LE RADICI TEORICHE DELL’AUTOGOVERNO MEDIEVALE*
Università di
Sassari
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2.
Dal sincretismo aristotelico-tomista alla teoria
repubblicana. – 3. Il buongoverno e
l’ossessione repubblicana. – 4. L’età della
discordia. – 5. La piccola
repubblica. – 6. Fra il cittadino e
il suddito. – Abstract.
Dal punto
di vista della teoria politica, la vicenda storica del comune medievale è
particolarmente interessante. Essa si dipana infatti
all’interno di una cornice ideologico-culturale amorfa, che manifesta tutta
l’ambiguità del non essere più qualcosa e non ancora qualcos’altro. Le
città-stato del medioevo non sono una mera riproposizione delle città-stato
greche e nemmeno della res publica romana. D’altra
parte non hanno se non una confusa consapevolezza delle conseguenze che si
svilupperanno, a partire dal Rinascimento, dalla nuova
relazione che esse inaugurano fra governanti e governati intesi, questi ultimi,
ancora prevalentemente in termini organicistici nonostante l’uso della
distinzione, per la verità non concettualmente chiara, fra populus
e civis[1].
Inoltre, il medioevo è totalmente dominato e condizionato, da un punto di vista
politico e culturale, dalla dimensione religiosa. Una dimensione che assume un
carattere non comparabile con quello, pure presente, dell’esperienza greca e
romana. Non a caso, mentre per i greci e i romani la
legittimità delle diverse forme politiche non è determinata né condizionata dal
rapporto con la dimensione religiosa, che costituisce lo sfondo culturale e
assiologico condiviso, la storia dei Comuni medievali e i tentativi teorici di
giustificazione di quella forma di governo coincidono con la storia e la
teorizzazione della distinzione fra legittimità discendente e legittimità
ascendente del potere, coincidono in sintesi con la lotta per il riconoscimento
di una indipendenza autentica rispetto alla regalità teocratica.
L’obiettivo di questo lavoro è, dunque, duplice. Da un lato
intende illustrare il processo di elaborazione del vocabolario repubblicano che, avviato nell’alto
medioevo, costituirà la base teorica del comune autonomo prima di essere
sistematizzato dall’Umanesimo e dal Rinascimento, soprattutto ad opera di
Machiavelli. Il secondo obiettivo è invece quello di valutare le proprietà
euristiche e le capacità esplicative della teoria repubblicana del governo
esaminando, attraverso una (ri)lettura
critica del suo Statuto, l’organizzazione politica e le relazioni sociali che
caratterizzano la Città di Sassari nei secoli XIII e XIV, al fine di
approfondire alcuni nodi interpretativi legati all’attuazione dei principi dell’autonomia
comunale.
L’indeterminatezza
della natura politico-ideologica assieme a una evoluzione
discontinua di istanze, valori e prassi caratterizzanti hanno portato molti studiosi
a negare l’esistenza di un pensiero politico che ispirasse la nascita delle
repubbliche medievali[2]. Del resto, l’esperienza
medievale dell’autonomia politica delle città ha avuto origine in un quasi vuoto ordinamentale (il passaggio
dall’Impero romano al Sacro romano impero), affermandosi attraverso
stratificazioni di consuetudini, prassi spontanee e benevolenza delle autorità
universali riconosciute de jure e dunque, si è sostenuto,
non sarebbe stata supportata da una teoria e da un linguaggio in grado di
contrastare il paradigma della teoria del potere discendente, emblematicamente
espresso dalla formula di Paolo di Tarso “Non
est potestas nisi a Deo”[3]. In effetti, ciò che ha
attratto l’attenzione degli studiosi dei Comuni medievali è più la storia
istituzionale, legata alla fase di codificazione statutaria, che quella delle
sue basi ideologiche. Questo ha portato per molto tempo a privilegiare
le analisi focalizzate quasi esclusivamente sull’utilizzo degli strumenti
giuridici dell’epoca (dei Glossatori prevalentemente) tenendo in secondo piano
la trama di discorsi, nessi linguistici e rappresentazioni ideali che invece
lasciavano trasparire una chiara prospettiva valutativo-normativa tutt’altro
che spontanea o peggio, improvvisata[4]. L’inversione di questa
tendenza deve molto agli studi di Walter
Ullmann[5] e
soprattutto a quelli di Quentin Skinner[6]. Ullmann
ricostruisce minuziosamente i passaggi che, dal Mille in poi, incrinano la
solidità della regalità teocratica. Centrale, in questo passaggio, è l’esperienza
fornita proprio dai Comuni autonomi dell’Italia centro settentrionale, modelli
di governo repubblicano che si configurano come vere e proprie città-stato.
L’affermazione dei princìpi portanti del potere ascendente è qui più che
evidente. Innanzitutto, sostiene Ullmann, per la
presenza di Statuti che contengono le norme di organizzazione, esercizio e
limiti del potere politico e amministrativo. Ma anche perché si
istituisce un rapporto di tipo rappresentativo fra chi ricopre incarichi
di governo e la città nel suo complesso e perché gli eletti assumono la
responsabilità personale dell’esercizio della funzione di fronte agli elettori.
Le repubbliche medievali si reggono e funzionano dunque attraverso la
partecipazione “popolare”, almeno finché dura la fase consolare e quella
podestarile, sebbene si tratti di una partecipazione popolare non totalmente
inclusiva. Il Comune, infatti, è pur sempre un ente inserito in un contesto che riproduce le caratteristiche basilari della
società medioevale, cioè di una società cetuale, rigidamente stratificata e
profondamente inegualitaria[7]. E tuttavia, il sorgere e
la capacità di autorganizzazione interna, soprattutto all’interno delle zone
urbanizzate, delle gilde, delle confraternite e delle corporazioni di arti e mestieri sono segnali importanti
dell’incidenza nella vita quotidiana di pratiche che possono essere ascritte
alla dimensione di un potere di “governo” che nasce dal basso e ascende verso
l’alto[8].
Muovendo
da obiettivi diversi, ossia ricercando le origini del pensiero politico moderno
che ha nel “momento machiavelliano” il suo snodo centrale, anche Skinner attribuisce all’esperienza comunale la valenza
“rivoluzionaria” segnalata da Ullmann. Tra i due
studiosi vi è tuttavia una differenza significativa
che riguarda innanzitutto le fonti dottrinarie a cui attingono per definire la
specificità del regime repubblicano medievale. In Skinner,
in particolare, il linguaggio che si afferma durante l’esperienza comunale
serve a tracciare una linea di continuità fra il pensiero politico della Roma
repubblicana e la teoria neo-romana della libertà, ossia quel filone teorico
che attraversa l’età moderna e che informa di sé, molto più che il liberalismo,
il processo antiassolutistico fino alle rivoluzioni americana
e francese. Per questo egli attribuisce alla traduzione cristianizzata
di Aristotele un’importanza secondaria rispetto alla lettura di Ullmann. Le opere di Aristotele, infatti, soprattutto
nell’interpretazione fornita da Tommaso d’Aquino, sono utili all’elaborazione
di teorie sul potere ascendente ma non danno pienamente ragione della
rielaborazione e dell’affermazione in epoca medievale della teoria repubblicana
dello stato libero. Al contrario,
quando esamina la portata rilevantissima per la teoria dell’autogoverno
medievale delle opere di Marsilio da Padova e di Bartolo di Sassoferrato, Skinner sostiene che in questi autori «la difesa delle
libertà repubblicane deve essere capita e situata contro l’ortodossia tomistica»[9]. Egli crede piuttosto che
sia al vocabolario della Roma repubblicana che si rivolga l’attenzione degli
apologeti medievali dell’autonomia comunale. Un vocabolario che, non
casualmente, arriva a maturazione nella seconda metà del XIII secolo, nel
momento in cui si manifestano già le patologie del regime comunale con
l’inasprirsi del conflitto fra fazioni interne e prima ancora che fossero
elaborate le teorie più compiute della giustificazione giuridica dell’autonomia
comunale. E’ proprio in quella fase infatti che
affiora, forse non del tutto consapevolmente, l’autocoscienza civica: nel
momento in cui si rischia di perdere l’autonomia e la libertà, sostiene Skinner, si raffinano gli strumenti linguistici che,
nell’incitare alla difesa della libertà cittadina ne sostanziano teoricamente
il valore. E non è un caso che gli Statuti, ossia la più “provocatoria” – in quanto emanati da un potere de facto - e concreta
dimostrazione di autonomia legislativa praticata dai comuni medievali,
fioriscano prima ancora che la dottrina giuridica fornisca loro uno strumento
legale su cui fondare la propria autonomia e quindi arginare le pretese alla
subordinazione sempre avanzate dal potere imperiale.
La teoria
repubblicana del governo emerge, in epoca comunale, da una frattura culturale
prima che politica. Si tratta di una discontinuità, inizialmente poco visibile,
rispetto alla rappresentazione del mondo tipica dell’uomo medievale che è definita, com’è noto, prevalentemente dalla teologia
cristiana. Sebbene infatti l’egemonia della visione
religiosa e dei suoi custodi investa sia la conservazione e la trasmissione del
sapere classico, sia l’arte e la filosofia (che in questa fase presenta confini
labili e incerti con la teologia), il confronto delle idee non può dirsi
esclusivamente circoscritto all’ambito ecclesiastico[10]. È da questa ipotesi che Skinner muove per ricostruire i passaggi verso un’ideologia
laica autosufficiente. In effetti, sostiene, «alla fine del XIII secolo i
protagonisti dell’autogoverno repubblicano potevano disporre
di due distinte tradizioni dell’analisi politica [che] resero possibile
ai protagonisti della libertà repubblicana di concettualizzare e difendere i
valori peculiari della loro esperienza politica»[11].
