LA
COLPA GRAVE QUALE LIMITE ALLA RESPONSABILITÀ PENALE PER COLPA:
UNO SGUARDO AL PASSATO
Assegnista di
ricerca in Diritto penale
Università di
Milano
SOMMARIO: 1.
La
ragione di uno “sguardo al passato” sulla colpa grave. – 2. Trapassato
remoto. – 2.1. Diritto penale romano. – 2.2. Diritto
penale barbarico. – 2.3. Diritto comune. – 3 Passato remoto: i codici preunitari. – 3.1. I testi di
legge. –
3.2. Le opinioni dottrinali e la giurisprudenza. – 4. Passato
prossimo: il codice Zanardelli del 1889. – 4.1. L’art.
371 c.p. Zanardelli e la relazione ministeriale. – 4.2. La
posizione della dottrina. – 4.3. Gli orientamenti giurisprudenziali. – 5. L’eredità
della plurisecolare elaborazione in tema di colpa grave agli albori del codice
Rocco. –
6. Riflessioni conclusive e prospettive di ulteriore indagine. – Abstract.
Nel nostro ordinamento penale, come
noto, attraverso i reati colposi si sanzionano indiscriminatamente sia condotte
tenute con colpa lievissima, sia condotte realizzate con colpa estremamente
grave, giacché il grado della colpa di regola assume rilievo solo ai fini del quantum della pena, ai sensi dell’art.
133 c.p., ma non già ai fini dell’an
della punizione.
Le uniche eccezioni
all’indiscriminata incriminazione di qualsiasi grado di colpa sono
rappresentate, a livello legislativo:
i) dall’art. 64 del codice di
procedura civile, in cui si limita la responsabilità penale del consulente
tecnico all’interno del processo civile alla sola ipotesi di “colpa grave”;
ii) dall’art. 217 comma 1, n. 4) l.
fall., che prevede la responsabilità dell’imprenditore che abbia aggravato il
proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio
fallimento o “con altra grave colpa”;
iii) dall’art. 217 comma 1, n. 3) l.
fall., che statuisce la responsabilità dell’imprenditore nel caso in cui questi
abbia compiuto operazioni di “grave
imprudenza” al fine di ritardare il fallimento;
iv) dall’art. 217 comma 1, n. 2) l.
fall., che prevede la responsabilità dell’imprenditore qualora il medesimo
abbia consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni “manifestamente imprudenti”[1].
Una quinta eccezione era
rappresentata dall’art. 3 comma 1 della l. 189 del 2012, di conversione del
c.d. D.L. Balduzzi, il quale prevedeva una irresponsabilità in sede penale per colpa lieve del sanitario che si fosse
attenuto a linee guida e buone pratiche nello svolgimento delle proprie
attività. Tale disposizione, tuttavia, è stata recentemente eliminata dal
legislatore con un intervento riformatore (la c.d. Legge Gelli – Bianco,
introduttiva dell’art. 590 sexies
c.p.) non privo di criticità[2].
Interpretando la nuova disciplina, peraltro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione
sono giunte a reintrodurre, in via pretoria, il limite della colpa grave per la
responsabilità del sanitario in presenza di determinati presupposti[3].
Allo stato attuale, quindi, nel
nostro sistema penale[4], salvo marginali eccezioni
e controverse interpretazioni giurisprudenziali, in presenza di una previsione
incriminatrice di un reato colposo si sanzionano tutte le condotte commesse con
colpa, indipendentemente dalla gravità della medesima.
L’obiettivo del presente contributo è
verificare – posto che attualmente l’impiego del grado della colpa con funzione
di limite alla responsabilità penale risulta estremamente ridotto – se siffatta
situazione corrisponda alla tradizione giuridico-penale italiana, ovvero
rappresenti un fenomeno relativamente recente[5].
L’idea dell’opportunità di una tale
indagine preliminare è scaturita, oltre che dalla considerazione generale che
per studiare un fenomeno giuridico è senz’altro utile indagarne l’evoluzione
storica[6], dalla lettura di alcuni
passaggi, sulla colpa e sulla colpa grave, di Francesco Carrara. L’Autore, nel
suo Programma del corso di diritto criminale[7] – opera che sarebbe
diventata un punto di riferimento per la scienza penalistica moderna e
contemporanea – scriveva, infatti, che la ragione di una regola che limiti la
responsabilità penale alla sola colpa
connotata da gravità
“è evidente. La pubblica opinione in
siffatte contingenze [fatti commessi senza colpa grave] si muove alla pietà,
non al timore. Ciascuno, portando l’esame sopra se stesso, ripete nel suo
cuore, che ciò sarebbe avvenuto a tutti; e tale coscienza non è compatibile con
la coscienza della necessità di una punizione. L’opinione della sicurezza non
si commuove per il fatto, e poiché ognuno sente che a sua volta potrebbe
trovarsi nel caso uguale di essere causa inconsapevole dell’altrui morte,
quell’allarme, che non ha eccitato il fatto, non eccita invece la punizione, ed
il fine della tranquillità non è manomesso. Non v’è bisogno di fare un esempio
agli scioperati dove non v’è stata scioperataggine, non v’è bisogno di calmare
i sospetti dei buoni dove i buoni non sentono timore. La ragione politica
dell’imputabilità per colpa scomparisce affatto. Un omicidio, commesso per
colpa lievissima, non è niente di più che una sventura, e le sventure domandano
lagrime e conforti, non pene”.
L’interrogativo che sorge, dunque,
spontaneo è se il grado della colpa, in passato, abbia avuto un qualche ruolo
nel nostro sistema in funzione di limite alla responsabilità penale e per quale
ragione esso abbia perso, in tempi più recenti, tale ruolo. Per rispondere a
tale domanda intraprenderemo, pertanto, nelle seguenti pagine, un’analisi
retrospettiva, sia pur limitandoci a considerazioni sintetiche.
Alcuni brevi cenni sull’utilizzo della
colpa grave in un arco temporale particolarmente lungo – che muove dalla
nascita del diritto romano nell’ottavo secolo a.C.[8], anno di formazione della civitas, per giungere alla fine del
diritto comune[9],
coincidente con la comparsa delle codificazioni di fine Settecento – paiono
utili al fine di iniziare l’excursus
che ci proponiamo di compiere per l’inquadramento della tradizione giuridica
che ha condotto alla configurazione dell’elemento soggettivo del reato come lo
si conosce oggi.
In relazione all’ordinamento
giuridico romano va anzitutto premesso che, mentre il diritto privato aveva
costituito oggetto di una profonda e accurata elaborazione, mancava del tutto
uno studio analogo sul diritto penale al punto che, nei testi antichi, non si
rinviene una parte generale di tale branca del diritto[10] e i giuristi dell’epoca
procedevano alla descrizione dei relativi istituti con metodologia
essenzialmente casistica[11]. La ragione di tale
assenza di approfondimento è stata individuata nella circostanza che lo ius puniendi costituiva, con le
precisazioni che tra breve faremo, emanazione diretta delle autorità cittadine
e statuali, con la conseguenza che gli iuris
prudentes non svolgevano, in tale ambito, l’attività di consulenza
interpretativa che ha, invece, contribuito all’enorme sviluppo del diritto
privato[12].
Nel tentativo di verificare quali
contenuti e quale ruolo abbia assunto, nel diritto penale romano, l’elemento
soggettivo del reato – e, per quel che interessa in questa sede, in particolare
la colpa e i suoi gradi – si procederà quindi guardando soprattutto
all’evoluzione delle sanzioni per il reato di omicidio che, come intuibile,
rappresenta una delle poche fattispecie la cui repressione per colpa è stata
oggetto di riflessione lungo tutti i secoli[13].
Nel diritto penale romano più antico
– epoca in cui la Lex Numae affidava
l’esecuzione materiale della pena non all’autorità statuale, ma ai parenti
della vittima – l’omicidio volontario era punito con la morte, inflitta dai
congiunti della persona offesa, mentre per l’omicidio involontario era
prescritto che l’autore del reato offrisse ai predetti un ariete da sacrificare
al proprio posto[14],
davanti al popolo riunito in assemblea[15].
Il reato di omicidio involontario
veniva peraltro ritenuto sussistente in tutti i casi di causazione non voluta
della morte, in adesione ad un’ottica materiale ed oggettivistica propria di
quell’epoca arcaica[16]. Ciò che dava luogo a
responsabilità era il solo fatto di aver materialmente cagionato l’evento
mortale, senza alcuna considerazione per gli elementi soggettivi che oggi
fondano il rimprovero a titolo di colpa.
L’impostazione sopra descritta che
non conferisce rilevanza all’elemento soggettivo nell’omicidio involontario si
rinviene anche in età repubblicana[17] con l’adozione, nel V
secolo a.c., delle XII tavole[18], che rimasero
legislazione vigente per almeno due secoli e mezzo, ossia sino alla formazione
dei tribunali permanenti. Questi ultimi furono istituiti con leggi disciplinanti
tanto i crimini quanto le modalità di svolgimento dei processi diretti ad
accertarli, le così dette quaestiones[19].
In tale periodo si generò la
distinzione tra due tipologie di illeciti che, nell’ottica del giurista romano
dell’epoca, erano entrambi afferenti alla materia penale, nel senso che davano
luogo ad un provvedimento pregiudizievole per il reo[20]. Da un lato, infatti, vi
erano i crimina publica, la cui
repressione era di interesse generale e avveniva pubblicamente su iniziativa di
funzionari a ciò delegati che irrogavano sanzioni quali, ad esempio, la morte o
il confino. Dall’altro, invece, esistevano i delicta privata, che interessavano esclusivamente i privati
cittadini che intendessero ottenere un risarcimento per un danno patito, il cui
accertamento scaturiva da un processo celebrato, su iniziativa di parte,
davanti ad un magistrato[21]; esso si concludeva, in
caso di affermazione di responsabilità, con il ristoro economico del danno
patito[22].
Accanto a crimina e delicta si
svilupparono, poi, le così dette castigationes,
quali ad esempio la frusta o il carcere. Esse sono ritenute dalla dottrina
sanzioni “di polizia”, in quanto venivano adottate direttamente da funzionari
deputati a tale scopo – i Tresviri
capitales[23]
– in presenza di determinate situazioni e senza alcun accertamento processuale.
Nel quadro sopra delineato,
l’elemento soggettivo della colpa non determinava mai un’azione per crimen publicum, ma solamente un
procedimento volto ad ottenere un risarcimento del danno, ovvero una sanzione
di polizia[24].
Per il crimen publicum, invece, era
necessaria la presenza del dolo dell’agente[25].
Per quanto concerne, invece, i
delitti privati, il fatto commesso per negligenza, secondo quanto previsto
dalla Lex Aquilia, poteva sicuramente
dare luogo ad una riparazione di tipo risarcitorio[26]. All’epoca, in ogni caso, il concetto
di “culpa” era ben lontano
dall’assumere il significato odierno, traducendosi, in realtà, in una sorta di
responsabilità oggettiva, poiché essa veniva ritenuta sussistente sulla base
del solo nesso causale tra la violazione della diligenza ed il danno patito[27].
Esisteva, pertanto, una netta separazione tra la rilevanza della negligenza in
ambito pubblicistico ed in quello privatistico.
Come ha rilevato la dottrina,
infatti, nell’ambito del diritto privato risultava comprensibile che “il
comportarsi con una negligenza così grave nell’adempimento di un’obbligazione”
– anche della generale obbligazione del neminem
laedere da cui discende il danno da illecito – significasse in buona sostanza
non volersi curare della predetta obbligazione”[28] con la conseguente generazione
dell’obbligo di restitutorio.
Nel diritto penale, invece, era
“proprio la visione di quel danno e la positiva volontà di recarlo che
rappresentano il pericolo sociale e quella massima infrazione della norma che
richiede la reazione della pena”[29]
con conseguente espunzione delle condotte meramente negligenti da quelle
sanzionabili con la sanzione di carattere pubblicistico.
Con l’avvento dell’Impero a partire
dal 27 a. C[30],
tuttavia, si ebbe una progressiva attrazione di illeciti che in età
repubblicana erano qualificati come delicta
privata all’interno dei crimina
perseguiti pubblicamente[31]. Tra questi, per quanto
di nostro interesse, anche l’omicidio commesso per colpa grave, qualificato
come crimine all’epoca dell’imperatore Adriano – il quale regnò dal 117 al 138
d. c. – per essere nuovamente eliminato dagli illeciti di interesse pubblico in
epoca giustinianea[32]. Secondo quanto riporta
il Ferrini[33],
infatti, la reintroduzione della pena pubblica per l’omicidio colposo fu dovuta
alla morte del bambino Claudio, cagionata da un amico del padre che lo aveva
preso e fatto saltare su un tappeto. Il proconsole Taurino Ignazio, operante
nel territorio della Betica, una parte dell’attuale Spagna, ricevette da
Adriano uno scritto in cui l’Imperatore si congratulava per non aver applicato
la Lex Cornelia, riservata ai casi di
volontà omicidiaria, ma ordinava l’applicazione di una pena più mite, ossia
l’interdizione dal territorio della Betica per un quinquennio.
In alcuni passaggi, riportati
nell’opera del Ferrini[34], delle Sententiae del giurista romano Giulio
Paolo, vissuto tra il secondo ed il terzo secolo dopo Cristo, egli pure
evidenzia come anche se l’omicidio colposo per colpa grave non rientra tra i crimina originariamente stabiliti dalla Lex Cornelia, casi di colpa grave
potevano dare luogo alla pena, comunque pubblica, della damnatio ad metalla, ossia la condanna ai lavori forzati, per gli humiliores, ovvero della relegatio ad insulam, ossia l’esilio
temporaneo, per gli honestiores.
Sempre da Giulio Paolo, questa volta nel Titolo II, Ad legem Aquiliam, del Digesto, (31.9.2.), si apprende invece che
la colpa lievissima non dava luogo ad alcun tipo di responsabilità. Il caso
riportato dal giurista romano concerneva un potatore che aveva ucciso un uomo
potando un albero, senza guardare di sotto, all’interno di un fondo dove non vi
erano strade. Il Giureconsulto romano ritiene che in tal caso il potatore non
possa essere comunque punito per colpa “quod
si nullum iter erit, dolum dumtax praestare debet, ne immittat in eum, quem
vidiri transeuntem: nam culpa ab eo exigenda non est, cum divinare non
potuerit, an per locum aliquis transiturum sit”.
E’ nel periodo imperiale quindi che,
secondo buona parte della dottrina, in particolare tedesca[35], nacque la celebre
massima culpa lata dolo aequiparatur,
in quanto la sanzione per condotte connotate da colpa grave era ritenuta un
necessario complemento di quelle cagionate con dolo per la – ritenuta –
prossimità ad esso. Essa, definita anche come lascivia o luxuria,
veniva ritenuta sussistente quando l’agente agiva con coscienza e volontà, ma
senza ostilità verso il diritto. Come ricostruito dalla dottrina moderna, il
ragionamento alla base della sanzione penale della colpa grave, per i romani
del tardo impero, era il seguente: “noi crediamo che tu non hai agito per
uccidere e pertanto senza dolus malus,
ma tu hai mostrato piena indifferenza per il buono o cattivo esito della tua
azione e quindi sei stato in culpa lata”[36].
Ai fini della nostra indagine, va
quindi evidenziato che l’interesse pubblicistico alla repressione dell’omicidio
colposo – nel lunghissimo arco temporale preso in considerazione – emerse, nel
diritto penale romano, solo per brevi periodi e, comunque, unicamente in
presenza di colpa grave[37]. A parte questi brevi
periodi, la commissione di un omicidio colposo dava, invece, luogo a rimedi di
tipo risarcitorio, i quali, per le concezioni dell’epoca, costituivano comunque
una sanzione penale, mentre per il giurista contemporaneo hanno chiaramente
natura di tipo restitutorio e, quindi, privatistico.
Un cambiamento nell’approccio
punitivo si registrò con la caduta dell’Impero romano e con l’avvento sul
territorio italiano delle popolazioni germaniche e, in particolare, prima dei
Longobardi[38]
– che iniziarono l’invasione dell’Italia nel 568 d.c. – e, poi, dei Franchi[39]. Poiché la capacità di
elaborazione giuridica di tali popolazioni era nettamente inferiore ai livelli
raggiunti in epoca romana, si assistette ad una prima fase in cui la potestà
punitiva, totalmente accentrata nelle mani dell’autorità statuale, assunse le
forme più arcaiche, in cui i concetti di volontarietà ed involontarietà del fatto
di reato non venivano tenuti distinti[40]. Solo successivamente,
nel diritto penale di alcune delle singole popolazioni stanziatesi sul
territorio italiano[41], si differenziarono le
ipotesi di commissione volontaria e commissione involontaria, ma all’interno di
questa seconda ipotesi non si diversificò ulteriormente a seconda che il fatto
fosse avvenuto per negligenza ovvero per caso fortuito[42].
Ciò che caratterizzava il diritto
penale barbarico, per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato, era una
concezione dell’illecito penale estremamente materialistica[43], all’interno della quale
non si separava l’attribuzione oggettiva di un fatto dalla valutazione della
colpevolezza dell’individuo, ed in particolare non si concepiva
l’irresponsabilità penale di un soggetto che avesse arrecato – materialmente e
oggettivamente – un danno[44].
In questa concezione, rozza e
primitiva[45],
all’attribuzione oggettiva di un fatto ad un soggetto doveva necessariamente
conseguire la reazione punitiva dell’ordinamento, a prescindere dal suo
atteggiamento psicologico[46]. In tale ambito, quindi,
vigeva uno schema logico che non sembra azzardato paragonare, mutatis mutandis, all’incriminazione per
responsabilità oggettiva che ancora oggi, nonostante secoli di elaborazione
giuridica, fatica ad essere completamente estirpata dal nostro sistema penale[47].
Ne rari casi in cui veniva operata
una distinzione sul piano dell’elemento soggettivo[48], poi, la rilevanza
connessa all’aver commesso un fatto volontariamente o meno era per lo più
relegata al piano sanzionatorio.
Le condotte poste in essere senza
volontà erano, difatti, punite meno gravemente rispetto a quelle commesse
volontariamente[49].
Va tuttavia rilevato che in alcune delle leggi delle popolazioni barbariche più
recenti si rinvengono distinzioni tra colpa e caso fortuito, con quest’ultimo
che esentava da pena[50] e che in casi isolati era
prevista l’impunità per l’omicidio involontario[51].
Salvo le eccezioni appena accennate,
quindi, il diritto barbarico lasciava poco spazio per l’elaborazione intorno
all’elemento soggettivo, in generale, e per il grado della colpa, in
particolare.
Una ripresa della elaborazione
intorno al concetto di colpevolezza, per come lo intendiamo oggi, si ebbe solo
con l’avvento del diritto comune e della scuola dei glossatori, influenzati
tanto dal diritto romano, ed in particolare dal Digesto giustinianeo, quanto da
quello canonico[52],
ancorché nemmeno nelle loro opere si rinvengono precise distinzioni tra i
concetti di colpa, caso fortuito ed errore, così come non risultano riferimenti
ad un grado di negligenza rilevante per l’inflizione della sanzione penale[53]. Secondo la concezione
prevalente tra i glossatori, infatti, la colpa rappresentava solo la deviazione
dal precetto legislativo che tutti erano tenuti a conoscere ed osservare e
coloro i quali non lo rispettavano dovevano ritenersi in colpa[54], senza che fosse
attribuito alcun rilievo ai suoi gradi[55].
Da un punto di vista normativo, poi,
nella quasi totalità dei casi gli Statuti dei Comuni che andavano formandosi
dagli inizi dell’XI secolo non sembrano contenere specifiche previsioni in
materia di colpa[56],
essendo, anzi, la medesima talvolta parificata da un punto di vista
sanzionatorio al dolo[57].
Un’eccezione è rappresentata dal
Costituto del Comune di Siena del 1309 - 1310 in cui si escludeva che il
soggetto che avesse commesso lesioni o percosse senza dolo o colpa “evidente”
potesse essere assoggettato a pena. Nel paragrafo “Di coloro e’ quali non
debbono essere puniti per malefici da loro commessi, se non secondo che di
sotto si contiene”, si prevedeva, infatti, che “excettiamo le ferite et
percossioni le quali avenissero overo fare incappassero in caso di misaventura,
cioè in esso caso ‘ve malitia overo evidente colpa deprendere non si possa; de
le quali neuna pena si possa imponere overo dare”[58]. La colpa “evidente”
costituiva, quindi, il limite estremo per l’attribuzione ad un soggetto di un
fatto di penale rilevanza.
