Estratto anticipato da
ISPROM
ISTITUTO DI STUDI E PROGRAMMI
PER IL MEDITERRANEO
CITTà
DEL MEDITERRANEO
iNCONTRO
PROGRAMMATICO PER LA COOPERAZIONE
Sassari, 2 - 3
dicembre 2016
Le Città come aspetti dell’identità italiana:
uno sguardo dalla Russia
SVETLANA KNYAZEVA
Università per le scienze umanistiche della Russia (RGGU)
Visto che l'oggetto delle nostre ricerche sono le città del Mediterraneo ed
"...è giunta l'epoca storica delle città", ho facoltà di ricordare
Giorgio La Pira, già sindaco di Firenze, eletto nel 1967 presidente della
Federazione Mondiale delle Città Unite e il suo slogan "Unire le città per
unire le nazioni".
Con l’approccio socio-culturale ai vari problemi dei rapporti internazionali
possiamo ricostruire certi segni, caratteri, disegni, simboli sensibili,
sagome, schemi, Gestalt (nella teoria
della Gestalt, i modelli dominanti
rimasti nella memoria collettiva del paese a causa di una particolare
esperienza storica) – l’insieme dei fattori emblematici per capirne l’identità.
Per mezzo di questi schemi e simboli ci si esprime in un dato spazio
socio-culturale e ci si rappresenta all’estero tenendo presente i limiti della
sua sociabilità. I moduli, concetti, connotazioni e idee nascosti nel suo
profondo, ma abbastanza concreti ci possono aiutare a capire perché certi
aspetti evidenti dell'immagine manifestata dagli abitanti di un dato paese al
mondo esterno – vale a dire dall' "Io" collettivo – a un "Altro,
diverso", a uno che "non è uno di noi”, “non appartiene al nostro mondo, alla nostra cultura", che è
"straniero", "estraneo" o addirittura “avversario” -
vengono dimostrati e testimoniati con la tenacia sorprendente, gli altri
aspetti rimangono dietro le quinte. In chiave imagologica sarebbe necessario
concepire in che modo gli atteggiamenti di altri popoli relativi a un dato
paese influenzano i comportamenti del suo popolo e del potere e la
rappresentazione di questo paese nel mondo. Affrontando il problema di
rappresentazioni reciproche nei rapporti internazionali vanno esaminati i
fattori importanti quali modi istituzionali, la cultura politica nonché la
matrice stessa del programma vitale dello Stato, della popolazione, il nucleo
culturale, il profondo dell’identità.
Il nucleo culturale – accettiamo di usare questo termine come sinonimo
dell'identità o la matrice del programma vitale – rappresenta un insieme
multifattoriale di esperienze del popolo e si rispecchia in una certa scala di
valori, fondazioni e principi essenziali, basati su nozioni, idee, percezioni
abbastanza stabili create nei secoli e per secoli su cose di base quali che
cosa vale in un dato spazio socio-culturale la persona umana, che cosa
significano vita e morte, bene e male, vero e falso, libertà o servitù,
violenza e abuso, tolleranza o intransigenza nonché usanze e abitudini,
fondazioni, tradizioni, atteggiamenti diffusi relativi all'istruzione, lavoro,
ambizioni, cognizione. Se la cultura politica è più o meno stabile perché è
basata sul complesso di idee, nozioni, segni e immagini, sagome, Gestalt compatibili, si creano nella
società la disponibilità, e “la volontà collettiva” è manifestata con un atto
volitivo; vanno presi in considerazione anche l’aggressione molecolare e
"l'ordine spontaneo" (o naturale) – i fenomeni che favoriscono la
stabilità dello stato se vogliamo ricordare idee e termini dei famosi liberali
europei del Settecento Adam Smith e François Quesnay oppure la teoria
dell'egemonia di Antonio Gramsci.
In che modo le città possono influenzare la cultura politica, modi
istituzionali, municipalità democratica e, qualora gettassimo uno sguardo
ancora più attento, l'identità stessa del paese?
