Roberto Cociancich
Senatore Repubblica Italiana
XVII legislatura
Roma
DIRITTO ROMANO:
UNA PERDURANTE
VITALITÀ DI FRONTE ALLE SFIDE DELLA GLOBALIZZAZIONE*
Sommario: 1. Perdurante
vitalità. – 2. Principi del diritto italiano. – 3. Principi
di diritto europeo. – 4. Principi a livello internazionale.
La
perdurante vitalità del diritto romano e dei principi generali
del diritto anche nel contesto contemporaneo di crescente globalizzazione dei
mercati finanziari trova evidenza e pratica applicazione in relazione al tema
della crisi del debito sovrano di molti Paesi in via di Sviluppo e anche di
alcuni Paesi del G7/G8 ad economia avanzata.
E’
noto infatti che sono proprio alcuni dei Paesi maggiormente sviluppati (ad
esempio Stati Uniti, Giappone e Italia) ad avere generato un debito pubblico di
proporzioni smisurate la cui sostenibilità è oggetto di costante
preoccupazione da parte delle autorità bancarie centrali e degli
operatori finanziari.
Le
condizioni alle quali vengono contratti tali debiti e in particolare i tassi di
interesse applicabili sono dunque l’oggetto di una riflessione che
oltrepassa i tradizionali schemi del dibattito pubblico tra Paesi ricchi e
poveri (dibattito spesso venato da un certo paternalismo, forse non voluto ma
erede di una mentalità contratta fin dai tempi del colonialismo occidentale)
e che riguarda ormai anche il rapporto tra diverse generazioni dove si
estende il divario tra quelle che hanno contratto il debito beneficiando di una
immediata disponibilità liquida e quelle più giovani che sono
chiamate a rimborsarlo.
Rileva
in particolare la riflessione sul tema dei prestiti a condizioni definibili
come tassi usurari e come tali da ritenersi illegittimi sulla scorta proprio
dei principi generali del diritto identificati e commentati dalla Carta di
Sant’Agata dei Goti (qui di seguito per brevità la
“Carta”).
E’
noto, in proposito, che tali principi sono considerati non solo rilevanti sul
piano dei rapporti tra privati ma fonti del diritto internazionale ai
sensi dell’art. 38 1 c dello statuto della Corte Internazionale di
Giustizia
Vengono
in conto, a tal proposito, i principi XIII e XIV della Carta concernenti
rispettivamente «l’inviolabilità dei diritti umani e in
particolare del diritto alla vita» e il principio di
«autodeterminazione dei popoli».
Il
primo (XIII) stabilisce che «ogni individuo ha diritto ad un livello
di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio della sua
famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario,
all’abitazione , alle cure mediche e ai servizi sociali necessari. Esso
non ha carattere programmatico ma pone agli Stati, sia industrializzati sia
in via di sviluppo, un obbligo di risultato il cui adempimento richiede
l’adozione di misure nazionali e misure di cooperazione internazionale;
esso può essere annoverato fra gli obblighi erga omnes; la violazione
massiccia di esso , in cui possono concorrere fattori esterni che condizionano
in modo determinante l’adempimento da parte degli stati, costituisce un crimine
internazionale da parte degli Stati titolari dell’obbligo,
così come di coloro che rendono agli Stati impossibile
l’adempimento».
Il
secondo (XIV) prescrive che «tutti popoli hanno il diritto di
determinare liberamente il loro status politico e di perseguire liberamente il
loro sviluppo religioso, culturale, sociale ed economico; esso comporta che, a
questi fini ogni popolo possa disporre delle sue risorse in piena
libertà; qualsiasi limitazione a tale libertà derivante da obblighi
assunti nel quadro della cooperazione economica internazionale lecita solo se
basata sul principio del beneficio reciproco e in ogni caso nessuna
limitazione è lecita se priva un popolo dei propri mezzi di sussistenza.
Il principio è sicuramente di ius cogens, la sua violazione, sia diretta
sia attuata mediante un uso distorto della cooperazione economica
internazionale, costituisce un crimine internazionale da parte degli Stati ai
quali sia riconducibile».
