pratica del ius commercii. Tali esperienze sembrano infatti essersi formate “esternamente” rispetto agli ordinamenti giuridici delle singole poleis o civitates su cui esercitarono la loro influenza (di qui l’uso dell’aggettivo usato nel titolo). Si è trattato però, come si spera di aver chiarito, di una relazione “esterna” più apparente che reale. Come detto, l’incidenza di tali presidi concettuali, anche come veicoli di valori, è stata fondamentale anzitutto per formare una coscienza giuridica atta a evitare che le leggi del mercato e quelle dei singoli Stati potessero superare per tutti la soglia di un livello etico sostenibile.
La lezione che forse si può trarre da questa storia è che questo patrimonio
culturale sia stato non solo di primaria importanza per temperare gli assetti
giuridici di cui gli uomini non possono fare a meno, ma anche che questa
esperienza può rappresentare un punto di riferimento sicuro perché non venga
smarrita la via più giusta da percorrere nelle relazioni tra i popoli[50]. La storia recente e la
rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo dimostrano che l’idea di una società
(lo Stato nazionale) ripiegata in se stessa, autoreferenziale e chiusa verso
l’esterno è semplicemente insensata. Cicerone,
a proposito di iustitia, ha
sottolineato che «non sussiste affatto giustizia, ove essa non sussista per
natura; e quella che si costituisce a scopo di utilità, dall’utilità appunto
essa viene completamente sradicata»[51]. Il fondamento del
diritto (anche quello dei popoli) era per il retore nella tendenza naturale
delle persone a intrattenere relazioni amichevoli[52]. Egli stesso, come si è
visto, prendendo anche spunto dall’esperienza del commercio internazionale, ha
dimostrato che la “vera” utilità non può mai ottenersi senza “onestà” (dignitas) e “buona fede” (fides). Grazie anche all’amicizia
politica e commerciale consolidatasi tra Romani e Rodiesi durante i secoli
III-I a.C., alla filosofia ellenistica e al determinante contributo della
giurisprudenza romana nella “sistemazione” delle regole del ius gentium, si poterono consolidare
quindi istituti come quelli dei contratti reali e consensuali, il cui obiettivo
principale fu di stabilire delle regole che disciplinassero la formazione
dell’accordo tra le parti (consensus)
che salvaguardasse anche valori come fiducia e onestà. Del resto, considerare
avulsi dalla ratio di contratti
(gratuiti) come il commodatum, il mandatum o la societas, motivi come il rafforzamento anche dei rapporti di amicizia
tra genti estranee o di diversa etnia, appare una prospettiva senz’altro
riduttiva[53].
Un’ipostasi di tale principio è come noto in D. 50.17.188.1 (Cels. 17 digest.): Quae rerum natura prohibentur, nulla lege
confirmata sunt.
Anche per i giuristi romani, il mos e l’etica della legge naturale, furono quindi dei fattori inseparabili sia dal diritto internazionale che da quello delle singole civitates o poleis, costituendo il fondamento di ogni diritto e di ogni giustizia. Si sta parlando di qualcosa che giuristi, legislatori e giudici, soprattutto contemporanei, non dovrebbero mai dimenticare.
Prima di chiudere, qualche precisazione anche sulla parola “sistema” usata nel titolo (e in modo vario nel corso di questo lavoro). A parte un breve rimando nella parte introduttiva, si è scelto di non appesantire l’esposizione discutendo su un altro tema che è stato molto dibattuto dalla dottrina romanistica[54]. Insomma per il diritto che fu elaborato dalla giurisprudenza romana è corretto usare il termine “sistema”?
La questione è strettamente connessa con quella della nozione stessa di “sistema” che potevano avere gli antichi nei periodi storici considerati. Tutto è legato all’interpretazione del termine ars e del suo omologo greco technē[55]. Si può pensare che la definizione celsina di ius come ars boni et aequi presupponesse sullo sfondo quest’idea o è meglio restare prudentemente attestati su quella di “esperienza giuridica”?
Molto dipende anche qui da come ci si pone di fronte a questo problema. Il diritto romano, come i diritti antichi, possono essere raccontati infatti sia in chiave storico-sistematica che sistematico-storica. Nel primo caso si seguirebbe Hegel: «Riguardo [...] all’autorità di uno Stato reale, nella misura in cui se ne ricercano i fondamenti, questi ultimi sono presi dalle forme in esso vigente»[56]. Nel secondo si seguirebbe il Vico che, a sua volta, con il suo verum quia factum fece sua la lezione di Cicerone che, come è noto, definì programmaticamente per l’oratore la Storia come vita memoriae, magistra vitae e anche lux veritatis[57].
