Ugo Villani
Presidente della
Società italiana di Diritto internazionale
e di Diritto
dell’Unione Europea
LA FUNZIONE CONSULTIVA DELLA
CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA*
Sommario: 1.
Caratteri della competenza consultiva
della Corte internazionale di giustizia.
– 2. L’oggetto del
parere consultivo. – 3. La richiesta del parere da parte dell’Assemblea
generale. – 4. L’oggetto della richiesta del parere
risultante dall’art. 7 della l. 25 luglio 2000 n. 209. – 5. Gli
effetti del parere consultivo. – 6. Segue: il
suo contributo allo sviluppo del diritto internazionale. – Abstract.
L’auspicata attuazione dell’impegno, assunto dal
Governo italiano nell’art. 7 della l. 25 luglio 2000 n. 209, di proporre,
nell’ambito delle istituzioni internazionali competenti, l’avvio
delle procedure necessarie per la richiesta di parere alla Corte internazionale
di giustizia sulla coerenza tra le regole internazionali che disciplinano il
debito estero dei Paesi in via di sviluppo e il quadro dei principi generali
del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli induce a compiere una
riflessione sulla procedura relativa alla richiesta di tale parere e sugli
effetti che esso, ove emanato, potrà produrre.
In proposito va ricordato, anzitutto, che la Corte
internazionale di giustizia, il principale organo giurisdizionale delle Nazioni
Unite (art. 92 della Carta delle Nazioni Unite), è fornita di una
duplice competenza, una contenziosa, l’altra consultiva. La prima[1]
è esercitata mediante sentenze, giuridicamente obbligatorie per le parti
in causa, con le quali la Corte risolve le controversie giuridiche che gli
Stati parti (e non altri soggetti né organi di diritto internazionale)
le sottopongano, o che si siano impegnati a sottoporle in base a trattati o
convenzioni, o che siano oggetto di dichiarazioni unilaterali con le quali
riconoscano come obbligatoria la giurisdizione della Corte stessa nei rapporti
con qualsiasi altro Stato che accetti la medesima obbligazione (art. 36 dello
Statuto della Corte). Al contrario, la competenza consultiva[2]
si esprime mediante pareri, giuridicamente non obbligatori, che siano richiesti
alla Corte su qualunque questione giuridica dall’Assemblea generale o dal
Consiglio di sicurezza. Anche gli altri organi delle Nazioni Unite e gli
istituti specializzati, che siano autorizzati dall’Assemblea generale,
hanno la facoltà di chiedere alla Corte pareri su questioni giuridiche
che sorgano nell’ambito della loro attività (art. 96 della Carta).
A tale disposizione fa riscontro l’art. 65 dello Statuto della Corte, il
quale dichiara che la Corte può dare un parere consultivo su qualsiasi
questione giuridica a richiesta di qualsiasi organo o ente a ciò
autorizzato ai sensi della Carta (par. 1) e prescrive le modalità di
presentazione della richiesta (par. 2).
Una competenza consultiva era stata conferita già dal
Patto della Società delle Nazioni alla Corte permanente di giustizia
internazionale; esso, all’art. 14, prevedeva che la Corte avrebbe potuto
esprimere un parere consultivo su qualunque controversia o questione
sottopostale dal Consiglio o dall’Assemblea. Il riferimento a
«qualunque controversia» mostrava che la procedura consultiva
era diretta (anche) a promuovere la soluzione delle controversie, così
affiancandosi alla procedura contenziosa – destinata a concludersi con
una sentenza vincolante – ma collocandosi in una posizione supplementare
e, in qualche misura, alternativa a quella contenziosa[3].
La procedura consultiva forniva, cioè, uno strumento più soft, in specie per l’ipotesi in
cui le parti della controversia non fossero disponibili a sottoporla alla
competenza contenziosa della Corte e, in definitiva, non volessero ricevere
dalla stessa Corte una sentenza obbligatoria e risolutiva della controversia.
La Carta delle Nazioni Unite e lo Statuto della Corte
internazionale di giustizia operano, invece, una netta distinzione tra la
competenza contenziosa, concernente le sole controversie tra Stati, e quella
consultiva, limitata a qualunque «questione giuridica», senza
più alcun riferimento alle controversie. La formulazione più
restrittiva rispetto all’art. 14 del Patto, risultante dagli articoli 96
della Carta e 65 dello Statuto, è confermata dalla precisazione che
l’oggetto del parere richiesto deve essere una questione
«giuridica».
Va sottolineato, peraltro, che la competenza consultiva della
Corte internazionale di giustizia è destinata a svolgere una duplice
funzione: da un lato, di ausilio all’esercizio delle competenze
dell’organo che abbia richiesto il parere; dall’altro, una funzione
di natura «giudiziaria», poiché anche il parere è
volto ad accertare e dichiarare il diritto, rispetto alla questione giuridica
sottoposta alla Corte. Sotto questo secondo profilo la competenza consultiva
non si differenzia da quella contenziosa (se non, ovviamente, per l’esito
non obbligatorio del procedimento); la stretta contiguità tra i due tipi
di competenza trova conferma nella tendenziale applicazione delle disposizioni
dello Statuto in materia contenziosa anche alla procedura consultiva (art. 68
dello Statuto)[4].