Non
sfugge a nessuno la forte carica politica e per certi versi rivoluzionaria di
antichi precetti del diritto romano una volta che essi vengano declinati con
riferimento alle contingenze dell’era contemporanea.
Si
tratta dunque di esaminare come tali principi abbiano influito e siano stati
raccolti in atti di legislazione domestica o in accordi internazionali.
Non
è certo sfuggito al lettore il reiterato richiamo della Carta alla
cooperazione economica internazionale. Tra le norme di diritto positivo
nell’ordinamento italiano rileva in proposito la legge 125 dell’11
agosto 2014, norma di natura ordinamentale, la quale definisce (art. 1.1.) la
cooperazione allo sviluppo come «cooperazione internazionale per
lo sviluppo sostenibile, i diritti umani e la pace e parte integrante della
politica estera dell’Italia. Essa , conformemente all’art. 11 Cost.
contribuisce alla promozione della pace e della giustizia e mira a promuovere
relazioni solidali e paritarie tra i popoli fondate sui principi di interdipendenza
e di partenariato».
E’
evidente sin dall’incipit
l’accoglimento del principio del “beneficio reciproco”
indicato dalla Carta tramite il riferimento a partnership paritarie. Il
principio di solidarietà che ne discende viene meglio articolato nel
prosieguo (art. 1.2):
«I
suoi obiettivi sono:
a)
sradicare la povertà e ridurre
le disuguaglianze, migliorare le condizioni di vita delle popolazioni e
promuovere lo sviluppo sostenibile;
b)
tutelare e affermare i diritti umani,
la dignità dell’individuo, l’uguaglianza di genere, le pari
opportunità e i principi di democrazia dello Stato di diritto.
(art. 2.3): «Nel realizzare le iniziative
di cooperazione allo sviluppo l’Italia assicura il rispetto : dei
principi di efficacia concordati a livello internazionale, in particolare
quelli della piena appropriazione dei processi di sviluppo da parte dei
Paesi partner, dell’allineamento degli interventi alle
priorità stabilite dagli stessi Paesi Partner e dell’uso dei
sistemi locali, dell’armonizzazione e coordinamento tra donatori, della
gestione basata sui risultati e della responsabilità reciproca».
Pare
dunque di potersi concludere che, tramite le norme appena ricordate, i principi
della Carta siano vincolanti per l’Italia nelle relazioni con gli altri
Stati non solo sul piano programmatico costituzionale ma anche su quello
concreto e operativo, avendo nel frattempo realizzato l’infrastruttura
normativa di carattere generale e di dettaglio costituita tra le altre cose
dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) che si
affianca, con compiti differenziati, all’attività della Direzione
Generale della Cooperazione allo Sviluppo costituita presso la Farnesina.
Ne
consegue che un’iniziativa dell’Italia sul piano della lotta
all’usurocrazia è perfettamente coerente con il suo assetto
politico istituzionale così come appena sommariamente tracciato. Non
avrebbe senso infatti che uno sforzo sul piano economico e politico volto a
consentire ai Paesi in via di Sviluppo ad uscire dalle condizioni di
povertà e disuguaglianza finisse in ultima analisi solo ad arricchire i
Paesi prestatori di denaro in ragione delle condizione di erogazione dei
finanziamenti e delle altre forme di concessione del credito.
Va
infine ricordato che l’Italia ha tradizionalmente privilegiato un
approccio multilaterale nell’erogazione di contributi ai Paesi in via di
Sviluppo per il tramite di organizzazioni internazionali a cominciare dalla
stessa Unione Europea.
L’Unione
Europea è il principale donatore al mondo e, diversamente da iniziative
di altri grandi Paesi come la Cina (si consideri ad esempio la Belt and Road
Initiative promossa da Xi Ji Ping) che si risolvono in grandi investimenti
privi di riguardo alle condizioni politico sociali dei paesi beneficiari ha
posto al centro dei suoi ultimi interventi (il Migration Compact, ad esempio)
le politiche di sviluppo.