Più in generale, va segnalato che la
nozione di colpa solo con Bartolomeo da Saliceto, a cavallo tra il XIV ed il XV
secolo, assunse connotati prossimi a quelli odierni. Egli definì, infatti, la
colpa come l’agire in modo diverso da quello raccomandato dalla ragione, ovvero
l’agire o l’omettere di agire per negligenza, ed individuò il parametro di
riferimento per valutarne la sussistenza nel vir prudens, ossia nell’uomo mediamente prudente e diligente[59].
Dopo tale Autore, i postglossatori
svilupparono ulteriormente concetto di colpa[60], contribuendo a delinearne
i connotati in maniera sempre più simile all’istituto odierno[61], ricominciando a
riflettere – in particolare grazie a Bartolo da Sassoferrato ed alla sua opera
fondamentale che pur occupandosi della responsabilità colposa
nell’inadempimento contrattuale contribuì in maniera estremamente significativa
all’elaborazione generale del concetto – sui suoi gradi[62].
Nel campo penale, in particolare,
venne ripresa l’antica idea secondo cui i gradi più tenui della colpa non
fossero in genere meritevoli di sanzione penale. Così si esprimeva Giulio
Claro:
“hoc homicidium licet sine dolo
commissum, potest nihilominus puniri criminaliter, non quidam poena ordinaria,
et sic poena mortis, sed debetur puniri poena pecuniaria vel esilio et pro modo
culpae […] sed si non fuerit lata culpa, sed levis aut levissima, tunc non
debet criminaliter puniri”[63].
Operava analoghe distinzioni basate
sul grado della colpa anche Sebastiano Guazzini, secondo il quale la colpa si
divideva in tre gradi: la grave, che tuttavia non poteva mai dare luogo ad una
pena di tipo corporale; la lieve, che era punibile solamente in presenza di
querela ed a condizione che la condotta tenuta dall’agente non fosse stata
meramente omissiva e la lievissima, che era punibile anche in questo caso
solamente in presenza di querela e a condizione che il danno non fosse stato
riparato:
“Culpa triplex est, lata, levis et
levissima. Culpa lata in poenis corporalibus non aequiparatur dolus et mitius
punitur sed an probit puniri poena corporali. Culpa levis, ubi non datur
accusator, non punitur, ubi datur accusator, si consistat in omittendo non
punitur, si vera consistat in committenda, leviter punitur. Culpa levissima,
ubi non datur accusator, non punitur, et ubi datur accusator, si reficiatur
damna parti laesa nec etiam puniatur“[64].
Nel diritto comune, quindi, la
rilevanza del grado della colpa in ambito penale era assolutamente rilevante.
Nel lungo periodo preso in considerazione, quindi – ad eccezione delle
dominazioni barbariche – l’esclusione della sanzione penale per i gradi più
lievi della colpa rappresenta, a livello generale, un concetto ben presente
nell’elaborazione giuridica degli interpreti.
I codici ed i progetti di codice
realizzati nei decenni precedenti all’Unità d’Italia[65] forniscono ulteriori utili indicazioni
in ordine all’impiego della colpa grave, ancorché, per alcuni di essi
l’importanza del grado della colpa sia derivata dall’interpretazione delle
norme realizzata dalla giurisprudenza, come di esporrà nei paragrafi che
seguono.
Tra la fine del ‘700 ed i primi anni
dell’800, in un’Italia ancora divisa, si erano infatti succeduti vari tentativi
di porre in essere una legislazione organica in materia penale. Alcuni di essi,
in particolare, contenevano disposizioni che conferivano rilievo al grado della
colpa ai fini dell’an della pena.
Tra quelli portati a termine, una
delle opere più importanti fu la riforma penale di Pietro Leopoldo, Granduca di
Toscana, del 1786[66].
In tale Legge di riforma, l’articolo
LXVIII, dopo aver fornito indicazioni ai giudici per una diminuzione di pena
degli omicidi commessi in rissa o a seguito di provocazione, rimetteva alla “disposizione di ragione” gli omicidi
“meramente colposi, e fuori dell’intenzione”[67], con ciò lasciando, come meglio si
vedrà infra, alla discrezionalità del
giudice la valutazione sulla rilevanza del grado della colpa.
Tra i progetti di codice, poi,
appaiono sicuramente interessanti due progetti di codice – il primo per
l’allora Repubblica Italiana intorno ed il secondo per il nascente Regno
d’Italia – realizzati dall’allora Giudice e Ministro della Giustizia Giuseppe
Luosi su incarico di Napoleone Bonaparte a cavallo tra il ‘700 e l’800.
Nel primo, il par. 14 prevedeva che
“se manchi l’intenzione maliziosa, o la colpa non sia altrimenti grave, la
trasgressione non si potrà punire criminalmente, meno poi ove il male fosse
proceduto da mero caso” [68].
Ancora più chiaramente, poi, nel Progetto di codice penale per il Regno
d’Italia[69]
del 1806[70],
l’articolo 7 disponeva chiaramente che:
“la colposa violazione della legge è
punibile soltanto in via correzionale. La pena però non percuote che gli
avvenimenti derivati da colpa grave”.
Su tale norma la riflessione fu assai
ampia. In particolare, la Corte di Cassazione – incaricata quale istituzione
del Regno di formulare il proprio parere – propose, anzitutto, di punire la
colpa più severamente rispetto alle pene correzionali allora previste, ed
inoltre di sanzionare qualsiasi grado dell’elemento soggettivo in questione[71].
A tali considerazioni, il Ministro
della Giustizia replicò:
“Le pene di alto criminale sono le
pene principali della punitiva Giustizia, e quindi corrispondenti al vero
delitto il cui essenziale carattere è il dolo. Gli avvenimenti colposi, i quali
hanno un rapporto immediato al vizio dell’intelletto piucchè al vizio della
volontà, non altre pene reclamano che le emendatorie. Il celebre Giureconsulto
napolitano de Ferrante ha dimostrato nelle sue osservazioni all’ opera
criminale del professore Renazzi, che questa massima era pure sacra nel diritto
romano. Se per qualche assai funesto avvenimento fosse punita la colpa con pene
riservate alle azioni dolose, verrebbe misurata la pena dalla sola quantità del
danno avvenuto, e trascurato quel riguardo principale che si deve avere al
concorso della volontà: In maleficiis voluntas spectatur, non exitus. E negli
oggetti civili, ove trattasi della sola riparazione di esclusiva utilità del
danneggiato, elle non si deve distinguere fra il maggiore o minor grado di
colpa: Lex aquilia coercet damnum etiain culpa levissima datum. Ma negli
oggetti criminali, essendo punibile la colpa per il facile passaggio dalla
medesima al dolo, parve alla Commissione, che il solo maggior grado di colpa potesse essere suscettibile di pena , e che
nella colpa grave soltanto potessero
verificarsi le ragioni giustificanti il gastigo. Nè ai principj in tal guisa
stabiliti poteva, come parve al Tribunale di Cassazione, rimarcarsi una
contraddizione, perché nell’art 8 delle disposizioni generali sia riputato
doloso l’avvenimento derivato al simultaneo concorso di colpa grave, e di proibizione della Legge. Anche nel diritto romano
non è generalmente equiparata la colpa lata al dolo: In Lege Cornelia de
sicariis , dice il testo , neque lata culpa dolo aequiparatur. Vi è però
qualche caso in cui l’avvenimento è punito come vero delitto, quando sia stato
la conseguenza di altro delitto voluto (V. la L. 5. C. ad Leg. Jul. de vi pub.
et pria.), onde insegnavano i Prammatici che chi dà opera a cosa illecita, deve
considerarsi colpevole delle conseguenze. La Commissione modificando tale
insegnamento propose, che allora soltanto come doloso debba riguardarsi
l’avvenimento, quando nell’autore dell’azione premessa vi fosse la maggiore
facilità di prevederlo, ed altronde nell’atto volutovi concorresse la
proibizione della Legge. Un canone relativo ad un caso singolare non distrugge
giammai per gli altri casi la regola generale. Tuttavia l’art. 8 potrebbe
rischiararsi con la seguente leggerissima riforma. «L’ avvenimento deve sempre
riputarsi derivato da colpa grave, se
l’azione direttamente voluta sia per sé stessa illecita o dalla Legge vietata»
e deve considerarsi doloso quanto alla pena, ogni qualvolta nella medesima
azione con la proibizione della Legge concorra il maggior grado della colpa”.
Ancora, il Procuratore Generale
dell’alto Po – parimenti incaricato in ragione della propria funzione di
formulare osservazioni – si chiese[72]
“se solamente colposo, come atto di
volontà indiretta sia un delitto, la di cui conseguenza era facilmente
previsibile anche nelle circostanze di una libera ed intelligente volontà.
Ritrovando in astratto giusto che si debba punire la sola colpa grave, non crede però che siasi abbastanza provveduto alla
privata sicurezza, discendendo alla specialità di quelle azioni, da cui ne può
derivare l’omicidio e la grave lesione della persona”.
In ordine a tale parere, il Ministro
rilevò
“il dubbio è sciolto colla distinzione
espressa nello stesso articolo, ritenuta però la correzione da noi proposta nei
Rilievi alle Osservazioni generali num. 20. Del resto, essendo sempre eguale ed
inconcusso il principio, non deve esso soffrire alterazione, quando venga
applicato piuttosto ad una specie di delitto che all’ altra, nè vi può essere
l’inconveniente temuto dal Regio Procuratore dell’Alto Po, tutta volta che in
alcuni casi speciali l’avvenimento, quanto alla pena , è riputato doloso”.
Tale progetto non venne poi adottato,
sia per la scelta di Napoleone di estendere ai territori italiani il Codice
penale già in vigore per la Francia[73], sia per il disfacimento del Regno a
seguito della sconfitta di Napoleone nel 1815.
Appare controverso se vi sia una
valorizzazione del grado della colpa nel senso di escludere la rilevanza penale
della colpa lievissima nei Regolamenti penali adottati da Papa Gregorio XVI nel
1832 per lo Stato Pontificio[74].
Nel relativo Titolo XIX, rubricato
“Degli Omicidj”, si prevedeva, infatti, che l’omicidio colposo dovesse essere
sanzionato come segue:
“289. Se l’omicidio è accaduto per colpa lieve, è punito colla detenzione
dai due mesi ad un anno;
291. Se con colpa grave, è punito coll’opera pubblica, da un anno ai tre;
292. Se con colpa gravissima, è punito coll’opera pubblica dai tre anni ai
cinque”
La circostanza la norma in questione
preveda un livello di colpa superiore alla colpa grave – la colpa gravissima –
potrebbe far pensare all’esistenza di un grado minimo di colpa – la colpa
lievissima – la cui rilevanza penale era esclusa. Tale conclusione parrebbe
avallata dalle posizioni della dottrina e della giurisprudenza coeva ovvero
immediatamente successiva che si esporranno di seguito.
In altri, testi, il grado della colpa
era valorizzato ai fini della decisione sul quantum
e sulla tipologia di pena. Così, ad esempio, il Codice penale austriaco del
1803, adottato nel Regno Lombardo Veneto[75], come in tutti gli altri territori
austriaci, dalle cui disposizioni emergeva che il reato colposo non era
considerato un delitto.
L’art. I, paragrafo 2, del Capo
Primo, intitolato “Dei delitti in generale” prevedeva infatti:
“non sono da imputarsi a delitto le azioni, od
omissioni […] g) quando il male è derivato dal caso, da negligenza, o dall’inscienza delle conseguenze dell’azione”.
La colpa assumeva, invece, rilevanza
penale esclusivamente nella seconda parte del codice, intitolata “Delle gravi
sanzioni di polizia”, cui era soggetto il reato colposo con commisurazione
della sanzione rapportata alla gravità della colpa. Il par. 89 prevedeva
infatti che
“le gravi trasgressioni di polizia
contro la sicurezza della vita si riducono a due classi: a) o si contravviene
ai doveri naturali, generali dell’uomo, o all’espresso comando della legge; b)
o si omette ciò, ch’è prescritto espressamente dalla legge, o ciò, che da sé
risulta come dovere dello stato, del mestiere, della professione, o di qualche
altro rapporto. Siccome è impossibile di specificare tutti i casi, nei quali
siffatte azioni, od omissioni recano pericolo alla sicurezza della vita, così
ogni qual volta in caso di morte, o di grave ferimento si scoprisse
nell’inquisizione una colpa di tal natura, quegli, che n’è aggravato, è punito secondo la gravezza della colpa medesima
coll’arresto semplice, o rigoroso da uno a sei mesi; che secondo le circostanze
può essere anche esacerbato”.
Non parrebbe, invece, esservi, almeno
stando alla lettera della legge, una valorizzazione del grado della colpa in
altre raccolte normative preunitarie, quali ad esempio il Code des délits et des peines del 1795, ossia il Codice adottato
nel corso della Rivoluzione francese, che venne esteso ad alcune province
italiane durante la dominazione napoleonica, il Codice penale per il Principato
di Piombino del 1808[76],
la Legislazione penale adottata da Giuseppe Bonaparte per il Regno di Napoli
sempre nel 1808[77],
il Code pénal adottato anche per il
Regno d’Italia da Napoleone Bonaparte nel 1811 in seguito al fallimento del
progetto codicistico del Ministro Luosi sopra menzionato[78], il Codice penale per il Regno delle
due Sicilie del 1819[79],
il Codice penale per gli Stati di Parma Piacenza e Guastalla del 1820[80],
il Codice penale del Granducato di Toscana del 1853[81], il Codice criminale per gli Stati
estensi del 1855[82]
ed il Codice penale sardo del 1859[83], corpus,
quest’ultimo, che venne esteso al momento dell’Unità d’Italia all’intera
penisola, ad eccezione della Toscana.
Da un esame della dottrina e della
giurisprudenza dell’Ottocento si scopre, inoltre che anche l’assenza di
riferimenti testuali al grado della colpa presente nella maggioranza dei codici
preunitari sopra menzionati non era univocamente indicativa dell’assenza di una
sua valorizzazione. L’irrilevanza penale dei gradi più lievi della colpa era
infatti talvolta considerata, in buona sostanza, implicita, perché derivante
dalla tradizione giuridica cui si è fatto cenno nei precedenti paragrafi.
Sul punto è interessante notare,
anzitutto, l’opinione della dottrina dei primissimi anni del 1800, a commento
del Code des
délits et des peines del 1795[84], esteso al territorio italiano nei
primi anni della dominazione napoleonica. Quanto all’omicidio colposo, in tale
codificazione come nel successivo Code Napoleon del 1811, non era previsto a
livello esplicito alcun rilievo per il grado della colpa.
L’art. 15 del Titolo Secondo della
Seconda Parte del Codice prescriveva, infatti, che in caso di omicidio,
denunciato come involontario o riconosciuto tale in seguito alla dichiarazione
del Giudice, qualora esso fosse la conseguenza di imprudenza o negligenza,
l’autore doveva essere condannato ad un’ammenda o al carcere non superiore ad
un anno.
Nel commentare tale disposizione,
tuttavia, Antonio De Simoni, uno dei più importanti giureconsulti dell’epoca,
rilevava quanto segue:
“Si fa nelle scuole, per maggiore
chiarezza di dottrina, la distinzione di colpa lata, leggiera e leggierissima, che non sono già diverse
specie di colpa, come hanno sognato molti prammatici, della scuola massime di
Bartolo (ne’ quali non è cosa nuova il veder tolto ed alterato persino il senso
proprio delle parole e dei vocaboli), ma diversi gradi di essa, essendo certo
che il più ed il meno in cui sono differenti questi gradi, non può costituire
diverse specie […] fra gli accennati tre gradi di colpa, cioè di lata, leggiera e leggerissima, quella
solamente che colpa lata è detta,
costituisce il grado suscettibile del giudizio criminale, e quindi capace di
pena, poiché è quel solo grado il quale possa accostarsi, come si è già detto,
all’indole e alla natura del dolo, e a questo in qualche maniera paragonarsi,
in quanto, o v’interviene di fatto qualche vizio della volontà, o la ragion
civile ha motivo di presumerlo. Gli altri due gradi della colpa non possono
essere soggetto delle leggi criminali, perché, incapaci per sé di ogni vizio di
volontà, tolgono ogni ragionevole motivo di presumerlo, partecipando più del mero caso, dell’errore e degli accidenti
della fortuna, che di alcuna influenza morale dell’agente”[85].
Tale opinione fu condivisa da quasi
tutta la dottrina dell’Ottocento, anche da parte di Autori che commentavano le
leggi e i codici in cui non compariva un esplicito rilievo al grado della
colpa. Siffatta posizione dottrinale non si modificò, salvo rare eccezioni,
lungo tutto il corso del 1800 e per tutte le citate codificazioni, le quali non
contenevano a livello testuale riferimenti all’irrilevanza penale delle più
tenui gradazioni di colpa.
Il Carmignani, nella sua celebre opera,
la cui prima edizione risale al 1832, nel medesimo senso rilevava
“l’imputazione della colpa appartiene
più al grado che non alla qualità dei delitti; la ragione dell’ordine richiede
pertanto che ne sieno qui esposte le regole. Il fondamento della politica
imputabilità della colpa è riposto in ciò che la legge, dove tale intenzione
esista, ha sospetto di dolo. Ma il sospetto non può mai parificarsi alla
certezza: e di qui la regola che la colpa, a parità di circostanze, non è mai
imputabile quanto il dolo. Siccome poi questo sospetto della legge nasce dalle
circostanze del fatto, che rendono probabile il dolo; e siccome siffatta
probabilità non può esistere che nella colpa lata: così si ha quest’altra
regola che la sola colpa lata può
ammettere una criminale imputazione, e ancora d’infimo grado”[86].
Con riferimento al Codice penale del
Granducato di Toscana del 1853, poi, Francesco Antonio Mori, che era stato tra
i giuristi incaricati di redigerlo, pubblicò l’anno successivo alla sua
emanazione, un’opera[87]
nella quale evidenziava:
“niente impedisce per altro di
seguitare a distinguere la colpa in lata
e leve anche nel foro criminale.
Quello che importa si è, che la colpa sia valutata dai Tribunali secondo la più
o meno stretta connessione fisica fra l’atto voluto e il suo giusto
risultamento, e secondo la maggiore o minore capacità dell’agente ad antivedere
la connessione. Quando è stata usata l’attenzione e la diligenza ordinariamente richiesta, sembra doversi
ascrivere piuttosto al caso, che alla colpa, il successo illegale, per
avventura derivato dal fatto, che fu eseguito con animo innocente. Imperocché
la colpa si punisce per causa del demerito, implicitamente volontario,
dell’agente trascurato ed incauto, e per premunire la società da altre offese
inconsiderate, tanto di quel medesimo agente, quanto di altri, che avessero una
simile propensione alla negligenza. Ma è più degno di compassione, che di
rimprovero chi produsse, come conseguenza di un azione innocente, un fatto
illegale, quando usò l’attenzione e la diligenza ordinariamente richiesta; e col punirlo, si confiderebbe invano la
pubblica giustizia di conseguire, che una suprema accuratezza divenisse comune
abitudine di tutti i cittadini; dunque bisogna badarsi da una soverchia
esigenza nella imputazione delle violazioni colpose della legge penale” [88].
In senso del tutto conforme furono
anche le opinioni dottrinali espresse sotto la vigenza del Codice penale Sardo
del 1859.
Tancredi Canonico, insigne
giurisperito dell’epoca, testualmente scriveva in una delle sue opere
fondamentali[89]:
“Per lo stesso motivo si vede esser
del pari graduabile la colpa; poiché
la negligenza nel prevedere le conseguenze prevedibili dell’atto voluto (nel
che consiste la colpa) essendo un atto, benché negativo, della volontà, è, come
tutti gli atti che dalla volontà direttamente od indirettamente dipendono,
suscettiva di gradi. Ora, essendo tanto maggiore la negligenza quanto maggiore
era la facilità di prevedere ciò che non si previde, può dirsi che il criterio
per misurare il grado della colpa sta nella maggiore o minore prevedibilità
della violazione di legge che fu conseguenza dell’atto voluto. E questa
violazione di legge sarà politicamente imputabile in ragion composta della
prevedibilità e della riparabilità dell’offesa che ne seguì al diritto. Per
modo che, se l’offesa al diritto sia difficilmente
prevedibile o facilmente riparabile, la colpa deve andar esente da pena”;
e ancora:
“diciamo che questo danno è prodotto
dalla forza morale del reato, benché non possa aver luogo senza che vi concorra
inoltre la forza fisica: perché quando manca questa forza morale (risultante
dal dolo o dalla colpa grave), come,
p. es., nell’omicidio casuale, sebbene vi sia e forza fisica e danno materiale,
il danno pubblico, il timore sociale e la diminuzione del sentimento della
propria sicurezza non si produce. I principii testè accennati in ordine al dolo
ed alla colpa sono riconosciuti dal codice penale del 1859, come può vedersi,
p. es., quanto al dolo, dagli articoli 88, 89, 90; e dagli art. 522, 534
confrontati cogli art. 526 e seg., e cogli art. 564 e seg. Non che coll’art.