Il giudizio di prognosi postuma – secondo la migliore scienza ed esperienza delle fonti – va formulato ovviamente ex ante, ma la Storia va studiata come mera fenomenologia avulsa dalla conoscenza scientifica (Hegel) o come lux veritatis? È vexata quaestio. Forse nella Storia troviamo entrambe le cose.
In ogni caso appare inaggirabile il dato storico-linguistico per cui gli Stoici definirono la parola technē come systema e inoltre che la parola ars non poteva tradursi semplicemente come un sinonimo di technē al modo aristotelico[58]. La scelta di inserire la parola “sistema” nel titolo e il suo uso in queste pagine presuppongono quindi questa consapevolezza[59].
Allargando la prospettiva, si può concludere allora ribadendo l’importanza che le leggi da cui debba scaturire il diritto (anche commerciale, anche internazionale) siano sorrette da una solida consapevolezza scientifica (sterile se incapace di tener conto anche dei valori umani) e non soltanto da interessi meramente politici o economici che mirino solo a favorire il più forte. La politica e la scienza, per loro natura, tendono spesso a contrapporsi, ma l’esperienza storica dimostra che le fondamenta del diritto dell’Occidente (con cui ci misuriamo ancora) sono scaturite grazie al felice incontro tra filosofi greci e giuristi romani, ossia tra la scienza ellenistica e la scienza giuridica romana, che a questa non fu affatto estranea.
Un incontro tra interessi scientifici e interessi politici quindi è non solo possibile, ma può portare ancora a eccellenti risultati. Movimenti di pensiero come il pitagorismo o lo stoicismo ellenistico (sebbene quest’ultimo temperato dallo scetticismo neoaccademico), piuttosto che astruserie filosofiche, furono delle risposte a momenti della storia in cui il disequilibrio tra giusto profitto e capitalismo predatorio dovette superare, lo ripetiamo ancora una volta, un accettabile livello di tollerabilità.
[1] Eccl. 1,9-11: «niente di nuovo avviene sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco, questa è nuova”? Proprio questa è stata già fatta nei secoli prima di noi. Non c’è più ricordo delle cose passate, come non ci sarà delle cose avvenire presso coloro che dopo vivranno». Trad. it. di F. Nardoni da I Libri della Bibbia. Qohèlet o Ecclesiaste, Torino, 2000, 4.
[2] S. Triulzi, Contrordine. Siamo ottimisti, Intervista a Matt Ridley, da “la Repubblica” del 15 agosto 2013, p. 47.
[3] M. Ridley, Un ottimista razionale. Come evolve la prosperità, Torino, 2013, 418.
[4] F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, 18a ed., Milano, 1984, II:8. Citato da Graeber, Debito cit., 77.
[5] V. sul tema anche G. Tremonti, La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla, Milano, 2008, 8-9.
[6] Graeber, Debito cit., 106, ma v. anche Cic. de inv. 2.162.
[7] Graeber, Debito cit., 27-45.
[8] Ivi, 232.
[9] Ivi, 27-45.
[10] Liv. 21.63.3-4; Dio Cass. 55.10.5. De Martino, Storia economica di Roma antica cit., 1: 125 ss.
[11] L’attenzione delle classi più elevate alle manifestazioni di status come potevano essere il monumento fuori terra e il ius imaginum nell'ideologia funeraria, o la stessa industria delle origini, resistettero a lungo, come espressioni di un desiderio di conservazione del sistema antico, fino all’età augustea e oltre. Non è un caso se i maggiori speculatori finanziari dell'epoca, cioè i publicani, si cominciassero a reclutare nelle fila degli equites, una classe sociale di cui facevano parte anche i giuristi, una categoria che era stata tenuta finora ai margini della gestione della res publica, anche se alla fine diventò la componente sociale che si rese artefice delle maggiori innovazioni dell’epoca.