L'Italia, e soprattutto quella settentrionale e centrale, era sempre un
paese delle città. Che cosa sono, che cosa significano le città nella storia e
civiltà italiana? Sulle coste settentrionali e centrali italiane, nel cuore
stesso del Mediterraneo sorsero le città marinare. Questo fenomeno interessò a
suo tempo tutta l'Europa Occidentale e anche centrale e sicuramente tutta la
zona del Mediterraneo. Si tratta soprattutto delle più note repubbliche
marinare: Venezia La Serenissima,
Genova La Superba, Pisa e Amalfi.
Ricordiamo al proposito che la bandiera della Marina della Repubblica Italiana
è ornata da quattro stemmi, il che vuole ricordare queste repubbliche. Lasciate
in balia di sé stessi, le popolazioni delle città, soprattutto quelle
rivierasche, dovettero per forza arrangiarsi, "fare da sé",
organizzare la vita, costruire fortificazioni e vascelli. Queste iniziative
ebbero successo grazie al benessere economico raggiunto dalle città le quali,
trovandosi sul mare e aggiungiamo, sul mare dalle acque calde, avevano potuto
arricchirsi con il commercio che poteva essere il "segreto" della loro
sopravvivenza, potenza, prosperità. Ottenuta l'indipendenza economica e ridotto
il pericolo delle scorrerie barbariche, molte città riuscirono a rendersi
indipendenti dal punto di vista politico, sottraendosi all'autorità delle
potenze quali il Sacro Impero Romano e il Bisanzio.
La Serenissima, infatti, per non cadere sotto il dominio degli Ostrogoti,
dei Longobardi e quindi dell'impero carolingio, aveva preferito mettersi sotto
la "protezione" dell'Impero Bizantino, e, dal momento che era
lontano, rimase in pratica indipendente – e forte. Ad un certo punto i
Veneziani elessero, riuniti in una specie del Parlamento, un capo che li governasse – un doge, un capo eletto e
dotato di limitati poteri accanto al quale funzionava una specie di governo –
il Maggior Consiglio.
Gli aristocratici veneziani dovevano la loro posizione privilegiata non al
possesso di latifondi o alle imprese militari, ma alla loro attività
commerciale, fra cui la vendita di un elemento indispensabile come il sale. I
nobili veneziani erano "venuti su" grazie al lavoro: coloro che
governavano Venezia, almeno una buona parte di loro, lo facevano in modo da
favorire l'attività commerciale ed economica, l'unica che consentisse alla
città di sopravvivere, facesse i loro
interessi, portasse i cittadini a un certo livello del benessere. E la
"molla" del commercio furono le navi: venivano costruite all'Arsenale
che divenne una vera catena di montaggio.
Passando al Comune, tocchiamo questo
fenomeno sia politico sia sociale ed economico che interessò la maggior parte
delle città della Penisola, dove le condizioni storiche e sociali non permisero
il formarsi di uno Stato unitario. Così fiorì l'epoca dei Comuni, i quali, tra
il Trecento e il Quattrocento, diedero vita a numerose entità statuali minori;
in seguito alcune di queste acquisirono la connotazione di veri e propri Stati
regionali. Va ricordato che nel resto del continente europeo (tranne le libere
città di Hansa) l'esistenza
dell'Impero e poi delle monarchie nazionali sorte a cavallo dell'Alto Medioevo
e l'età Moderna ostacolò il pieno sviluppo dei Comuni; non potettero sorgere
neanche nel Meridione italiano.
Come le Repubbliche Marinare, così le città dell'interno, sorte sulle
maggiori vie di comunicazione, furono investite dal risveglio economico: gli
abitanti si "rimboccarono le maniche" e avvertirono l'esigenza di
riunirsi per lavorare, per produrre merci di ogni genere e sempre di più, per
imparare a fare il commercio – e così migliorare insieme la vita. Le famiglie
abbienti si associarono in consorterie, si giuravano reciprocamente assistenza
in caso di necessità; perfino i religiosi fondarono le confraternite per
esercitare particolari opere di carità.