L’oggetto della richiesta del parere consultivo è
costituito – come si è accennato – da una questione
giuridica. Riguardo a tale natura della questione è da ritenere che, in
principio, essa riguardi il diritto internazionale, cioè
l’accertamento della esistenza, del contenuto, della interpretazione di
una norma di diritto internazionale, di una disposizione dello statuto di
un’organizzazione internazionale (a cominciare dalla Carta delle Nazioni
Unite), di un atto di un’organizzazione internazionale. Tuttavia nulla
vieta di chiedere alla Corte un parere su una questione di diritto interno,
come già accaduto in passato, per esempio, per verificare la
compatibilità di certi decreti-legge di Danzica con la Costituzione
della Città libera[5].
Tale precisazione presenta particolare interesse ai fini della richiesta di un
parere consultivo alla Corte in merito alle regole che disciplinano il debito
estero dei Paesi in via di sviluppo: il parere, previsto nella l. n. 209 del
2000 con riguardo alle regole internazionali, potrebbe essere esteso
all’esame della compatibilità delle leggi statali in materia di
debito estero con i principi generali del diritto e i diritti dell’uomo e
dei popoli.
Quanto alla «questione», essa consiste in un
problema, un dubbio, una divergenza ed è nozione sufficientemente ampia
da comprendere sia un problema astratto che un caso concreto, comportante anche
un’indagine su fatti, su eventi storici e persino legata a una
controversia internazionale tra Stati[6].
Il legame tra la questione sottoposta alla Corte in via consultiva e una
controversia internazionale in atto, peraltro, può indurre la stessa
Corte ad astenersi dall’emanare il parere per eccezionali ragioni di
opportunità[7].
Va ricordato, infatti, che – come la stessa Corte ha cura di affermare
– essa non ha un dovere, ma un potere discrezionale di dare il parere
consultivo, che potrebbe astenersi dall’emanare in presenza di ragioni
pressanti[8].
Affinché la questione sia deferita alla Corte
dall’Assemblea generale o dal Consiglio di sicurezza non è
necessario che essa ricada nella loro rispettiva competenza (a differenza degli
altri organi delle Nazioni Unite o degli istituti specializzati); peraltro, se
si tiene presente che la competenza dell’Assemblea generale si estende a
qualsiasi questione o argomento che rientri nell’ambito della Carta o che
abbia riferimento ai poteri e alle funzioni di qualunque organo previsto dalla
Carta (art. 10), è ben difficile ipotizzare una questione che sia
estranea a tale competenza. In punto di fatto, inoltre, proprio in
considerazione della vasta competenza dell’Assemblea generale e della sua
composizione pressoché universale, poiché essa comprende tutti i
Membri dell’Organizzazione (art. 9, par. 1, della Carta), non pare dubbio
che sia essa l’organo che possa essere più sensibile alla
problematica della regolamentazione del debito estero e, dunque, che
nell’Assemblea generale vada promossa l’iniziativa di chiedere il
parere alla Corte.
Si noti, ancora, che la richiesta di un parere da parte
dell’Assemblea generale o del Consiglio di sicurezza non è
subordinata neppure alla circostanza che la questione, o il caso concreto,
siano attualmente oggetto di esame in tali organi[9].
Limitandoci a considerare l’ipotesi più realistica,
di iniziativa presentata nell’Assemblea generale[10],
può apparire problematica la definizione della procedura di votazione da
applicare alla proposta di richiesta del parere consultivo. Ai sensi
dell’art. 18, par. 3, della Carta, infatti, la regola generale è
data dalla decisione presa a maggioranza dei Membri presenti e votanti, tra i
quali ultimi l’art. 86 del Regolamento interno dell’Assemblea
generale non comprende gli astenuti (il che, abbassando il quorum dei presenti
e votanti, rende più agevole il raggiungimento della maggioranza). Il
par. 2 dello stesso art. 18 stabilisce poi che le decisioni
dell’Assemblea generale su questioni importanti sono prese a maggioranza
di due terzi dei Membri presenti e votanti e dà un elenco di tali
questioni, nel quale non figura la richiesta di pareri consultivi alla Corte.
Peraltro l’Assemblea, a maggioranza dei Membri presenti e votanti,
può determinare categorie addizionali di questioni da decidersi a
maggioranza dei due terzi (art. 18, par. 3).
Con una prassi, non esente da fondate critiche in dottrina[11],
l’Assemblea generale – oltre a prevedere, in base a tale norma, categorie di questioni da considerare
importanti ai fini della votazione a maggioranza di due terzi – ha deciso
talvolta, rispetto a specifici casi concreti, che la delibera richiedesse tale
maggioranza qualificata. Ciò è accaduto anche rispetto a una
proposta di chiedere un parere consultivo alla Corte (mentre in un altro caso
fu ritenuta sufficiente, ai fini dell’approvazione della richiesta, la
maggioranza semplice)[12].
Non può escludersi, quindi, l’eventualità che una
maggioranza semplice dei Membri presenti e votanti riesca a subordinare la
richiesta di parere consultivo alla maggioranza qualificata di due terzi. Una
siffatta eventualità – verso la quale resterebbero ferme le
obiezioni giuridiche legate all’uso di un procedimento, volto ad
aggiungere «categorie» generali e astratte, rispetto, invece, a
casi concreti – potrebbe essere il frutto di una ostilità alla
richiesta del parere, che si esprimerebbe nella sottoposizione a una regola
più severa di votazione e, quindi, a una maggiore difficoltà di
raggiungere la necessaria maggioranza.
