Memorie-2018

 

 

FotoRoberto Cociancich

Senatore Repubblica Italiana XVII legislatura

Roma

 

DIRITTO ROMANO:

UNA PERDURANTE VITALITÀ DI FRONTE ALLE SFIDE DELLA GLOBALIZZAZIONE*

 

 

Sommario: 1. Perdurante vitalità. – 2. Principi del diritto italiano. – 3. Principi di diritto europeo. – 4. Principi a livello internazionale.

 

 

1. – Perdurante vitalità del Diritto romano

 

La perdurante vitalità del diritto romano e dei principi generali del diritto anche nel contesto contemporaneo di crescente globalizzazione dei mercati finanziari trova evidenza e pratica applicazione in relazione al tema della crisi del debito sovrano di molti Paesi in via di Sviluppo e anche di alcuni Paesi del G7/G8 ad economia avanzata.

E’ noto infatti che sono proprio alcuni dei Paesi maggiormente sviluppati (ad esempio Stati Uniti, Giappone e Italia) ad avere generato un debito pubblico di proporzioni smisurate la cui sostenibilità è oggetto di costante preoccupazione da parte delle autorità bancarie centrali e degli operatori finanziari.

Le condizioni alle quali vengono contratti tali debiti e in particolare i tassi di interesse applicabili sono dunque l’oggetto di una riflessione che oltrepassa i tradizionali schemi del dibattito pubblico tra Paesi ricchi e poveri (dibattito spesso venato da un certo paternalismo, forse non voluto ma erede di una mentalità contratta fin dai tempi del colonialismo occidentale) e che riguarda ormai anche il rapporto tra diverse generazioni dove si estende il divario tra quelle che hanno contratto il debito beneficiando di una immediata disponibilità liquida e quelle più giovani che sono chiamate a rimborsarlo.

Rileva in particolare la riflessione sul tema dei prestiti a condizioni definibili come tassi usurari e come tali da ritenersi illegittimi sulla scorta proprio dei principi generali del diritto identificati e commentati dalla Carta di Sant’Agata dei Goti (qui di seguito per brevità la “Carta”).

E’ noto, in proposito, che tali principi sono considerati non solo rilevanti sul piano dei rapporti tra privati ma fonti del diritto internazionale ai sensi dell’art. 38 1 c dello statuto della Corte Internazionale di Giustizia

Vengono in conto, a tal proposito, i principi XIII e XIV della Carta concernenti rispettivamente «l’inviolabilità dei diritti umani e in particolare del diritto alla vita» e il principio di «autodeterminazione dei popoli».

 

Il primo (XIII) stabilisce che «ogni individuo ha diritto ad un livello di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione , alle cure mediche e ai servizi sociali necessari. Esso non ha carattere programmatico ma pone agli Stati, sia industrializzati sia in via di sviluppo, un obbligo di risultato il cui adempimento richiede l’adozione di misure nazionali e misure di cooperazione internazionale; esso può essere annoverato fra gli obblighi erga omnes; la violazione massiccia di esso , in cui possono concorrere fattori esterni che condizionano in modo determinante l’adempimento da parte degli stati, costituisce un crimine internazionale da parte degli Stati titolari dell’obbligo, così come di coloro che rendono agli Stati impossibile l’adempimento».

Il secondo (XIV) prescrive che «tutti popoli hanno il diritto di determinare liberamente il loro status politico e di perseguire liberamente il loro sviluppo religioso, culturale, sociale ed economico; esso comporta che, a questi fini ogni popolo possa disporre delle sue risorse in piena libertà; qualsiasi limitazione a tale libertà derivante da obblighi assunti nel quadro della cooperazione economica internazionale lecita solo se basata sul principio del beneficio reciproco e in ogni caso nessuna limitazione è lecita se priva un popolo dei propri mezzi di sussistenza. Il principio è sicuramente di ius cogens, la sua violazione, sia diretta sia attuata mediante un uso distorto della cooperazione economica internazionale, costituisce un crimine internazionale da parte degli Stati ai quali sia riconducibile».

 

Non sfugge a nessuno la forte carica politica e per certi versi rivoluzionaria di antichi precetti del diritto romano una volta che essi vengano declinati con riferimento alle contingenze dell’era contemporanea.

Si tratta dunque di esaminare come tali principi abbiano influito e siano stati raccolti in atti di legislazione domestica o in accordi internazionali.

 

 

2. – Principi del diritto italiano

 

Non è certo sfuggito al lettore il reiterato richiamo della Carta alla cooperazione economica internazionale. Tra le norme di diritto positivo nell’ordinamento italiano rileva in proposito la legge 125 dell’11 agosto 2014, norma di natura ordinamentale, la quale definisce (art. 1.1.) la cooperazione allo sviluppo come «cooperazione internazionale per lo sviluppo sostenibile, i diritti umani e la pace e parte integrante della politica estera dell’Italia. Essa , conformemente all’art. 11 Cost. contribuisce alla promozione della pace e della giustizia e mira a promuovere relazioni solidali e paritarie tra i popoli fondate sui principi di interdipendenza e di partenariato».