Della
minuziosa ricostruzione di Skinner è sufficiente qui
cogliere il nesso fra quattro sviluppi culturali che caratterizzano il XIII
secolo: il primo riguarda l’evoluzione della retorica nel momento in cui si
afferma come strumento propagandistico, sia come Ars Dictaminis che
come Ars Agendi,
e non più solo come disciplina accademica riservata agli studenti di diritto;
il secondo è rappresentato dall’emergere di una letteratura politica, anch’essa
derivata dall’Ars Dictaminis,
consistente in raccolte di consigli destinati ai podestà; il terzo riguarda la
diffusione del pensiero politico della Roma repubblicana, veicolata, a partire
dalla seconda metà del ‘200 dall’Umanesimo e dalla filosofia scolastica, non
più all’insegna dello stoicismo, e quindi del distacco dagli affari politici,
bensì come esempio di impegno e virtù civile. Sono questi gli impulsi che
preparano il terreno per il superamento dell’approccio dei Glossatori, fino
allora dominante, al problema del conflitto fra sovranità imperiale e autonomia
comunale che sarà esemplarmente risolto, almeno
teoricamente, a vantaggio delle rivendicazioni dei Comuni con le opere di
Marsilio e Bartolo nella prima metà del Trecento.
L’Ars Dictaminis si afferma come una nuova forma di annalistica e
cronaca cittadina che scardina il monopolio dei chierici nella narrazione delle
vicende politico-militari dei comuni. Nei primi
decenni del XIII secolo infatti, sostiene Skinner, «alcuni giuristi, dictatores
ed altri esponenti laici delle discipline legate alla retorica iniziarono per
la prima volta ad occuparsi della storia della loro città. Fece così la sua comparsa una forma completamente nuova di storiografia
civica dettata da uno stile più retorico e di un tono più consapevolmente
propagandistica di tutto quello che si era tentato precedentemente»[12] anche
perché la cronaca diventa secondaria rispetto alla divulgazione dell’ideologia
repubblicana. Da Boncompagnone da Signa (Liber de Obsidione
Ancone) a Rolandino da Padova, il fine ideologico è sempre dominante:
«tutta la cronaca è infatti concepita come una
celebrazione della libertà repubblicana, da trattare come un valore politico
fondamentale che è necessario difendere se in pericolo»[13].
Particolarmente
interessante per la comprensione dell’impianto istituzionale marcatamente
repubblicano degli Statuti è invece la comparsa della letteratura sui consigli
ai magistrati e ai podestà. Il primo di questi trattati, l’anonimo Oculis pastoralis,
che risalirebbe al 1222, ma anche il Liber
del regimine civitatum
di Giovanni da Viterbo sono opere che riflettono ancora profondamente l’uso del
linguaggio e della simbolica scritturale[14].
Il riferimento al “timor di Dio” è l’orizzonte
all’interno del quale si deve espletare l’esercizio
del potere del podestà. Si tratta tuttavia di testi che anticipano questioni,
come si vedrà, che negli Statuti diventeranno centrali in una prospettiva
“laicizzata” della funzione di governo. Mi riferisco in particolare all’enfasi
che queste opere assegnano alla corretta condotta dei podestà e alla
definizione del buongoverno tarata sulla contrapposizione fra vizi e virtù dei
governanti, che negli Statuti sarà declinata in funzione anti-corruttiva e a
garanzia del controllo “popolare” dell’esercizio del potere.
Che questo
vocabolario arrivi agli Statuti depurato del suo primario significato religioso
è plausibile anche alla luce della contemporanea diffusione dei testi politici
di Cicerone, di Sallustio, di Catone ad opera di pre-umanisti come Brunetto Latini e della riflessione
critica sull’aristotelismo e l’ortodossia dell’interpretazione del diritto
compiuta da autori come Mersilio e Bartolo.
Skinner attribuisce all’Umanesimo
un’importanza decisiva per l’elaborazione della teoria repubblicana. Innanzitutto per il contributo alla definizione del concetto di
libertà, intesa come indipendenza e assenza di dominio, ossia come facoltà di
autoregolazione non arbitraria del governo della società. Gli umanisti,
inoltre, «procedettero a sviluppare un’ideologia
consacrata non solamente a sostenere i valori centrali delle libertà
repubblicane, ma anche volta ad analizzare le cause della loro vulnerabilità e
ad accertare quali fossero i metodi migliori per tentare di assicurarne la
continuità»[15].
Il debito verso la cultura romana e ciceroniana è in questo senso chiarissimo.
Come del resto le analogie di contesto, cioè la crisi
del sistema. Come Cicerone, questi scrittori assistono alla progressiva
decadenza dei costumi (la corruzione), dei valori e delle istituzioni repubblicane (le
fazioni). Come Cicerone, assistono all’invocazione e all’imposizione di un
ordine nuovo che per garantire la pacificazione sociale deve ridurre la
libertà. Il filo conduttore della trattatistica politica diviene, in questo
modo, la preoccupazione per l’avvento dei “nuovi despoti”.
È
interessante notare che da queste analisi emerge una concezione del buongoverno
diametralmente opposta a quella che si affermerà in tarda epoca moderna e che
meriterebbe ancora oggi una maggiore attenzione poiché riguarda l’endemica
questione del rapporto fra politica e corruzione. Infatti, se la filosofia
politica moderna riterrà di arginare il problema della corruzione attraverso la
creazione di istituzioni forti, i teorici repubblicani
hanno sempre sostenuto che la corruzione prescinde dalla qualità delle
istituzioni essendo piuttosto intimamente correlata alla qualità degli
uomini: «se gli uomini preposti alle
istituzioni di governo sono corrotti, non ci si deve aspettare che le migliori
istituzioni possibili siano in grado di formarli o frenarli, mentre se gli
uomini sono virtuosi, la salute delle istituzioni sarà un fatto di secondaria
importanza»[16].
Da questo assunto dipendono in gran parte le categorie portanti
del pensiero politico repubblicano, che consentono di isolarne l’originalità e
la specificità.
Letteralmente repubblica significa «cosa pubblica», «cosa del
popolo», e denota, nel vocabolario dei latini, una comunità politica sovrana
governata dalle leggi e organizzata intorno a due principi fondamentali: il
perseguimento del bene comune in quanto scopo primario
dell'azione del governo; la libertà dei cittadini intesa come assenza di
dipendenza da una volontà arbitraria[17]. Res
publica è un termine che evoca dunque l'idea del
controllo del potere politico e che si contrappone pertanto al principio monarchico
che incarna (nell'esperienza dei romani e) da Cicerone in poi, l'idea del
potere arbitrario. La definizione di Cicerone, per la verità, come è pur noto, non è che una declinazione delle due
principali interpretazioni del buongoverno (inteso o come il governo
nell’interesse di tutti o come il governo sottoposto ai vincoli della legge)
che risalgono a Platone e Aristotele e che sono state variamente reinterpretate
nella storia del pensiero politico successivo. Nelle Leggi, Platone sostiene infatti: «dove la
legge è sottomessa ai governanti ed è priva di autorità, io vedo pronta la
rovina delle città; dove invece la legge è signora dei governanti e i
governanti sono i suoi schiavi, io vedo la salvezza delle città (...)». Nel IX
libro della Repubblica, egli aveva
invece definito il malgoverno come il governo di chi persegue solo il proprio
interesse e nella figura del tiranno (che usa il potere per soddisfare i propri
piaceri e i desideri illeciti) aveva indicato la sua espressione parossistica.
Non diversamente Aristotele giustifica la sua preferenza per il governo delle
leggi, sostenendo che la legge (che ha un carattere generale a differenza del
comando del capo di turno), «non ha passioni che necessariamente si riscontrano
in ogni anima umana»[18].
Come giustamente è stato osservato, le due interpretazioni del
buongoverno (la prima riguardante la domanda: chi governa?,
la legge o il sovrano?; la seconda, come si governa?, per il bene proprio o per
l’interesse di tutti?) sono circolari: «il governo delle leggi è buono se le
leggi sono buone e sono buone le leggi che hanno di mira il bene comune»[19].
Questi ultimi due principi non sono tuttavia necessariamente
connessi a una forma specifica di governo. Sono per esempio compatibili con
tutte le forme buone di governo teorizzate da Aristotele (monarchia,
aristocrazia e politia).
La differenza fra Aristotele e Cicerone (e poi Machiavelli) sta allora nel
credere o nel dubitare che leggi buone possano discendere da un potere non
sufficientemente limitato o che può in qualunque momento rompere gli argini
entro i quali deve operare[20].
E’questa l’ossessione repubblicana, radicata peraltro in una concezione
antropologica fondata non tanto sulla malvagità dell’uomo quanto piuttosto
nella possibilità della sua corruttibilità[21].
Timore che Cicerone ha creduto di superare equiparando il buongoverno al
governo misto e che le civitates
medievali hanno cercato di imitare equiparando l’ideale del buongoverno a
quello della Roma dell’età repubblicana.