L’art. 65, par. 2, dello Statuto dispone che la questione
sulla quale si richiede il parere consultivo deve essere presentata alla Corte
a mezzo di istanza scritta contenente una formulazione precisa della questione
sulla quale è richiesto il parere e accompagnata da tutti i documenti
utili per illustrarla. Malgrado l’importanza della formulazione della
richiesta – che, come si è detto, deve essere
«precisa» («containing
an exact statement of the question», «qui formule, en termes précis, la question») –
la Corte mostra di sentirsi libera di riformularla, di chiarirne il
significato, se espressa in maniera vaga, di modificarla, addirittura,
ampliandone l’oggetto[13].
L’art. 7 della l. n. 209 del 2000, come si è
ricordato, prevede che il richiesto parere valuti la coerenza tra le regole
internazionali che disciplinano il debito estero dei Paesi in via di sviluppo e
il quadro dei principi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei
popoli. L’oggetto del parere, le «regole internazionali che disciplinano
il debito estero», se riferito – come sembra a prima vista –
alle regole del diritto internazionale è idoneo a comprendere accordi
internazionali in materia, eventuali norme consuetudinarie, atti di
organizzazioni internazionali. Esso, però, finisce per escludere quel
variegato e indistinto complesso di intese, contratti, prassi che coinvolgono,
quali creditori, non Stati o enti internazionali, ma soggetti privati e altri
enti finanziari, che si sottraggono alle regole del diritto internazionale e
operano, invero, al di fuori di ogni regolamentazione, anche e soprattutto
statale, come lo Shadow Banking System.
La richiesta di parere consultivo, per risultare davvero utile, dovrebbe
ampliarsi al quadro generale della disciplina e della gestione del debito
estero.
Anche il giudizio di «coerenza» tra le suddette
regole e il quadro dei principi generali del diritto e dei diritti
dell’uomo e dei popoli dovrebbe essere reinterpretato. Coerenza, infatti,
significa conformità, o almeno compatibilità, tra i due termini
di paragone. In questo senso sarebbe ben possibile constatare una
difformità o una incompatibilità tra norme appartenenti ai due
gruppi di regole – quelle sul debito estero e quelle risultanti dai
principi generali e dai diritti dell’uomo e dei popoli –, ma solo
se le seconde avessero un rango superiore alle prime queste potrebbero
considerarsi invalide o inapplicabili. In caso contrario il giudizio di
difformità o di incompatibilità non avrebbe conseguenze
giuridiche, poiché le norme, pur incompatibili, resterebbero tutte
valide e, presumibilmente, continuerebbero ad applicarsi nel rispettivo ambito
materiale.
Ci sembra, peraltro, che l’obiettivo del parere non debba
essere la mera individuazione di norme eventualmente incompatibili, ma una valutazione
giuridica che conduca a definire quali, tra di esse, debbano applicarsi. In
altri termini, l’obiettivo, e la stessa utilità, del parere
richiede un giudizio sulla legalità internazionale del regime
concernente il debito estero (comprensivo – come si è detto
– anche della normativa non avente origine internazionale). Notiamo,
anzitutto, che l’espressione «principi generali del diritto»
presenta un significato non univoco. Se essa si identifica con «i
principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili»,
menzionati dall’art. 38, par. 1, lett. c) dello Statuto della Corte tra le fonti di diritto
internazionale, che la Corte stessa applica per decidere le controversie che le
sono sottoposte, secondo l’opinione più convincente tali principi
sono utilizzabili solo in assenza di accordi o di norme consuetudinarie,
richiamati dalla stessa disposizione, rispettivamente alla lett. a) e alla lett. b)[14].
Malgrado la rilevanza che alcuni di essi potrebbero avere nella materia in
esame, quale il principio del favor
debitoris, e il valore interpretativo di altre norme che specie
quest’ultimo principio può avere, non è agevole, quindi,
riconoscere una loro idoneità a operare quale parametro di
legalità internazionale di accordi o altre fonti internazionali relative
al debito estero.
Il riferimento può avere una sua rilevanza e un ben
più ampio respiro se è inteso, invece, come equivalente a norme
internazionali generali. Queste si identificano con il diritto internazionale
consuetudinario, nel quale ben possono rinvenirsi norme rilevanti per il tema
del debito estero. Si pensi, per esempio, alla norma che stabilisce
l’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri per gli atti iure imperii, quelli emanati,
cioè, nell’esercizio della loro funzione sovrana. Con riferimento
ai bonds dell’Argentina la
Corte di cassazione italiana ha riconosciuto tale immunità riguardo ai
provvedimenti di moratoria e di ristrutturazione del debito, considerati di
natura pubblicistica poiché diretti a tutelare la sopravvivenza economica
della popolazione argentina[15].
Va sottolineato, tuttavia, che le norme consuetudinarie, sebbene di
applicazione generale, non si collocano in un rango superiore agli accordi
internazionali, per cui sono derogabili da questi ultimi (così come da
eventuali atti di organizzazioni internazionali) ove prevedano una disciplina
da esse divergente.
Il richiamo delle norme generali assume un rilievo determinante
se riferito alla categoria delle norme imperative del diritto internazionale
generale costituenti lo ius cogens.
Anche tali norme sono di natura consuetudinaria, ma, a differenza delle altre
– che potremmo chiamare «semplici» –, sono inderogabili
a opera di qualsiasi accordo internazionale e possono essere modificate solo da
una nuova norma imperativa[16].