[12] Molto incisiva la descrizione istituzionale della repubblica romana di Christian Meier nella traduzione di Edoardo Tortarolo [Cesare. Impotenza e onnipotenza di un dittatore. Tre profili biografici =Die Ohnmacht des allmächtigen Dictators Caesar. Drei biographische Skizzen, Torino, 1995, 31]: «La repubblica era uno Stato nobiliare modificato in modo particolare. Il suo ordine non era precisamente una costituzione. Il nostro concetto di costituzione ci porta in questo caso fuori strada. C'era piuttosto un ordine sociale con alcuni organi politici e tutta una serie di regole, esempi, procedure istituzionalizzate e meccanismi consolidati, insieme ad alcune leggi che stabilizzavano e organizzavano la vita politica e sociale in modo da principio più rigido, in seguito più blando. Non è assolutamente possibile, anche da un punto di vista teorico, distinguere l'ordine politico da quello sociale, perchè, a differenza della storia greca e di quella dell'età moderna, non si è mai verificata a Roma una distinzione dell'ordine politico da quello sociale, vale a dire non si è creato un ordine politico concorrenziale rispetto a quello sociale. Di conseguenza ogni forma di pensiero e di vita era profondamente inserita nell'ordine esistente. Era una realtà densa, solida, senza alternativa. Il sapere romano non prevedeva praticamente una possibilità che andasse oltre la realtà».
[13] T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa, Milano, 1962, 87 e 124; G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976, 83; F. Galgano, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale, rist., Bologna, 2001, 29 ss. e passim.
[14] Si vd. per questo D’Orta, Dalla
morfogenesi alla struttura del diritto commerciale cit., III: 1594, che
richiama A. Di Porto, Impresa collettiva e chiavo manager (II sec.
a.C.-II sec. d.C.), Milano, 1984; Id.,
Il diritto commerciale romano. Una «zona
d’ombra» nella storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative
dei commercialisti, in Nozione,
formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze
moderne. Ricerche dedicate al prof. F.Gallo, Napoli, 1997, III: 413 ss.; Labruna, Il diritto mercantile dei Romani e l’espansionismo cit., 115 ss.
Ora Cerami, Petrucci, Diritto commerciale romano. Profilo storico cit., 3-337.
[15] Goldschmidt,
Storia universale del diritto commerciale
cit., 12.
[16] Bretone,
Storia del diritto romano cit., 127.
[17] D’Orta, Dalla morfogenesi alla struttura del diritto commerciale cit., II: 1596. Spunti interesanti in Chiusi, Diritto commerciale romano?, in Fides, Humanitas, Ius cit., II: 1025-1041; Solidoro, Annotazioni sullo studio storico del diritto commerciale cit., 6-23.
[18] Così Chiusi, Diritto commerciale romano? cit., II: 1029 in base a G. Ferri, Diritto commerciale, 9a ed., Torino, 1993, 6 ss.
[19] Chiusi, Diritto commerciale romano? cit., II: 1029.
[20] Ivi, II: 1030. Questa prospettiva è utile per inquadrare storicamente le regole dei rapporti di tipo commerciale a Roma in un contesto di “autonomia sostanziale relativa” che si configura come la risultante di un innesto delle norme del ius gentium nel contesto del ius civile secondo la nota prospettiva indicata da Cicerone in de off. 3,69 per cui i maiores avrebbero distinto tra ius civile e ius gentium considerando che, se il ius civile non poteva identificarsi con il ius gentium, il ius gentium doveva essere considerato altrettanto civile (Itaque maiores aliud ius gentium, aliud ius civile esse voluerunt, quod civile, non idem continuo gentium, quod autem gentium, idem civile esse debet). Per l’impostazione del problema storico del diritto commerciale romano secondo i due modelli della “autonomia formale”/“autonomia sostanziale” v. Solidoro, Annotazioni sullo studio storico cit., 19.
[21] Tarello, Storia della cultura giuridica moderna cit., 83; D’Orta, Dalla morfogenesi cit., II: 1597.
[22] E.B. Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, Bari, 1975, 55, citato da D’Orta, Dalla morfogenesi cit., II: 1596.
[23] G. Alvi, L'anima e l'economia, Milano, 2005, 25. Quanto all'Unione Sovietica, in epoca staliniana la sua economia pare che si reggesse su un gigantesco sistema di sfruttamento di manodopera in condizione di quasi schiavitù, costituita da un numero impressionante di dissidenti politici. Si v. per questo K. Stajner, 7000 giorni in Siberia, Napoli, Pironti, 1985.