La
solidarietà è al centro della costituzione dell’Europa.
Basti ricordare che la cooperazione allo sviluppo è stata parte
fondamentale del processo di integrazione europea fin dagli inizi. Il Trattato
di Roma (1957) aveva previsto la creazione del Fondo europeo di sviluppo, volto
a fornire assistenza alle colonie e ai territori d’oltremare.
All’inizio degli anni sessanta, con l’adozione della politica di
decolonizzazione, gli Stati membri hanno accettato di condividere i costi per
la ricostruzione delle ex colonie che avevano ottenuto l’indipendenza.
Politica poi gradualmente estesa ad un numero maggiore di paesi in via di
sviluppo in Asia, America latina e nella stessa Europa. Nel 2000 viene firmato
l’accordo di Cotonou tra l’UE e i paesi dell’Africa, dei
Caraibi e del Pacifico (ACP), un accordo commerciale e di aiuti che
costituisce, ad oggi, il partenariato più importante tra paesi ACP e l’UE
ed ha una durata di 20 anni. L’intesa prevede un’intensa
collaborazione tra i paesi mirata a sradicare la povertà e a integrare i
paesi ACP nell’economia mondiale. Grazie a strumenti finanziari
supplementari come lo strumento per la cooperazione allo sviluppo (DCI) e
lo strumento europeo di vicinato (ENI), l’UE può estendere il suo intervento
in altre parti del mondo. Il trattato di Lisbona ha poi rafforzato
ulteriormente le basi legali della cooperazione allo sviluppo dell’UE. Vi
si afferma chiaramente che l’obiettivo primario della politica di
cooperazione allo sviluppo dell’Unione è la riduzione e in ultima
istanza lo sradicamento della povertà. Questo obiettivo deve essere
rispettato quando l’Unione implementa politiche che possono interessare i
Paesi in via di Sviluppo.
Non
è dunque un caso se l’Unione Europea ha vinto nel 2012 il Premio
Nobel per la Pace quale riconoscimento per il fatto che la UE si sia distinta
soprattutto per il suo impegno a favore della pace e della riconciliazione,
della democrazia e dei diritti umani.
In
questa azione la UE ha sempre cercato di operare attraverso il consenso e il
concerto con le altre grandi organizzazioni internazionali a cominciare dalle
Nazioni Unite.
Nel
2000 l’UE si è impegnata a sostenere gli obiettivi di sviluppo del
millennio per ridurre la povertà estrema entro il 2015. Gli Obiettivi di
sviluppo del millennio sono stati al centro delle iniziative dell’Europa
sulla cooperazione e lo sviluppo costituendone l’asse principale. La
capacità di mobilitare i fondi necessari è la chiave per
raggiungere i risultati stabiliti. Era questo lo scopo della conferenza
internazionale delle Nazioni Unite sul finanziamento dello sviluppo tenutasi a
Monterrey, in Messico, nel 2002. I lavori si sono conclusi con l’adozione
del Consenso di Monterrey, con il quale i capi di Stato o di governo si sono
impegnati a mobilitare ogni fonte di finanziamento possibile (nazionale e
internazionale, pubblica e privata), utile a incrementare in modo sostanziale
gli aiuti allo sviluppo. Da allora, l’UE procede a revisioni annuali dei
contributi collettivi ai paesi in via di sviluppo.
Come
noto agli obiettivi del Millennio sono ora subentrati, nell’Agenda
dell’ONU, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. In proposito
appare rilevante l’Obiettivo 17: «Rafforzare gli strumenti di
attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo
sostenibile», il quale recita:
«17.1
Consolidare la mobilitazione delle risorse interne anche attraverso
l’aiuto internazionale ai paesi in via di sviluppo per aumentarne la
capacità fiscale interna e la riscossione delle entrate.