569: quanto alla colpa, dagli art. 554 e seguenti”.
La riflessione maggiormente completa
e dogmaticamente argomentata, come anticipato all’inizio di questo capitolo, è
tuttavia di Francesco Carrara, il quale, nella sua opera, risalente al 1863,
sviscerava, anzitutto, la distinzione tra colpa lieve e caso, che aveva
costituito sino ad allora uno dei punti su cui la dottrina aveva fatto maggiore
confusione, talvolta sovrapponendo i piani:
“E’ qui a ripetersi che deve esservi
un grado infimo di colpa il quale
sfugga ad ogni politica imputabilità. E’ quasi impossibile immaginare una
disgrazia qualunque, che non si fosse potuta antivenire con maggiore
previdenza. La forma pura del caso fortuito stando in questo, che nulla humana prudentia paecaveri possit;
che sia assolutamente o imprevenibile o imprevedibile: ne consegue che là dove
il fatto dell’uomo si intromise o immediatamente, o mediatamente nell’evento,
il caso nel vero suo senso è un concetto iperbolico della vita umana. A me (per
quanto vi abbia meditato) mai riuscì concepire una ipotesi di caso fortuito
dove per poco la mano dell’uomo si era intromessa. Io ho spesso invitato i miei
oppositori a farmi una ipotesi di un caso fortuito, in cui abbia in qualunque
guisa il braccio umano, il quale non si fosse potuto con una prudenza maggiore
antivenire: né ancora me lo udii proporre. Ma quando tale prevedibilità o prevenibilità era così difficile, così fuori
dall’ordinario corso degli umani calcoli, che la maggior parte degli uomini non
vi avrebbe posto mente, si avranno i termini ontologici della colpa, ma
sarà colpa tanto lieve, che per gli
effetti giuridici dovrà equipararsi al caso”[90].
E ancora,
“Giuliani e Puccioni aderirono alla
regola generale della non imputabilità della colpa levissima; ma parve loro doversi fare a codesta regola una
eccezione speciale nel caso di omicidio. La gravità della forza fisica in
questo titolo ha fatto loro dimenticare la considerazione della deficienza, o
per lo meno insignificanza della forza morale così soggettiva come oggettiva;
che è la ragione per cui (indipendentemente dal riguardo alla forza fisica) noi
crediamo che manchi ogni elemento politico per ispingere oltre la sola responsabilità
civile il debito di chi nocque per colpa levissima. Salva dunque la reverenza
che portiamo a tanti nomi, e fermi sempre nella convinzione che un problema di
odierno giure penale non possa risolversi col criterio di un frammento del
giure romano noi rigettiamo ogni distinzione desunta dal maggiore o minore
resultato. La questione non è del danno maggiore o minore derivato dal fatto.
Ciò influirà sulla quantità naturale del delitto, qualora esista. Ciò influirà
sulla quantità della pena, se giustizia vorrà che si infligga. Ma prima di
scendere ai criterii misuratori, bisogna stabilire e vi siano i criterii
essenziali di un delitto sotto il rapporto della sua forza morale. Condotta la
questione su questo che ci sembra il suo vero terreno, noi persistiamo a
pensare che non si abbiano dei termini proposti gli elementi di politica
imputabilità: - 1.° perché lo aver fatto o il non aver fatto ciò che la massima
parte dei cittadini farebbe o non farebbe in pari caso, non presenta elementi
bastevoli di forza morale soggettiva per esser ascritto a reato: - 2°
sicuramente poi non presenta forza morale oggettiva veruna, non essendo in
cotesti casi richiesta la pena né per acquietare lo allarme dei buoni, che
hanno pianto ma non temuto; né per frenare la scioperataggine degl’imprudenti,
perché scioperataggine non vi fu”[91],
ritenendo quindi che vi sia colpa lata
“quando l’evento si sarebbe potuto prevedere da tutti gli uomini”, leve “quando si sarebbe potuto prevedere
solo dagli uomini diligenti” e levissima
“quando si sarebbe potuto prevedere soltanto mercé l’uso di una diligenza
straordinaria e non comune”.
In senso similare, pochi anni prima
dell’emanazione del Codice Zanardelli, il Pessina il quale, ancorché
perseverasse, da un punto di vista formale, nell’equiparazione tra colpa lieve
e caso, rilevava che:
“L’essenza della colpa componesi di
due note. L’una è quella della mancanza di volere, la quale apparisce
limpidissima nella mancanza di prevedimento delle conseguenze del proprio
operare, non potendosi mai ritenere che sia voluta quello evento che non si è
appresentato alla cosienza dell’essere operante, prima di operare, come una
conseguenza certa o almeno probabile del suo movimento; e per anto la colpa non
altrimenti che il caso si differenzia dal dolo. Ma l’altra nota caratteristica
della colpa sta in ciò che l’uomo, se non ha preveduto gli eventi possibili a
derivare da un suo fatto volontario, potea prevederli. Or vi ha egli un
criterio per discernere questa nota e così distinguer la colpa dal caso? Questo
criterio pare che rinvengasi in ciò che taluni
fatti sogliono facilmente nel corso ordinario delle cose produrre taluni
effetti. Così per esempio il gettar dall’alto una mole in un luogo
frequentato può facilmente esser cagione di danno alle persone; il gettare una
materia accesa in un luogo pieno di materia combustibile può facilissimamente
produrre l’incendio; ed un incendio in un luogo abitato può del pari
facilissimamente esser cagione di conseguenze sinistre per la vita delle
persone. Insomma secondo che più facile è ad avverarsi un evento il suo
avveramento è meglio prevedibile; e secondo che un evento è più difficile ad
avverarsi cresce la difficoltà di prevedere il suo apparire. Di qui seguita un
altro pronunciato, cioè che se le conseguenze ordinarie e dirette sono sempre prevedibili,
tutte le conseguenze che escono
dall’ordinario movimento delle cose o sorgono per concomitanza di altre
cagioni, stanno fuori della cerchia delle conseguenze prevedibili, e quando si
avverano costituiscono il puro caso, sebbene siano conseguenze di fatti
volontarii”[92].
Una parziale eccezione alle posizioni
sin qui espresse è costituita dall’autorevole opinione del Filangieri che
riteneva punibili tutti i gradi della colpa pur sottolineando la necessità di
prevedere una opportuna graduazione delle pene in ragione della prossimità
della colpa grave al dolo e della colpa lievissima al mero caso:
“se la colpa è meno imputabile del
dolo, perché nel dolo vi è la volontà di violare la legge, e nella colpa non vi
è che la volontà di esporsi al rischio di violarla; la pena della colpa non
dovrà mai dunque nell’istessa azione uguagliare quella del dolo. Se a misura
che la cognizione della possibilità dell’effetto che l’azione ha prodotto, è
maggiore, cresce il valore della colpa, e si avvicina più al dolo; e se, a
misura che la cognizione di questa possibilità è minore, minore è anche il
valore della colpa, e si avvicina più al caso; vi saranno dunque varj gradi di
colpa; e le leggi vi dovranno dunque destinare diversi gradi di pena. Se non è
possibile determinare tutt’i varj gradi di colpa; e se al contrario è
perniciosa, ed ingiusta cosa di lasciare nell’arbitrio de giudici la scelta e
destinazione della pena; le leggi dovranno dunque fissare tre diversi gradi di
colpa, a’ quali tutti gli altri possano riferirsi; la massima, la media, e
l’infima: dovranno stabilire una regola, un canone generale per indicare a’
giudici a quale di questi tre gradi debba riferirsi la colpa. Dovranno
stabilire che, quando le circostanze che accompagnano l’azione mostrano che,
nell’animo di colui che agisce, la possibilità dell’effetto alle leggi
contrario che l’azione ha prodotto, è uguale, o maggiore alla possibilità
dell’effetto che si era proposto di conseguire, la colpa sarà massima; quando è
minore, ma non è molto remota, la colpa sarà media; quando è rimotissima, la
colpa sarà infima: dovranno finalmente, nel determinare la sanzion penale,
distinguere in ciaschedun delitto, oltre la pena del dolo, quella della
massima, quella della media e quella dell’infima colpa”[93]
A fronte di posizioni dottrinali
sostanzialmente uniformi, la giurisprudenza risultava, invece, decisamente
ondivaga.
Tra le sentenze di quegli anni se ne
ritrovano, infatti, alcune in cui viene stabilita la rilevanza penale di
qualsiasi livello della colpa, mentre altre che - indipendentemente dal tenore
letterale delle norme che sovente, come detto, non davano esplicito rilievo al
grado della colpa - escludono la rilevanza penale dei suoi gradi più lievi.
A tale proposito si riscontrano vari
orientamenti.
Secondo un primo orientamento la
colpa penalmente rilevante era solo quella connotata da un certo grado di gravità. In questo senso, ad esempio, si pronuncia
la Cassazione penale di Firenze, 31 agosto 1841:
“Considerando che le patrie Leggi dei
30 Novembre 1786 e de’ 30 agosto 1795, agli articoli 68 e 14, lasciarono alla
disposizione di ragione gli omicidii meramente colposi e la ragione comune ha
stabilito che ove si tratti d’azioni informate da colpa , la sola colpa lata, che in certo modo si
confonde col dolo, rende queste azioni criminalmente imputabili e punibili
perloché quando le giudiziali dissero punibili negli omicidj anche la colpa levissima, è manifesto che
introducessero un principio nuovo contrario alle leggi vigenti, quindi
esorbitante. Considerando però che questo esorbitante principio fu dalla
pratica di giudicare stabilito espressamente, ed unicamente nel caso di
omicidio avvenuto per fatto dell’uomo, e non mai nell’altro distintissimo caso
di omicidio avvenuto per fatto di un quadrupede per sua natura mansueto e senza
cooperazione del padrone, o del custode del quadrupede stesso; d’onde consegue
che la massima addotta nel primo caso non può estendersi al secondo, perocché
nelle materie penali non è permessa alcuna estensione al di là della lettera
della legge o della consuetudine. Considerando quindi che la denunziata
sentenza tostochè dopo aver dichiarato in fatto che alla morte della M.
avvenuta pel cozzo di un montone, aveva dato causa la colpa levissima del
custode del gregge, condannò questo custode alla pena afflittiva, violò le
leggi soprannunziate e falsamente applicò le osservanze giudiciali, cassa la
sentenza proferita dal Tribunale prima istanza di Livorno”[94].
Nel medesimo senso, nella
giurisprudenza di merito, la Pretura di Castiglione delle Stiviere, sent. 16
giugno 1885:
“Maria Azzini confessò all’udienza
come nella notte del 25 aprile 1885 la sua bambina Adalgisa, di mesi cinque,
dormiva in una culla nella stessa stanza ove pur dormiva essa Azzini con suo
marito. La madre svegliata dal pianto della creatura la tolse dalla culla
portandola nel proprio letto matrimoniale ed attaccandosela al seno perché
poppasse. In tale posa la madre, vinta dal sonno, riaddormentossi, e dappoi
svegliatasi verso le ore 3 antimeridiane trovossi morta fra le braccia la
bambina […] Per la responsabilità penale in materia occorre la vera colpa, non la leggera inavvertenza.
Vuole la legge che il cittadino sia diligente, ma non esige poi un’antiveggenza
tanto scrupolosa e raffinata da essere sempre ed in ogni evento infallibile; e
la romana sapienza negli omicidi per leggera inavvertenza insegnava, doversi
gli stessi considerare accidentali, anziché colposi: ea que ex improviso casu potius quam fraude acciduntur […] E’ certo
che in specie non abbiamo un omicidio colposo derivato da atto per sua natura
illecito. Abbiamo invece l’omicidio derivato da atto indifferente, anzi
naturale, cioè l’invincibilità del sonno; non già la culpa levis, sed levissima, che fa considerare appunto, come
insegnavano i romani, l’omicidio anziché colposo, casuale”[95].
Si rinviene traccia di decisioni di
segno conforme alle due pronunce menzionate anche in alcune sentenze della
Suprema Corte del Regno di Napoli, ricordate da Niccola Nicolini[96],
Professore Universitario, Avvocato e, da ultimo, Primo Presidente della Corte
Suprema partenopea, vissuto tra la fine del Settecento e la metà
dell’Ottocento.
Tale Autore ha, infatti, trascritto
alcuni dei discorsi svolti nel corso della sua carriera da Giudice della Corte
di ultima istanza nonché gli esiti di tali decisioni.
In molte di esse si ritrovano
argomentazioni fondate sul grado della colpa.
In particolare, una pronuncia era
stata assunta all’esito di un ricorso avverso una condanna per omicidio di un
uomo che, contravvenendo ad alcuni regolamenti dell’epoca, aveva offerto ad un
altro, già ebbro, del vino, cagionandone così il decesso per un’apoplessia
vinosa. Il Nicolini osservava in ordine a tale condanna[97]:
“delle tre classi
di omicidii ed altri danni non imputabili, la prima, quella cioè in cui l’uomo,
strumento materiale del fatto, non ne ha alcuna intelligienza e conscienza, non
può confondersi con altra indole diversa: è assai facile riconoscerne i
caratteri. Tale è pure il secondo, quello cioè in cui l’uomo intende e sa
quello ch’è astretto a fare, ma non ha forza sufficiente a fare altrimenti e la
sua volontà contraria è inefficace: egli ubbidisce ad una necessità superiore
alle sue forze. L’una e l’altro caso riguardano azioni assolutamente
involontarie; quelle cioè che procedono o da ignoranza o da violenza: che
l’ignoranza relativamente all’azione, è lo stato dell’uomo che non ne conosce
il fine né le circostanze; la violenza è l’urto di una forza che ci trascina verso
la sua direzione, mal grado la nostra volontà. Il terzo caso procede pure da
ignoranza: tale è questa però, che il fatto opera dell’agente, è per sè lecito
e dipendente e voluto dall’uomo, del quale però ei non può prevedere alcune
lontane conseguenze. Se agendo col consiglio
ordinario degli uomini egli avrebbe potuto prevederle, allora è in colpa”,
postulando quindi l’irrilevanza dei gradi più bassi della colpa ed osservando
che “i giureconsulti romani facevano la distinzion medesima e dicevan forse lo
stesso con altre parole. La colpa
lievissima, quella che credevan prossima al caso, era nella improvidenza di
cui solo i diligentissimi padri di
famiglia sono esenti: la lieve è nella improvidenza contraria alla prudenza
ordinaria: la grave, magna, nimia, dissoluta, supina, lata, latior, dolo
proxima è nel non intendere quod omnes intelligunt”[98].
La condanna venne quindi cassata
dalla Suprema Corte.
In altra decisione, concernente la
causazione di un incendio conseguente ad una improvvisa folata di vento in una
giornata apparentemente non ventosa, si rileva che
“[…] quando si parla di prudenza, che
la legge abbandona alla semplice estimazione dell’altrui buonsenso, non è
giusto precipitare una condanna senza ben pesare ed estimare tutte le
circostanze della persona e del fatto. Non perché una medicina ha fatto
peggiorare l’infermo, il medico è reo di colpa: perché può stare che l’impeto
del male e le apparenze avessero potuto ingannare qualunque uomo più esperto.
Il giudizio in questi casi si risolve in vedere se l’ordinario consiglio umano potea prevedere in quell’istante quel
danno”[99].
Anche in questo caso, la condanna
venne cassata, conformemente alla richiesta del giurista partenopeo.
All’orientamento illustrato, se ne
opponeva, tuttavia, uno di segno diametralmente opposto, in cui, invece, si
propendeva per la rilevanza penale di ogni grado della colpa.
In questo senso, ad esempio, si
esprime la Cassazione penale di Torino, nella sentenza 14 ottobre 1887:
“L’art. 554, a cui si riferisce il
555 [100], dice: ‘chiunque per
inavvertenza, disattenzione, imprudenza, negligenza, o per imperizia dell’arte
o della professione che esercita, o per inosservanza dei regolamenti avrà
volontariamente commesso un omicidio o vi avrà dato causa…’. Come si scorge, il
legislatore ha bensì accennato alle varie cause da cui avrebbe potuto derivare
il reato involontario di omicidio o di lesioni corporali, e codeste cause sono
certamente altrettanti elementi di colpa; ma di colpa grave o leggiera
non ha parlato, e tanto meno poi ha segnato dei limiti della colpa oltre ai
quali si dovesse arrestare l’azione penale. E’ quindi a ritenersi che qualunque
colpa, anche di lieve apparenza, purché radicata in qualcuna delle indicate
cause, possa essere redarguita in via penale, salvo solo al prudente ed
illuminato criterio del giudice di apprezzarla secondo il suo giusto valore e
punirla con proporzionata misura. Questa opinione è poi confortata dalla stessa
latitudine e varietà della pena sanzionata in quelle disposizioni, imperocché
se in caso di omicidio trovasi comminata una pena massima di due anni di
carcere e da questa si può discendere, a senso dell’art. 556, fino all’infimo
grado della multa, e se, in caso di lesioni, dalla pena massima di sei mesi di
carcere si può venire fino a semplice pena di polizia, egli è nell’intendimento
che il giudice, nell’infinita varietà e difformità dei casi in cui si
presentano i reati colposi, avesse agio di equamente proporzionare la pena, non
solo alla maggiore gravità del danno, vale a dire alla maggiore o minore
quantità materiale del reato, ma ben anche alla maggiore o minore
responsabilità dell’imputato, cioè alla maggiore o minore entità della colpa”[101].
In aggiunta ai due orientamenti
menzionati, ve ne furono, poi, altri che valorizzavano questo o quell’elemento
della situazione concreta con la finalità di mitigare i risultati troppo
estremi dei due precedenti.
L’irrilevanza penale dei gradi più
bassi della colpa è stata, ad esempio, stabilita nel caso di reati commessi da
minorenni.
Così Cassazione penale di Firenze,
sentenza 11 gennaio 1842:
“dalla idea di colpa non è separabile
quella delle sue gradazioni e che la imperfetta età e quindi la imperfezione
dell’intelligenza non abbastanza sviluppata dall’esperimento della vita, mentre
dà ben ragione, che non ogni diligenza, quale e quanta dal majorenne si può
esigere, egualmente si esiga dal minore, autorizzerebbe a inferirne, tutto al
più che la omissione della massima e squisita diligenza corrispondente al grado infimo della colpa non gli faccia debito,
non già, che non gli faccia debito la omissione della comune, ordinaria e ovvia
diligenza, ossia la negligenza crassa, cui corrisponde la colpa lata, e nella quale si ravvisa qualche cosa di volontario,
almeno indirettamente, cosicché dicesi fraternizzante col dolo”[102].
In altre pronunce, invece, si
assumeva l’irrilevanza penale della colpa lieve per tutti i reati ad eccezione
dell’omicidio, in ragione dell’importanza del bene giuridico – la vita umana –
tutelato da tale fattispecie.
In tal senso, ad esempio, nella
giurisprudenza di merito, il Tribunale di Firenze, sentenza 8 gennaio 1840:
“Atteso che per regola generale la colpa lata è quella sola che
criminalmente può imputarsi […] meno il
caso dell’omicidio, nel quale la pratica anche per la leve e per la
levissima autorizza la pena. Atteso che consultando le leggi romane […]
potrebbe dubitarsi che la limitazione introdotta per gli omicidj fosse da
ritenersi anche nel giudicare delle azioni eseguite dagli impiegati nel
disimpegno delle loro attribuzioni, e più specificamente pei carcerieri […]
Atteso che da questi principii resultando che la colpa criminalmente imputabile
ai carcerieri, quando ancora fosse stata congiunta a qualche mancanza
nell’uffizio loro, non avrebbe potuto ritenersi criminalmente, se lata non
fosse comparsa, e se non avesse potuto dagli imputati. Attesochè considerata
l’altezza della finestra dalla quale N. potè dal pavimento con particolare
artifizio ascendere; la larghezza della esterna muraglia che i custodi presumer
dovevano di corrispondente solidità e non di facilissima decomposizione, come è
resultato che fosse; il Tribunale ha creduto non potersi ritenere verificato il
concorso della lata colpa a carico dei carcerieri nella evasione consumata da
N.”[103].