E’ evidente sin dall’incipit l’accoglimento del principio del “beneficio reciproco” indicato dalla Carta tramite il riferimento a partnership paritarie. Il principio di solidarietà che ne discende viene meglio articolato nel prosieguo (art. 1.2):

 

«I suoi obiettivi sono:

a)              sradicare la povertà e ridurre le disuguaglianze, migliorare le condizioni di vita delle popolazioni e promuovere lo sviluppo sostenibile;

b)              tutelare e affermare i diritti umani, la dignità dell’individuo, l’uguaglianza di genere, le pari opportunità e i principi di democrazia dello Stato di diritto.

(art. 2.3): «Nel realizzare le iniziative di cooperazione allo sviluppo l’Italia assicura il rispetto : dei principi di efficacia concordati a livello internazionale, in particolare quelli della piena appropriazione dei processi di sviluppo da parte dei Paesi partner, dell’allineamento degli interventi alle priorità stabilite dagli stessi Paesi Partner e dell’uso dei sistemi locali, dell’armonizzazione e coordinamento tra donatori, della gestione basata sui risultati e della responsabilità reciproca».

 

Pare dunque di potersi concludere che, tramite le norme appena ricordate, i principi della Carta siano vincolanti per l’Italia nelle relazioni con gli altri Stati non solo sul piano programmatico costituzionale ma anche su quello concreto e operativo, avendo nel frattempo realizzato l’infrastruttura normativa di carattere generale e di dettaglio costituita tra le altre cose dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) che si affianca, con compiti differenziati, all’attività della Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo costituita presso la Farnesina.

Ne consegue che un’iniziativa dell’Italia sul piano della lotta all’usurocrazia è perfettamente coerente con il suo assetto politico istituzionale così come appena sommariamente tracciato. Non avrebbe senso infatti che uno sforzo sul piano economico e politico volto a consentire ai Paesi in via di Sviluppo ad uscire dalle condizioni di povertà e disuguaglianza finisse in ultima analisi solo ad arricchire i Paesi prestatori di denaro in ragione delle condizione di erogazione dei finanziamenti e delle altre forme di concessione del credito.

Va infine ricordato che l’Italia ha tradizionalmente privilegiato un approccio multilaterale nell’erogazione di contributi ai Paesi in via di Sviluppo per il tramite di organizzazioni internazionali a cominciare dalla stessa Unione Europea.

 

 

3. – Principi di diritto europeo

 

L’Unione Europea è il principale donatore al mondo e, diversamente da iniziative di altri grandi Paesi come la Cina (si consideri ad esempio la Belt and Road Initiative promossa da Xi Ji Ping) che si risolvono in grandi investimenti privi di riguardo alle condizioni politico sociali dei paesi beneficiari ha posto al centro dei suoi ultimi interventi (il Migration Compact, ad esempio) le politiche di sviluppo.

La solidarietà è al centro della costituzione dell’Europa. Basti ricordare che la cooperazione allo sviluppo è stata parte fondamentale del processo di integrazione europea fin dagli inizi. Il Trattato di Roma (1957) aveva previsto la creazione del Fondo europeo di sviluppo, volto a fornire assistenza alle colonie e ai territori d’oltremare. All’inizio degli anni sessanta, con l’adozione della politica di decolonizzazione, gli Stati membri hanno accettato di condividere i costi per la ricostruzione delle ex colonie che avevano ottenuto l’indipendenza. Politica poi gradualmente estesa ad un numero maggiore di paesi in via di sviluppo in Asia, America latina e nella stessa Europa. Nel 2000 viene firmato l’accordo di Cotonou tra l’UE e i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), un accordo commerciale e di aiuti che costituisce, ad oggi, il partenariato più importante tra paesi ACP e l’UE ed ha una durata di 20 anni. L’intesa prevede un’intensa collaborazione tra i paesi mirata a sradicare la povertà e a integrare i paesi ACP nell’economia mondiale. Grazie a strumenti finanziari supplementari come lo strumento per la cooperazione allo sviluppo (DCI) e lo strumento europeo di vicinato (ENI), l’UE può estendere il suo intervento in altre parti del mondo. Il trattato di Lisbona ha poi rafforzato ulteriormente le basi legali della cooperazione allo sviluppo dell’UE. Vi si afferma chiaramente che l’obiettivo primario della politica di cooperazione allo sviluppo dell’Unione è la riduzione e in ultima istanza lo sradicamento della povertà. Questo obiettivo deve essere rispettato quando l’Unione implementa politiche che possono interessare i Paesi in via di Sviluppo.

Non è dunque un caso se l’Unione Europea ha vinto nel 2012 il Premio Nobel per la Pace quale riconoscimento per il fatto che la UE si sia distinta soprattutto per il suo impegno a favore della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani.

In questa azione la UE ha sempre cercato di operare attraverso il consenso e il concerto con le altre grandi organizzazioni internazionali a cominciare dalle Nazioni Unite.