La rielaborazione duecentesca degli ideali repubblicani può
essere considerata dunque come una variazione o attualizzazione delle sintesi
ciceroniane del tema del buongoverno: il valore
portante, la libertà intesa come assenza di dominio, si realizza stabilendo un
rigido legame fra il governo esercitato in base alla legge e il perseguimento
dell’interesse comune. Ne discendono tuttavia una serie di corollari non
secondari per la qualificazione popolare dei regimi repubblicani. Il primo
riguarda le qualità che capacitano la partecipazione rispetto all’esercizio del
potere. In questo senso è costante, da Compagni a Latini a Dante, l’idea che «la nobiltà tradizionale debba essere ignorata e che possono
essere idonei individui appartenenti a tutte le classi sociali, con l’unica
condizione che essi posseggano una sufficiente larghezza di vedute che permetta
loro di opporsi al dominio degli interessi settoriali». La virtù è dunque
intesa come «proprietà puramente personale, una conquista individuale piuttosto
che l’appartenenza a famiglie che il caso ha voluto siano antiche o ricche»[22]. Il secondo, concerne
invece l’attribuzione al “popolo” (piuttosto che, come si è detto, alle
istituzioni) del compito di tutelare e salvaguardare il sistema politico dalle
degenerazioni e dall’avanzata, che nella seconda metà del Duecento si faceva
sempre più realistica, dei signori e dei tiranni.
Al di là della trama celeberrima, semplificata dal dramma amoroso, la
vicenda di Giulietta e Romeo, o meglio il conflitto fra Montecchi e Capuleti, racconta molte cose sulla storia dei Comuni
medievali italiani, sulla loro trasformazione e sulle ragioni che ne causarono
il tramonto. Il conflitto fra Montecchi e Capuleti infatti (e in generale fra guelfi e ghibellini, neri e
bianchi), per quanto probabilmente frutto di immaginazione romanzesca, evoca
emblematicamente le atmosfere turbolente delle città-stato medievali: il fazionalismo, la corruzione, il logoramento del rapporto di
fiducia fra governo e cittadini, la prevalenza degli interessi particolari su
quelli della città. Tutte istanze che, a partire dalla
seconda metà del XIII secolo, alimentano aspri conflitti interni alle città
promossi, nella maggior parte dei casi, dalle frange popolari, ossia da coloro
che erano esclusi dai diritti politici e quindi dalla cittadinanza attiva, di
volta in volta sostenuti o osteggiati dalle aristocrazie e oligarchie locali[23]. I moti popolari che
emersero nelle più importanti repubbliche dell’Italia centro settentrionale
ottennero però, nel migliore dei casi, l’allontanamento delle famiglie
nobiliari dai ruoli di governo e l’insediamento di oligarchie
mercantili.
È noto che l’impulso popolare non produsse mai una vera e
propria “democratizzazione” delle repubbliche. Casomai accelerò il processo
verso l’istituzione delle Signorie. Il fazionalismo infatti sovvertì la scala dei valori su cui si fondava la
preferibilità della res publica corroborando l’idea (con l’autorevole sostegno
di Tommaso d’Aquino) che la pace fosse preferibile alla “libertà” e all’indipendenza
e che il regime monocratico garantisse meglio la stabilità e la grandezza delle
città.
Questa
polarizzazione, che caratterizza tutta la fase discendente dei comuni italiani,
costituisce il retroterra polemico che ispira, agli inizi del Trecento, le
opere più compiute sull’autogoverno cittadino. Si tratta, com’è noto, del Defensor pacis di Marsilio da Padova e delle opere di Bartolo di
Sassoferrato fra cui il De regimini civitatis, il De tyranno, il
De Statutis.
Gli elementi combinati delle opere di questi due autori forniscono al governo
repubblicano ciò che fino a quel momento era stato pensato e discusso in modo
confuso e asistematico. Mentre, infatti, la dottrina politica di Marsilio, che
contrappone il civis
al fidelis,
subordinando la Chiesa all’autorità della civitas[24], impernia sulla figura del civis il ruolo
determinante e imprescindibile per il governo della società, la dottrina
giuridica di Bartolo pone le basi giustificative del diritto-potere dei cives di
governare se stessi. Marsilio dunque, come ha osservato Skinner,
fornisce ai Comuni l’argomento contro la chiesa mentre Bartolo gli fornisce
l’argomento contro l’impero[25].
L’eccezionalità di queste opere, e probabilmente anche il loro
isolamento nell’orizzonte della filosofia medievale, risiede nel rifiuto della
lettura mediata dei testi classici, Aristotele innanzitutto (e il diritto
romano in secondo luogo), che all’epoca dominava il dibattito nella forma
dell’adattamento alla cosmologia cristocentrica realizzata da Tommaso.
Pur essendo diverse per linguaggio, metodi e approcci, nelle
dottrine di Marsilio e di Bartolo si possono individuare medesimi presupposti e
finalità convergenti sia di tipo normativo sia relative alla contingenza
storica. I presupposti risiedono nella concezione dell’autosufficienza della
legge positiva che consentirà loro di teorizzare il governo fondato sul
consenso popolare al fine di contrastare, anche in termini propagandistici,
l’avanzata dei “tiranni”.
Per Marsilio «la legge è fatta, non data, ed è fatta dalla
comunità dei cittadini»[26]. Il punto è chiaramente espresso nel
Defensor Pacis:
«Diciamo dunque, d'accordo con la verità e l'opinione di Aristotele, nella
Politica, libro III capitolo VI, che il legislatore o la causa prima ed
efficiente della legge è il popolo o la sua parte prevalente,
mediante la sua elezione o volontà espressa con le parole nell'assemblea
generale dei cittadini, che comanda che qualcosa sia fatto o non fatto nei
riguardi degli atti civili umani sotto la minaccia di una pena o
punizione temporale»[27]. L’universitas civium dunque detiene il potere. Più
semplicemente, il legislatore è il popolo, cioè il vero sovrano, poiché superiorem non recognoscens[28].
Il nesso fra diritto positivo e sovranità popolare, che scardina
la concezione della legge come donum Dei, laicizzando
la sfera della politica, è pure al
centro della complessa e articolata opera di Bartolo. Il suo intento è
dimostrare come la diffusione del diritto consuetudinario (jus
commune) e l’affermarsi dell’autonomia statutaria dei
Comuni non solo dimostrano la fallacia delle concezioni discendenti del governo
e della legge (ossia dei principi della regalità Dei gratia)
ma anzi, ne rappresentano una sorta di confutazione fattuale: se il popolo
produce e si conforma al diritto consuetudinario (che emerge spontaneamente
dagli usi e costumi praticati dal popolo stesso e non certo calati da volontà
esterne) allo stesso modo può produrre il diritto positivo, cioè può fare leggi
e Statuti[29].
Riferito alle pretese di autonomia dei comuni, questo non significa sostenere
che il loro potere è legittimo solo perché è effettivo (esercitato de facto) ma
che è effettivo perché fondato sul consenso dei cittadini.
Il primo
obiettivo di Bartolo è quello di contestare
l’approccio dei Glossatori nell’applicazione del diritto romano circa le
prerogative dell’imperatore. Il metodo usato da Bartolo è ancora quello dei
Glossatori, cioè prevalentemente il commento al Digesto, ma il ragionamento
geometrico che egli segue ne rovescia le conclusioni. I Glossatori estendevano
all’imperatore i diritti che il codice di Giustiniano attribuiva al princeps.
Pertanto, se il contesto socio-politico (nella
fattispecie la rivendicazione dei comuni all’autonomia) non era coerente con
quei principi, il contesto doveva essere cambiato e riportato nel solco del
diritto vigente. Reinterpretando il diritto civile romano, Bartolo postula
invece il principio opposto: quando la legge entra in conflitto con i fatti è la legge che deve essere riportata in conformità ai
fatti. Da ciò egli deriva due conseguenze profondamente innovative: la
negazione dell’universalità della sovranità, e dunque la possibilità del
pluralismo degli ordinamenti politici sovrani; l’estensione ai Comuni della
qualità di essere sibi princeps
all’interno del proprio “regno”, simili in tutto, dunque, nelle prerogative che
rendono l’imperatore sovrano nel suo regno.
I due
argomenti sono sviluppati nello stile della risposta a quesiti comunemente
discussi dai giuristi nel conflitto secolare fra sovranità imperiale e
rivendicazioni comunali. Il primo viene illustrato nel
commento alla parte del Digesto dedicata a definire il diritto di delega a
svolgere competenze giurisdizionali, che è tipicamente prerogativa di chi
esercita la sovranità e, nell’interpretazione dei Glosssatori,
dell’imperatore. Riferendosi esplicitamente all’esperienza comunale, Bartolo
inizialmente nega la possibilità della delega «nelle
città che riconoscono un superiore [in quanto] esse sono obbligate a ricorrere
all’imperatore». Paradossalmente ciò dimostra la possibilità della delega «nel
caso di città che rifiutano di riconoscere la signoria dell’imperatore [poiché]
esse sono in grado di fare le proprie leggi» giacché «in questo caso la stessa
città è sibi princeps, un
imperatore essa stessa»[30]. Anche il secondo
argomento serve a giustificare la rivendicazione del diritto all’autonomia
ordinamentale – sBartolo fa
esplicito riferimento alla città di Firenze – e dunque alla conservazione
dell’autogoverno repubblicano attraverso la libertà di emanare statuti. Il
pretesto è qui la questione della competenza nei giudizi di appello che egli
esamina ripercorrendo la gerarchia fra i giudici fino all’apice, nel quale il
Digesto colloca il priceps. Questa gerarchia sarebbe
non applicabile, egli sostiene, nelle città che non riconoscono alcun
superiore, come appunto Firenze, che «elegge il suo
reggitore e non ha altro governo». Infatti, «in questo
caso il popolo stesso deve agire come giudice di appello, oppure una classe
speciale di cittadini nominata dal governo [poiché] in questo caso il popolo
stesso costituisce l’unica entità superiore e quindi costituisce il sibi princeps, ossia un
imperatore esso stesso».