Che cosa è il vero "motore" dei Comuni? Il lavoro. Vanno indicate
le arti o corporazioni costitute dai ceti che oggi potremmo definire la classe
media – le associazioni create per lavorare che riunivano coloro che svolgevano
un'attività simile e praticavano il lavoro spesso nello stesso quartiere. A
Firenze, per esempio, si trova la via dei Saponari, dei Calzaioli ecc.
L'unione fa la forza. Lo spirito
associativo incrementava l'attività della corporazione e difendeva i loro
membri da tutti quanti che intralciavano il crescente benessere, e si
opponevano ai feudatari ai quali le città erano sottomesse.
Sin dai tempi di Roma repubblicana, come ben sappiamo, gli abitanti dei
borghi preferivano associarsi in assemblea per eleggere i magistrati. Questa
abitudine riprese all'epoca dei Comuni, e i cittadini si riunirono in una
specie del Parlamento o Arengo sia per approvare le leggi – gli Statuti, sia
per eleggere i capi della città-Stato. Prima si trattava dei Giurati - gli eminenti cittadini che
giuravano di dedicarsi alla prosperità del bene comune, più tardi i Consoli che venivano scelti tra i
cittadini più rispettati. Secondo Giovanni Villani, i Consoli governavano le
città e facevano giustizia, e durava il loro ufficio un anno. I meccanismi del
governo comunale veniva completata da altri due organi: il Consiglio Maggiore,
che curava gli affari generali dello Stato, e il Consiglio Minore.
Ma, allora, con i Comuni sono nate (o rinate) la libertà e la democrazia?
Se la libertà poteva dirsi più o meno raggiunta, la democrazia, infatti, era ai
quei tempi ai primi passi. Anche se esageriamo un po’ sopravalutando i tratti
progressivi delle città, del Comune, del suo modo di progredire, ragionare, di
trattare i problemi di lavoro, modo di governare e vivere, questo non cambia
molto; tanto è che nella memoria collettiva del popolo della Penisola il Comune
rimane per sempre un determinato modello di vivere, governare, di essere
governati – e questo – lo dobbiamo sottolineare – è il patrimonio dei Comuni,
l’insieme dei valori e quindi tradizioni conservati nei secoli che appartengono
a questo spazio socio-culturale; è una delle basi profonde del nucleo culturale
italiano, italianità stessa, della
matrice dei modelli istituzionali, del modo di pensare e agire. Non è a caso
che si parlava del "sapore” della libertà, cioè un primo avvio verso la
democrazia nelle città è che "è la stessa aria delle città che rende
liberi i cittadini". Un altro merito importante fu la rivalutazione del
lavoro, di qualsiasi lavoro, comprese
perfino le ”arti spregevoli”; il lavoro veniva riconosciuto come qualcosa di
dignitoso che offriva la possibilità di realizzarsi, degno di rispetto poiché è
necessario al progresso e prosperità della società. Le città divennero così
nucleo della civiltà europea e culla della libertà, provocarono lo sviluppo
della municipalità democratica: il funzionamento del Comune veniva regolato in
modo autonomo dalla popolazione locale che eleggeva i propri rappresentanti con
il compito di curare gli interessi della collettività comunale, e la sovranità
apparteneva a loro. Vale la pena di ricordare la Costituzione della Repubblica
italiana.
Va peraltro ricordato il periodo prolungato del separatismo politico nonché
la presenza dell'Austria e della Spagna in Italia; nel Novecento accadde anche
il Ventennio Nero. Tutto ciò deve essere preso in considerazione come fattori traumatici
– qualora avessimo bisogno di rivelare il ruolo del trauma nel passato e
presente di qualsiasi paese. È la storia del trauma nella civiltà del paese.