In taluni casi, ancora, la colpa lata aveva l’effetto, nel delitto di
lesioni, di rendere procedibili d’ufficio contegni che, ove commessi con colpa
lieve, sarebbero stati punibili unicamente in presenza di querela:
“[…]laddove la imprudenza dell’autore
del fatto, da cui sia derivata lesione di membra alle persone, si verifichi e
sia formalmente riconosciuta al grado di lata
colpa; e la circostanza dell’eventual resultato di simil fatto in lieve ed
anche lievissimo ferimento, non deve, né può tenersi in calcolo e conto
all’effetto di risolvere la causa coll’assoluzione dell’imputato, motivata sul
difetto di querela del privato rimasto offeso, quasi l’intervento di quella
fosse per l’antedetta circostanza necessaria condizione della legittima instaurazione
del giudizio penale […] poiché nella colpa spinta all’estremo dei noti suoi
gradi rappresentasi l’incuranza e lo spregio di quella prudenza e di quella
diligenza che dal comune degli uomini anche meno prudenti e diligenti sogliono
per quasi istintivo suggerimento, e debbono tenersi per guida nell’esercizio
della vita, onde le proprie azioni non riescano altrui di danno, facilmente si
comprende come la verificazione di simili fatti colposi tale sia per naturale
incriticabile effetto, da diminuire fra gli uomini l’opinione della individuale
sicurezza; nel che consiste quel danno mediato o sociale che nelle loro
sanzioni le leggi criminali prendono principalmente di mira […]”[104].
Da ultimo, vi erano sentenze in cui
il grado della colpa non incideva sull’an
della sanzione penale, bensì sulla tipologia di pena da applicarsi all’interno
della cornice edittale stabilita a livello legislativo. Secondo tale posizione
giurisprudenziale, in particolare, la colpa lieve poteva dare luogo unicamente
ad una sanzione di tipo pecuniario:
“considerando che la sentenza ha
dichiarato che il condannato è colpevole di offese con frattura informate da colpa leve e che le più recenti
osservanze giudiciali non sottopongono a pena afflittiva coloro che si rendono
debitori delle offese surriferite, onde la sentenza denunziata ha male ritenute
ed applicate le osservanze giudiciali, quando ha pronunziata a carico del
ricorrente una pena afflittiva, cassa la sentenza […]”[105].
In conclusione, dunque, la colpa
grave sembra essere stata sovente utilizzata nelle codificazioni antecedenti
all’unità d’Italia quale criterio minimo per l’attribuzione della
responsabilità penale secondo due distinte modalità: i) in alcuni casi – una minoranza – in quanto
vi era la previsione espressa dell’irrilevanza penale dei gradi più bassi della
colpa a livello testuale e ii) in altri – la maggioranza – in ragione di una
interpretazione della nozione di colpa penalmente rilevante che poggiava sulla
discrepanza tra la condotta tenuta dall’agente nel caso concreto e quella che
sarebbe stata ordinariamente tenuta in un’ipotesi analoga. Tale comparazione
lasciava fuori eventi che non erano normalmente prevedibili dall’agente del
caso concreto, con conseguente esclusione dei gradi più bassi della colpa.
I giuristi dell’Ottocento, quindi,
riconoscevano l’utilità del grado della colpa con funzione di limite della
responsabilità penale e impiegavano tale categoria con discreta frequenza.
Considerazioni non dissimili a quelle
sviluppate nei precedenti paragrafi paiono poter essere compiute anche con
riguardo alle norme del codice Zanardelli del 1889[106], antecedente immediato del codice
penale vigente (c.d. codice Rocco, dal nome dell’allora Ministro della Giustizia).
In tale codice mancava una definizione di colpa nella parte generale, tuttavia
le indicazioni sul contenuto della colpa erano fornite dalle singole norme
incriminatrici di reati colposi.
Esaminando il delitto di omicidio
colposo quale paradigma della responsabilità penale per colpa va rilevato che
l’articolo 371 prevedeva al primo comma:
“Chiunque, per imprudenza, negligenza, ovvero
per imperizia nella propria arte o professione, o per inosservanza di
regolamenti, ordini o discipline, cagiona la morte di alcuno è punito con la
detenzione da tre mesi a cinque anni e con una multa da lire cento a tremila”.
Al secondo comma, poi, veniva
previsto
“Se dal fatto derivi la morte di più
persone o anche la morte di una sola e la lesione di una o più, la quale abbia
prodotto gli effetti indicati nel primo capoverso dell’articolo 372, la pena è
della detenzione da uno a otto anni e della multa non inferiore a lire
duemila”.
Il tenore letterale della norma
potrebbe far pensare, stante l’interpretazione odierna relativa alla similare
disposizione contenuta nell’art. 43 c.p., che fosse escluso qualsiasi rilievo
del grado della colpa in funzione di limite della responsabilità penale.
Dalla Relazione al Codice del
Ministro, tuttavia, si apprende che il dibattito sulla rilevanza penale dei
gradi più lievi della colpa era tutt’altro che sopito. Nella stessa, difatti,
si evidenzia anzitutto che non è stabilito “ancora con sicurezza di criteri
scientifici in che cosa consistesse la colpa in diritto penale”[107]
ed inoltre che “il concetto della prevedibilità dell’evento, in addietro
pacificamente ricevuto dalla dottrina, è oggidì scosso dalle nuove indagini e
viene giudicato empirico e fallace”[108].
Ancora, il Guardasigilli osservava,
con riguardo ai concetti di negligenza, imprudenza o imperizia, che
“se poi ciascuna delle espressioni
che vi sono contenute può lasciare adito a qualche perplessità, ravvicinate tra
di loro, esse si completano e chiariscono scambievolmente, per guisa che né per
inavvertenza, imprudenza o negligenza debba ritenersi imputabile qualunque fatto dell’uomo, nel quale non
siano osservate le più sottili cautele
del vivere civile, né per imperizia dell’arte o professione o per
inosservanza di regolamenti, discipline o doveri del proprio stato s’intenda ogni e qualunque deviazione delle norme
particolari o generali, che incombono al professionista o a qualsiasi
cittadino”[109].
In tale documento, quindi, pare
escludersi che da condotte implicanti una tenue violazione della regola
cautelare possa discendere responsabilità penale.
Conferma di quanto appena rilevato si
ricava dalla dottrina dell’epoca[110].
Augusto Setti, membro della
Commissione che aveva collaborato alla stesura del Codice Zanardelli, rilevava:
“Comunque non fu disconosciuta
l’utilità dell’antica divisione in lata, levis, levissima, ammettendo
implicitamente nella formola legislativa, esplicitamente nella relazione, che
la colpa lievissima non è d’ordinario
punibile, non potendosi pretendere dagli uomini una previdenza od una
perizia od una conoscenza del dovere straordinario, cioè non comune alla media fra gli uomini”[111].
Similmente si esprimeva Giovanni
Battista Impallomeni il quale, dopo avere evidenziato le ragioni che
giustificavano l’imputabilità del reato colposo, osservava
“in coerenza all’anzidetto, la colpa levissima o minima non forma oggetto
della legge penale, secondo che è comune insegnamento, per quegli eventi,
cioè che una straordinaria solerzia e una esperienza speciale potrebbero
evitare. E se qualche eccezione del passato si è da alcuno creduta necessaria
per l’omicidio, in considerazione dell’estrema gravità del danno, ciò
contraddice ai principi del giure punitivo. Basta considerare che la legge
penale è norma di condotta, che deve essere pertanto una regola di tal natura
da poter essere obbedita dalla generalità degli uomini, non rivolgendosi essa a
questo o quell’altro singolarmente ma all’universalità dei cittadini. Or ciò
che dalla generalità degli uomini può esigersi è la diligenza compatibile con
la media capacità presunta in una
popolazione. La legge penale non può esigere una straordinaria oculatezza,
appunto perché essa è straordinaria, è la dote delle persone eccezionalmente
illuminate dall’ingegno e dall’esperienza”;
l’Autore, inoltre, riprendendo il
pensiero di F. Carrara, evidenziava che
“questo stesso, del resto, è il
precetto del codice, poiché il medesimo raffigura la colpa nella negligenza,
imprudenza e imperizia nella propria arte o professione; e imprudente è colui
che non è prudente, non chi non è prudentissimo;
negligente chi non è diligente, non diligentissimo;
imperito chi non è perito, non chi non è peritissimo:
occorrerebbero appunto tutti questi superlativi per la imputabilità della colpa lievissima”[112].
Riprendendo, poi, la posizione
dell’Autore citato, anche Luigi Majno:
“Si deve adunque ritenere come
principio generale che non tutti i gradi
di colpa diano luogo a responsabilità penale. Così vogliono in principi
razionali: così richiedono autorevoli esempi legislativi così ha già ritenuto
anche la pratica giurisprudenza in applicazione dell’art. 371 del codice
italiano”[113].
Ugualmente l’Alimena:
“Se la colpa ha, come confini, l’imprevedibile
– cioè il fortuito – da una parte, e il previsto – cioè il dolo – dall’altra, è
naturale che essa, nei suoi territori estremi, senta l’influenza dei suoi
vicini. Quindi – e non ne dicemmo le ragioni – come vi è una colpa lievissima, che non può imputarsi,
così vi è una colpa gravissima, che
suol dirsi prossima al dolo e, specialmente, al dolo eventuale. Tra questi due
limiti, vi sono tanti stadi di gravità sempre crescente, e meritevoli, quindi,
di pena sempre maggiore”[114].
Nella stessa linea di pensiero,
Alfredo Tosti, che scriveva in una sua opera dedicata integralmente al tema
della colpa[115]:
“Se adunque razionalmente nessuna
limitazione comporta il principio non potersi esigere dai cittadini una cura straordinaria nelle loro azioni, è presumibile
che nelle leggi positive si sia voluto adottare una regola contraria,
pretendendosi, per ragioni di opportunità, quello che umanamente non è giusto
pretendere?”,
richiamando il contenuto della
relazione sopra menzionato e concludendo
“in qualsiasi ipotesi è sempre alla media degli uomini che bisogna aver
riguardo, ed il giudice, nell’emettere la sua sentenza, non potrà mai fare
a meno di rivolgersi, sia per i principi assoluti di giustizia, sia per le
testuali nostre disposizioni di legge, la seguente domanda: dato l’insieme
delle circostanze, che hanno spinto l’imputato ad agire, si presenta egli come
un individuo normale od anormale? Ha
egli cioè fatto quello che nel caso concreto la media degli uomini avrebbe operato, oppure s’è messo in opposizioni
con i sentimenti o con le idee d’un determinato popolo in un dato momento
storico di progresso civile? Di talchè è da escludersi sempre dalla cerchia
delle azioni punibili tutto quanto non è in armonia con ciò che comunemente si
pratica ed a nessun magistrato è permesso violare questo principio, senza
calpestare la legge scritta”[116].
Così anche il Mosca:
“che della colpa levissima non si risponda penalmente è ormai fuori
contestazione […]. Tutto è prevedibile dall’uomo eccessivamente cauto e
meticoloso; ma se nella vita umana dovesse procedersi con codesto grado di
cautela non si farebbe mai niente”[117];
ed ugualmente il Crivellari:
“su questa norma della prevedibilità
si regola la distinzione della colpa in lata, levis, levissima. L’omissione
della più ordinaria e comune diligenza,
di quella che dettata quasi dal senso comune suol essere adoperata da ogni uomo
nelle cose proprie, costituisce la colpa
lata. L’omissione di quella diligenza che suol essere impiegata nelle cose
proprie delle persone più diligenti e
prudenti è una colpa levis.
L’omissione finalmente della più esatta diligenza solita usarsi dalle persone più diligenti ed accortissime
costituisce la colpa levissima.
Siccome la legge umana non può mai spingersi fino ad imporre ai cittadini cose
insolite e straordinarie, così è
indubitato che la colpa levissima non è imputabile per principio di giustizia.
Non lo è poi anche per principio di politica, poiché dall’omissione di una straordinaria diligenza non possono i
cittadini essere intimiditi se dalla comune di loro generalmente non è usata e
se ciascuno sente che non la adopererebbe egli stesso al verificarsi di un caso
simigliante”[118].
Conferme della circostanza che la
colpa punibile, nel codice Zanardelli, non fosse quella lievissima, provengono
dalla lettura di ulteriori contributi dottrinali del tempo.
L’Antolisei, ad esempio, osservava
che per ascrivere ad un soggetto un reato a titolo di colpa occorresse
accertare se questi, con il proprio comportamento, avesse dimostrato qualità
antisociali e dunque difetto di quella diligenza, attenzione e perizia
indispensabili nei rapporti della società, concludendo che solamente una tale
indagine poteva restringere nei limiti dovuti la responsabilità per colpa e
portare ad una sua graduazione[119].
Da un’analisi della giurisprudenza
formatasi sotto la vigenza del Codice Zanardelli, inoltre, si rinvengono alcune
pronunce che paiono muovere nel senso di un riconoscimento della irrilevanza
penale di contegni caratterizzati da un basso grado di negligenza, imprudenza e
imperizia ancorché tale esclusione sia ottenuta per lo più non mediante la
formale esclusione della colpa lieve ma attraverso la creazione di un tertium comparationis su cui valutare la
condotta dell’agente plasmato sul comportamento ordinario dei consociati.
Ne sono un esempio le decisioni che
seguono:
Cassazione penale, sentenza 2 luglio
1913[120], in cui la Corte precisa
i parametri per l’ascrizione del reato colposo:
“nel concetto di colpa è insita la
mancanza di quella diligenza e prudenza che la comune esperienza della vita insegna di usare nell’adempimento di
alcuni atti, e specialmente nell’esercizio di alcuni mestieri o nell’uso di
alcune cose”;
Cassazione penale, sentenza 29 maggio
1916, nella quale la Corte rilevava che:
“non è dubbio adunque che codesta
maniera tenuta dalla levatrice di operare senza necessità, senza praticare
disinfezioni, e contro la volontà della puerpera e della madre, mette capo al concetto
della imperizia sanitaria. La quale consiste nella ignoranza di ciò che
nell’esercizio dell’arte o della professione deve essere saputo dall’esercente,
onde il non praticare per inscienza ciò che è praticato normalmente, e che la comune perizia insegna, induce
indubbiamente la colpa punibile”[121].
Cassazione penale, sentenza 19
novembre 1928, in cui la Corte, a fronte di un ricorso presentato dalla Procura
contro la sentenza assolutoria di un imputato di omicidio colposo, stimava
“immeritevole di censura [...] la
sentenza per i concetti espressi in ordine al contenuto della colpa punibile,
dovendosi con essa consentire che questa presuppone la violazione dei doveri di
diligenza e di previdenza che normalmente
si osservano nell’ordinaria vita sociale,
e specificamente nell’esercizio delle attività, arti, mestieri, professioni.
Tutto ciò che è fuori di questi limiti, può essere oggetto di cura minuziosa di
persone eccezionali, ma non può essere preso a fondamento di penale
responsabilità”[122].
Similmente, Cassazione penale,
sentenza 26 marzo 1928, in cui la Corte osservava:
“nel delimitare i limiti della
diligenza generica, per tutti i cittadini, e della diligenza specifica per
coloro che appartengono a categorie di persone che assumono od esercitano
alcuni incarichi o professioni o mestieri, non si può pretendere di più di
quanto nella pratica ordinaria della vita,
per i primi, e nella pratica della loro specifica attività, per gli altri, la
logica (attingendo dagli elementi dell’id
quod plerumque accidit) ritiene doveroso”[123].
Da ultimo, Cassazione penale,
sentenza 16 maggio 1930, ove si annullava una sentenza di condanna per omicidio
colposo di un dipendente di una società che aveva malamente coperto una buca
all’esito di alcuni lavori effettuati, così cagionando la morte di un soggetto
per caduta del medesimo all’interno della buca stessa
“questa Suprema Corte ha già avuto
occasione di notare in proposito come non sia facile la determinazione dei
limiti della diligenza specifica per quelle categorie di persone che esercitano
determinati mestieri o professioni; e che debbasi riconoscere che non sia
lecito pretendere, oltre quello che nella pratica singolare della specifica
attività, per costoro, la logica può ritenere doveroso attingendo agli elementi
dell’id quod plerumque accidit”[124].
Non mancavano, poi, sentenze in cui
si ritenevano penalmente punibili solo i gradi più elevati di colpa.
Così ad esempio Cassazione penale,
sentenza 27 settembre 1906[125],
in materia di errore professionale del medico, nella quale la Suprema Corte
sottolineava:
“per ritenere responsabile un medico si
richiede un errore evidentissimo e
imperdonabile, per modo da rendere scusabili tutti quegli errori che non
dipendono da incapacità manifesta e di trascuranza di obblighi o precetti
indiscutibili”
e, quindi, confermava la condanna del
sanitario sottoposto a giudizio in quanto l’omissione di una manovra con il
forcipe
“che era unicamente indicata, non
dipese da sua imperizia, giacché egli, col preparare e sterilizzare
quell’instrumento, dimostrò di avere piena e sicura coscienza dell’indicazione
ostetrica, ma dipese dall’audace lusinga di potere riparare con una manovra
manuale all’imprudente e orgogliosa affermazione precedente non esservi bisogno
d’operazione con ferri né d’aiuto di altri sanitari per l’estrazione del feto,
ma solo dell’uso della sua mano. Quell’orgoglio e quella lusinga lo resero
colpevole di grave imprudenza, per
avere tentato l’estrazione del feto con una manovra manuale, mentre egli stesso
conosceva esser l’operazione del forcipe la sola indicata nel caso. Ora, se il
magistrato di merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede,
si convinse che il medico, non per imperizia, ma per malsano orgoglio, si
spinse a tentare un’operazione audace e imprudente, omettendo quell’operazione
che egli stesso giudicava indicata nel caso, manifestamente insussistente è
l’accusa che si fa nella sentenza. Non si tratta di errore professionale più o
meno sanabile, ma d’una gravissima imprudenza di un professionista, che, pur
sapendo che una via facile e piana gli era aperta, per salvare la vita di una
infelice signora, che in lui aveva riposto piena fiducia, per appagare la sua
vanità, ne segue un’altra più difficile e perigliosa, onde veramente può dirsi
che si verifica quella colpa lata quae
dolo aequiparatur”;
Questa impostazione[126]
venne sovente seguita anche dalla giurisprudenza di merito.
La Corte d’Appello di Milano[127],
ad esempio, aveva rilevato in una propria sentenza che non potesse assurgere a delitto colposo l’omissione
di “qualche cautela straordinaria e inusitata” e tanto meno “il costituirebbe
qualsiasi leggiera inavvertenza”. La legge, osservavano i giudici milanesi,
“con ragione pretende che il cittadino sia diligente nelle sue azioni onde
queste non siano dirette a danno altrui”, ma “non può esigere in lui una
antiveggenza così scrupolosa e raffinata che porti ad un’infallibilità dei suoi
atti”, in quanto “il fatto stesso si elevi a colpa delittuosa necessita il
concorso d’una indiscutibile, palese, evidente, negligenza o imprudenza o
imperizia” [128].
Dall’analisi della dottrina e della
giurisprudenza sviluppatasi sotto la vigenza del codice Zanardelli emerge
quindi che anche in tale periodo la dottrina ed una significativa parte della
giurisprudenza continuavano a ritenere che la colpa penalmente dovesse essere
connotata da un certo grado di gravità e, nell’assenza di indicazioni
legislative, l’irresponsabilità per i gradi più lievi della colpa era sovente
ottenuta, come già avvenuto per i codici preunitari, anche grazie al tertium comparationis – plasmato sul
comportamento ordinario, comune dei consociati – con cui si paragonava la condotta tenuta dall’agente concreto[129].
Nei precedenti paragrafi si è cercato
di fornire un quadro sintetico delle riflessioni sul grado della colpa prima
dell’adozione dell’attuale codice penale.
Ci pare utile chiudere questa
ricostruzione storica dando conto della posizione della dottrina che scriveva
all’indomani della promulgazione del codice Rocco, avvenuta il 19 ottobre 1930.