Al di là degli straordinari esiti teorici (l’elaborazione di una
teoria della sovranità popolare nel quadro di un pressoché generalizzato
consenso delle teorie sull’origine discendente del potere) le opere di Marsilio
e Bartolo sono particolarmente interessanti anche perché contengono un preciso
intento pratico, più raffinato e articolato, ma sostanzialmente simile a quello
dei dictatores:
quello cioè di sottolineare la bontà di istituzioni non arbitrarie e
parallelamente evidenziare il punto critico della tenuta del sistema, che come
in altri autori, è il fazionalismo, il pericolo della
scissione del corpo cittadino in partiti e gruppi rivali e la corruzione dei
valori repubblicani per la cui soluzione era continuamente evocata la minaccia
del ritorno dei tiranni. È proprio questa minaccia che giustifica
l’impossibilità per il popolo di alienare il potere sovrano. Nessuna
migliore garanzia per il popolo di evitare il dominio che quella di detenere il
potere sovrano. Può essere secondario il soggetto che esercita
effettivamente il potere. Quest’ultimo tuttavia è un mero rappresentante pro
tempore e in base a un mandato esplicitamente definito
- e pertanto revocabile - dai cittadini. Riemerge evidentemente, anche in
questi autori, quella che ho definito come l’ossessione repubblicana per il
controllo sull’esercizio del potere politico. Non è un caso che essi, in aperta
polemica con le tesi sintetizzate da Tommaso, secondo cui «tutte le città e le
provincie che non sono rette da una singola persona divengono lacerate dalle
fazioni e si agitano senza mai ottenere la pace, (mentre) non appena vengono ad essere rette da un unico governante, gioiscono in pace,
fioriscono in giustizia e godono di abbondanza e ricchezza»[31], ribadiscono
che la piena compatibilità fra la tutela della libertà e la garanzia della pace
è possibile solo attribuendo al popolo il ruolo di Defensor pacis.
Più o meno negli stessi anni in cui le proteste popolari, attraverso le
richieste di maggiore inclusione nel governo delle città, provocarono la svolta
anti nobiliare in molti dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale,
l’esperienza comunale si estese fino a connotare anche l’organizzazione
politica e sociale di alcune città situate geograficamente nell’Italia
meridionale e insulare. Fra queste, per il modo peculiare della sua genesi e
per talune caratteristiche connesse ai costumi e ad altre espressioni culturali
particolarmente legate al territorio, il caso di Sassari ha un particolare
rilievo storico.
La forma di governo che si istituì a Sassari con la convenzione
fra il capoluogo turritano e la Repubblica di Genova (1294) fu il risultato di due impulsi popolari solo apparentemente contrapposti, uno
di emancipazione, l’altro di stabilizzazione. Il primo caratterizza la fase di
creazione di un nuovo ordine politico e di una nuova
organizzazione amministrativa durante il processo (spesso cruento) di
emancipazione della città di Sassari dalla giurisdizione del Giudicato di
Torres e dall’influenza pisana. Il secondo è la sistematizzazione e positivizzazione in un codice statutario di una serie di istituti e norme consuetudinarie stratificate nel tempo
che rivelano da un lato elementi tipici delle pratiche e dell’identità della
società sarda dell’epoca, e dall’altro lato l’integrazione degli istituti e
della cultura repubblicana traslata proprio dall’esperienza della dominazione
pisana[32]. Un terzo impulso determinante
fu ovviamente l’utilitaristica benevolenza[33] di Genova che, confederando la città
di Sassari consentiva l’istituzione di una piccola
repubblica[34] più o meno a sua immagine e
somiglianza.
L’Atto di confederazione tra il comune di Genova e il comune di Sassari contiene già tutti gli elementi che
consentono di collocare pienamente quell’esperienza fra gli esempi medievali di
applicazione dei principi del governo popolare così chiaramente illustrati nei
lavori di Ullman e Skinner.
E’ tuttavia nelle norme contenute nei codici statutari, e non solo in quelle relative al diritto pubblico e all’organizzazione
amministrativa, che emerge la natura specifica della forma di governo del
Comune autonomo sassarese.
Sul concetto di autonomia ruota molta parte del dibattito
sull’interpretazione e il valore di quella esperienza
di governo. Forse troppo enfaticamente si è cercato di individuare in quel moto
di ribellione contro il dominio giudicale e nelle maglie degli Statuti, il
principio di una presunta radice congenita dei sardi all’autogoverno[35]. Anche più azzardato è il
tentativo di forzare la lettura degli Statuti per rintracciare una forma
“primigenia” di democrazia[36].
Con l’uso delle categorie proprie della teoria repubblicana del governo illustrata sopra, intendo sostenere in
particolare due tesi. La prima, concerne il valore dell’istanza
dell’autonomia che, in quest’ottica, non traduce l’idea della democrazia (il
presupposto assiologico del governo popolare non è l’uguaglianza dei cittadini
rispetto all’esercizio diretto del potere; casomai è l’uguaglianza rispetto
alla protezione e alla sicurezza garantita dalla legge). La seconda tesi,
strettamente collegata alla prima, riguarda la definizione - tanto indagata
nella letteratura sugli Statuti medievali - del cittadino, che non è definito
da un catalogo di diritti ma dall’ideale della libertà intesa come non dominio
e dal sentimento di appartenenza (organicisticamente inteso) alla città, che si
esplica attraverso l’esercizio di quelle che il
pensiero repubblicano definirà virtù civiche.
Dal punto di vista di una teoria generale delle forme di
governo, le repubbliche medievali italiane, e a maggior ragione il caso delle
città confederate e pazionate, sfuggono a una rigida
classificazione. Infatti esse non sono particolarmente
inclusive (rispetto all’estensione dei diritti politici) da rientrare nella
classe delle repubbliche democratiche né particolarmente esclusive da essere
considerate, secondo la distinzione che opererebbe Machiavelli, repubbliche
aristocratiche. Del resto, per il Segretario fiorentino la grande distinzione,
quella sostanziale, è quella fra il governo condotto in base alla volontà di
uno (il principato) e il governo espresso da una volontà collettiva (poco
importa che tale volontà si formi democraticamente o provenga da una aristocrazia). Un realismo che ispira anche il giudizio
di Giuseppe Manno quando segnala che l’importanza della Convenzione sta nel
fatto che «grande è il passaggio di città soggetta a città confederata»[37] e
quando inaugura l’uso della locuzione “repubblica”, che nella Convenzione non
compare mai per qualificare Sassari, come corrispondente sostanziale di quella
nuova forma di reggimento.
Benché il termine appaia ripetutamente nelle titolazioni delle
trascrizioni ottocentesche degli Statuti e nella vulgata[38], è improprio definire la Sassari
comunale una res publica.
Sassari è un comune pazionato, dalla sovranità limitata. Sebbene tali limiti
avessero natura pattizia, fondati cioè sul consenso tanto da richiamare una
sorta di analogia con la figura dell’assoggettamento volontario[39] e
nonostante la prassi potesse aver consolidato fra i terrazzani della villa[40] di Sassari l’abitudine a
considerarsi autonomi, il fatto che la nomina del Podestà, l’istituzione che
coordina l’insieme dei poteri politici in una posizione sovraordinata rispetto
agli altri, fosse prerogativa della Repubblica di Genova, ne limita di fatto
l’autonomia. Tuttavia, questo dato non inficia la possibilità di estendere la
definizione di Cicerone prima ricordata al Comune autonomo di Sassari. Non solo
perché, come si vedrà, l’elettività, la frequente rotazione della carica e il
sistema di controlli e contropoteri cui è vincolato il podestà garantiscono la
comunità dall’esercizio arbitrario del potere ma anche perché, almeno
formalmente, ciò che legittima la Convenzione e obbliga entrambi i contraenti è
il perseguimento del bene comune delle due comunità. Infatti, la lettura
combinata del patto di confederazione e degli Statuti conferma un’architettura
istituzionale orientata da un lato a stabilire, attraverso il governo delle
leggi, argini contro l’arbitrio e la corruzione nell’esercizio del potere
politico, dall’altro a ribadire i fini generali del
governo che nel linguaggio dell’epoca si esprimeva attraverso la ricerca della
grandezza, della conservazione e della stabilità della Repubblica.
Sotto il profilo dell’organizzazione interna la Convenzione e
gli Statuti prevedono tre istituzioni politiche fondamentali: il podestà, il
consiglio maggiore e il consiglio minore. Il podestà,
eletto direttamente a Genova fra cittadini di Genova,
attraverso un meccanismo a doppio turno e (nell’attuale terminologia si
direbbe) dalle due camere in seduta comune (consiglio maggiore e consiglio
degli anziani), resta in carica un solo anno. Fra i cittadini di Genova sceglie
i suoi più stretti collaboratori. Riguardo alle sue funzioni, è disposto che
egli «abbia ed eserciti ogni giurisdizione, il mero e
misto imperio e qualunque autorità sulla detta terra di Sassari e sul distretto
(…) così che non abbia alcuno né superiore né uguale, né alcun magistrato od
altri sia o possa crearsi in detta terra di Sassari»[41].