Nella tradizione politica e socio-culturale italiana è un luogo comune
ricordare anche il ruolo della Francia nella genesi dell’Italia moderna giacché
la Francia a cavallo del Settecento e Ottocento portava all'Europa la nuova
cultura politica – la cultura liberale di feuillants
nonché quella del radicalismo politico. Durante il predominio d’Oltralpe in
Italia, la sociabilità rivoluzionaria si tradusse in uno spazio politico,
fondato sull’esercizio di carte costituzionali esemplate su quella francese del
1795, che sancivano le libertà del cittadino, ne promuovevano la partecipazione
alla vita pubblica, i principi egualitari, e alla fin fine l’elogio della
democrazia rappresentativa, l'unica forma di governo in grado di garantire i
diritti naturali e inalienabili della persona umana e del popolo sovrano. Come
ha sottolineato il noto filosofo italiano Norberto Bobbio, “la democrazia è
quel sistema politico che permette il maggiore avvicinamento tra le esigenze
della morale e quelle della politica”.
La presenza francese in Italia influenzò la cultura politica nonché i
modelli istituzionali e la sua statualità. Influenzerà anche la scelta storica
e concettuale del conte Camillo Benso di Cavour – la sua scelta del
liberalismo, delle libertà fondamentali, interessi e bene individuali,
responsabilità della persona. Già dal 1870, la cultura politica italiana si
impegnò per rinvenire altrove le origini del Risorgimento, e questo modo di
ragionare e agire troverà conclusione nei termini di uno Stato unitario
liberale.
In che modo riusciamo a spiegare che, senza vantarsi di una lunga
tradizione della democrazia rappresentativa, un certo numero di paesi europei
tra cui l'Italia, può godersi la libertà della persona umana, intesa come la
responsabilità individuale nonché l'esperienza liberale e di business di
successo? Affrontiamo questo problema con l’approccio socio-culturale e magari
anche etnopsicologico e in chiave di studi imagologici, prendendo in
considerazione gli aspetti culturali, psicologici, abitudini e usanze - tutto
ciò che favorisce a formare l’insieme dei valori accettato dalla maggioranza
dei cittadini.
Le repubbliche marinare e i Comuni, fondate o risorse a ben poca distanza
dagli oceani di tutto il mondo, erano centri di idee, informazioni, scambio di
ogni genere, di conoscenza, lavoro, produzione, istruzione, affari, potettero
ereditare anche il patrimonio dell'antica filosofia e logica greca e romana, la
cultura politica e i modelli istituzionali. Le città marittime del Mediterraneo
giocavano un ruolo di crocevia del mondo, di ponte di informazione tra
l'Occidente e l'Oriente – e prosperarono grazie al lavoro sistematico e alla
gestione ragionevole e grazie alle autorità elettive. Con l'andar del tempo,
una buona, per non dire la maggior parte delle élite urbane ha ereditato
l'antica cultura politica e il diritto romano, la tradizione dei Comuni che
fiorirono grazie al lavoro sodo quotidiano – nonché al senso comune dei
cittadini.
La Russia, al contrario, si trovava sempre lontano dalla filosofia europea,
logica, diritto romano, l'antica cultura politica. Le città - lasciamo tra
parentesi l'udel – удел – del principe, knyaz e trattarle nel senso europeo del
termine – non hanno mai avuto luogo nel Medio Evo russo fino ai tempi moderni.
La distanza dai mari e oceani caldi era più che enorme, l’isolamento disteso
nei secoli dai successi, idee, dalle innovazioni europei scientifiche,
patrimonio filosofico, diritto, dalle teorie e le pratiche delle autorità, non
passarono senza lasciare le impronte profonde anche perché il patrimonio
scientifico, filosofico, culturale, innovazioni dell'Occidente e dell’Oriente,
non erano disponibili.