[24] Traggo da J.D. Barrow, Teorie del tutto. La ricerca della spiegazione ultima, 3a ed., Milano, 2003, 273.
[25] G. Tremonti, Rischi fatali. L’Europa vecchia, la Cina, il mercatismo suicida: come reagire, Milano, 2005, 29.
[26] Alvi, L'anima e l'economia cit., 18-30.
[27] Tremonti, Rischi fatali cit., 34.
[28] Xenoph. mem.
3.8.4: «Se, dunque, una cosa ben si adatta a un fine, rispetto a questo è bella
e buona, brutta e cattiva in caso contrario». Cfr. Bodei, Le forme del
bello cit., 46 da cui è tratta anche la traduzione italiana.
[29] Sul ius
hospitii v. Verg. Aen. 3.55;
Serv. ad Aen. 3.55: fas omne et cognationis, et iuris hospitii;
Serv. ad Aen. 4.438: Fas obstat
iura naturae. Per un commento e una
rassegna storiografica sul fas
arcaico cfr. Sini, Bellum nefandum cit., 83-141. Mi permetto di
rinviare su questo tema a O. Sacchi, Dal ver sacrum
a Lampedusa: qualche riflessione sull'uomo migrante come fenomeno «sistemico»
in chiave economica e storico-giuridica, in S. D'Acunto, A. De Siano, V.
Nuzzo (a cura di), In cammino tra
aspettative e diritti. Fenomenologia dei flussi migratori e condizione
giuridica dello straniero, Napoli, 2017, 101-104.
[30] Rivio per questo a G. Maspero, sv. Oikonomia, in L.F. Mateo-Seco, G. Maspero (a cura di), Gregorio di Nissa, Dizionario, Roma, 2007, 418-423.
[31] L’Incarnazione del Verbo (Logos) divino costituisce il compimento di tutta la storia e così si riconnettono il disegno di Dio Padre e gli eventi della vita di Cristo. Con Ireneo si assiste alla cristianizzazione del concetto di o„konom…a che in ambito patristico si struttura mediante una fusione tra lo schema neoplatonico dell’exitus-reditus (l’uomo creato che ritorna al suo creatore) e l’influsso della terminologia retorico-narrativa. I singoli eventi dell’Antico e del Nuovo Testamento vengono descritti come tappe di un unico movimento pedagogico realizzato dal Padre nella storia, mediante il Figlio. Questa la ragione per cui troviamo in Clemente e Origene lo spettro semantico di o„konom…a che si sovrappone a paide…a e a prÒnoia. V. ancora Maspero, sv. Oikonomia cit., 419.
[32] Ibidem.
[33] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, 2005, 143.
[34] V. già in Sacchi, Dal
ver sacrum a Lampedusa cit., 102-104.
[35] Su cui si v. retro.
[36] Per le questioni di origine v. con bibl. Cascione, Consensus cit., 215-303.
[37] Ancora su questo si rinvia a Cascione, Consensus cit., 399-484.
[38] Così Galgano, Lex mercatoria cit., 22.
[39] Per l'inquadramento della questione v. Galgano, Lex mercatoria cit., 22-25.
[40] Per tutti Galgano, Lex mercatoria cit., 23.
[41] Cato de agri c. praef. 3.
[42] Cic. de off. 1,151.
[43] Heichelheim, Storia economica del mondo antico cit., IV: 978 ss.; Galgano, Lex mercatoria cit., 24.
[44] Franciosi, Corso istituzionale di diritto romano cit., 372.
[45] Ivi, 360.
[46] Ivi, 361.
[47] Gai. 3.132. Ivi, 371.
[48] Gai. 3.134. Ivi, 371-372.
[49] Galgano, Lex mercatoria cit., 9.
[50] W. Waldstein, Scritto nel cuore. Il diritto naturale come fondamento di una società umana, Torino, 2014, 13.
[51] Cic. de
leg. 1.15.42. Trad. it. di L. Ferrero, con revisione di N. Zorzetti, in M.
Tullio Cicerone, Opere politiche e
filosofiche. I. Lo Stato, Le leggi, I doveri, 2a ed., Torino, 1953, 447.
[52] Cic. de
leg. 1.15.43: natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamentum iuris
est.
[53] Sulla rilevanza di un interesse non materiale in
tali contratti v. le argute riflessioni di P. Zannini, Amicizia,
beneficio e abuso del diritto: spigolando tra diverse tipologie negoziali, in Ius
Antiquum – Drevnee pravo, 1 (31),
Mosca, 2015, 130-139.