Il consiglio maggiore, composto da
cento consiglieri (juratos), il 90% dei quali eletti
a vita (e rinnovato attraverso cooptazione dallo stesso consiglio), è la
massima istituzione rappresentativa del Comune: riunisce infatti non solo i
rappresentanti dell’oligarchia borghese e mercantile (l’indiscussa classe
dirigente del comune medievale) ma anche una piccola rappresentanza di
cittadini di origine popolare, nominati non per lo status sociale ma in base
alle qualità morali, alla reputazione acquisita per aver reso servizi alla
Città e per il fatto di possedere competenze tali da garantire l’esercizio
esperto e saggio della funzione. Ciò che conta sottolineare,
a questo proposito, è che questa pur esigua rappresentanza popolare è designata
da quelli che negli Statuti sono indicati come boni homines fra altri boni homines,
cioè fra coloro che meglio esibiscono le qualità morali e le competenze
tecniche di cui si è detto[42]. Il consiglio maggiore assomma
molteplici funzioni (dalla vendita degli uffici e dei beni del comune alla
selezione degli emendatori degli Statuti; dalla
designazione degli otto sindaci alla determinazione dei prezzi delle carni)
molte delle quali svolge in concorso col podestà[43].
Il consiglio minore, o consiglio degli
anziani, è invece una sorta di organo esecutivo rispetto alle deliberazioni del
consiglio maggiore. La sua composizione riflette la volontà di coinvolgimento
di tutta la città nella vita politico-amministrativa, mentre le sue funzioni
evidenziano la ricerca del bilanciamento fra poteri e del controllo sull’esercizio
del potere politico. Infatti, è composto da sedici
membri (nominati fra gli anziani), quattro per ciascun quartiere in cui è
divisa la città; è presieduto da un priore, di solito il più anziano. Al
consiglio minore, fra le altre cose, spetta, di concerto col podestà, convocare
il consiglio maggiore, emanare i bandi, selezionare il personale amministrativo
- gli officiales dessu comune - e i tecnici. Un ruolo rilevante svolgono, fra questi, gli otto sindaci (scelti anch’essi fra
boni homines)
e il massaio. Ai sindaci è infatti delegato il compito
di vigilare sulla legittimità e sul merito dell’operato degli ufficiali
pubblici: verificano la corrispondenza degli atti alla Convenzione con la
Repubblica di Genova, approvano i bilanci delle spese degli uffici, vigilano
sulla fedeltà degli ufficiali, sulla corretta gestione del patrimonio pubblico
e sulla conservazione dei beni del Comune. Il massaio è invece il tesoriere. È
nominato da otto boni homines
(due per quartiere) invitati dal consiglio minore a selezionare appunto uno buono e savio uomo. Dura in carica
appena due mesi e non è rieleggibile prima di dieci anni
né coloro che lo hanno eletto possono per un anno far parte degli elettori del
massaio successivo. Si noti a questo proposito che gli Statuti non tralasciano,
a conferma dell’impianto in funzione anti corruttiva, di esplicitare
il divieto del voto di scambio inibendo, a tutti coloro che sono chiamati nel
ruolo di elettori, di accogliere richieste di candidature, direttamente o per
interposta persona[44].
Una miriade di altre funzioni completano
il quadro istituzionale: dalle corone (organi giudiziari tipicamente autoctoni[45]) ai majores de chita[46] ai vari apparati di
polizia e pubblica sicurezza.
Ciò che caratterizza le istituzioni comunali, qui solo rapidamente
abbozzate, è tuttavia da un lato la connessione costante, regolata dalla legge,
fra l’esercizio della funzione e la responsabilità personale. Una connessione
che investe tutti i ruoli, da quello apicale del podestà fino all’ultimo degli officiales dessu comune
e persino i semplici cittadini. Dall’altro lato la
previsione di una serie di vincoli contro l’esercizio arbitrario del potere e
di argini contro la possibilità della corruzione. Se c’è una
discontinuità specifica fra le forme di governo che il mondo occidentale ha
praticato fra la caduta della Repubblica romana e l’edificazione dei grandi
stati assolutistici è proprio in queste due istanze,
idealmente pensate per affermare il governo della legge contro il governo degli
uomini, il non dominio rispetto all’arbitrio, la volontà collettiva rispetto
agli interessi di uno (o di pochi).
Già nell’Atto di confederazione, assieme alle prerogative, sono
indicati i limiti del potere del podestà. Mentre infatti
gli si riconosce ogni giurisdizione (civile e penale) e una autorità che sulla villa e sulla terra di Sassari non ha superiore né uguale, questa tuttavia è
esercitata «secundum capitula, et statuta et consuetidines loci predicti». E l’articolo 152 del I libro degli Statuti,
a ulteriore conferma di quanto già contenuto
nell’articolo 1 dedicato al giuramento del podestà, ribadisce che egli non
possa esercitare alcun arbitrio: «Ordinamus qui sa potestate del Sassari (…) non pothat,
over deppiat in nessunu modu aver, nen exponner in consizu, over foras, de aver daue su Cumone de Sassari alcunu arbitriu, salvu solamente secundu sas conventiones factas inter issu Cumone de Ianua, et issu Cumone de Sassari, et issos capitolo et ordinamentos dessu Cumone de Sassari».
In generale, gli Statuti disciplinano in modo stringente
l’azione del podestà, stabilendo l’onorario, l’abitazione, il divieto di
esercitare violenza fisica su alcuno, di accettare regali (I, 114), di
intraprendere attività commerciali in proprio, di coltivare relazioni personali
con i terrazzani (I, 118) e soprattutto, di avanzare personalmente o tramite il
consiglio richieste in denaro (oltre gli emolumenti stabiliti), esigere beni
del comune o la possibilità di ampliare la sua personale guardia armata
(masnada). Del resto, come pure sostiene Costa, la stessa scelta di eleggere il
podestà fra un cittadino straniero, pratica consueta nei comuni confederati,
«presentava maggiore guarentigia, non avendo rapporti d’interessi e d’amicizia
co’ cittadini»[47]. Dello stesso tenore la precisazione
del Tola a proposito del capitolo XCV, «Qui
sa potestate non pothat dimandare sergentes”, norma
“sancita per impedire che il podestà potesse con la forza armata opprimere la
libertà dei cittadini»[48].
Per ciascuna di queste violazioni, gli Statuti prevedono
sanzioni, prevalentemente pecuniarie, generalmente destinate alla gestione dei
beni del comune o delle opere pubbliche (esemplare a questo proposito le multe
«da destinarsi al porto di Torres»[49]). Analoghe prescrizioni e sanzioni
sono estese dagli Statuti alla famiglia e ai collaboratori del podestà, a tutti
gli impiegati e funzionari pubblici (esposti questi tuttavia non solo a
sanzioni pecuniarie ma, in casi di gravi reati contro i beni e l’immagine del
Comune, puniti con la pubblica infamia e l’allontanamento perpetuo dagli
uffici) e al massaio.
Assieme ai vincoli, assume, come si è detto,
un ruolo determinante nella dinamica del governo del Comune autonomo, la
responsabilità personale associata all’esercizio del potere. Ancora una volta
in analogia alla legislazione della Repubblica di Genova, anche al podestà, ai
suoi collaboratori e ai pubblici ufficiali di Sassari è esteso infatti l’obbligo di rendiconto delle azioni e delle scelte
operate; nel caso del podestà questo avviene alla fine del mandato e nel corso
di solenni e periodici giudizi detti sindacature. È interessante notare non
solo che il diritto di sindacare l’operato del podestà
e dei vertici politico-amministrativi è affidato agli otto sindaci, dunque ai
locali rappresentanti dei quartieri cittadini, ma che essi sono indicati come «providos viros consiliarorum Sassari iuxta morem et consuetudinem»[50]. L’accento qui è
sull’aggettivo providos,
che traduce qualità quali la prudenza, la saggezza, la perizia; qualità dunque
non necessariamente associate all’appartenenza alle classi agiate o agli
intellettuali, il che è indicativo del coinvolgimento popolare nella ricerca
dell’armonico funzionamento delle istituzioni politiche e del bilanciamento fra
poteri.
La piccola repubblica di
Sassari appare dunque, sotto il profilo funzionale, come un sistema complesso,
che esibisce caratteri suoi propri integrati nel
generale quadro di riferimento delle più note e consolidate esperienze comunali
medievali. Un sistema che affida all’elettività delle cariche, alla loro frequente
rotazione, a un tentativo (sebbene embrionale) di separazione/bilanciamento fra
ruoli e alla responsabilità personale (che, legata ad
ogni stadio dell’esercizio del potere, implica un efficiente sistema di
controlli sull’operato dei governanti e degli amministratori) il contrasto del
potere arbitrario, che incarna il reale significato del principio
dell’autonomia, giusta la definizione di Cicerone.
Ed è questa l’immagine che del principale esempio sardo di Comune
autonomo riportano le cronache dei primi analisti
ottocenteschi della piccola repubblica.