Knyaz, duce, vojd, il sovrano della
“votcina”- “вотчина” – fu dotato dal
potere illimitato. La Rus 'di Kiev,
e, in termini ancora più marcati, Vladimir-Suzdal
(la base del futuro Stato di Mosca) fu stabile e solido solo se guidato da
un governatore molto forte, anzi, terribile – un fenomeno che è la chiave per
la comprensione della storia politica e socio-culturale russa perché tutto ciò
non passò senza lasciare delle impronte emblematiche. E qui deve essere preso
in considerazione un insieme dei fattori: il clima del Nord dalle temperature
molto basse, anche polari, inverno lungo e freddo, venti e tempeste dell'Artico
imprevedibili anche d'estate, mancanza di barriere naturali contro i venti
artici che soffiavano dall’Oceano gelido; terre povere, scarse, territori
enormi dai confini incerti e poco consolidati (da qui - un bel detto di pochi
giorni fatto per scherzo: "I confini della Russia non finiscono da nessuna
parte"). Vanno ancora aggiunti: boschi impenetrabili, paludi, acquitrini,
strade difficilmente raggiungibili, spazi sconfinati, fragilità delle
frontiere, mancanza delle città, almeno nel senso europeo, lontananza
dall'Europa, dall'Estremo Oriente – e l'abitudine della popolazione di vivere
isolati. Per l’aggiunta Knyaz della
Rus' copia i tratti dispotici orientali del Bisanzio. È qui che dobbiamo per
forza ricordare il determinismo geografico di Charles Montesquieu.
300 anni del giogo tartaro hanno rafforzato umiltà e pazienza senza fine
diventata parte della matrice dell'identità russa, nonché la riverenza e il
servilismo rispetto ai tiranni e funzionari anche illegittimi – e tutto ciò
provocò 300 anni ancora di schiavitù per più della metà della popolazione. La
servitù della gleba ha portato la popolazione all'apatia, indifferentismo,
sottomissione, diffidenza, a volte anche odio nei confronti di un altro, alla
mancanza di ogni responsabilità anche nei confronti di sé stessi, paure e
servilismo: perché la schiavitù corrompe il proprietario di schiavi, ma
altrettanto – e anche in misura maggiore – corrompe il servo. Più tardi tutto
ciò ha provocato la diffidenza e sfiducia reciproca, ostilità, paura reciproca
da parte delle autorità dello Stato e la popolazione.
Ma un vero e proprio “patrimonio” (tra virgolette), l'eredità più
importante del giogo tartaro sono alcuni meccanismi del modello nomade asiatico
che dobbiamo definire come «вождество», il termine che proviene dalle definizioni “duce nomade”, “despota
orientale”, chiefdom. Questo termine
– вождество – appartiene al noto analista Dmitry Oreshkin. Вождество dei mongoli-tartari, chiefdom nomade è una forma di Stato, governato da
"una persona carismatica, vojd, mojo (in americano di oggi), dotato dal carisma
e quindi dal potere oltre ogni limite, che riunisce la popolazione nomade per
saccheggiare i vicini”. Questi meccanismi venivano a poco a poco riprodotti dai
sovrani russi nel modello istituzionale del potere e nel modo di governare.
Precisiamo così: вождество, chiefdom è un modello
istituzionale di potere adatto e progettato perché il sovrano possa controllare
la popolazione assoggettata e regnare nei vasti spazi con i confini vacillanti
(non naturali), sia in grado di combattere e difendersi dai vicini nemici
nomadi ostili e feroci, di far aumentare i territori governati, nonché
mantenere la popolazione in obbedienza. Col passar del tempo i meccanismi di вождество vengono manifestati durante il
regno di Ivan il Terribile, il regno dei Favoriti del Settecento, nel
bolscevismo, nell’Unione Sovietica di Stalin.