Benché né nel testo, né nella
relazione finale si faccia cenno alcuno al grado della colpa[130] in funzione di
esclusione della responsabilità penale, parte della dottrina coeva sembrava non
avere dubbi sulla circostanza che il requisito psicologico della colpa, per
dare luogo a sanzione penale, dovesse connotarsi di un certo grado di intensità[131].
Così l’Altavilla:
“E’ possibile, in diritto penale, l’antica
distinzione romanistica tra culpa levissima,
levis e lata? Merita di essere
ricordata una sentenza civile della Corte di Appello di Roma: ‘Tra la colpa
perseguibile penalmente e quella extracontrattuale civile esiste una notevole
differenza potendo questa essere anche lievissima per grado, mentre l’altra
deve turbare in modo più profondo l’ordine giuridico, sì da eccitare il potere
politico della repressione, comune ad entrambe è l’elemento della prevedibilità,
senza cui si rientrerebbe nel concetto del fortuito o della forza maggiore, ma
la misura è diversa, perché, in tema di diritto penale, non potendo incriminarsi la colpa lievissima, bisogna ragguagliarla
alla comune mentalità umana, e non si
può pretendere dal soggetto attivo una riflessione straordinaria, estensibile
cioè ad un evento anormale, laddove nella configurazione del quasi delitto
civile si può tener conto di ogni negligenza, imprudenza, imperizia e
inosservanza di ordine e di disciplina che al responsabile del fatto debbano
ascriversi’. Deve cioè la colpa, per essere penalmente punibile, avere una certa intensità”[132].
Ugualmente il Frosali:
“A nostro modo di vedere, è
opportuno, e risponde alla pratica quotidiana, distinguere, fra colpa penale e
colpa civile, una differenza di grado, constatando che al di sotto del grado minimo necessario per integrare la colpa penale
vi è ancora un grado di colpa sufficiente a determinare la responsabilità
soltanto civile. Infatti, la individuazione della colpa penale e la
individuazione della colpa civile rispondono a fini diversi: per la prima, si
tratta di individuare una personalità criminalmente pericolosa, per la seconda,
si tratta di accertare quel tanto di imputabilità morale – secondo il generale
sistema civilistico vigente – che stacchi l’azione umana dal caso fortuito, e
consenta di addossare l’onere (prevalentemente patrimoniale) del danno a chi lo
ha adeguatamente recato piuttosto che a chi lo ha sofferto”[133].
Particolare, poi, la posizione del
Battaglini, il quale riteneva che la colpa lievissima fosse sanzionata
penalmente solo nelle ipotesi di responsabilità oggettiva previste dal Codice
del 1930:
“La ‘responsabilità oggettiva’
sarebbe effettivamente compresa nell’art. 42, solo se l’‘altrimenti’ del
secondo capoverso si riferisse veramente a ipotesi, nelle quali non c’è neppure
la volontà della causa. […] E allora, se non siamo fuori dalla volontà in causa
(ossia della volontà indiretta dell’evento), nel secondo capoverso dell’art. 42
non può trattarsi che di un grado di volontà minore di quello che si richiede
nella figura del delitto, che si denomina ‘colposo’. In questo non rientra tutta la colpa, anche quella
minima; perché un illecito di carattere così grave, com’è il reato, non può essere costituito – ove il
legislatore ritenga di incriminare la colpa in senso stretto: il che in penale
è già un’eccezione – dalla omissione di
cautele che esorbitano dalla capacità dell’uomo medio. In certi casi, però,
il legislatore può ritenere sufficiente una colpa estremamente leggera, anche
in penale. E’ a queste figure eccezionali, di volontarietà minima in ordine
alla causa, che si riferisce appunto l’avverbio ‘altrimenti’. Vale a dire che,
nei casi a cui quell’altrimenti allude, è sufficiente anche la colpa levissima. È la categoria, che segna il
limite estremo della colpa, oltre il quale è il fortuito. Non è che si tratti
in realtà di responsabilità senza colpa, ad ogni costo ed erroneamente
battezzata come responsabilità per colpa”[134].
Opinioni similari a quelle appena
riportate provenivano anche da Autori che avevano ricoperto il ruolo di
Segretario della Commissione per la riforma del codice penale – Carlo Saltelli
ed Enrico Romano-Di Falco – i quali
sottolineavano, riprendendo quasi alla lettera il pensiero di autori precedenti
quali Impallomeni e Carrara[135]:
“è da osservare ancora che se la
colpa è costituita dalla negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di
leggi, regolamenti, ordini o discipline, il non osservare le più sottili cautele del vivere civile o le più raffinate consuetudini della convivenza sociale, o il semplice deviamento delle norme che regolano
l’esercizio professionale non costituisce affatto colpa. Negligente è chi
non sia diligente, e non chi non sia diligentissimo; imprudente è chi non è
prudente, e non chi non è prudentissimo; imperito è chi non è esperto e non chi
non è espertissimo” [136].
Aderivano a questa posizione
dottrinale anche sentenze di pochi anni successive all’adozione del Codice
Rocco che escludevano la rilevanza penale della colpa lievissima e che oggi non
possono che stupire il giurista contemporaneo, considerato che esse erano
fondate sulle medesime norme in tema di colpa oggi vigenti.
Esempio di tale affermazione è
Cassazione penale, sentenza 20 dicembre 1939 secondo cui:
“C’è invero una larga graduazione
della responsabilità, anche ai fini del delitto colposo, e la legge non può
giungere fino a comprendere il grado superlativo, cioè la mancanza delle più delicate cautele della più scrupolosa
condotta della civile convivenza; colpisce chi non è diligente senza
arrivare fino a chi non è diligentissimo, e potrà pertanto sempre esser colto
il distacco della responsabilità civile ai sensi dell’art. 1151 C. civ., ove si
prevede qualsiasi fatto dell’uomo che arreca danni ad altri sul fondamento
della colpa extracontrattuale”[137].
In senso sostanzialmente conforme
anche Cassazione penale, sentenza 26 aprile 1939
che, nell’annullare una sentenza di condanna per il proprietario di un
muraglione che non aveva fatto eseguire dei lavori di restauro così
cagionandone il crollo con conseguente morte di nove soggetti, così si
esprimeva:
“La Corte d’appello considerò tale
errore non immune da colpa e così testualmente ebbe ad esprimersi: ‘si può
ammettere che la ricerca e la scoperta delle cause dei ricordati fenomeni fosse
ardua e che richiedesse un tecnico espertissimo; ma è chiaro che un ingegnere
chiamato a risolvere il problema ne avrebbe almeno riconosciuta la difficoltà
di soluzione, e da ciò sarebbe stato indotto, se non fosse riuscito ad
identificare la causa, a suggerire di ricorrere al parere di altri tecnici,
astenendosi, nel dubbio, dall’escludere il pericolo di crollo, e l’ordinanza di
sloggio non sarebbe stata revocata’. Non si può disconoscere che un tale
argomentare, rispetto ad un punto così essenziale ai fini del decidere, rivela
perplessità, contraddittorietà, e comunque non costituisce valida dimostrazione
dell’esattezza dell’assunto. Rivela perplessità, perché quando il magistrato,
di fronte ad un quesito di responsabilità per colpa, e per di più, come è nella
specie, per decidere se ricorra imperizia, ammette che soltanto un tecnico
espertissimo possa scoprire quanto sfuggirebbe alla media dei tecnici, dimostra incertezza, ben sapendosi che, invece,
il criterio razionale e giuridico da adottare per ritenere o meno uno stato di
imperizia è quello di far capo alla normale
esperienza tecnica e professionale”[138].
Vi era, tuttavia, altra parte della
dottrina[139]
che invece riteneva superato il problema, argomentando che il grado della colpa
potesse avere rilievo esclusivamente ai fini della commisurazione della pena –
in quanto ciò era stato espressamente stabilito nel nuovo codice dall’art. 133
c.p. – ma non avesse più alcuna utilità ai fini della decisione sull’an della sanzione penale.
Su tali posizioni si attestarono
anche autori successivi[140]
e dalla giurisprudenza maggioritaria che, in generale, non conferì più alcun
rilievo – salvo un’eccezione concernente l’applicazione anche in ambito penale
della previsione dell’art. 2236 del codice civile[141] – ai gradi della colpa al fine di
escludere la responsabilità penale.
Riteniamo che l’excursus appena proposto, per quanto connotato da un’inevitabile
sinteticità, abbia contribuito a chiarire una circostanza: l’esclusione dalla
rilevanza penale dei gradi più lievi della colpa, per lo meno sino all’adozione
del codice Rocco, risultava essere principio abbastanza consolidato nella
cultura giuridica nostrana[142].
Vi sono almeno tre motivi per cui,
invece, dopo il codice Rocco il dibattito sulla rilevanza dei gradi della colpa
ai fini dell’an della pena si è
assopito quasi del tutto.
Un primo argomento, già menzionato in
precedenza, è di ordine sistematico – letterale: si ritiene che la graduazione
della colpa prevista dall’art. 133 c.p. per la commisurazione della pena
chiuderebbe qualsiasi discussione sulla rilevanza penale dei gradi della colpa.
Esso, tuttavia, non pare da solo sufficiente a spiegare l’arrestarsi del
dibattito, anche perché, come visto, salvo isolate eccezioni, l’esclusione dei
gradi più bassi della colpa era in passato ottenuta sulla base di
un’interpretazione di norme che in realtà non contenevano definizioni di colpa.
Un secondo argomento risiede
nell’affinamento della dogmatica della colpa e nella conseguente individuazione
dell’homo eiusdem condicions et
professionis – già abbozzato in sede civile, come si è visto, da Bartolo da
Sassoferrato – quale parametro di riferimento per la valutazione della
sussistenza del reato colposo. Siffatta modifica del termine di paragone –
fondato su ragioni già analiticamente descritte in dottrina[143] – potrebbe aver
contribuito all’allargamento della responsabilità colposa anche a contegni percepiti
come di lieve entità[144].
E’, difatti, abbastanza intuitivo che
il parametro di riferimento con cui si compara la condotta[145] di un soggetto incide
significativamente sulla determinazione dei comportamenti che sono oggetto di
incriminazione.
Se ad esempio, in caso di incidente
stradale, si valuta l’eventuale imprudenza di un soggetto – il quale, distratto
per un istante dall’illuminazione del cellulare che segnalava la ricezione di
un messaggio, non si è avveduto del repentino attraversamento di un bambino
investendolo e cagionandone la morte – parametrando la sua condotta con il
comportamento – notoriamente sciatto – ordinariamente tenuto dalle persone al
volante, questi potrebbe essere ritenuto esente da responsabilità,
responsabilità che al contrario potrebbe essergli attribuita, comparando il suo
comportamento con quello che avrebbe tenuto l’homo eiusdem condicionis ed professionis, ossia un esponente
coscienzioso ed avveduto del gruppo di persone di cui l’imputato è omologo[146].
Al tertium comparationis utilizzato al fine di stabilire l’an della responsabilità penale pare
quindi immanente un quantum di
pretesa di diligenza, prudenza e perizia che l’ordinamento ha nei confronti dei
consociati nello svolgimento delle proprie attività.
Da ultimo, ulteriore argomento per
spiegare la scomparsa – o l’estrema riduzione – del grado della colpa con
funzione limite alla responsabilità penale risiede nella circostanza che
rispetto ai periodi storici sopra descritti, quello che va dall’adozione del
codice Rocco sino ai giorni nostri è stato caratterizzato da un aumento del
progresso tecnologico che non trova confronti nel resto della storia
dell’umanità. Conseguentemente, per far fronte ai pericoli che derivano da tale
sviluppo tecnologico per l’uomo, una delle strade percorribili potrebbe essere
l’espansione in misura sempre maggiore del diritto penale[147] ed in particolare del reato colposo.
Tale espansione poggia sulla necessità di sfruttare la finalità preventiva del
diritto penale poiché in particolare la sanzione per i reati colposi, un tempo
previsti solo in via residuale, dovrebbe, in un’ottica di politica criminale,
spingere i soggetti a comportamenti attenti, ad aumentare la diligenza, la
prudenza, la perizia ed il rispetto delle leggi, regolamenti, ordini e discipline
aventi finalità cautelare. Correlata a tale motivazione vi è altresì la
considerazione che al giorno d’oggi e differentemente dal passato una colpa
lievissima può avere delle conseguenze disastrose; il progresso ha quindi
moltiplicato a dismisura il raggio d’azione e la potenzialità distruttiva dei
comportamenti umani.
Il ragionamento esposto sembra
concretizzare le istanze che presso la società contemporanea paiono avere
assunto un peso sempre maggiore nel corso del tempo. La veloce trasformazione
della società nell’epoca della post–industrializzazione e la novità degli
strumenti di comunicazione hanno contribuito in maniera decisiva ad aumentare
il senso di inadeguatezza dell’individuo a dominare gli eventi[148]
e la conseguente necessità di individuare sempre e comunque, anche a fronte di
eventi imprevedibili che altro non costituiscono se non quelle disgrazie[149]
cui faceva riferimento il Carrara[150], un responsabile[151].
La pubblica opinione, cui Francesco
Carrara attribuiva un peso determinante nell’identificazione della ratio giustificatrice dell’esclusione
dei gradi più tenui della colpa – in quanto a fronte di condotte lievemente
colpose essa si sarebbe mossa a compassione – sembra avere mutato il proprio
atteggiamento.
Particolare risalto da questo punto
di vista, con riguardo alle ragioni che hanno contribuito al cambiamento di
atteggiamento nell’opinione pubblica, sembra avere assunto proprio la
diffusione enorme, rispetto ad un tempo, degli strumenti di comunicazione di
massa che giocano oggi un ruolo fondamentale[152], spingendo cittadini ad un bisogno
continuo e indefettibile di sicurezza a prescindere dalla reale esistenza di
pericoli[153].
Il ruolo dei mass media, rispetto al diritto penale, pare determinante
nell’adozione dei provvedimenti legislativi poiché influenza i cittadini,
elettori, rispetto a quelli che sono i loro bisogni; bisogni – tra i quali
rientra l’esigenza di essere al sicuro da determinati pericoli – la cui
realizzazione viene promessa dai politici in campagna elettorale e realizzata
successivamente alle elezioni[154].
Le elaborazioni in questione lasciano
aperto l’interrogativo se il totale abbandono del grado della colpa quale
elemento limitativo dell’imputazione colposa – e quindi l’estensione della
sanzione penale verso qualsiasi forma di colpa, anche la più leggera – sia un
fatto giustificato o giustificabile dall’effettiva efficacia dell’intervento
penale al fine di stimolare positivamente l’attenzione dei consociati verso
l’assunzione di comportamenti virtuosi, ovvero non sembri piuttosto il prodotto
dell’evoluzione della società contemporanea per cui “nessuna morte è naturale e
[…] se non è possibile attribuirla ad una volontà positiva, la si può sempre
imputare ad una negligenza”[155].
Come è stato rilevato da Hassemer,
infatti, un po’ di sicurezza in più può essere sempre aggiunto al sacco già
ricolmo dei controlli e delle sanzioni e forse è proprio questo pezzo di
sicurezza mancante che, domani, ci salverà. In particolare, se si concorda
sull’ovvietà per cui è impossibile pensare ad un mondo in cui non vi siano dei
rischi, quali e quanti rischi al giorno d’oggi siamo disposti a sostenere pur
di conservare le tradizioni di libertà che hanno contraddistinto la nostra
cultura dall’illuminismo in poi[156]?
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] In dottrina,
peraltro, l’individuazione della colpa grave
quale elemento soggettivo richiesto per integrare le suddette ipotesi di
bancarotta semplice è tutt’altro che pacifica: ritiene che tali ipotesi siano
punibili a titolo di colpa S. Canestrari,
“Rischio d’impresa” e imputazione
soggettiva nel diritto penale, in Rivista
trimestrale di diritto penale dell’economia, 2003, 554; secondo C. Pedrazzi, Reati commessi dal fallito. Reati
commessi da persone diverse dal fallito, ora in C. Pedrazzi, Diritto
penale, Vol. IV – Scritti di diritto penale dell’economia, Milano, Giuffrè,
2003, 602, invece, almeno le ipotesi di bancarotta semplice previste dai numeri
2) e 3) (oltre, ovviamente, all’ipotesi di cui al numero 1) dell’art. 217 comma
1 possono essere commesse anche con dolo eventuale; in senso ulteriormente
difforme G. Cocco, Sub art. 217 l. fall., in F. Palazzo – C. E. Paliero (a cura di),
Commentario breve alle leggi penali
complementari, Padova, Cedam, 2007, 1209, ritiene che le condotte di
bancarotta semplice siano esclusivamente dolose. In argomento, v. pure D. Micheletti, La colpa nella bancarotta semplice patrimoniale. Contributo allo
studio della regola cautelare come criterio di delimitazione della tipicità
colposa, in Rivista trimestrale di
diritto penale dell’economia, 2000, 609 e ss. Ad ogni modo, il numero di
sentenze di condanna per bancarotta semplice, soprattutto se raffrontato a
quello di condanne per bancarotta fraudolenta, è estremamente esiguo, come la
ricerca su una qualsiasi banca dati di giurisprudenza può dimostrare. Per tale
rilievo, v. già U. Giuliani Balestrino,
La colpa dell’imprenditore nella
bancarotta semplice patrimoniale nell’evoluzione del reato colposo, in M. C. Biassiouni –A. R. Latagliata – A. M.
Stile, Studi in onore di Giuliano
Vassalli, Vol. I, Milano, Giuffrè, 1991, 680. Tra le sentenze emanate dalla
Corte di Cassazione in materia di bancarotta semplice, in cui si dà rilievo
alla colpa grave, particolarmente
interessante è Cass. pen., sez. V, sent. 43414 del 2013, in CED 257533, in cui
la Corte ha sottolineato l’attenzione che l’interprete dovrebbe riservare alla
verifica della sussistenza della gravità della colpa nel comportamento tenuto
dall’imprenditore.
[2] Sulla legge Balduzzi
e sulla sua applicazione giurisprudenziale, v., per un quadro ricostruttivo, F. Basile, Un
itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa tra
art. 2236 cod. civ. e legge Balduzzi (aspettando la riforma della riforma),
in Diritto penale contemporaneo, 23
febbraio 2017, nonché, volendo, P.F.
Poli, Legge Balduzzi tra problemi
aperti e possibili soluzioni interpretative: alcune considerazioni, in Diritto penale contemporaneo – Rivista
trimestrale, n. 4/2013, 86 e ss.; sulla riforma del 2017, v. C. Cupelli, Alle porte la nuova responsabilità penale degli operatori sanitari.
Buoni propositi, facili entusiasmi, prime perplessità, in Diritto penale contemporaneo, 16 gennaio
2017; C. Brusco, I riflessi della legge Gelli – Bianco sulla
responsabilità penale, Relazione svolta al corso di aggiornamento
“Responsabilità per colpa medica: nuovi strumenti e nuovi problemi dopo la
recente modifica legislativa”, 13 giugno 2017, in http://www.distretto.torino.giustizia.it/Distretto/allegato_corsi.aspx?File_id_allegato=2896; G.M. Caletti – M.L. Mattheudakis, Una prima lettura della legge Gelli – Bianco
nella prospettiva del diritto penale, in Diritto penale contemporaneo, 9 marzo 2017; G. Iadecola, Qualche
riflessione sulla nuova disciplina della colpa medica per imperizia nella legge
8 marzo 2017 n. 24 (legge c.d. Gelli – Bianco), in Diritto penale contemporaneo, 13 giugno 2017; A. Roiati, La colpa medica dopo la legge “Gelli – Bianco”: contraddizioni
irrisolte, nuove prospettive ed eterni ritorni, in Archivio penale, n. 2, 2017, 1 e ss.; O. Di Giovine, Colpa
penale, “legge Balduzzi” e “disegno di legge Gelli-Bianco”: il matrimonio
impossibile tra diritto penale e gestione del rischio clinico, in Cassazione penale, 2017, 389 e ss.; L. Risicato, Il nuovo statuto penale della colpa medica: un discutibile progresso
nella valutazione della responsabilità del sanitario, in La Legislazione penale, 2017, 16 e ss., nonché, volendo, P.F. Poli, Il d.d.l. Gelli – Bianco: verso
un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del
medico ai principi costituzionali?, in Diritto penale contemporaneo, 20 febbraio 2017.