Cosi, Augusto Bouillier, già nel 1865, sottolineava «lo spettacolo effimero, ma pur consolante, di
una città governata con sagge istituzioni, aspirante alla pace, regolando essa
stessa i suoi propri interessi” e la cui “Costituzione (…) conciliava
saggiamente la libertà coll’autorità. Uno dei caratteri salienti era la
diffidenza verso il potere esecutivo, e le garanzie prese contro ogni arbitrio»[51]. Nella connessione fra
l’idea di libertà e quella di governo non arbitrario va rintracciato, come si è
detto sopra, l’elemento che caratterizza la forma di governo del comune
autonomo. È proprio in questa connessione che è possibile isolare una
condizione particolarmente originale del rapporto fra “individuo” e “stato” nel
passaggio dalle forme della cittadinanza attiva, associata prevalentemente
all’esperienza della democrazia greca, alla sudditanza più o
meno radicale dell’età dell’assolutismo. Una connessione dalla quale
emerge una concezione della cittadinanza e del cittadino che, come evidenzierà
il linguaggio proprio della tradizione repubblicana, sposta l’accento dai
diritti ai doveri, dall’idea di libertà intesa come spazio individuale di
non-interferenza all’idea della libertà intesa come sicurezza garantita dalle
leggi (libertà come non dominio) e che assegna all’esercizio delle virtù
civiche il ruolo di connettore fra il perseguimento del bene personale e la
stabilità della città.
Ripartiamo dall’ossessione repubblicana - gli effetti
disgregatori della corruzione politica - e da alcune precisazioni concettuali e
terminologiche. Tradizionalmente, almeno nel campo della filosofia politica, la
cittadinanza ha sempre qualificato l’appartenenza a una qualunque comunità
politica. Se si guarda alla storia delle dottrine politiche
si nota che la definizione del cittadino è sempre abbinata alla possibilità
(-diritto) di partecipare ai processi politici. Ciò automaticamente connette la
definizione del cittadino a quella di (una qualche forma di) autogoverno o di
democrazia, cioè di un governo prodotto (o legittimato) dai medesimi
destinatari del potere. Tesi che con rare discontinuità ritroviamo da
Aristotele, passando per Marsilio fino alla Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo del 1948, con le opportune differenze storico-temporali che
riguardano non già le prerogative del cittadino ma la quantità di cittadini,
cioè la capacità di inclusione nella partecipazione
politica che aumenta man mano che diminuiscono le gerarchie sociali fino al
suffragio universale[52]. Altri approcci
disciplinari al tema sono meno “esigenti” e, non attribuendo rilevanza alla
distinzione fra diritti civili e diritti politici e tanto
meno alla distinzione fra il diritto e il privilegio (quindi fra
consenso e concessione, fra autodeterminazione e paternalismo), estendono la
qualificazione del cittadino a tutte le forme associative che fanno discendere
dall’appartenenza un qualche vincolo di reciprocità fra chi governa e chi è
governato. Rapportato al medioevo e ai comuni autonomi
il discorso sulla cittadinanza sconta necessariamente la complessità sociale e
i modelli di autorità dominanti all’epoca, profondamente stratificati in senso
verticale e necessariamente produttori di lealtà plurime e disuguaglianze di status. Ciò non impedisce, secondo
alcuni analisti, di parlare anche per quella fase storica di «cittadinanza normale» ossia di una condizione che
«faceva tendenzialmente tutti partecipi dei diritti civili in patria,
indipendentemente dallo status nella
gerarchia sociale»[53]. Questo ha un certo
margine di riscontro, come vedremo, anche negli Statuti di Sassari
ma non è teoricamente né praticamente trascurabile che i diritti civili,
potendo coesistere “con la condizione di semi-cittadino o di non-cittadino, con
regimi oligarchico-censitari, di dispotismo illuminato o paternalistico e
perfino con regimi di tipo assolutistico”[54] da soli non consentono di
evidenziare le specificità di una forma di governo che pretende di definirsi
proprio in contrapposizione a molte delle condizioni appena elencate. Se è vero
dunque che i cosiddetti diritti civili contemplati negli Statuti istituiscono
una sorta di uguaglianza fra gli appartenenti alla terra, e ammesso che tale uguaglianza consentisse di per sé di
qualificare costoro tutti ugualmente come cives è pur vero che la civilitas di
Baldo degli Ubaldi resta ancora incompiuta dal momento che nelle Repubbliche medievali, e nelle sorelle
confederate a maggior ragione, si continua a perpetuare la scissione fra essere
cives (o
borghesi o terrazzani che dir si
voglia) e far parte delle istituzioni di governo della città[55], una distinzione che
ripropone a grandi linee quella praticata nella Roma repubblicana fra cives cum sufragio (nella Sassari comunale corrispondenti
all’oligarchia mercantile e agli anziani) e cives sine sufragio (i cooptati). Ciò che
caratterizza il civis
romano sono infatti le prerogative legate alla sua
capacità giuridica, che si esplicano prevalentemente nella sfera dei rapporti
regolati dal diritto civile, e non i diritti politici che assumono, in
quest’ottica, una rilevanza molto secondaria. Anche perché, il soggetto
“privilegiato” del rapporto politico è a Roma prevalentemente identificato nel popolus e non nel
cittadino. Una condizione, quest’ultima, più che rilevante anche nei nostri
Statuti e nell’atto fondativo del Comune (dove è
costante il riferimento al popolo
sassarese piuttosto che agli abitanti
di Sassari) nei quali tuttavia si innestano i
meccanismi all’origine della metamorfosi della natura e dell’identità dei
soggetti del rapporto politico. È infatti in questo
snodo storico che, come si è visto dall’analisi di Ullman,
si sviluppano tutta una serie di impulsi (teorici) e di pratiche che segnano il
passaggio dalla visione organicistica del popolo come entità indistinta alla
definizione (per tappe più che secolari, in realtà) dell’individuo soggetto di
diritti, e soprattutto titolare di un ventaglio di diritti che lo collocheranno
compiutamente su un piano di uguaglianza con chi governa nella definizione
delle regole della sfera della politica.
Negli Statuti sassaresi affiorano tracce anche molto evidenti di
questa evoluzione di contesto, anche se l’ingrediente
specifico è quello che rimane sotto traccia. Basta scorrere l’indice, incrociando
la disposizione dei capitoli, per cogliere la trama di una iniziale
sovrapposizione fra diritti civili (la proprietà, il diritto di famiglia, il
diritto commerciale) e i diritti politici di cittadinanza. E che la
cittadinanza non sia un mero fenomeno di appartenenza, un mero
dato anagrafico, è altresì dimostrato dalle disposizioni che ne stabiliscono
l’acquisizione. La quale consiste essenzialmente in un atto di giuramento,
ripetuto annualmente, che vincola ciascun maschio sassarese da un lato
all’obbedienza all’autorità costituita, dall’altro alla conservazione e
protezione della città e dei patti con Genova. Con l’avvertenza che è proprio
la Convenzione che istituisce l’autorità e che dunque trasforma il giuramento
(tipico istituto feudale connesso alla sudditanza più o meno
totale) in un atto individuale, volontario e consensuale. Un atto che inserisce
ciascun sassarese in una teorica dimensione di partecipazione alla gestione
della cosa pubblica, istituendo oltretutto il dovere della vigilanza sul rispetto
delle norme (una sorta di dovere alla denuncia di qualunque reato commesso dai
concittadini contro la proprietà pubblica e privata). Si tratta però di una inclusività solo teorica, o
parziale, da momento che la partecipazione effettiva è sempre condizionata. O
meglio, mentre i doveri di cittadinanza sono estesi a tutti indistintamente, i
diritti di partecipazione politica sono garantiti o dallo status sociale o dalle qualità morali, ovvero
dall’insieme di quelle caratteristiche che identificano i megius, ossia i migliori, fra i cittadini delle classi popolari.
A ben vedere, sono proprio i doveri a qualificare il cittadino e
a rendere la cittadinanza una categoria euristicamente
efficace. Dagli Statuti emerge infatti una concezione
della cittadinanza come onere (più che come onore), cioè come impegno civico.
Questo è evidente non solo nella insistenza di
numerose disposizioni sul dovere di contribuire alla generale utilità e
grandezza della città, ma soprattutto nelle norme che obbligano tutti i cittadini
all’assunzione di responsabilità pubbliche. Basti pensare che per nessuna delle
funzioni politiche o amministrative è prevista la
candidatura. Il personale è quasi sempre designato
d’autorità e l’eventuale rinuncia a ricoprire l’incarico è sanzionato con
multe.
Nella Sassari comunale agisce dunque
una parallela soggettività politica, sintomo della confusione e perdurante
sovrapposizione fra istanze organicistiche radicate nel passato repubblicano
romano e ancor di più nell’impero e nella cultura cristiana della chiesa
universale e nuove esigenze legate all’efficienza del sistema politico: da un
lato il popolo, inteso indistintamente come il soggetto legittimante e il
destinatario dei benefici del contratto politico, dall’altro lato il cittadino
(o una sua forma embrionale), chiamato a contribuire individualmente alla
dimensione collettiva.
Riassumendo. Ho proposto una lettura della forma di governo che
emerge dagli Statuti medievali sassaresi alla luce delle principali categorie
della teoria repubblicana della libertà e del governo.
Il linguaggio repubblicano (o neo-romano, secondo Skinner)
consente infatti di isolare questioni centrali nella
dinamica politico-sociale del Comune medievale intorno al rapporto fra
governanti e governati; un rapporto che non è comprensibile utilizzando
esclusivamente le categorie giuridiche medievali né quelle della teoria
democratica e tanto meno la successiva teoria dello stato limitato. Tali
questioni, strettamente connesse, attengono al presupposto dell’autonomia, alla dialettica diritti/doveri, alla definizione del
cittadino e al ruolo che egli assolve nella costruzione della forma del governo
autonomo.