17.2
I paesi industrializzati devono rispettare i loro impegni ufficiali di aiuto
allo sviluppo, incluso l’obiettivo di destinare lo 0.7 per cento del
reddito nazionale lordo per l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS/RNL) ai
paesi in via di sviluppo e destinare dallo 0.15 al 0.20 per cento del APS/RNL
ai paesi meno sviluppati; i fornitori mondiali di aiuto pubblico allo sviluppo
sono invitati a fornire almeno il 0.20 per cento del APS/RNL ai paesi meno
sviluppati.
17.3
Mobilitare ulteriori risorse economiche per i paesi in via di sviluppo da
più fonti.
17.4
Aiutare i paesi in via di sviluppo a sostenere il debito a lungo termine
attraverso politiche coordinate volte a stimolare il finanziamento, la
riduzione e la ristrutturazione del debito, e affrontare il debito estero dei
paesi più poveri e più fortemente indebitati al fine di ridurne il
peso.
17.5
Adottare e applicare regimi di promozione degli investimenti per i paesi meno
sviluppati».
Risulta
dunque per tabulas come l’obiettivo di riequilibrare il peso del
debito dei Paesi poveri costituisca una priorità dell’ordinamento
internazionale e ciò implica senza alcun dubbio una indagine volta a
rilevare le condizioni alle quali esso è stato contratto e che lo ha
reso attualmente insostenibile.
Sempre
nell’ambito degli sforzi internazionali per dare concreta attuazione ai
principi che sono stati fin qui enunciati merita di essere ricordata la Terza
Conferenza Internazionale sul Finanziamento per lo Sviluppo tenutasi ad Addis
Ababa nel luglio 2015. Un ampio capitolo (Lettera E, paragrafi 93 e
seguenti) dell’«Action Agenda» che ne è sortita,
è dedicato al tema della ristrutturazione del debito dei Paesi in via
Sviluppo e della necessità di individuare strumenti e strategie per
consentire di individuare una via sostenibile verso lo sviluppo, strategie che
richiedono una corresponsabilizzazione delle grandi istituzioni finanziarie
(Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale in primis) e degli stessi Paesi
prenditori e donatori.
Infine
è degno di rilievo che anche il Gruppo di Paesi ad economia
più avanzata (G8) ha istituito un gruppo di lavoro transnazionale
per approfondire i temi della finanza sostenibile con particolare riguardo al
“Social Impact Investing”, cioè alla finanza di impatto
sociale che mette al centro delle sue riflessioni l’impatto sulla
realtà territoriale, economica e sociale che iniziative di finanziamento
sono in grado di produrre. Va da se che laddove il finanziamento di progetti
risultasse, per effetto di meccanismi di lievitazione dei tassi oltre
ciò che era legittimo e ragionevole prevedere al momento della
stipulazione dell’accordo di finanziamento stesso, la misurazione dell’impatto
condurrebbe a risultati negativi e dunque indesiderabili.
La
riflessione sui principi di diritto enucleati dalla Carta mette però a
disposizione dei decisori politici, degli operatori economici e degli
interpreti strumenti ulteriori e più incisivi giungendo a rilevare
l’illegittimità (e pertanto la mancanza di effetti) di accordi
stipulati in loro violazione. Proseguire su questa strada costituirebbe un
passo in avanti verso il progresso e la civiltà, lungo un cammino
avviato ormai dal diritto romano più di duemila anni fa.
[Un
evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende
impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi
presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione
“Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori
del Seminario “Contro l’usurocrazia ”, dal curatore della
pubblicazione e dalla direzione di Diritto
@ Storia]
* Relazione
presentata nel Seminario di studi "CONTRO
L’USUROCRAZIA. DEBITO E DISUGUAGLIANZE", organizzato
dall’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” del Consiglio
Nazionale delle Ricerche – Sapienza Università di Roma, diretta
dal professore Pierangelo Catalano, e dal CEISAL - Consejo Europeo de Investigaciones Sociales de
América Latina, Grupo de Trabajo de Jurisprudencia, svoltosi presso la
Biblioteca Centrale del CNR il 15 dicembre 2017, in occasione del XX
Anniversario della “Carta di Sant’Agata de’ Goti –
Dichiarazione su usura e debito internazionale”.