Sotto il primo profilo, un accordo internazionale che al momento della sua
conclusione sia in contrasto con una norma siffatta è nullo; sotto il
secondo, la norma di ius cogens
impedisce la nascita di norme consuetudinarie «semplici» che siano
con essa incompatibili e ne determina l’abrogazione, ove già
esistenti. In altri termini, lo ius
cogens si colloca al vertice dell’ordinamento giuridico
internazionale in un rango gerarchicamente sovraordinato sia agli accordi che
al diritto consuetudinario («semplice»).
È da rilevare che l’individuazione delle norme
imperative di diritto internazionale richiede un’indagine
sull’atteggiamento della comunità internazionale nel suo complesso
in un determinato momento storico per accertare che essa accetti e riconosca una
data norma come inderogabile. Nel contesto della regolamentazione del debito
estero potrebbero venire in rilievo, ove qualificabili come imperative, le
norme che riconoscono il diritto di autodeterminazione dei popoli e, anzitutto,
il loro diritto all’esistenza (in quanto costituiti in Stati), il diritto
allo sviluppo, il diritto umano alla vita.
Particolarmente appropriato, nell’art. 7 della l. n. 209
del 2000, è sicuramente il riferimento ai diritti dell’uomo e dei
popoli[17].
Sono tali diritti, infatti, che il regime del debito estero è più
suscettibile di pregiudicare. Si tratta di diritti individuali, a cominciare,
come si è già detto, dal diritto «primordiale» alla
vita, riconosciuto da tutti gli atti internazionali sui diritti
dell’uomo, come la Dichiarazione universale del 10 dicembre 1948 (art.
3), il Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 16 dicembre
1966 (art. 6), la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 4
novembre 1950 (art. 2), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 (art. 2).
Particolarmente sensibili all’indebitamento dello Stato sono poi i
diritti economici, sociali e culturali, ai quali è interamente dedicato
l’omonimo Patto delle Nazioni Unite del 16 dicembre 1966; si tratta,
infatti, di diritti, quali il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale, alla
protezione della famiglia, all’alimentazione, al vestiario,
all’alloggio, alla salute, all’istruzione, il cui
soddisfacimento richiede un costante impegno, anche finanziario, delle
autorità statali, che può essere reso irrealizzabile a causa del
peso del debito estero. Ma si tratta anche di diritti «collettivi»,
principalmente del ricordato diritto allo sviluppo[18],
riconosciuto, a livello regionale, dall’art. 22 della Carta di Banjul sui
diritti dell’uomo e dei popoli del 28 giugno 1981 e, a livello
universale, dalla Dichiarazione sul diritto allo sviluppo adottata
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 41/128
del 4 dicembre 1986. L’art. 1 di tale Dichiarazione definisce il diritto
allo sviluppo come un diritto umano inalienabile in virtù del quale ogni
essere umano e tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e di contribuire
a uno sviluppo economico, sociale, culturale e politico nel quale tutti i
diritti umani e tutte le libertà fondamentali possano essere pienamente
realizzati e di beneficiare di questo sviluppo.
Gli accordi internazionali di natura sia
«universale» che «regionale» relativi ai diritti
dell’uomo, quali che siano i loro rapporti formali con altri accordi
internazionali o fonti di diverso genere, stabiliscono essi stessi se, e a
quali condizioni, i diritti in essi contemplati possano essere soggetti a
deroga o il loro esercizio possa essere limitato. Ciò può
risultare utile per accertare se impegni comunque assunti da uno Stato,
relativi al pagamento del proprio debito estero, possano giustificare una
restrizione al riconoscimento dei diritti contenuti in un dato accordo o se, al
contrario, il godimento di tali diritti (o, almeno, di alcuni di essi) debba
essere sempre garantito, così prevalendo, in definitiva,
sull’applicazione di norme sul debito estero pregiudizievoli per gli
stessi diritti.
Si tenga presente, infine, che solitamente gli accordi sui diritti
umani istituiscono dei procedimenti e degli organi, talora di natura
giudiziaria (come la Corte europea dei diritti dell’uomo), volti a
verificare l’effettivo rispetto dei diritti in essi riconosciuti. Ai fini
della emanazione di un parere da parte della Corte internazionale di giustizia
la «giurisprudenza» di tali organi di controllo può offrire
alla stessa Corte materiale utile per la ricostruzione della normativa relativa
all’oggetto del parere.
Come la stessa Corte internazionale di giustizia ha avuto cura
di affermare[19],
il parere consultivo non ha alcuna efficacia giuridica obbligatoria, anzitutto
nei confronti degli Stati membri delle Nazioni Unite: solo la decisione emanata
nel processo contenzioso è obbligatoria, e solo per le parti in lite e
riguardo al caso deciso (art. 59 dello Statuto). Al di fuori di tali limiti
soggettivi e oggettivi anch’essa è priva di autorità
obbligatoria. Ancor più va esclusa un’efficacia obbligatoria del
parere nei confronti degli Stati parti di un’eventuale controversia alla
quale si riferisca. Bisogna rammentare, infatti, che la stessa competenza
contenziosa della Corte – che si esercita mediante sentenze obbligatorie
– ha un fondamento volontaristico, poiché è subordinata al
fatto che la controversia oggetto di tale competenza sia stata deferita alla
Corte dalle parti, o rientri tra quelle previste da trattati o convenzioni in
vigore tra le parti (o dalla Carta delle Nazioni Unite), o da una dichiarazione
con la quale uno Stato abbia riconosciuto la competenza della Corte nei
rapporti con qualsiasi Stato che abbia accettato la medesima obbligazione (art.