Il presupposto dell’autonomia l’aveva ben indicato Cicerone
associando l’idea della repubblica al contrasto del potere arbitrario.
Machiavelli, erede degli sviluppi compiuti dal pensiero umanista, lo ribadisce con una
formula diventata paradigmatica del pericolo della corruzione: «presupporre
tutti gli uomini rei e che li abbiano a usare sempre la malignità dello animo loro
qualunque volta ne abbiano libera occasione»[56]. Da qui
la necessità del controllo dei processi politici anche attraverso la
distribuzione di quote di potere fra i cittadini.
Tutta la teoria repubblicana o neo-romana della libertà e della
cittadinanza ruota intorno alla necessità di eliminare il dominio nel rapporto
fra chi governa e chi è governato. Il governo della legge mentre stabilisce i
limiti dell’esercizio del potere crea constestualmente
una sfera di sicurezza e protezione per gli individui. In ciò consiste la
libertà: libero è chi non è schiavo, chi non è sottoposto al potere arbitrario
di un altro soggetto, chi non è, cioè, dipendente dal capriccio e dalla volontà
altrui. Le conseguenze teoriche di questa definizione sono facilmente intuibili:
la libertà non consiste in ciò che la legge non impedisce o non obbliga.
Viceversa, libertà è ciò che è comandato dalla legge.
Skinner, attento lettore di Machiavelli
mostra chiaramente il senso dell’inversione fra diritti e doveri nella
definizione del cittadino pre-moderno, facendo leva
sul nesso fra libertà e civismo. Sostiene infatti che
«per un teorico come Machiavelli, la legge salvaguarda la nostra libertà non
semplicemente attraverso la coercizione degli altri, ma anche obbligando
direttamente ognuno di noi ad agire in modo particolare. (…)
viene usata cioè anche (…) per forzarci ad adempiere tutti i nostri doveri
civici, consentendo così che lo stato libero, dal quale dipende la nostra
stessa libertà, non venga asservito da altri»[57]. In questo senso, in
realtà, Machiavelli non fa che recuperare il significato ciceroniano,
pre-cristiano del termine virtù, intesa come «Fortitudo moralis, come forza d’animo,
capacità di resistenza alla volontà» che nella sfera politica si traduce nella
«capacità di sacrificio del proprio particolare e personale interesse in nome
dell’interesse generale della civitas»[58]. Dunque non
una tendenza naturale ma una limitazione dell’inclinazione individuale a
ricercare il proprio personale interesse, non manifestazione di una razionalità
astrattamente tesa al bene (come vorrebbe Aristotele), ma faticosa rinuncia al
punto di vista egoistico. È importante sottolineare
che il riferimento alle virtù prescinde completamente da un’opzione di tipo
etico o religioso, esattamente come il riferimento alla priorità dei doveri sui
diritti, che poggia su presupposti del tutto estranei – anche perché
storicamente precedenti – a quelli elaborati dalla teologia cristiana. In un contesto culturale dominato dall’interpretazione e dal
linguaggio evangelico, i Comuni medievali anticipano quella che è considerata
la vera rivoluzione operata nel XVI secolo da Machiavelli, ossia «utilizzare i
concetti di virtù in riferimento a qualsiasi serie di qualità necessarie per mantenere lo stato e compiere grandi cose»[59].
La repubblica, e gli Statuti sassaresi sembrano aderire
integralmente a questa prospettiva, ha dunque bisogno delle virtù civiche, di
cittadini cioè che non rinunciano al perseguimento degli interessi generali per
i loro benefici privati e che partecipano alla vita pubblica secondo modalità che non implicano necessariamente un esercizio
diffuso del potere sovrano, ma una reciproca vigilanza e una diffusa
responsabilità verso il bene dello società politica.
The paper has two objectives. The first is to
illustrate the elaboration’s process of the republican civic vocabulary
which constitute the theoretical bases of the medieval autonomous
government. The second is to evaluate the heuristic proprerties
of the republican theory of the government by examining, through a critical
reading of its Statute, the political orgnization and
social relations that characterize the city of Sassari in the XIIIth century.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni
articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con
il sistema del double-blind]
*Questo articolo costituisce un approfondimento
di un saggio, scritto con Virgilio Mura, dal titolo Potere ascendente e cives negli Statuti di
Sassari. Una riflessione avviata in occasione del convegno che ha celebrato
i Settecento anni degli Statuti sassaresi, i cui atti sono ora raccolti nel
volume, I Settecento anni degli Statuti di
Sassari. 1316-2016, curato da A. MATTONE
e P. Simbula, in corso di
pubblicazione. Rispetto a quella versione, il presente lavoro tenta di dare una
visione più dettagliata della formazione della concezione repubblicana del governo e del quadro concettuale che serve da retroterra
culturale per inquadrare l’esperienza comunale nella cornice del pensiero
politico pre-moderno.
[1]. Cfr. sul punto Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, I, (ed orig. 1978), Il Mulino, Bologna 1989, 36.
[2]. Cfr. A.
Ryan, Storia del pensiero
politico, UTET, 2017, p. 149 e G.
Holmes, The Emergence of an Urban Ideology at Florence c. 1250-1450, in Transactions
of the Royal Historical Society, Vol. 23 (1973), pp. 111-134. Qui Holmes sostiene
che una teoria repubblicana del governo autosufficiente rispetto al sincretismo
tentato dalla Scolastica si raggiunge solo agli inizi del XV secolo, con la
filosofia militante dell’Aretino, di Leon Battista Alberti e di Poggio Brancciolini. Negli scritti
di questi autori egli situa l’origine
della «political philosophy of the republican city
state conceived not as part of a divine order of the universe in the manner of
scholastic politics but as a self- sufficient secular society directed to the
advancement of its citizens and their culture. Bruni was
the chief promoter of this conception».
[3]. Q.
SKINNER cita fra gli altri la tesi di H. Baron, La crisi del primo rinascimento italiano,
Firenze 1970, p. 121.
[4] Cfr. a tal proposito
E. Artifoni, I governi di «popolo» e le istituzioni comunali nella seconda metà del
secolo XIII, in “Reti Medievali Rivista”, 4, 2003/2, 1-20.
[5]. W. Ullmann, Principles
of Government and Politics
in the Middle Ages, Methuen,
London 1966 (trad. it., Principi di governo e politica nel
medioevo, Il Mulino, Bologna 1972); W. Ullmann,
The individual
and society in the Middle Ages, The Johns
Hopkins Press, Baltimore, MD, 1966 (trad. it.,
Individuo e società nel medioevo, Il
Mulino, Bologna 1974).
[6]. Oltre al già citato
Le origini del pensiero politico moderno, Skinner si è occupato della teoria repubblicana in
moltissimi lavori tra i quali Machiavelli, Il Mulino, Bologna 1999, La
libertà prima del liberalismo, Einaudi, Torino 2001, Virtù
rinascimentali, Il Mulino, Bologna 2006.
[7]. Sul punto e in
generale sulle tesi di Ullmann riguardo il superamento della teoria del potere discendente rinvio
alle considerazioni di Virgilio Mura in V.
Mura, R. Sau, Potere ascendente e cives negli Statuti di Sassari, cit., §. 2 e 3.
[8] Sulla funzione
politica dell’associazionismo corporativo del Duecento si veda E. Artifoni, Corporazioni e società di «popolo»: un problema della politica comunale
nel secolo XIII in «Quaderni storici», NUOVA SERIE, Vol. 25, No. 74, 1990,
387-404).
[9]. Q.
SKINNER, Le origini del pensiero politico
moderno, cit., 140
[10]. Cfr. V. MURA, Potere ascendente e cives
negli Statuti di Sassari, cit., §. 2.
[11]. Q.
SKINNER, Le origini del pensiero politico
moderno, cit, 83.
[12]. Ivi, p. 89.
[13]. Ivi, p. 91
[14]. Cfr.
a questo proposito D. QUAGLIONI, Legislazione
statutaria e principi di governo della Civitas.
Il caso di Sassari, in, Gli Statuti sassaresi. Economia,
società, istituzioni nel medioevo e nell’età moderna, a cura di A. Mattone e M. Tangheroni, Edes,
Cagliari 1986, 178.
[15]. Q.
SKINNER, Le origini del pensiero politico
moderno, cit, 103.
[16]. Ivi, 109.
[17]. Cicerone, Dello stato, Zanichelli, Bologna 1986. Cfr., in particolare, i
libri I, XXV e III, XXXI.
[18]. Aristotele, Politica, 1286a.
[19]. N. Bobbio, Il buongoverno, in Teoria
generale della politica, Einaudi, Torino 1999, 149 e ss.
[20]. Esemplare
l’argomentazione di MACHIAVELLI (Discorsi,
cit. I, V, p. 118): «quelli che prudentemente hanno costituita
una repubblica, intra le più necessarie cose ordinate da loro è stato
costituire una guardia alla libertà, e secondo che questa è ben collocata, dura
più o meno quel vivere libero. E perché in ogni repubblica sono uomini grandi e
popolari, si è dubitato nella mani di quali sia meglio
collocata detta guardia (….) E sanza dubbio, se si considerrà il fine dè nobili e
degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare e in questi
solo desiderio di non essere dominati, e per conseguente maggiore volontà di
viveri liberi; talchè essendo i popolari preposti a
guardia di una libertà, è ragionevole ne abbino più cura, e non la potendo
occupare loro, non permettino che altri la occupi».