[3] Cass. pen., SS. UU., sent. 21 dicembre 2017, n. 8770. Per alcune
considerazioni critiche su tale sentenza, la quale avrebbe operato
un’interpretazione praeter legem del
nuovo art. 590 sexies c.p., v. C. Cupelli, L'art. 590-sexies c.p. nelle
motivazioni delle sezioni unite: un'interpretazione 'costituzionalmente
conforme' dell'imperizia medica (ancora) punibile, in Diritto penale contemporaneo, 1 marzo 2018; P. Piras, Un distillato
di nomofilachia: l’imperizia lieve intrinseca quale causa di non punibilità del
medico, in Diritto penale
contemporaneo, 9 aprile 2018; R.
Bartoli, Riforma Gelli – Bianco e
Sezioni Unite non placano il tormento: una proposta per limitare la colpa
medica, in Diritto penale
contemporaneo, 24 maggio 2018; R.
Blaiotta, Niente resurrezioni, per
favore. A proposito di S.U. Mariotti in tema di responsabilità medica, in Diritto penale contemporaneo, 28 maggio
2018.
[4] Per uno sguardo
comparatistico sul rilievo del grado della colpa nel sistema spagnolo sia
consentito rinviare a P.F. Poli, La rilevanza del grado della colpa in
funzione incriminatrice nel sistema penale spagnolo: un modello da imitare?,
in Rivista italiana di diritto e
procedura penale, 2018, 903 e ss.
[5] Affronta un analogo
quesito anche S. Delsignore, La colpa grave. Un’indagine di diritto
comparato sui limiti di incriminazione dei fatti colposi, Parma, 2004
(stampa a cura dell’autore).
[6] Così G. Grosso, Lezioni di storia del diritto romano, V ed., Torino, Giappichelli,
1965, 2, il quale rileva che “l’apertura
storica è essenziale al giurista per acquistare coscienza del suo stesso
lavoro, e rendere questo più sensibile all’individualità degli elementi con cui
opera”.
[7] F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale –
Parte speciale, vol. I, VI ed., Lucca, Tipografia Canovetti, 1891, 90 e
ss.
[8] Cfr. F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. IV, Torino, Giuffrè,
1990, 46.
[9] Per una panoramica
sul diritto comune cfr. A. Padoa
Schioppa, Italia ed Europa nella
storia del diritto, Bologna, Il mulino, 2003; E. Conte, Diritto
comune. Storia e storiografia di un sistema dinamico, Bologna, Il mulino,
2009; M. Caravale, Diritto senza legge. Lezioni di diritto
comune, Torino, Giappichelli, 2013.
[10] Così C. Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, in E.
Pessina (a cura di), Enciclopedia del
diritto penale italiano, Vol. I, Milano, Società editrice libraria, 1905,
3; U. Brasiello, Note introduttive allo studio dei crimini
romani, in Studia ed documenta
historiae et iuris, 1946, 149 e ss.; F.
Gnoli, Diritto penale nel diritto
romano, cit., 46; G.P. Demuro,
Alle origini del concetto di dolo:
dall’etica di Aristotele al diritto penale romano, in http://dirittoestoria.it/5/Contributi/Demuro-Dolo-Etica-Aristotele-diritto-penale-romano.htm , 17.
[11] F. Zuccotti, “Furor” e “eterodossia” come categorie sistematiche della repressione
criminale romana, in O. Diliberto
(a cura di), Il problema della pena criminale
tra filosofia greca e diritto romano, Napoli, Jovene, 1993, 276; C.
Gioffredi, I principi del diritto
penale romano, Torino, Giappichelli, 1970, 26 e ss.
[12] In questo senso G. Pugliese, Diritto penale romano, in V.
Arangio Ruiz – A. Guarino – G. Pugliese, Guide allo studio della civiltà romana, Vol. VI (Il diritto romano.
La costituzione. Caratteri, fonti. Diritto privato. Diritto criminale), Roma,
Jouvence, 1980, 249. G.P. Demuro,
Alle origini del concetto di dolo,
cit., 17; F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, cit.,
46. Un tentativo di completa ricostruzione del diritto penale romano è stato
intrapreso, in epoca moderna, da T.
Mommsen, Römisches Strafrecht,
Duncker & Humblot, Leipzig
1899: come, infatti, lo stesso Autore attesta – nella traduzione riportata da T. Masiello, Mommsen e il diritto penale romano, Bari, Cacucci Editore, 1995, 36
– “Giuristi, storici, filologi sono d’accordo nel ritenere che la scienza
manchi di un’opera sul diritto penale romano. Che il presente libro colmi la
lacuna spesso avvertita è il mio desiderio e, in una certa misura, la mia
speranza”. Altri significativi contributi sull’argomento sono stati offerti da A. Löffler, Die Schuldformen
des Strafrechts. In vergleichend-historischer und
dogmatische Darstellung, Duncker & Humblot, Leipzig, 1895
nonché da K. Binding, Die
Normen und ihre Übertretung. Eine Untersuchung über die rechtmäßige Handlung
und die Arten des Delikts, II, Duncker
& Humblot, Lipsia, 1916.
[13] Per una panoramica
sul reato di omicidio nel diritto penale romano, cfr. L. Garofalo, Piccoli
scritti di diritto penale romano, Padova, CEDAM, 2009; N. Scapini, Diritto e procedura penale nell’esperienza giuridica romana, Parma,
Casanova, 1992. G. Ferruccio Falchi,
L’omicidio in Alberto da Gandino e nella
tradizione romana, Padova, R. Zannoni, 1927.
[14] Cfr. sul punto tra
gli altri B. Santalucia, Studi di diritto penale romano, Roma, L'Erma di Bretschneider, 1994, 107 e ss.; E. Cantarella, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano, Giuffrè,
1976, 77 e ss.; M.S. Porrello, Omicidio tra vendetta privata e punizione,
in Diritto e questioni pubbliche,
2008, n. 8, 161 e ss.; C. A. Melis,
“Arietem offerre”. Riflessioni attorno
all’omicidio involontario in età arcaica, in Labeo, 1988, 135 e ss.
[15] F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, cit., 48 nonché F. Arcaria – O Licandro, Diritto romano. Vol. 1. Storia
costituzionale di Roma, Torino, Giappichelli, 2014, 112, in cui gli Autori
riportano il seguente passaggio dei Commentarii in Vergilii Bucolica del giurista Servio Mario Onorato che
attesta l’esistenza di tale disposizione “Sane in Numae legibus cautum est,
ut si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi agnatis eius in
cautione offeret arietem. Ergo hic bene videtur arieti dignitatem dare dicendo
‘ipse’, qui oblatus homicidam crimine homicidii possit exsolvere”.
[16] Così C. Ferrini, Esposizione storica, cit., 38 e ss., il quale rileva che tale
impostazione risulta essere la naturale conseguenza del principio della
vendetta privata per la quale l’ira dell’offeso consegue direttamente dal male
subito.
[17] Tale età ha inizio
nel 509 a.c. – con il rovesciamento della monarchia avvenuto mediante la
cacciata di Tarquinio il Superbo – e termina nel 27 a.c., con la nascita
dell’impero romano. Per l’inquadramento storico del periodo si rinvia a W. Blösel, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio, Bologna,
Einaudi, 2016.
[18] F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, cit., 51. Tale legge, come
spiega l’Autore, fu adottata dal collegio magistratuale dei decemviri.
[19] Come osserva G.P. Demuro, Il dolo, Vol. I – Svolgimento storico del concetto, Milano,
Giuffrè, 2007, 33, “il termine quaestio,
che originariamente designa l’attività del magistrato investito del compito di
indagare (quaerere), passa poi ad
indicare, con l’introduzione delle corti permanenti, anche il procedimento
davanti alla giuria, per contrassegnare infine lo stesso tribunale presieduto
dal magistrato”.
[20] Cfr. su tale
distinzione G. I. Luzzatto, Colpa penale II, a) Diritto Romano, in Enciclopedia del diritto, vol. VII,
1960, 614 e ss.; T. Masiello, Mommsen e il diritto penale, cit., 65; P. Voci, Risarcimento e pena privata nel diritto romano classico, Milano,
Giuffrè, 1939, 93 e ss.; G.P. Demuro,
Alle origini del concetto di dolo,
cit., 20. Ben illustra, con ampi riferimenti ai testi dell’epoca, il motivo per
cui anche il solo risarcimento era considerato una pena per i giuristi di quel
periodo, C. Sanfilippo, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti.
Pena e risarcimento, Catania, Tipografia dell’Università, 1959, 31 e ss.
[21] Per una panoramica
sulle modalità di svolgimento del processo privato in epoca romana cfr. B. Albanese, Il processo privato romano delle legis actiones, Palermo, Palumbo,
1987, 1 e ss.
[22] Cfr. F. Costabile, Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano,
Torino, Giappichelli, 2016, 76, il quale evidenzia che tali illeciti
“offendevano esclusivamente l’individuo titolare di un diritto soggettivo che
veniva leso a suo esclusivo danno. Questo era risarcibile dalla multa
pecuniaria nel iudicium privatum ad
iniziativa della parte offesa, che dava inizio all’azione giudiziaria (actio) di fronte al magistrato, ed era
perciò detta actor (attore), contro
il convenuto che era detto reus in
quanto accusato di essere responsabile di qualcosa (res=cosa). Nel processo privato non solo l’iniziativa spettava
esclusivamente alla parte che si presumeva avesse subito un torto o un danno,
ma esso non poteva aver luogo se il convenuto non accettava di sottoporvisi: in
caso di rifiuto il magistrato poteva solo infliggere una multa di valore ben
superiore alla causa, ma il processo non poteva aver luogo senza il consenso
del reus. Oggi tale tipo di processo
si usa chiamarlo “civile”, ma nella lingua latina soltanto in epoca molto tarda
l’aggettivo civilis si trova in
antitesi a criminalis, com’è proprio
dell’uso moderno: quel iudicium era
detto privato proprio perché rispondeva alla singulorum utilitas”.
[23] In argomento B. Santalucia, Studi, cit., 132, il quale rileva con riferimento a tali figure che
“pur essendo sforniti, in quanto magistrati minori, della vera e propria coercitio, che trovava il suo fondamento
nell’imperium, i tresviri possedevano, nelle materie connesse con l’ordine pubblico,
un limitato potere di coercizione che consentiva loro di procedere contro i
perturbatori della pace sociale con idonee misure afflittive. Come l’odierna
polizia, essi costituivano per lo stato più basso della popolazione urbana
l’espressione più concreta e immediata della pubblica autorità. Chi non aveva
la coscienza tranquilla faceva bene a tenersi alla larga dai luoghi in cui
passavano le loro ronde: c’era sempre il rischio di essere arrestati e puniti
con una notte di prigione e con una buona dose di frustate”; A. Schiavone (a cura di), Storia giuridica di Roma, Torino,
Giappichelli, 2016, 213; M. Pani,
Il costituzionalismo di Roma antica,
Roma, Laterza Editore, 40 e ss. Per una panoramica sui compiti di tali
funzionari cfr. C. Cascione,
Tresviri capitales. Storia di una
magistratura minore, Napoli, Editoriale scientifica, 1999.
[24] Si veda in tema S. Delsignore, La colpa grave, cit., 7.
[25] G. I. Luzzatto, Colpa penale II, cit., 614 e ss. Sul tema si veda altresì l’ampia
ricostruzione di P. Demuro, Il dolo, cit., 17 e ss.
[26] A tal proposito,
come evidenziato da G. I. Luzzato
in Colpa penale, cit., 615 nella Lex Aquilia il termine culpa impiegato in ambito risarcitorio
stava generalmente ad indicare l’elemento subiettivo, ricomprendendo al suo
interno anche il dolo. Nello stesso senso pure M. Talamanca, Istituzioni
di diritto romano, Milano, 1990, 627 e ss.
[27] Così ancora G. I. Luzzato, Colpa penale, cit., 616.
[28] Cfr. C. Ferrini, Diritto penale romano, in P. Cogliolo (a cura di), Completo trattato teorico e pratico di
diritto penale, Milano, Vallardi, 1889, 44.
[29] Si veda C. Ferrini, Esposizione storica, cit., 56.
[30] Per la ricostruzione
storica del periodo si rinvia a K.
Christ, Breve storia dell’impero
romano, Bologna, Il Mulino, 2004.
[31] Cfr. sul punto F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, cit., p. 58 e ss.
[32] Così C. Ferrini, Esposizione storica, cit., 52.
[33] Lo attesta C. Ferrini, in Diritto penale romano, cit., 49.
[34] Cfr. in particolare
52.
[35] Cfr. sul punto gli
ampi richiami di G.P. Demuro, Il dolo, cit., 45 e ss.
[36] Così K. Binding, Die Normen und ihre
Übertretung, cit. p. 640
ss., nella traduzione di G.P. Demuro, Il Dolo, cit., 45 e ss. Sul punto cfr.
anche T. Delogu,
L’importanza del delitto colposo nel
diritto moderno (Testo della conferenza tenutasi ad Ankara il 6 aprile
1984), reperibile in http://dergiler.ankara.edu.tr/dergiler/38/303/2848.pdf, 1.
[37] Cfr. G. Maggiore, Principi di diritto penale, Bologna, Zanichelli, 1939, 377 e ss.
[38] Cfr. P. Del Giudice, Diritto penale germanico rispetto all’Italia, in E. Pessina (a cura di), Enciclopedia del diritto penale italiano,
Milano, Società editrice libraria, 1905, 431, il quale osserva che prima dei
Longobardi né gli Unni né gli Ostrogoti, nonostante avessero dominato i
territori prima facenti parte dell’Impero romano, avevano mutato in maniera
sostanziale l’assetto legislativo precedente.
[39] Per un inquadramento
storico di tale periodo di rinvia a S.
Gasparri, Italia Longobarda,
Bari, Laterza, 2016.
[40] Si veda ancora P. Del Giudice, Diritto penale germanico, cit., 462 e ss.
[41] Una delle popolazioni
che diedero un significativo rilievo a siffatta distinzione fu quella visigota,
come rilevato da P. Del Giudice, Diritto penale germanico, cit., 468 e s.
[42] Per una panoramica
generale dell’applicazione del diritto penale in tale periodo si veda A. Marongiu, Colpa penale II, b) Diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, vol. VII, 1960, 617 e ss. Sulla
confusione terminologica tra i concetti di culpa
e casus, v. P. Del Giudice, Il delitto colposo, Ferrara, Taddei, 1918, 30 e ss.
[43] G.P. Demuro, Il dolo, cit., 80 e ss.; C.
Calisse, Svolgimento storico del
diritto penale in Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo
XVIII, in E.
Pessina (a cura di), Enciclopedia
del diritto penale italiano, cit., Vol. II, 243 e ss. Sulla circostanza
che l’impostazione descritta fosse comune a tutte le popolazioni barbariche si
veda pure F. Joühon de Longrais, Le droit criminel anglais au Moyen Age,
in Revue historique de droit français et
étranger, 1956, 391 e ss.
[44] Cfr. P. Del Giudice, Diritto penale germanico, cit., 463 e ss.
[45] Si pensi che, come
riferito da A. Marongiu, Colpa penale, cit., 617, nell’editto
Editto di Rotari, per quanto concerne i reati di omicidio e lesioni personali,
non sussisteva alcuna distinzione tra il fatto commesso con dolo e quello
commesso con colpa. Similmente, l’articolo 75 dell’editto assimilava il delitto
di aborto colposo a quello di omicidio volontario.
[46] Si veda sul punto
ampiamente P. Del Giudice, Diritto penale germanico, cit., 463.
[47] Per un quadro completo
dell’attuale sopravvivenza di tale forma di responsabilità nella più recente
giurisprudenza della Corte di Cassazione di veda F. Basile, La
responsabilità oggettiva nella più recente giurisprudenza della Cassazione
relativa agli artt. 116, 584 e 586 c.p., in Diritto penale contemporaneo, 22 novembre 2012.
[48] E’ il caso ad
esempio dell’art. 229 dell’Editto di Rotari che punisce con pene differenti la
vendita di cose o di servi altrui a seconda che il venditore fosse consapevole
dell’altruità ovvero fosse in buona fede. Si veda sul punto A. Marongiu, Colpa penale, cit., 618.
[49] G. Salvioli, Trattato di storia del diritto italiano dalle invasioni germaniche ai
giorni nostri, Torino, UTET, 1908, 721 e ss.
[50] F. Ciccaglione, Manuale di storia del diritto italiano, Milano, Vallardi, 1901,
309.
[51] Si tratta in
particolare delle Leggi dei Visigoti, dei Ripuari e dei Burgundi. Sul punto si
vedano le considerazioni di P. Del Giudice, Il
delitto colposo, cit., 1918, 6 e di E.
Loncao, “Culpa e casus” nella storia
del diritto italiano, in Annali del
seminario giuridico della Regia Università di Palermo, Vol. V, Palermo,
1917, 73.
[52] Sul punto D. Schiappoli, Diritto penale canonico, in E.
Pessina (a cura di), Enciclopedia
del diritto penale italiano, Vol. I, Milano, Società editrice libraria,
1905, 625 e ss.; A. Stoppato, L’evento punibile. Contributo allo studio
dei delitti colposi, Padova, Fratelli Drucker, 1898, 36 nonché più di
recente G.P. Demuro, Il dolo, cit., 84.
[53] A. Pagliaro – S. Ardizzone, Sommario del diritto penale italiano,
Milano, Giuffrè, 2006, 67 e ss.
[54] Cfr. A. Marongiu, Colpa penale, cit., 620. Testimonianza di tale ripresa proviene
dalla lettura dei testi antichi, cfr. ad esempio A. Da Gandino, Tractatus
de maleficiis, Venezia, 1598, in cui nel paragrafo “De poenis”, evidenzia “Attenditur
utrum delictum proveniat ex animo vel non. Quia si non proveniat ex animo,
plerumque nullo modo punitur”” e ancora, nel paragrafo “De homicidio”, “Si autem delictum non ex animo, sed negligentia vel
culpa commissum est, impunitum esse non debet”.
[55] Così D. Schiappoli, Diritto penale canonico, cit., 695.
[56] Si veda l’analisi di
A. Marongiu, Colpa penale, cit., 622 e ss.
[57] Come riportato da C. Calisse, Svolgimento storico, cit., 247,
nelle Costituzioni siciliane di Re Ruggero – sovrano del Regno delle due
Sicilie dal 1130 d.C. – anche l’omicidio
colposo dava luogo, al pari di quello doloso, alla pena capitale. Tale
equiparazione fu corretta in punto di pena da Federico II nel 1200. Rileva le
stesse problematiche anche N. Palmieri,
Il diritto penale da Giustiniano ai
giorni nostri, in Cogliolo (a
cura di), Completo trattato teorico e
pratico di diritto penale, cit., 331 e ss.
[58] Cfr. M. Salem Elsheik (a cura di), Il costituto del Comune di Siena, Siena,
Fondazione Monte dei Paschi di Siena, 2002, 420-421.
[59] Sul tema si vedano A. Marongiu, Colpa penale, cit., 620; C.
Calisse, Svolgimento storico,
cit., 268 e ss.; T. Delogu, L’importanza del delitto colposo nel diritto
moderno, cit., 7 e ss.
[60] P. Del Giudice, Il delitto colposo, cit., 24 e ss.
[61] Deciano nel suo Tractatus Criminalis del 1580, evidenzia
che colpa non è tanto la mancanza di consapevolezza dell’antigiuridicità
dell’azione, quanto la mancanza di previsione delle sue conseguenze cioè l’errata
o non adeguata valutazione delle medesime. Sul tema si veda A. Marongiu, Tiberio Deciani, criminalista, in Rivista di storia del diritto italiano, 1934, 348 e A. Marongiu, Colpa penale, cit., 620 e ss. nonché L. Maganzani, La
“diligentia quam suis” del depositario dal diritto romano alle codificazioni
nazionali, Milano, LED – Edizioni Universitarie, 2006, 36 e ss.
[62] Nei suoi commenti al
Corpus iuris civilis, Bartolo
distinse la colpa in ben sei livelli: levissima,
levior, levis, lata, latior e latissima a seconda della misura del
contrasto del comportamento dell’agente da quello di una sorta di homo eiusdem condicionis et professionis.