36 dello Statuto). Nel caso della competenza consultiva non sussiste alcuna
accettazione di competenza della Corte ad opera delle parti
dell’eventuale controversia, rispetto alla quale, pertanto, non è
ipotizzabile alcun potere decisionale della stessa Corte.
Né l’obbligatorietà del parere consultivo
potrebbe desumersi dalla funzione giurisdizionale, di accertamento del diritto,
della quale il parere è espressione. È bensì vero che tale
funzione può esprimersi in un parere della Corte come in una sentenza, e
che persino la struttura dei due atti è pressoché sovrapponibile[20].
Essi restano tuttavia diversi proprio per l’obbligatorietà
dell’accertamento, che caratterizza, nei limiti già indicati, la
sola sentenza emanata dalla Corte nell’esercizio della sua competenza
contenziosa.
Il parere, coerentemente con il suo carattere
«consultivo», non produce effetti vincolanti neppure per
l’organo (o l’organizzazione) che lo ha richiesto. Tuttavia deve
riconoscersi un obbligo di presa in considerazione del parere da parte di tale
organo, derivante da un obbligo generale di cooperazione tra gli organi delle
Nazioni Unite[21].
Per l’Assemblea generale può notarsi, inoltre, una prassi quasi
costante di risoluzioni con le quali essa raccomanda di seguire il parere, o
comunque vi aderisce, anche se in termini più o meno forti o cauti a
seconda dei casi[22].
Ciò, peraltro, non conferisce forza vincolante al parere, in quanto la
stessa Assemblea generale ha un’ampia competenza di natura esortativa,
che esercita mediante raccomandazioni, mentre è priva di alcun potere
«decisionale» di carattere obbligatorio.
Può forse riconoscersi anche che la condotta degli Stati
che si conformino al parere debba considerarsi lecita[23].
Si pensi, per fare qualche esempio, agli Stati che abbiano operato in
conformità con il diritto di autodeterminazione riconosciuto alla
Namibia, nel parere del 21 giugno 1971 [24],
o alla Palestina, in quello del 9 luglio 2004 [25].
Il parere espresso dalla Corte può giustificare, a nostro avviso, un
affidamento degli Stati nella posizione assunta dal principale organo
giudiziario delle Nazioni Unite e, quindi, la presunzione che la loro condotta
conforme sia lecita. Beninteso, si tratterebbe solo di una presunzione prima facie, che potrebbe essere,
cioè, smentita da un successivo accertamento provvisto di efficacia
obbligatoria della situazione giuridica o della norma in questione. Non
potrebbe, invece, definitivamente qualificarsi come lecita una condotta
conforme al parere della Corte, perché, se così fosse,
l’accertamento in esso contenuto finirebbe per avere un valore definitivo
e vincolante, che, come si è detto, va escluso.
Malgrado l’assenza di efficacia obbligatoria, i pareri
consultivi della Corte hanno una «autorevolezza» indiscutibile, che
è pari a quella delle sue sentenze. Lo dimostrano i richiami che, nella
dottrina e nell’attività didattica, a essi si fanno costantemente,
accomunandoli, senza alcuna distinzione, alle sentenze in una considerazione
complessiva della giurisprudenza della Corte. Ed è la stessa Corte che,
nel riferirsi ai propri precedenti (ivi compresi quelli della Corte permanente
di giustizia internazionale), generalmente per rafforzare le proprie
conclusioni, non distingue in alcun modo i suoi pareri dalle sentenze[26].
Il che, invero, è ben comprensibile se solo si ricorda che anche le
sentenze – come si è già rilevato – sono obbligatorie
per le parti in causa, non per i terzi, per i quali, dunque, sono assimilabili
ai pareri, sia nell’assenza di forza obbligatoria che nel possesso di
autorevolezza.
In questa considerazione complessiva della giurisprudenza della
Corte anche i pareri possono farsi rientrare nelle decisioni giudiziarie che,
ai sensi dell’art. 38, par. 1, lett. d),
del suo Statuto, la stessa applica come mezzi, sia pure sussidiari, per la
determinazione delle norme giuridiche ai fini della decisione delle
controversie che le sono sottoposte. Sotto questo profilo – come è
stato osservato[27]
– i pareri rappresentano una fonte di cognizione, o
«documentaria», delle norme del diritto internazionale contemplate
nelle precedenti lett. a) (le convenzioni
internazionali, generali o particolari), lett. b) (la consuetudine internazionale), lett. c) (i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni
civili). Essi, in altri termini, costituiscono
«the storehowe from which the rules
of heads (a), (b) and (c) can be extracted»[28].
Va poi sottolineato che l’attività consultiva della
Corte contribuisce al consolidamento delle norme di diritto internazionale
consuetudinario, nonché all’affermazione di una determinata
interpretazione di tali norme, così come di quelle poste mediante
accordi[29].
Si pensi al diritto di autodeterminazione dei popoli, inteso quale diritto
all’indipendenza dei popoli coloniali e di quelli sottoposti a una
dominazione straniera: è la Corte internazionale di giustizia che, in alcuni
celebri pareri consultivi[30],
ha definito la norma consuetudinaria che contempla tale diritto come norma
implicante un obbligo erga omnes per
tutti gli Stati. Questi da un lato hanno l’obbligo, negativo, di non
riconoscere qualsiasi situazione, in particolare qualsiasi acquisto
territoriale, derivante dalla violazione del diritto in questione,
dall’altro quello, positivo, di prestare la propria assistenza per la sua
realizzazione.