 

 

4. – Principi a livello internazionale

 

Nel 2000 l’UE si è impegnata a sostenere gli obiettivi di sviluppo del millennio per ridurre la povertà estrema entro il 2015. Gli Obiettivi di sviluppo del millennio sono stati al centro delle iniziative dell’Europa sulla cooperazione e lo sviluppo costituendone l’asse principale. La capacità di mobilitare i fondi necessari è la chiave per raggiungere i risultati stabiliti. Era questo lo scopo della conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul finanziamento dello sviluppo tenutasi a Monterrey, in Messico, nel 2002. I lavori si sono conclusi con l’adozione del Consenso di Monterrey, con il quale i capi di Stato o di governo si sono impegnati a mobilitare ogni fonte di finanziamento possibile (nazionale e internazionale, pubblica e privata), utile a incrementare in modo sostanziale gli aiuti allo sviluppo. Da allora, l’UE procede a revisioni annuali dei contributi collettivi ai paesi in via di sviluppo.

Come noto agli obiettivi del Millennio sono ora subentrati, nell’Agenda dell’ONU, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. In proposito appare rilevante l’Obiettivo 17: «Rafforzare gli strumenti di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile», il quale recita:

 

«17.1 Consolidare la mobilitazione delle risorse interne anche attraverso l’aiuto internazionale ai paesi in via di sviluppo per aumentarne la capacità fiscale interna e la riscossione delle entrate.

17.2 I paesi industrializzati devono rispettare i loro impegni ufficiali di aiuto allo sviluppo, incluso l’obiettivo di destinare lo 0.7 per cento del reddito nazionale lordo per l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS/RNL) ai paesi in via di sviluppo e destinare dallo 0.15 al 0.20 per cento del APS/RNL ai paesi meno sviluppati; i fornitori mondiali di aiuto pubblico allo sviluppo sono invitati a fornire almeno il 0.20 per cento del APS/RNL ai paesi meno sviluppati.

17.3 Mobilitare ulteriori risorse economiche per i paesi in via di sviluppo da più fonti.

17.4 Aiutare i paesi in via di sviluppo a sostenere il debito a lungo termine attraverso politiche coordinate volte a stimolare il finanziamento, la riduzione e la ristrutturazione del debito, e affrontare il debito estero dei paesi più poveri e più fortemente indebitati al fine di ridurne il peso.

17.5 Adottare e applicare regimi di promozione degli investimenti per i paesi meno sviluppati».

 

Risulta dunque per tabulas come l’obiettivo di riequilibrare il peso del debito dei Paesi poveri costituisca una priorità dell’ordinamento internazionale e ciò implica senza alcun dubbio una indagine volta a rilevare le condizioni alle quali esso è stato contratto e che lo ha reso attualmente insostenibile.

Sempre nell’ambito degli sforzi internazionali per dare concreta attuazione ai principi che sono stati fin qui enunciati merita di essere ricordata la Terza Conferenza Internazionale sul Finanziamento per lo Sviluppo tenutasi ad Addis Ababa nel luglio 2015. Un ampio capitolo (Lettera E, paragrafi 93 e seguenti) dell’«Action Agenda» che ne è sortita, è dedicato al tema della ristrutturazione del debito dei Paesi in via Sviluppo e della necessità di individuare strumenti e strategie per consentire di individuare una via sostenibile verso lo sviluppo, strategie che richiedono una corresponsabilizzazione delle grandi istituzioni finanziarie (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale in primis) e degli stessi Paesi prenditori e donatori.

Infine è degno di rilievo che anche il Gruppo di Paesi ad economia più avanzata (G8) ha istituito un gruppo di lavoro transnazionale per approfondire i temi della finanza sostenibile con particolare riguardo al “Social Impact Investing”, cioè alla finanza di impatto sociale che mette al centro delle sue riflessioni l’impatto sulla realtà territoriale, economica e sociale che iniziative di finanziamento sono in grado di produrre. Va da se che laddove il finanziamento di progetti risultasse, per effetto di meccanismi di lievitazione dei tassi oltre ciò che era legittimo e ragionevole prevedere al momento della stipulazione dell’accordo di finanziamento stesso, la misurazione dell’impatto condurrebbe a risultati negativi e dunque indesiderabili.

La riflessione sui principi di diritto enucleati dalla Carta mette però a disposizione dei decisori politici, degli operatori economici e degli interpreti strumenti ulteriori e più incisivi giungendo a rilevare l’illegittimità (e pertanto la mancanza di effetti) di accordi stipulati in loro violazione. Proseguire su questa strada costituirebbe un passo in avanti verso il progresso e la civiltà, lungo un cammino avviato ormai dal diritto romano più di duemila anni fa.

 

 

 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori del Seminario “Contro l’usurocrazia ”, dal curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

* Relazione presentata nel Seminario di studi "CONTRO L’USUROCRAZIA. DEBITO E DISUGUAGLIANZE", organizzato dall’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Sapienza Università di Roma, diretta dal professore Pierangelo Catalano, e dal CEISAL - Consejo Europeo de Investigaciones Sociales de América Latina, Grupo de Trabajo de Jurisprudencia, svoltosi presso la Biblioteca Centrale del CNR il 15 dicembre 2017, in occasione del XX Anniversario della “Carta di Sant’Agata de’ Goti – Dichiarazione su usura e debito internazionale”.