A questo punto possiamo definire alcune tradizioni che hanno dato impulso a
una certa cultura politica radicatasi nella coscienza della maggioranza della
popolazione tranne élite e persone istruite: il rispetto, anzi, la riverenza,
devozione, ammirazione – e timore della maggioranza della popolazione nei
confronti del sovrano, dello Stato-potere, dello zar (anche terribile e
illegittimo); il consenso tacito a condizione che sia forte e inesorabile
riguardo i nemici. O, meglio dire, dello Stato-potere-sovrano giacché questi
fenomeni vanno benissimo d’accordo fino ad essere uniti, identificati,
diventati una specie di una miscela fusa, di lega. Questo condizionò anche la
sacralizzazione del governatore politico – la tendenza diventata più sentita
dopo che la Chiesa ortodossa, rafforzata combattendo con il paganesimo, aveva
sostenuto il potere del sovrano. Così nella memoria storica e culturale si è
creato un modello istituzionale dei rapporti tra le autorità e la popolazione:
gli interessi dello Stato-potere devono essere considerati primari e valgono di
più rispetto a quelli della persona umana. La vita basata sui diritti
fondamentali e precetti divini, rispetto della persona umana, privacy, dignità dell’uomo e, quindi,
rispetto di sé stessi non valevano quasi niente, come pure ambizione,
individualismo, iniziativa personale che venivano sempre condannati dalla
maggioranza poco istruita – anzi, ci si manifestava il disprezzo verso uno che
lavora sodo. La parte crescente di cittadini (non intendiamo le élite
intellettuali istruite) dimostra oggi il patriottismo falso e arrogante inteso
come la strada unica del popolo scelto da Dio – «богоносец» per sopravvivere disastri – e la pazienza senza fine e fondo senza
nemmeno pensare a contrastare al sovrano. Aggiungiamo qui il mancato desiderio
di libertà, la sua identificazione nella coscienza della maggioranza quale
anarchia, insicurezza, permissività, sospetto e la diffidenza reciproci tra la
popolazione e lo Stato-potere.
L’esperto francese Bruno Groppo spiega gli atteggiamenti specifici della
maggioranza della popolazione verso la libertà affrontando il problema
dell’"esperienza traumatica". La storia del trauma in una data
civiltà ci aiuta a concepire le esperienze traumatiche tenendo conto di altri
fattori (natura, clima, ecc), che ne comprendono l’identità. Se nella storia
della società accadono traumi, soprattutto multipli (invasioni, gioghi,
schiavitù, dittature, genocidio), che provocano sofferenze e dolore –
l'esperienza traumatica crea un particolare sistema di segni, simboli,
immagini, chiaro e accettato dalla maggioranza della società. Questi segni e
immagini vengono stigmatizzati – appare "l'inconscio collettivo” secondo
l'analista Alexander Etkind. Le esperienze traumatiche creano geni dominanti –
sagome, modelli socio-culturali. È così che prende strada il risentimento (ressentiment) – rammarico, invidia,
odio, rabbia, aggressione, disprezzo, insolenza verso “un avversario”,
convinzione di essere “unici”, di aver preso la strada giusta e unica per
arrivare alla grandezza della potenza. Nascono il desiderio di isolarsi dal
mondo esterno nonché i meccanismi di difesa con cui il soggetto affronta i
conflitti stressanti esprimendo aggressività rispetto a “un avversario,
ostile”, “responsabile delle nostre
sofferenze” che vuole “soggiogarci”, “metterci in ginocchia”. Le ostilità della
“maggioranza ubbidiente aggressiva” come l’ha definita il noto scienziato Yuri Afanasiev,
vengono nascosti dietro l’acquiescenza: la popolazione non ha altri mezzi di
esprimere propri desideri.
Le esperienze stressanti colpiscono il presente e il futuro del paese
avvolto nel passato traumatico. Le sue metafore, retorica tradizionale entrano anche quest’oggi
nel discorso socio-culturale e politico, creano certi miti e idealizzazioni di
personaggi politici, modelli istituzionali. È importante che gli atteggiamenti
delle élite intellettuali nonché della gente di strada non impediscano a
valutare attualità, non ci impediscano a capirci.