Anche l’affermazione della soggettività
internazionale delle organizzazioni internazionali ha ricevuto un contributo
determinante dalla giurisprudenza consultiva della Corte[31].
Non può dimenticarsi, inoltre, che in alcuni casi la
Corte, nella sua funzione consultiva, ha dato un impulso decisivo allo sviluppo
e al mutamento del diritto internazionale. Basti citare il parere del 28 maggio
1951 sulle riserve alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del
crimine di genocidio. Com’è noto, secondo la dottrina classica del
diritto internazionale l’apposizione di una riserva a un trattato era
ammissibile solo se tale possibilità era prevista espressamente nel
trattato stesso; con la conseguenza, in caso di silenzio del trattato, che
un’accettazione dello stesso contenente una riserva non era valida e lo
Stato in questione non poteva considerarsi parte del trattato. Ebbene, nel
citato parere la Corte capovolse tale regola, affermando che, nel silenzio del
trattato, la riserva è ammissibile, purché compatibile con
l’oggetto e lo scopo del trattato. Il parere provocò una modifica
pressoché immediata della regola tradizionale, che venne poi recepita (e
ulteriormente sviluppata) nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati
del 23 maggio 1969 e in quella di Vienna del 21 marzo 1986 sul diritto dei
trattati tra Stati e organizzazioni internazionali o tra organizzazioni
internazionali.
Va infine rilevato che, in qualche misura, la giurisprudenza
internazionale, compresa quella che si forma mediante i pareri consultivi, fa
parte anch’essa della prassi ed esprime, spesso in maniera sensibilmente
compiuta e autorevole, il convincimento (opinio
iuris) diffuso nella comunità internazionale circa l’esistenza
e il contenuto di una norma consuetudinaria.
La Corte internazionale di giustizia finisce quindi per
svolgere, anche nella sua giurisprudenza consultiva, un ruolo sommessamente
«creativo» del diritto internazionale, particolarmente di quello
consuetudinario. Alla luce delle considerazioni che precedono non pare dubbia,
pertanto, l’utilità di un parere della Corte in merito alla normativa
concernente il debito estero degli Stati e la necessità di promuovere,
con la massima determinazione, la relativa richiesta in seno
all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
The request to
the International Court of Justice for an advisory opinion on the law
concerning the sovereign debt of developing States would be very useful. In
fact, notwithstanding advisory opinions are not legally binding, they are an
expression of the jurisdictional function of the «principal judicial organ
of the United Nations» (Article 92 of the Charter). Therefore, they may
have an important impact on the attitude of the General Assembly and of Member
States. Moreover, advisory opinions may clarify the principles of international
law, particularly those concerning both individual human rights and the right
of peoples to development, and may promote an evolution of the rules applicable
to the sovereign debt.
La
richiesta alla Corte internazionale di giustizia di un parere consultivo sul
diritto relativo al debito sovrano dei Paesi in via di sviluppo sarebbe molto
utile. Infatti, sebbene i pareri consultivi non siano giuridicamente
vincolanti, essi sono una espressione della funzione giurisdizionale del
«principale organo giudiziario delle Nazioni Unite» (art. 92 della
Carta). Pertanto essi possono avere un impatto importante
sull’atteggiamento dell’Assemblea generale e degli Stati membri.
Inoltre i pareri consultivi possono chiarire i principi del diritto
internazionale, in particolare quelli concernenti sia i diritti umani
individuali che il diritto dei popoli allo sviluppo, e possono promuovere una
evoluzione delle regole applicabili al debito sovrano.
[Un
evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende
impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi
presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione
“Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori
del Seminario “Contro l’usurocrazia ”, dal curatore della
pubblicazione e dalla direzione di Diritto
@ Storia]
* Relazione
presentata nel Seminario di studi "CONTRO
L’USUROCRAZIA. DEBITO E DISUGUAGLIANZE", organizzato
dall’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” del Consiglio
Nazionale delle Ricerche – Sapienza Università di Roma, diretta
dal professore Pierangelo Catalano, e dal CEISAL - Consejo Europeo de Investigaciones Sociales de
América Latina, Grupo de Trabajo de Jurisprudencia, svoltosi presso la
Biblioteca Centrale del CNR il 15 dicembre 2017, in occasione del XX
Anniversario della “Carta di Sant’Agata de’ Goti –
Dichiarazione su usura e debito internazionale”.
[1] Sulla quale cfr., anche per
un’ampia bibliografia, G. Cellamare,
Corte internazionale di giustizia, in Enciclopedia del diritto. Annali,
V, 2012, 421 ss., in specie 434 ss.
[2] Su
di essa si vedano, tra gli altri, anche per ulteriori riferimenti, D. W. Greig, The Advisory Jurisdiction
of the International Court of Justice and the Settlement of Disputes between
States, in International and Comparative Law Quarterly, 1966, 325 ss.; K. J. Keith, The Extent of the Advisory
Jurisdiction of the International Court of Justice, Leiden 1971; J. Puente Egido, Consideraciones sobra la
naturaleza y efectos de las opiniones consultivas, in Zeitschrift für
ausländisches öffentliches Recht und Völkerrecht, 1971, 730 ss.;
A. Gros, Concerning the Advisory
Role of the International Court of Justice, in Transnational Law in a Changing
Society. Essays in Honor of
Philip C. Jessup, New York 1972, 313 ss.; D.