[54] Imprescindibile ora su questo tema con adeguato
supporto bibliografico Cascione, Consensus cit., 400 ss. e passim.
[55] Cfr. per questo V. Scarano Ussani, Tra scientia e ars. Il sapere giuridico romano dalla sapienza alla
scienza nei giudizi di Cicerone e Pomponio, in Ostraka, II.2, 1993, 211-230; Id.,
L’ars dei giuristi cit., 113, 120 e passim; B. Albanese, L’ars iuris
civilis nel pensiero di Cicerone, in AUPA,
XLVII, 2002, 23-45. Da ultimo mi sia permesso di rinviare anche a O. Sacchi, La "Grande bellezza" del diritto romano: l'ars boni et aequi
di Ulpiano e la prospettiva estetica del diritto, in G. Limone (a cura di),
Ars boni et aequi. Il diritto fra
scienza, arte, equità e tecnica. L'Era
di Antigone 9. Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche "J.Monnet" dell'Università degli Studi
della Campania "Luigi Vanvitelli", Milano, 2016, 65-94, spec. 75-82, 90-92.
[56] G.V.F. Hegel,
Lineamenti di filosofia del diritto,
Milano, 1998, 419: «Le
questioni intorno alla genesi storica dello Stato. Ora,
però, non concernono affatto l’Idea dello Stato le seguenti questioni: quale
sia o sia stata l’origine storica dello Stato in generale, o piuttosto di ogni
Stato particolare, dei suoi diritti e delle sue determinazioni; se lo Stato sia
sorto inizialmente da rapporti patriarcali, da paura o da fiducia, dalla
corporazione ecc.; in che modo, nella coscienza, il fondamento di tali diritti
abbia colto e stabilito se stesso come diritto divino o positivo, oppure come
contratto, consuetudine, ecc. Nella prospettiva della conoscenza scientifica,
su cui unicamente verte qui la discussione, tali questioni sono di ordine
storico, nel senso che si riferiscono ad aspetti meramente fenomenici». Per un inquadramento del dibatti moderno sul
valore e il significato della indagine storica v. M. Bloch, Apologia della
storia o mestiere di storico (1949), Torino, 1969, 23-166 e passim.
[57] Cic. de orat. 2.9.36: historia
vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia
vetustatis, qua voce alia nisi oratoris immortalitati commendatur? È
interessante a questo riguardo una curiosa testimonianza di Giamblico per cui
Pitagora avrebbe chiamato la geometria historia.
Cfr. Iambl. de vita Pyth. 18.89. Nel
passo in questione la tradizione attesta che la divulgazione della dottrina
pitagorica sarebbe stata indotta da motivi economici (ridotto alla misera un
seguace di Pitagora sarebbe stato costretto a divulgare la dottrina del maestro
per ricavare denaro dall'esercizio della medesima). Sempre a proposito dei
seguaci di Pitagora la tradizione distingue tra allievi acusmatici (ossia gli interni o coloro che avevano il privilegio di
vedere il maestro) e matematici
(ossia gli esterni che non avevano questo privilegio). I secondi, in seguito a
uno scisma che si fa risalire ad Aristotele, come riflesso di un contrasto
insorto nel V secolo, a partire da Ippaso interpretarono la dottrina di
Pitagora in chiave più razionalizzante e scientifica. Così Giangiulio cit.,
217, nt. 1. A queste due categorie di pitagorici Giamblico (ibidem) aggiunge poi i politici, gli
amministratori e i giudici.
[58] SVF I 73[2] (= Lucianus
Paras. c. 4 = Radice 38-39): «technē è un sistema [sýstema] di
percezioni fondate, esercitate tutte congiuntamente in vista di un fine utile
fra quelli che si riferiscono alla vita»; SVF I 73[5] (= Sext. Emp. adv. math. 2.10 = Radice 38-39): «Ecco
la definizione stoica di technē: technē è un sistema, inerente all’anima, di comprensioni che con l’esercizio
concorrono insieme ad un fine utile per la vita».
[59]
Seguo pertanto l’esatta definizione dell’ars
iuris dei giuristi romani come una techne
“scientificamente organizzata” proposta di recente dalla studiosa napoletana Masi Doria, Linee per una storia della ‘verita’ I cit., 9.