Così ad esempio descrive la colpa lieve nella traduzione riportata da A. Petrucci, Fondamenti romanistici del diritto europeo. La disciplina generale del
contratto, Torino, Giappichelli, 2018, 103 e ss. “Per sesta cosa pongo
principalmente la questione su cosa sia la colpa lieve… Diversi autori dicono
cose diverse… A me sembra che la colpa lieve venga in considerazione in un
triplice modo. Infatti, la colpa lieve si assume in un certo modo con riguardo
agli affari solamente altrui, si assume in un modo diverso per le cose
incidentalmente comuni e in un modo diverso ancora per le cose comuni a seguito
di una convenzione. Circa il primo significato dico che la colpa lieve nelle
cose altrui è la deviazione constatata da quella diligenza, che adibiscono gli
uomini diligenti nella della stessa condizione e professione”.
[63] I. Clari, Opera omnia, sive practica civilis atque criminalis, Genova,
Sumptibus Samuelis Chouet, 1666, Liber quintum, 389 e ss. Per un commento alla
posizione del Claro sui reati colposi cfr. G.P.
Massetto, I reati nell’opera di
Giulio Claro, Roma, Pontificia Universitas Lateranensis, 1979, 426 e
ss. Posizioni analoghe furono assunte
anche da C. Thomasius, Dissertationum Academicarum, Tomo III,
Halae Magdeburgicae, 1777, 894 e ss.
[64] S. Guazzini, Opera omnia juridica et moralia, Losanna, Sumptibus Marci –
Michaelis Bousquet & Sociorum, 1738, Tomo I, 489.
[65] Per una
presentazione e panoramica generale sui codici cui successivamente si farà
cenno si veda A. Cadoppi, Materiali per un’introduzione allo studio
del diritto penale comparato, Padova, CEDAM, 2001, 153 e ss.
[66] Per una panoramica
di tale codificazione cfr. C. Paterniti,
Note al codice criminale toscano del 1786,
Padova, CEDAM, 1985.
[67] Cfr. D. Zuliani, La riforma penale di Pietro Leopoldo, Milano, Giuffrè, 1995, 146.
[68] Per una completa
analisi dell’evoluzione di tale progetto legislativo cfr. A. Cavanna – G.
Vanzelli, Il primo progetto di
codice penale per la Lombardia napoleonica, Padova, CEDAM, 2000.
[69] Tale regno, con
capitale Milano, comprendeva buona parte del settentrione e parte dell’Italia
centro orientale.
[70] Il progetto di
codice ed i relativi lavori preparatori sono stati pubblicati in un’opera in
due volumi a cura di G.
Luosi (a cura di), Collezione dei
travagli sul codice penale del Regno d’Italia, Brescia, Nicolò Bettoni,
1807. Va rilevato come il Luosi avesse già cominciato la stesura di un codice
sotto l’antecedente Repubblica Italiana.
[71] Cfr. G. Luosi (a cura di), Collezione dei travagli sul codice penale
del Regno d’Italia, cit., Vol. I, 93 e ss.
[72] Cfr. G. Luosi (a cura di), Collezione dei travagli sul codice penale
del Regno d’Italia, cit., Vol. I, 117 e ss.
[73] Cfr. A. Cavanna – G. Vanzelli, Il primo progetto di codice penale per la
Lombardia napoleonica, cit., 175 e ss.
[74] Si veda I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI
per lo Stato pontificio (1832), Padova, CEDAM, 1998.
[75] Codice penale universale austriaco (1803), Padova, Cedam, 1997.
[76] Siffatta
codificazione, adottata dal Principe di Lucca e Piombino Felice I, è reperibile
in Codice penale per il principato di
Piombino (1808), Padova, CEDAM, 2000. In essa non vi era una norma generale
che definisse la colpa, ma esistevano singole fattispecie di parte speciale
punite a tale titolo di responsabilità. In particolare, per quel che concerneva
l’omicidio colposo, l’art. CCLXXVIII prescriveva che “l’omicidio commesso per
colpa, cioè per effetto di negligenza, o di imprudenza, senza alcun disegno di
nuocere, è punito con pena correzionale di multa non minore di Lire cinquecento
né maggiore di Lire duemila, o di carcerazione, che non può eccedere un anno”. Il successivo art. CCLXXIX, poi,
stabiliva: “L’omicidio non
accompagnato da alcuna sorta di negligenza, imprudenza, o malizia per parte di
colui, che l’ha commesso, e derivante da puro accidente non prevedibile, né
reparabile per parte dell’uccisore, non è un delitto, e per conseguenza non
merita alcuna pena”.
[77] Tale normativa è
consultabile in Le leggi penali di
Giuseppe Bonaparte per il Regno di Napoli (1808), Padova, CEDAM, 1996.
Siffatto corpus normativo contiene
una definizione della colpa, prescrivendo all’art. 8 che “Sono imputabili nella
loro causa i delitti commessi per colpa. E’ colposo il delitto, che nasca da
una atto non voluto dal reo, ma le cui conseguenze criminose poteva prevedere.
Sono colposi tutt’i delitti, che nascono da omissione. Appartengono parimenti
alla classe dei delitti colposi quelli commessi per imprudenza, per negligenza,
per imperizia, per debolezza, per eccesso di rigore, per eccesso di
commiserazione, dalle persone alle quali il dovere del loro uffizio rende
imputabili il difetto o l’eccesso di tai sentimenti” ed il successivo articolo
9 che “Cessa interamente l’imputabilità delle azioni, nelle quali manchi
egualmente l’intenzione di delinquere, e la colpa. Il difetto d’intenzione o di
dolo, può nascere o da una cagione perenne, o da una cagione accidentale”.
[78] Si veda Codice dei delitti e delle pene pel Regno
d’Italia, Padova, CEDAM, 2002, in cui, quanto alla colpa, non vi era una
norma definitoria generale, ma l’art. 319 sanzionava l’omicidio involontario
prevedendo che “chi, per inavvertenza, imprudenza, disattenzione, negligenza o
inosservanza dei regolamenti, avrà commesso involontariamente un omicidio o
involontariamente vi avrà dato causa, sarà punito con detenzione da tre mesi a
due anni e con la multa da cinquanta a seicento lire” ed il successivo art. 320
le lesioni involontarie stabilendo “Se dalla mancanza di precauzione o
d’avvertenza non derivarono che ferite o percosse, la detenzione sarà da sei
giorni a due mesi, e la multa da sedici a cento lire”.
[79] Cfr. http://www1.unipa.it/storichedeldiritto/Materiali/FONTI/Codici/Codice_per_lo_Regno_delle_Due_Sicilie.pdf. Anche
in tale codificazione, adottata da Re Ferdinando I di Borbone, non vi era una
definizione generale di colpa ma l’art. 375 prescriveva con riferimento al
reato di omicidio colposo che “chiunque per disaccortezza, imprudenza,
disattenzione, negligenza, inosservanza de’ regolamenti commetta involontariamente
un omicidio, o ne sia involontariamente la cagione, sarà punito con prigionia
dal secondo al terzo grado”.
[80] Il Codice fu
adottato da Maria Luigia d’Austria ed è rinvenibile in Codice penale per gli Stati di Parma Piacenza e Gustalla (1820), Padova,
CEDAM, 1991. Anche in siffatto corpus
normativo non vi era una norma generale che definisse la colpa ma alcune singole fattispecie erano punite anche
a tale titolo. L’art. 349, che sanzionava l’omicidio, le ferite e le percosse
involontarie, prevedeva ad esempio che “chiunque, per inavvedutezza, per
imperizia dell’arte o professione che esercita, per imprudenza, disattenzione,
negligenza, o inosservanza de’ regolamenti, abbia involontariamente commesso un
omicidio, o ne sia stato cagione, sarà punito con prigionia da tre mesi a due
anni”. Per una dettagliata analisi delle peculiarità di tale codificazione si
rinvia a A. Cadoppi, Il codice penale parmense del 1820, in
S. Vinciguerra (a cura di), Diritto penale dell’ottocento. I codici
preunitari e il codice Zanardelli, Padova, CEDAM; 1991, 196 e ss.
[81] Cfr. https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/Codice_Penale_Toscano_1853_ridotto.pdf. In
questa codificazione non vi è una definizione generale di colpa ma sono
previste singole fattispecie di delitto colposo come l’omicidio, in relazione
al quale l’art. 315 prevede che “L’omicidio
colposo si punisce con l’esiglio particolare da uno a tre anni”.
[82] Siffatta raccolta
normativa, promulgata su iniziativa di Francesco V d’Asburgo – Este, è
reperibile in Codice criminale per gli
Stati estensi (1855), Padova, CEDAM, 2002. Anche in esso non è prevista una
norma generale in materia di colpa ma l’omicidio involontario è specificamente
sanzionato dall’art 376, a mente del quale “Chiunque per inavvertenza,
disattenzione, imprudenza, negligenza o imperizia dell’arte o della professione
che esercita, commetterà involontariamente un omicidio, o vi darà causa, sarà
punito colla pena del carcere da tre mesi a due anni”, mentre le lesioni
colpose sono penalmente irrilevanti.
[83] Cfr. Il Codice penale per
gli Stati del Re di Sardegna e per l’Italia Unita (1859), Padova CEDAM,
2008. Anche tale codificazione, voluta da Vittorio Emanuele II e che
riproponeva con modifiche il Codice penale sabaudo per il Regno di Sardegna
adottato da Re Carlo Alberto di Savoia nel 1840, non aveva una definizione
generale di colpa, nondimeno l’omicidio colposo era sanzionato dall’art. 554
che, con una formulazione assai prossima a quella poi adottata dal Codice
Zanardelli, prescriveva: “chiunque per inavvertenza, disattenzione, imprudenza,
negligenza, o per imperizia dell’arte o della professione che esercita o per
inosservanza dei regolamenti, avrà involontariamente commesso un omicidio o vi
avrà dato causa, sarà punito colla pena del carcere estensibile a due anni, e
con la multa estensibile sino a lire duemila”.
[84]Cfr.hhttps://books.google.it/books?id=4FdDAAAAcAAJ&pg=PA151&hl=it&source=gbs_toc_r&cad=4#v=onepage&q&f=false
[85] Così A. De Simoni, Dei delitti considerati nel solo affetto ed attentati, Milano,
Fratelli Veladini, 1809, 160 e ss.
[86] G. Carmignani, Elementi di diritto criminale (Traduzione del Prof. Caruana
Dingli), Milano, Carlo Brigola, 1882, 80.
[87] Si tratta di F.A. Mori, Teorica del Codice penale toscano, Firenze, Stamperia delle murate,
1854, 49 e ss.
[88] In senso conforme a
tale posizione G.A. Poggi, Elementa iurisprudentiae criminalis,
Libro I, Firenze, Typographia Francisci Daddii, 1815, par. XXVI; A.F.
Berner, Trattato di diritto penale
(edizione italiana tradotta da E. Bertola), Milano, Vallardi, 1887, 138 e s.
Concordi sull’irrilevanza penale della colpa lieve ad eccezione del reato di
omicidio in ragione dell’importanza del bene giuridico tutelato pure G. Puccioni, Il codice penale toscano illustrato sulla scorta delle fonti del
diritto e della giurisprudenza, Vol. I, Pistoia, Tipografia Cino, 1855, 318
e ss. in cui l’Autore rileva che “per la esclusione della imputabilità delle
azioni colpose prodotte da colpa leve e levissima può allegarsi l’autorità di
quasi tutti gli scrittori della scienza, tanto antichi che moderni, da noi
sopra riportata, la quale basandosi sulla equità come sulla inutilità della
repressione, qual mezzo preventivo atto a richiamare gli uomini all’uso della
prudenza, della diligenza, della cautela media e minima, conclude esser
sufficiente il debito della indennità ed il dolore che sempre prova colui che
non volendo ha cagionato l’altrui danno; a tal che senza scopo di pubblica e
privata tutela ed anche in onta della pubblica opinione che sente pietà e
commiserazione per l’agente si farebbe spreco del diritto di punire. Dal che
dovrebbe concludersene, che il Legislatore nel reprimere le azioni colpose,
uniformandosi ai precetti della scienza, abbia soltanto inteso di comprendere
la sola colpa lata e così quelle azioni che racchiudono la mancanza della
diligenza, della cautela, della prudenza che si adoperano dal comune degli
uomini, escludendo quelle che sono proprie dei diligenti e dei diligentissimi,
e che d’ordinario formano in minor numero” nonché G. Giuliani, Istituzioni
di diritto criminale col commento della legislazione gregoriana, Vol. II,
Macerata, Varchi, 1940, 305.
[89] T. Canonico, Introduzione allo studio del diritto penale. Del reato e della pena in
genere, Torino, UTET, 1872, 77 e ss.
[91] F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale – Parte speciale, cit.,
101 e ss.
[92] Cfr. E. Pessina, Elementi di diritto penale, Napoli, Riccardo Margheri, 1882, 178 e
ss.
[93] Così G. Filangieri, La scienza della legislazione, Vol. III, Filadelfia, Stamperia
delle provincie unite, 1819, 154 e ss. In senso sostanzialmente conforme a tale
posizione ancorché precisi che solo la colpa grave può dar luogo a pene di tipo
afflittivo – con riferimento alle leggi criminali francesi che come si è visto
erano state introdotte durante la dominazione in territorio italiano – P.F. Mouyart De Vouglans, Le leggi criminali nel loro ordine naturale,
Milano, Tipografia Buccinelli, 1813, 74 e ss.
[94] La sentenza è
reperibile in Annali
di giurisprudenza. Raccolta di decisioni della Suprema Corte di Cassazione
della Corte regia e dei Tribunale di prima istanza, Firenze, Tipografia del
Giglio, 1841, 567.
[95] Cfr. Pretura di Castiglione delle Stiviere, sent. 16 giugno
1885, in Giurisprudenza penale,
1885, 508, con nota di Rizzardi, il quale critica la sentenza non perché
giuridicamente errata quanto all’interpretazione della non rilevanza penale
della colpa lieve, bensì in quanto i dati fattuali erano indicativi di una
colpa grave dell’imputata.
[96] In particolare in N. Nicolini,
Quistioni di diritto trattate nelle
conclusioni, né discorsi ed in
altri scritti legali, Napoli, Tipografia Prete Largo, 1869.
[97] N. Nicolini, Quistioni di diritto trattate nelle conclusioni, cit., 169.
[98] Un tentativo di
definizione dei gradi della colpa fondato su basi differenti da quelle appena
richiamate fu realizzato da G. Giuliani,
Istituzioni di diritto criminale col
commento della legislazione gregoriana, Vol. I, Macerata, Varchi, 1840, 97,
in cui l’Autore osserva quanto segue: “quando
la probabilità che accada l’effetto vietato è maggiore od uguale alla probabilità
che lo stesso non accada la colpa è lata, quando la probabilità è minore della
seconda, ma non remota, la colpa è lieve, quando è remota, la colpa è
lievissima”.
[99] N. Nicolini, Quistioni di diritto trattate nelle conclusioni, cit., 170.
[100] La norma cui si fa
riferimento è del Codice penale per gli Stati del Re di Sardegna e per l’Italia
Unita del 1859.
[101] Si veda Corte di Cassazione penale di Torino, sent. 14 ottobre 1887, in
Giurisprudenza penale, 1887, 507. In
senso sostanzialmente conforme si veda pure Cassazione penale di Torino, sent.
29 dicembre 1881, in Giurisprudenza
penale, 1882, 24. Con riferimento al Codice penale toscano, ugualmente
conformi alla posizione appena definitiva Cassazione penale
di Firenze, sentenza 25 maggio 1841, in Annali
di giurisprudenza, cit., 1841, 372; Cassazione penale di Firenze, sentenza 16 marzo 1853, in Annali di giurisprudenza, cit., 1853,
131 e s.; Cassazione penale di Firenze, sentenza 26
febbraio 1853, in Annali di
giurisprudenza, cit., 1853, 106 e s.; Cassazione
penale di Firenze, sentenza 5 luglio 1854, in Annali di giurisprudenza, cit., 1854, 635 e ss., in cui la
Corte tuttavia – a torto, visto un simile orientamento si era formato già sotto
la vigenza del codice leopoldino – dà un peso decisivo nella rilevanza penale
di qualsiasi grado della colpa all’entrata in vigore del Codice penale toscano
che aveva sostituito la legislazione penale di Pietro Leopoldo; nel medesimo
senso della sentenza da ultimo richiamata anche Cassazione
penale di Firenze, sentenza 14 febbraio 1857, in Annali di giurisprudenza, cit., 1857, 146 e ss. e Cassazione
penale di Firenze, sentenza 7 febbraio 1863, in Annali di giurisprudenza, cit., 1863, 97 e ss. Sulla giurisprudenza
toscana contraria all’irrilevanza penale dei gradi più tenui della colpa le
considerazioni critiche di P.A.
Cerretelli, L’ultimo decennio dal
1829 della giurisprudenza criminale toscana, Firenze, Tipografia della
Speranza, 1840, 560 e ss., in cui l’Autore rileva “la colpa lata, che consiste
nell’omissione di quella ordinaria diligenza che suole comunemente praticarsi
dalle persone di quella tal condizione, che nel dubbio deve escludersi, è la
sola che possa formar oggetto di criminale rimprovero. Un tal principio è stato
ricevuto nella nostra giurisprudenza trattandosi di ferimento, ma non se si
tratta di omicidio sebbene per gius comune non sia fatta distinzione alcuna tra
omicidio e ferimento”.
[102] Così Cassazione penale
di Firenze, sentenza 11 gennaio 1842, in Annali
di giurisprudenza, cit., 1842, 27 e ss.
[103] Tribunale di prima
istanza di Firenze, sent. 8 gennaio 1840; in Annali di giurisprudenza, cit., 1840, 996 e ss. Tale sentenza
aderisce ad alcune posizioni dottrinali minoritarie menzionate in precedenza.
[104] Cassazione penale di
Firenze, sentenza 8 giugno 1853, in Annali
di giurisprudenza, cit., 1853, 319 e ss.
[105] Cassazione penale di Firenze, sentenza 2 febbraio 1840, in Annali
di giurisprudenza, cit., 1840, 100 e s. In
senso conforme Cassazione penale di Firenze, sentenza 18 aprile 1845, in Annali di giurisprudenza, cit., 1845,
253; Cassazione penale di Firenze, sentenza 8 marzo 1851, in Annali di giurisprudenza, cit., 1851,
230 e s.
[106] Siffatto codice
risulta peraltro attualmente ancora in vigore nello Stato città del Vaticano.
Tale vigenza si deve al richiamo operato dall’art. 7 della Legge dello Stato
Città del Vaticano LXXXI, che a sua volta richiama l’art. 4, legge 7 giugno
1929, n. II, il quale rinvia alla normativa del codice italiano all’epoca
vigente, cioè, appunto, il codice penale Zanardelli.
[107] Cfr. la Relazione
sul progetto di legge del 1887, reperibile in Progetto del Codice Penale per il Regno d’Italia preceduto dalla
relazione ministeriale, Roma, Stamperia Reale, 1888, 536 e ss.
[108] Ibidem.
[109] Ibidem.
[110] In epoca più recente
hanno confermato che nella dottrina e nella giurisprudenza formatasi sotto la
vigenza del codice Zanardelli vi fosse la tendenza ad escludere la rilevanza
penale della colpa levissima, pur
rilevando alcuni problemi applicativi derivanti da tale graduazione dovuti alla
difficoltà di definire con certezza i gradi della colpa, anche T. Padovani, Il grado della colpa, in Rivista
italiana di diritto e procedura penale, 1969, 825; G. De Francesco, La
colpa nel codice Zanardelli in rapporto alla successiva evoluzione dommatica,
in S. Vinciguerra (Coordinatore),
I codici preunitari e il codice
Zanardelli, Padova, CEDAM, 1999, 440 e ss.
[111] A. Setti, Dell’imputabilità secondo gli articoli 44, 45, 46, 47 e 48 del Codice
penale italiano, Torino, Fratelli Bocca, 1892, 85 e ss.
[112] G. B. Impallomeni, Colpa e omicidio colposo. Fondamenti psicologici, in Antologia Giuridica, VII, 1894, 743 e
ss.
[113] L. Majno, Commento al codice penale italiano, Torino, UTET, vol. III, 1924,
284 e ss.
[114] B. Alimena, I limiti e i modificatori dell’imputabilità, vol. III, Torino,
Fratelli Bocca, 1899, 493 e s.
[115] Si tratta di A. Tosti, La colpa penale. Studio sociologico giuridico, Torino, Fratelli
Bocca, 1907, 144 e ss.