[21]. Il punto è
estesamente trattato in P. Pettit,
Il repubblicanesimo. Una teoria della
libertà e del governo, Feltrinelli, Milano 2000. Pettit
sottolinea infatti che «tradizionalmente i pensatori
repubblicani hanno sempre guardato con un certo pessimismo alla possibilità che
gli esseri umani si mantengano incorrotti una volta assurti a posizioni di
potere, mentre si sono mostrati relativamente ottimisti sulla natura umana in
quanto tale. Hanno respinto in generale, la rappresentazione agostiniana del
popolo come insieme di individui intrinsecamente
riottosi cui, per scongiurare i pericoli di derive anarchiche, deve essere
imposta una leadership forte, ma hanno profondamente condiviso il timore
ciceroniano nei confronti della corruttibilità dei potenti, cui va trovato un
antidoto adeguato se si desidera evitare la tirannide e il dispotismo. Nelle
parole di Richard Price: non vi è nulla che richieda maggiore vigilanza del
potere» (p. 252).
[22]. Q.
SKINNER, Le origini del pensiero politico
moderno, cit., 109 e ss.
[23]. Le proteste
popolari miravano, ricorda SKINNER (Ivi, 78), a «mettere direttamente in
discussione la forma tradizionale di governo del podestà, dal
momento che quest’ultimo veniva di solito eletto dalle più influenti
famiglie dei magnati. Consigli di questo genere vennero
istituiti a Lucca e a Firenze nel 1250, a Siena nel 1262 e in rapida
successione nelle principali città lombarde e toscane. (…)
a Siena nel 1287 il popolo si impadronì di tutti i poteri del podestà, esiliò
numerosi nobili e insediò il consiglio del nove, un’oligarchia mercantile che
resse la città ininterrottamente fino al 1355».
[24]. W. Ullmann, Principi di governo cit., 368.
[25]. Le origini del pensiero politico moderno,
cit, 67.
[26]. W. Ullmann, Principi di governo, cit., 359.
[27]. MARSILIO DA PADOVA,
Il difensore della pace, UTET, Torino
1960, Primo discorso, XII, 3, 169.
[28]. W. Ullmann, Individuo
e società, cit., 115.
[29]. V. Mura, Potere ascendente e cives negli Statuti di
Sassari, cit., § 2 e 3.
[30]. Q.
SKINNER, Le origini del pensiero politico
moderno, 60.
[31]. Ivi, 140.
[32]. Si rinvia per
un’approfondita analisi del contesto storico, delle
istituzioni politiche, della storia sociale di Sassari e dell’inquadramento
degli Statuti sassaresi nella cornice dei comuni medievali al volume Gli Statuti sassaresi. Economia, società,
istituzioni nel medioevo e nell’età moderna, curato da A. Mattone e M. Tangheroni, cit.; in
particolare, si vedano i contributi di A.
Mattone, Gli Statuti sassaresi nel
periodo aragonese e spagnolo (409-490), di F. ARTIZZU, Le strutture politico-amministrative del Comune di Sassari attraverso
la lettura degli Statuti (167-176) e di G.
Olla Repetto, I “boni nomines” sassaresi ed il loro
influsso sul diritto e la società della Sardegna medievale e moderna,
(355-364).
[33]. A dispetto di interpretazioni più indulgenti che sottolineano nella
Convenzione «condizioni per nulla inique» per i sassaresi (cfr. G. Caro, Genova, 1975, 189) o di quelle che evidenziano una gestione
autonoma nella pratica al di là dei vincoli pattizi (cfr. Mattone, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo, cit., 413),
E. Costa (Sassari, [1° ed. 1885],
Gallizzi, 1992 Sassari, 64) è assai sarcastico circa
le ragioni che indussero Genova a prestare protezione a Sassari. Nell’atto di
confederazione, scrive Costa, è manifesta «l’astuzia
usata dai genovesi nel venire a patti col Comune di Sassari; essi svelarono la
loro segreta intenzione, che era stata unicamente quella di voler trarre
dall’alleata sorella tutti i guadagni e lucri possibili. Nei patti
dell’alleanza era tutto per Genova, nulla per Sassari (…). Anche nel parer larga, Genova non faceva che speculare sulla terra
che prendeva sotto la sua protezione».
[34]. La locuzione è
tratta da A. Boullier, L’ile de Sardaigne,
Parigi 1865 e riportata da E. Costa in Sassari, cit. 56.
[35]. Cfr. a questo
proposito G. Olla Repetto, I “boni nomines”
sassaresi ed il loro influsso sul diritto e la società
della Sardegna medievale e moderna, cit.
[36]. L. Tanzini, A consiglio.
La vita politica nell'Italia dei comuni, Laterza, Roma-Bari 2014. Sul punto si veda pure G. Briguglia, Io, Brunetto Latini. Considerazioni su cultura e identità politica di
Brunetto Latino e il Tesoretto (in Philosophical Readings X.3, 2018, 176-185).
Qui Briguglia segnala la forzatura interpretativa
della connessione fra l’emersione di una «linea repubblicana» e «l’intento di celebrare una via comunale alla democrazia».
[37]. G. Manno in Costa, Sassari,
cit., 57.
[38]. Basti il
riferimento alla lettera del 1826 di G. Manno ai consiglieri del Comune di
Sassari con la quale accompagnava, avendola tratta dai regi Archivi di Torino,
«un codice e alcuni frammenti degli antichi Statuti della Repubblica di
Sassari»; all’edizione degli Statuti (Codice
della Repubblica di Sassari), curata da P.
Tola e pubblicata nel 1850 a Cagliari; alla Storia della Legislazione italiana, di F. SCLOPIS del 1844, al
saggio di P.E. GUARNERIO, Gli Statuti della repubblica sassarese, in «Archivio glottologico
italiano», XIII (1892); o al volume, di poco successivo, di V. FINZI, Gli Statuti della Repubblica di Sassari,
pubblicata sempre a Cagliari nel 1911. Si pensi inoltre al titolo dell’opera
del pittore Giuseppe Sciuti, La proclamazione della
repubblica sassarese (1880 ca), scelta per decorare
il salone delle adunanze del Consiglio del Palazzo
della provincia di Sassari.
[39]. Cfr.
Mattone, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo, cit., 412.
[40]. Così sono definiti prevalentemente gli abitanti di Sassari negli
Statuti.
[41]. Atto di
confederazione in E. Costa, Sassari, cit.
[42]. Cfr. Statuti sassaresi, I, 142.
Sull’importanza dei boni homines nella dinamica politico-amministrativa del
Comune si veda G. Olla Repetto, I “boni homines”
sassaresi ed il loro influsso sul diritto e la società
della Sardegna medievale e moderna, cit., 358.
[43]. Cfr., Statuti sassaresi, I, 22, 28, 29, 84,62,82, 84, 93.
[44]. Statuti sassaresi, I, 97.
[45]. Statuti sassaresi, I, 11, 13, 17, 23.
[46]. L’organo
preposto alla vigilanza delle mura cittadine. Era composto da otto membri (due per quartiere), nominati dal consiglio
degli anziani ogni due mesi. Ciascuno di essi giurava di esercitare il proprio
“comando” sulle guardie in «buona fede, senza frode,
senza odio, né amore, né guadagno». Quest’ultima specificazione è assai
rilevante per la qualificazione del coinvolgimento dei cittadini inteso come
impegno civico e dovere di contribuire alla cura degli affari pubblici
(Statuti, I, XXVI).
[47]. Costa, Sassari, cit., (Statuti, I, 131).
[48]. Tola, Codice della Repubblica di Sassari, cit., 69.
[49]. Statuti sassaresi, I, 151, 152.
[50]. Atto di confederazione.
[51]. Ibidem.
[52]. Cfr. V. Mura, Sulla nozione di cittadinanza, in V.
Mura (a cura di) Il cittadino e lo
Stato, Franco Angeli, Milano 2002. Un testo classico per la ricostruzione
delle tappe evolutive del concetto di cittadinanza, che egli estende fino ad includere i diritti sociali, è T.H. Marshall, Cittadinanza
e classe sociale (1° ed. 1952), Laterza, Roma-Bari 2002. Si veda pure P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Laterza, Roma-Bari 2001.
[53]. M. Ascheri, Nella città medievale italiana: la
cittadinanza o le cittadinanze?,
in «INITIUM. Revista
catalana d’història del dret», 16, 2011, 304.
[54]. Cfr. V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Giappichelli, Torino 2004, cap. 5.
[55]. Cfr.
M. Vallerani, Diritti
di cittadinanza nelle quaestiones giuridiche
duecentesche (II). Limiti dell’appartenenza e
forme di esclusione, Mélanges de l’École française de Rome - «MoyenÂge» [Online],
125-2, 2013.
[56]. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,
cit., I, III, 114.
[57]. Q.
SKINNER, La libertà prima del liberalismo,
Einaudi, Torino 2001, 95.
[58]. M. Revelli, Cicerone, Sant’Agostino, San Tommaso, Giappichelli,
Torino 1989, 17.
[59]. L. Baccelli, Critica del repubblicanesimo, cit. 94-95.