Pratap, The Advisory Jurisdiction of the International Court of Justice,
Oxford 1972; M. Pomerance, The
Advisory Function of the International Court of Justice in the League and UN
Eras, Baltimore/London 1973; G. Ziccardi
Capaldo, Il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia
sul Sahara occidentale: un’occasione per un riesame della natura e degli
effetti della funzione consultiva, in Comunicazioni e studi dell’Istituto
di diritto internazionale e straniero della Università di Milano, XV,
1978, 529 ss.; P. Benvenuti, L’accertamento
del diritto mediante pareri consultivi della Corte internazionale di giustizia,
Milano 1984; V. Buonomo, La
«funzione consultiva» della Corte internazionale di giustizia, in A. Ciani, G. Diurni (a cura di), Esercizio
del potere e prassi della consultazione. Atti
dell’VIII Colloquio internazionale romanistico-canonistico (10-12 maggio
1990), Roma 1991, 415 ss.; M. Pomerance,
The Advisory Role of the International Court of Justice and its
“Judicial” Character: Past and Future, in A. S. Muller, D. Raič
and J. M. Turánszky (eds.),
The International Court of Justice: Its future role after fifty years, The
Hague/Boston/London 1997; G. Abi-Saab,
On discretion: reflections on the nature of the consultative function of the
International Court of Justice, in L.
Boisson de Chazournes, P. Sands (eds.), International Law, The
International Court of Justice and Nuclear Weapons, Cambridge 1999, 36 ss.; F. Berman, The Uses and Abuses of
Advisory Opinions, in N. Ando, E.
Mcwhinney, R. Wolfrum (eds.), Liber Amicorum Judge Shigeru Oda, The
Hague/London/New York 2002, II, 809 ss.; P.
Daillier, Article 96, in J. P.
Cot et A. Pellet (sous la
direction de), La Charte des Nations Unies. Commentaire article par article, 3e
éd., Paris 2005, 2003 ss.; M. M. Aljaghoub,
The Advisory Function of the International Court of Justice, Berlin/Heidelberg
2006; D. Breau, The World
Court’s Advisory Funcion, in International and Comparative Law Quarterly,
2006, 185 ss.; H. Thirlway, Advisory
Opinions, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, 2006; T. Nagata, Judicial Activism in Exercising
Advisory Function by the International Court of Justice and “Eastern
Carelia” Principle, in Journal of International Law and Diplomacy, 2009,
42 ss.; M.-C. Runavot, La
fonction consultative de la Cour internationale de justice, in A. Ondoua, D. Szymczak (sous
la direction de), La fonction consultative des juridictions internationales, Paris
2009, 21 ss.; K. Oellers-Frahm, Article
96, in B. Simma, D.-E. Khan, G. Nolte,
A. Paulus (eds.), The Charter of the United Nations, 3rd ed., Oxford
2012, II, 1975 ss.; J. A. Frowein, K.
Oellers-Frahm, Article 65, in A.
Zimmermann, C. Tomuschat, K.
Oellers-Frahm, C. Tams (eds.), The Statute of the International Court of
Justice. A Commentary, 2nd ed., Oxford 2012, 1605 ss.; P. Pazartzis, The Ambit and Limits of the Advisory Function
of the International Court of Justice, in E.
Rieter, H. de Waele (eds.), Evolving Principles of International Law.
Studies in Honour of Karel C. Wellens, Leiden 2012, 265 ss.; M. Bennouna, The Advisory Function of the
International Court of Justice in the Light of Recent Developments, in The
Global Community. Yearbook of International Law and Jurisprudence. Global
Trends: Law, Policy & Justice. Essays in Honour of Giuliana Ziccardi Capaldo, New York 2013, 95
ss.; B. Conforti, C. Focarelli, Le
Nazioni Unite, 10a ed., Padova 2015, 448 ss.
[3] Cfr. Daillier, Article 96, cit., 2004; K. Oellers-Frahm, Article 96, cit.,
1978. È stato
rilevato che, rispetto all’art. 14 del Patto, non mancarono incertezze
sulla precisa natura della competenza consultiva e sugli effetti che sarebbero
derivati dal suo esercizio, tanto che nello Statuto della Corte permanente di
giustizia internazionale, adottato con il Protocollo di Ginevra del 16 dicembre
1920, non fu inserita alcuna disposizione sulla funzione consultiva (P. Benvenuti, L’accertamento del
diritto, cit., 3 s.).
[4] Cfr. P. Benvenuti, L’accertamento del diritto, cit., 215 ss.;
H. Thirlway, Advisory Opinions,
cit., punto 26 ss.; K. Oellers-Frahm,
Article 96, cit., 1988 ss.
[5] Parere della Corte permanente di
giustizia internazionale del 4 dicembre 1935 sulla compatibilità di
certi decreti-legge di Danzica con la Costituzione della Città libera.
[6] È il caso, per esempio, del
parere della Corte internazionale di giustizia del 9 luglio 2004 sulle
conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nel territorio occupato
della Palestina. Sull’ampiezza dell’oggetto della richiesta cfr. H. Thirlway, Advisory Opinions, cit.,
punto 18 ss.; J. A. Frowein, K.
Oellers-Frahm, Article 65, cit., 1614 ss.
[7] Ciò è accaduto in un solo
caso, nel parere della Corte permanente di giustizia internazionale del 23
luglio 1923 sullo status della Carelia orientale.
[8] In senso critico verso la posizione
della Corte cfr. B. Conforti, C. Focarelli, Le Nazioni Unite, cit., 455
ss.