[116] Nella stessa linea
degli Autori appena citati F. Carfora,
Dei delitti colposi, in Supplemento alla Rivista penale, vol.
VI, 1897, 278 e s.; D. Camoletto,
Il concetto di prevedibilità nella colpa
penale, in Cassazione Unica, XV,
1903, 1462 e ss.; P. Cogliolo, Considerazioni sulla c.d. culpa
levissima, in Cassazione Unica, IX,
1897, 769 e ss.; G. Leto, Il reato colposo, Palermo, 1913, 291 e
ss. e G. Campili, Condizioni e limiti della punibilità della
colpa, in Studi senesi, XX, 1903, 166 e s.
In termini non dissimili pure P. Del Giudice, Il delitto colposo, cit., 1918, 167 e ss., il quale sostiene che è
errato parlare di colpa lievissima in quanto essa, in realtà, non sarebbe
colpa: “[…] occorre non far più parola di colpa lievissima: enorme errore fu
quello di ammetterne, sia pur in via d’eccezione, la punibilità; errore meno
grave, ma sempre errore è il discutere d’una colpa lievissima per giungere alla
conclusione della sua non punibilità. Se la colpa richiede la volontaria
inosservanza d’una norma per cui la condotta dell’agente sia contraria alla
polizia o alla disciplina, il non osservare le più sottili cautele del vivere
civile, le più raffinate consuetudini della convivenza sociale o il deviare
menomamente dalle norme che regolano l’esercizio professionale non costituisce
affatto colpa, mancando quella condotta anormale e illecita di cui sopra è
parola. Assurdo e contraddittorio è adunque il parlare d’una colpa lievissima
non punibile, se niuna colpa esiste: non può esservi punibilità di una colpa
che non è colpa”.
[117] T. Mosca, Brevi studi e nuove dottrine sulla colpa nel diritto civile, penale e
amministrativo, Roma, Tipografia Nazionale, 1896, 37 e s.; così anche F. Masini, La colpa nel diritto penale, Pesaro, Nobili, 1889, 142 e ss.
[118] G. Crivellari, Il codice penale per il Regno d’Italia, Vol. III, Torino, UTET,
1892, 288. Nello stesso senso anche E.
Biondi, Sopra un caso di responsabilità colposa della
levatrice per erroneo ed arbitrario trattamento di puerpera, nota a Cass.
pen. sent. 25.1.1916, in Rivista italiana di diritto e procedura penale,
1917, vol. II, 160 e ss.
[119] Cfr. F. Antolisei, Recensione a E. Jannitti di
Gujanga, Concorso di persone e
valore del pericolo nei delitti colposi, in La scuola positiva, 1913, 1071.
[120] Cass. pen., sent. 2
luglio 1913, Stella, in La giustizia
penale, 1914, 1485.
[121] Cass. pen., sent. 29
maggio 2016 in Rivista di diritto e
procedura penale, 1917, vol. VIII, 164.
[122] Cass. pen., sent. 19
novembre 1928, in Rivista italiana di
diritto penale, 1929, 140.
[123] Cass. pen., sent. 26
marzo 1928, in Giustizia penale,
1928, 114.
[124] Cass. pen., sent. 16
maggio 1930, in La scuola positiva,
1931, 243 e s. In senso analogo si veda pure, sempre con riferimento alla
disposizione contenuta nel Codice Zanardelli, Cass. pen., sent. 18 gennaio
1932, in La scuola positiva, 1933,
429.
[125] Trattasi di
Cassazione penale, sez. II, sent. 27 settembre 1906, reperibile in Rivista penale, 1907, 307 e s.
[126] In senso contrario
cfr. tra le altre Cass. pen., sez. II, Sent. 27 aprile
1894 reperibile in Rivista penale,
1894, vol. XL, 73, nonché Cass. pen., sez. II, Sent. 26 giugno 1914
reperibile in Rivista di diritto e
procedura penale, 1915, vol. II, 30 e ss. con nota critica di S. Vitocolonna, In tema di colpa penale e segnatamente se sia punibile la colpa
lievissima, in cui l’Autore, dopo aver menzionato tanto i noti passi di
Carrara sopra già richiamati quanto la relazione al Codice Zanardelli, rileva
“la nostra legge, sebbene non gradui la colpa, non si presta alla punibilità
della colpa levissima. Non vi si presta per le dichiarazioni che la
precedettero e che abbiamo ricordate, e non vi si presta nemmeno per le sue
espressioni, perché punisce l’imprudenza, la negligenza o l’imperizia e
imprudenza, negligenza o imperizia non significano punto mancanza di una
estrema prudenza, di una estrema diligenza o perizia”. In senso conforme a tali
pronunce anche Cassazione penale, sent. 2 dicembre 1896, in La giustizia penale, 1897, 311 e ss.;
sent. 17 febbraio 1902, Puppin, in Cassazione
Unica, 1902, 656.
[127] Sentenza del
9.2.1897, reperibile in La Legge,
1897, anno XXXVII, vol. I, 568.
[128] In questo senso,
nella giurisprudenza di merito si vedano anche Corte d’appello di Trani, sent.
19.12.1890, in Rivista Giuridica,
Trani, 1891, 122; Corte d’appello di Torino, 17.3.1893, in Annali, 1893, 474 e ss.
[129] Sul “punto di vista”
scelto ai fini della valutazione della colpa ai tempi del codice Zanardelli e
sui riflessi di tale scelta sul grado dell’elemento soggettivo cfr. T. Padovani, Il grado della colpa, cit., 846 e ss.; G.A. De Francesco, La
colpa nel codice Zanardelli in rapporto alla successiva evoluzione dommatica,
in S. Vinciguerra (Coordinato
da), I codici preunitari e il codice
Zanardelli, Padova, CEDAM, 1999, 412 e ss.
[130] Cfr. Lavori preparatori del codice penale e del
codice di procedura penale, Vol V, Parte I – Relazione sul libro I del
Progetto, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1929.
[131] Da rilevare altresì
la circostanza che nel decennio antecedente l’adozione del Codice Rocco e negli
anni immediatamente successivi alla sua promulgazione si erano sviluppate
altresì correnti di pensiero fortemente critiche sulla stessa incriminabilità
della colpa incosciente. Così O. Vannini,
“Responsabilità senza colpa” nel diritto
penale, in Rivista penale, 1921,
Vol. XCIV, 401 e ss. nonché O. Vannini,
Colpa semplice e colpa con previsione,
in La scuola positiva, 1936, 361 e
ss.; F. Gramatica, La irrazionalità della colpa nel diritto
penale, Genova, Edizione del circolo di cultura giuridica, 1929. Siffatta linea
di pensiero non era peraltro una novità in quanto sostenuta già in epoca
precedente al codice Zanardelli, cfr. ad esempio V. Bucellati, Guida
allo studio del diritto penale, Milano, 1865, 18 e ss.
[132] E. Altavilla, Delitti contro la persona. Delitti contro la integrità e la sanità
della stirpe, in E. Florian (a
cura di), Trattato di diritto penale,
Milano, Vallardi, 1934, 202 e s. I medesimi concetti sono espressi anche in E. Altavilla, Il reato colposo. Riflessi civilistici, analisi psicologica, Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1950, 253 e ss.
[133] Così R. A. Frosali, Sistema penale italiano,
UTET, Torino, 1958, 504 e s., nonché, subito dopo l’adozione del Codice Rocco, R.A. Frosali, Corso di diritto penale, Città di Castello, Leonardo da Vinci,
1937, 122 e R.A. Frosali, L’errore nella teoria del diritto penale,
Roma, Tipografica editrice di Roma, 1933, 629.
[134] G. Battaglini, Diritto penale. Teorie generali, Bologna, Zanichelli, 1937, 150 e
s. Dello stesso Autore si veda pure G.
Battaglini, Gli elementi del reato
nel nuovo codice penale, in Annali di
diritto e procedura penale, 1934, 1097.
[135] Cfr. nota 105.
[136] C. Saltelli – E. Romano Di Falco, Commentario sistematico del nuovo codice
penale, I, II ed., Torino, Utet, 1940, 279. Per ulteriori spunti sul tema
si vedano pure N. Levi, Il codice penale illustrato articolo per
articolo, vol. I, Palermo, S.E.I. Editrice, 1934, 196 e ss.; G. Santucci, La colpa lievissima, in Rivista
penale, 1954, I, 789 e ss.
[137] Cassazione penale,
sent. 20 dicembre 1939, in Giustizia
penale, 1940, II, 439. Nel medesimo senso nella giurisprudenza di merito si
veda Corte d’Appello di Bologna, sent. 23 marzo 1942, in Temi emiliana, 1943,
I, 2, 5, n. 163. Va rilevato che nella dottrina penalistica vi è stato in
passato chi ha sostenuto la diversità sostanziale della colpa civile da quella
penale con conseguente inopportunità di argomentazioni fondate su analisi
comparative delle due tipologie di colpa; cfr. ad esempio A. Stoppato, L’evento punibile, cit., 144 e ss.; V. Lanza, Diritto
penale italiano. Principi generali, Torino, UTET, 1908, 177 e s.). Tale
problematica, se pare essere stata ridimensionata in seguito dalla dottrina
penalistica, per lo meno con riferimento alla sua utilità ai fini della
discussione in ordine alla rilevanza penale del grado della colpa (cfr. ad
esempio T. Padovani, Il grado della colpa, cit., 826 e ss.) è
invece rimasta ben presente nella dottrina civilistica, si veda ad esempio C. Maiorca, Colpa civile (teoria generale), in Enciclopedia del diritto, vol. VII, Torino, UTET, 1960, 581 e ss.
[138] Cass. pen., sent. 26
aprile 1939, in La scuola positiva,
1940, 25 e ss.
[139] Si veda ad esempio G. Maggiore, Principi di diritto penale, Bologna, Zanichelli, 1937, 394. Così
anche V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano,
Torino, UTET, 1948, 696 e ss., che tuttavia sembra ritenere che contegni che
altri Autori definirebbero di colpa lievissima non siano comunque penalmente
punibili non per la non punibilità della colpa
levissima, ma in ragione della inesigibilità del contegno conforme alla
regola cautelare “Se vi è colpa, questa è sempre punibile, nei delitti indicati
dalla legge, appunto perché la legge non distingue tra i vari gradi di colpa
[…]. Se non sono state osservate le più minute cautele del vivere civile, o se
non si sono seguiti i più alti ammaestramenti della scienza, non vi è colpa,
perché questa, grave, lieve, o lievissima che sia, si fonda sempre su ciò che è
esigibile dalla media degli uomini”.
[140] V., ad esempio,P. Nuvolone, Colpa civile e colpa penale, ora in Trent’anni di diritto e procedura penale, Padova, Cedam, 1969. Tale
contributo era già stato in precedenza pubblicato in Corso di diritto della circolazione stradale, Milano, Giuffrè,
1958.
[141] La norma, rubricata
“Responsabilità del prestatore d’opera”,
dispone che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di
speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in
caso di dolo o di colpa grave”. L’applicazione di questa norma al settore
penale fu sostenuta, tra i primi, da A.
Crespi, La responsabilità penale
del trattamento medico chirurgico con esito infausto, Palermo, Priulla,
1955; per l’evoluzione storica dell’impiego di questa disposizione alla nella
responsabilità penale del sanitario cfr. F.
Basile, Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa, cit.
[142] Così di recente
anche M. Ronco, Scritti patavini. Gli elementi soggettivi del fatto tipico. La colpa in particolare,
Bologna, Zanichelli, 2017, 406 e ss.
[143] Tra i tanti G. Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di
adeguamento delle regole di diligenza, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2005, 814 e ss.; V. De Francesco, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi urbinati, 1977 – 1978, 298; F.
Basile, Fisionomia e ruolo
dell’agente-modello ai fini dell’accertamento processuale della colpa generica,
in Diritto penale contemporaneo, 13
marzo 2012, 11 e ss.
[144] Sull’impiego di tale
parametro in giurisprudenza cfr. tra le tante Cass. pen., sent. 1.7.1992, in
CED Cassazione, 193035 e, più di recente, Cass. pen., sent. 4.11.2014 n. 49707
in CED Cassazione, 263283. Rileva la
necessità che il giudizio in ordine alla sussistenza della colpa generica – in
particolare con riguardo alla ricostruzione dell’agente modello – sia
effettuato da parte della giurisprudenza con estremo rigore e serietà onde
evitare pronunce arbitrarie e contraddittorie F.
Basile, Fisionomia
e ruolo dell’agente-modello, cit., 27 e s.
[145]Così F. Basile, Fisionomia e ruolo dell’agente modello, cit., 8 e s.
[146] Ancora F. Basile, Fisionomia e ruolo dell’agente modello, cit., 15 e ss.
[147] Un notevole
contributo alla descrizione del fenomeno dell’utilizzo sempre maggiore del
diritto penale nella società moderna è stato offerto da J. M. Silva Sanchez, L’espansione
del diritto penale. Aspetti della politica criminale nelle società
postindustriali (ed. italiana a cura di V.
Militello), Milano, Giuffrè, 2004.
[148] Si veda a tal
proposito J. M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto penale, cit.
14. Il medesimo concetto è ripreso in termini similari da numerosi autori, si
veda ad esempio C.E. Paliero, Consenso sociale e diritto penale, in Rivista italiana di diritto e procedura
penale, 1992, 849 e ss.; F. Stella,
Giustizia e modernità, Milano, Giuffrè,
2003; F. Centonze, La normalità dei disastri tecnologici. Il
problema del congedo dal diritto penale, Milano, Giuffrè, 2004.
[149] Si veda la lucida
analisi di W. Hassemer, Perché punire è necessario: difesa del
diritto penale, Bologna, Il Mulino, 2012, 119, in cui l’autore, in un
significativo paragrafo intitolato “Un illecito, non la sfortuna”, evidenzia che “interventi del diritto
penale infondati o anche solo eccessivi possono opprimere per anni o anche
persino rovinare la vita delle persone colpite, possono annientare le basi su
cui poggiano la reputazione sociale di una persona e anche i suoi mezzi di
sostentamento. Un esempio di queste violazioni non è solo il giudizio errato
formulato sull’innocente, ma lo è anche la lotta priva di risultati condotta
per anni dalla vittima di un reato nei confronti delle procure e dei tribunali
in sede di ricorso contro l’archiviazione degli atti […], per ottenere l’avvio
o la prosecuzione di un procedimento penale che gli garantisca la conferma di
essere stata vittima di un illecito, non della sfortuna”.
[150] Cfr. supra, par. 1.
[151] Tra gli altri, ha
sottolineato questo aspetto J. M. Silva
Sanchez, L’espansione del diritto
penale, Milano, Giuffrè, 2004, 21 il quale rileva che nella società di oggi,
caratterizzata da un vasto numero di “soggetti passivi” ossia di persone,
costituenti la maggioranza, che non creano autonomamente utili ma che sono
beneficiari del trasferimento di ricchezza da parte dello Stato, “esiste anche
una resistenza psicologica rispetto al caso fortuito, di fronte alla produzione
accidentale di risultati lesivi” aggiungendo “è evidente che ne consegue una
crescente tendenza a trasformare l’Unglück (accidente, fortuito, disgrazia) in
Unrecht (illecito), ciò che a sua volta inevitabilmente conduce ad un
ampliamento del diritto penale”. Aggiunge ancora l’Autore, a 22, che “alla
sensazione di insicurezza si somma l’esistenza di un prototipo di vittima che
non ammette la possibilità che il fatto di avere sofferto sia dovuto a una ‘propria
colpa’ o, semplicemente, al caso. Si parte sempre dall’assioma per cui deve
esserci sempre un terzo responsabile, cui imputare il fatto e le sue
conseguenze patrimoniali e/o penali”
[152] Sul rapporto tra
diritto penale e mass media, nel
senso della strettissima relazione che vi è tra l’attività di questi e la
normazione penale, la letteratura è ampia. Si veda, oltre al già citato J. M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto penale, cit.,
15, ad esempio R. Bianchetti, La
paura del crimine: un’indagine criminologica in tema di mass media e politica
criminale ai tempi dell’insicurezza, Milano, Giuffrè, 2018; C. E. Paliero, La maschera e il volto (percezione del crimine ed “effetti penali” dei
media), in Rivista italiana di
diritto e procedura penale, 2006, 467 e ss.; nella letteratura tedesca si
vedano N. Luhmann, Die
Realität der Massenmedien, IV ed., Wiesbaden, Vs Verlag Für Sozialw, 2013,
nonché W. Hassemer, Perché punire, cit.; nella letteratura
spagnola cfr. A. Garapon, Juez y democracia, Madrid, Flor del
Viento Ediciones, 1997, 94, in cui l’Autore osserva che “i mezzi di
comunicazione, strumenti dell’indignazione e della collera pubblica, possono
accelerare l’invasione della democrazia attraverso l’emozione, propagare una
sensazione di paura e di vittimizzazione e introdurre di nuovo nel cuore
dell’individualismo moderno il meccanismo del capro espiatorio che si credeva
riservato a periodi inquieti”.
[153] Evidenzia a tal
proposito W. Hassemer, Perché punire, cit., 76-77 che nel tempo
si è assistito ad una “marcia trionfale della sicurezza, che ha messo in ombra
le libertà civili” e che essa sia “intimamente collegata alla prevenzione,
perché gli strumenti preventivi, in ultima istanza, servono a garantirla”.
Sulla circostanza che tale bisogno di sicurezza nulla abbia a che fare con
l’oggettività dei pericoli dei cittadini si veda J. M. Silva Sanchez, L’espansione
del diritto penale, cit., 16. Il tema è stato analizzato, tra gli altri,
anche da C. Prittwitz in Strafrecht und Risiko. Untersuchungen
zur Krise von Strafrecht und
Kriminalpolitik in der Risikogesellschaft, Francoforte, 1993, 73, il quale
ha evidenziato che, se anche la società non è mai stata sicura come adesso – si
pensi solo alla facilità con cui un tempo si poteva morire per le malattie,
ovvero alla minore tecnologia a disposizione che comportava una minore
possibilità di controllo da parte delle autorità per esempio in tema dei reati
contro la persona – la paura e l’insicurezza siano diventate il tema del XX
secolo.
[154] Sulla decisività di
tale ruolo si veda anche la lucida analisi di W.
Hassemer, Perché punire, cit.,
107 e ss. in cui l’illustre giurista si pone la domanda: “Esiste una relazione
fra teorie della pena e mass media?”,
rispondendo: “a servirci da mezzo per la comunicazione della norma è sempre
meno il Tribunale e sempre più lo spettacolo del mezzo televisivo trasmesso
dalle televisioni private. I giuristi hanno tratto da ciò una serie di
conseguenze che valgono per molti ambiti del diritto e della prassi giuridica;
tra queste, l’idea di opinione pubblica divenuta, come da tempo non occorre più
spiegare, elemento centrale in uno Stato di diritto”. E ancora “Oggi i giuristi
distinguono tra pubblico del Tribunale e pubblico dei media, riconoscendo con
ciò che buona parte delle speranze che poggiano sul principio di pubblicità
sono ormai soggette alle condizioni poste dalla società mediatica”. L’autore
quindi individua l’elemento centrale per quella che è poi l’influenza anche
sulle forze politiche “Ne consegue, che chi voglia sapere di che cosa si occupa
la giustizia, raramente seguirà un’udienza pubblica in Tribunale ma si
informerà leggendo un quotidiano. Da tale circostanza consegue che l’idea che
questa persona si fa della giustizia è grossolanamente falsata. Nell’aula di
Tribunale essa avrebbe potuto maturare un’opinione con i suoi occhi e con le
sue orecchie. Il mezzo di informazione di massa comunica invece le sue
impressioni secondo il copione dei mezzi di informazione, cioè secondo i
presunti interessi del lettore del quotidiano, da cui ci si aspetta che legga
il giornale anche il giorno dopo. Ciò a sua volta significa che il lettore che
segue i mezzi di comunicazione di massa concepisce l’idea errata per cui la
giustizia sarebbe sostanzialmente giustizia penale, cui va ad aggiungersi
qualche assaggio di diritto di famiglia, del lavoro e delle locazioni”. La
risposta alla domanda che l’autore si è posto non ammette repliche: “La
questione è chiara. Naturalmente teorie della pena e mass media sono in rapporto reciproco”.
[155] A. Garapon, Juez y democrazia, cit., 104.
[156] Tali riflessioni
sono di W. Hassemer, Perché punire, cit., 78-79.