[9] Si veda il parere della Corte del 22
luglio 2010 sulla conformità con il diritto internazionale della
dichiarazione di indipendenza del Kosovo; cfr. M. Bennouna, The Advisory Function, cit., 97.
[10] Per la richiesta del Consiglio di
sicurezza riteniamo che la relativa risoluzione non possa considerarsi
meramente procedurale, in quanto la richiesta del parere è diretta a
ottenere una valutazione nel merito della questione; pertanto essa richiede la
maggioranza più grave di nove voti (su quindici), comprensivi del voto
dei Membri permanenti, con conseguente possibilità, per tali Membri, di
esercitare il c.d. diritto di veto (art. 27, par. 3, della Carta). Sul punto
cfr. K. Oellers-Frahm, Article 96,
cit., 455 ss.
[11] Vedi B. Conforti, C. Focarelli, Le Nazioni Unite, cit., 122 ss.; per
la prassi cfr. anche K. Oellers-Frahm,
Article 96, cit., 1980 s.
[12] Si vedano, rispettivamente, le
risoluzioni dell’Assemblea generale n. 44 (I) dell’8 dicembre 1946
e n. 338 (IV) del 6 dicembre 1949.
[13] Si veda la giurisprudenza ricordata da
J. A. Frowein, K. Oellers-Frahm, Article
65, cit., 1615 s.
[14] Cfr. G. Morelli, Nozioni di diritto internazionale, 7a ed., Padova
1967, 46 s. Con riguardo alla materia del debito estero cfr. P. Benvenuti, Principi generali del
diritto e giurisdizioni internazionali, in Roma e America. Diritto romano
comune, 14/2002, 193 ss.
[15] Cass. 27 maggio 2005 n. 6532, in Rivista
di diritto internazionale, 2005, 856 ss.
[16] Si vedano gli articoli 53 e 64 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969 e della Convenzione
di Vienna del 21 marzo 1986 sul diritto dei trattati tra Stati e organizzazioni
internazionali o tra organizzazioni internazionali.
[17] Cfr. M. Pedrazzi, Debito estero e sistemi internazionali di
protezione dei diritti umani, in Roma e America. Diritto romano comune,
14/2002, 181 ss.
[18] Sul quale ci permettiamo di rinviare a U. Villani, Riflessioni sul diritto
allo sviluppo, in I. Sabbatelli
(a cura di), Banche ed etica, Padova 2013, 239 ss.
[19] Si veda il parere del 30 marzo 1950
sulla interpretazione dei Trattati di pace con la Bulgaria, l’Ungheria e
la Romania, prima fase: «The Court’s reply is only of an advisory
character: as such, it has no binding force».
[20] Cfr. P. Benvenuti, L’accertamento del diritto, cit., 285 ss.
[21] In
questo senso cfr. R. Kolb, The
International Court of Justice, Oxford/Portland 2013, 1097; vedi anche K. Oellers-Frahm, Article 96, cit., 1987.
[22] Cfr.
J. A. Frowein, K. Oellers-Frahm, Article
65, cit., 1621 s.
[23] Cfr.
G. Ziccardi Capaldo, Il parere
consultivo, cit., 562 ss.; J.A. Frowein,
K. Oellers-Frahm, Article 65,
cit., 1623 ss.
[24] Parere del 21 giugno 1971 sulle
conseguenze giuridiche per gli Stati della continua presenza del Sud Africa in
Namibia (Sud Ovest Africano) malgrado la risoluzione del Consiglio di sicurezza
276 (1970).
[25] Parere del 9 luglio 2004 sulle
conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nel territorio occupato
della Palestina.
[26] Cfr.
A. Pellet, Article 38, in A. Zimmermann, C. Tomuschat, K. Oellers-Frahm (eds.),
The Statute of the International Court of Justice, cit., 785; vedi anche, tra
gli altri, R. Kolb, The
International Court of Justice, cit., 1096 s., il quale ha cura di
sottolineare: «An advisory opinion is a jurisdictional act. As a court of
justice, the Court must not contradict itself».
[27] Cfr. A. Pellet, Article 38, cit., 783 s.
[28]
Così S. Rosenne, The Law
and Practice of the International Court. 1920-2005, 4th ed., The
Hague/Boston/London 2006, III, 1607.
[29] Cfr
specialmente K. Oellers-Frahm, Lawmaking
Through Advisory Opinions?, in German Law Journal, 2011, 1033 ss., in specie
1040 ss.; sulla prassi della Corte v. anche V. Buonomo, La «funzione consultiva», cit., 419 ss.;
M. M. Aljaghoub, The Advisory
Function, cit., 155 ss.
[30] Si vedano il parere del 21 giugno 1971
sulle conseguenze giuridiche per gli Stati della continua presenza del Sud
Africa in Namibia (Sud Ovest Africano) malgrado la risoluzione del Consiglio di
sicurezza 276 (1970), il parere del 16 ottobre 1975 sul Sahara occidentale, il
parere del 9 luglio 2004 sulla costruzione di un muro nel territorio occupato
della Palestina e il parere del 25 febbraio 2019 sulle conseguenze giuridiche
della separazione dell’arcipelago di Chagos da Mauritius nel 1965.
[31] Si vedano, in particolare, il parere
dell’11 aprile 1949 sulla riparazione per i pregiudizi subiti al servizio
delle Nazioni Unite e quello dell’8 luglio 1996 sulla liceità
dell’uso da parte di uno Stato di armi nucleari in un conflitto armato
(su richiesta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità).