Contributo-2018

 

 

Foddai-2015IL PRIMATO DELL’INGIUSTIZIA NELLE RIFLESSIONI DI WOLGAST E SEN

 

Maria antonietta Foddai

Università di Sassari

Direttore del Centro Universitario di Mediazione

 

 

SOMMARIO: 1. Il senso universale dell’ingiustizia. – 2. Innocenza e giustizia: l’analisi di Elisabeth Wolgast. – 3. La giustizia delle istituzioni – 4. Amartya Sen e la giustizia dei pesci: nīti e nyāya. – 5. La nozione necessaria e inaffidabile dell’ingiustizia: il ruolo delle emozioni. – 6. Ingiustizia e conflitto. – 7. Giustizia come risoluzione giuridica del conflitto. – 8. Bibliografia. - Abstract.

 

 

1. – Il senso universale dell’ingiustizia

 

Il nostro primo contatto con la giustizia avviene quando ci indigniamo per trattamenti e divisioni ineguali, promesse mancate, punizioni sproporzionate, meriti non riconosciuti. Sono queste le situazioni che definiscono il nostro personale senso di ingiustizia e che ci spingono a chiedere che i trattamenti e le divisioni siano eguali, le promesse mantenute, le punizioni proporzionate e i meriti riconosciuti. È il senso dell’ingiustizia, che tutti sperimentiamo nella vita quotidiana e che ci spinge a chiedere giustizia, quel tipo particolare di risentimento che proviamo quando ci vediamo negati i benefici che ci erano stati promessi e quando non otteniamo ciò che credevamo ci fosse dovuto.  È la sensazione di tradimento che proviamo quando gli altri deludono le attese che avevano creato in noi – una cosa antica quanto l’uomo»[1].

Anche le indagini filosofiche intorno al tema della giustizia partono dall’indignazione di fronte all’ingiusto, da quel senso universale di ingiustizia la cui ampiezza, scrive Ricoeur, è stupefacente «se misurata all’ampiezza delle nostre esitazioni di adulti quando veniamo intimati a pronunciarci sul giusto in termini positivi»[2]. In effetti, mentre ognuno di noi, se interrogato, sarebbe in grado di fornire esempi di ingiustizia e di abbozzare un concetto di ingiustizia, non lo sarebbe altrettanto se richiesto di definire cosa sia la giustizia e cosa sia un atto giusto[3].

L’ingiustizia, da Platone in poi, è stata considerata come lo sfondo su cui rappresentare e costruire il concetto di giustizia[4]. È Aristotele, nel quinto libro dell’Etica Nicomachea, che fornisce il modello metodologico di indagine della giustizia, cominciando a trattare l’ingiustizia come l’opposto della giustizia e l’atto ingiusto come l’opposto dell’atto giusto[5]. La giustizia è una virtù, l’ingiustizia un vizio, uomo ingiusto è chi viola la legge, giusto chi la rispetta, ingiusto è l’avido, che vuole più di ciò che gli spetta, giusto è l’uomo equo, che non prende più di ciò che gli è dovuto[6]. Da una lunga e consolidata tradizione di pensiero, l’ingiustizia è stata interpretata come l’assenza di giustizia, a cui si dedica uno sguardo teoricamente frettoloso per rivolgere l’attenzione alla definizione della giustizia e del giusto. ‘Giustizia’ e ‘ingiustizia’ sono state definite come termini mutuamente esclusivi: se vi è l’una, non vi è – perché non può necessariamente esservi – anche l’altra; per questa ragione, nell’elaborazione concettuale della giustizia, l’ingiustizia non ha spazio. È come se l’ingiustizia fosse la scala che usiamo per giungere a definire la giustizia, ma della quale dobbiamo sbarazzarci per poterla concettualizzare[7].

Questo impianto metodologico che ha guidato la ricerca della giustizia nella nostra cultura filosofica, scrive Shklar, ha generato una forma di passiva accettazione delle ingiustizie generate all’ombra di istituzioni e norme coerenti con i principi di giustizia accolti dalle nostre società. È come se questo metodo, che ha prodotto i suoi frutti eccellenti nella storia, consentendo la costruzione di ordinamenti fondati sulla cultura dei diritti, avesse trascurato un aspetto essenziale, che riguarda il perdurare delle forme di ingiustizia all’interno dei nostri sistemi sociali[8].

L’ingiustizia infatti non si sviluppa – almeno non solo – in un ambito amorale e pregiuridico, ma prospera all’interno di società «bene ordinate», governate in base ai principi costituzionali e ai diritti fondamentali, talvolta generata proprio da quelle istituzioni e da quegli operatori che hanno il compito di eliminare l’ingiustizia[9]. La ricorrente risposta alla domanda del perché, nonostante tutti i nostri sforzi, l’ingiustizia attraversi la nostra esperienza quotidiana, è che il modello di giustizia teorizzato non è stato ancora realizzato e che lo scarto tra un’idea di giustizia e la sua concreta realizzazione è incolmabile quanto la distanza platonica tra il mondo delle forme perfette e il nostro[10].

Eppure, uno sguardo più attento alla costante presenza dell’ingiustizia e alle sue forme potrebbe offrire nuove vie alla ricerca del giusto e alla riduzione dell’ingiusto. Invece che guardare all’ingiusto come a un errore, un vizio, una mancanza, che il giusto corregge e colma, si potrebbe cominciare a considerarlo come una modalità non del tutto congruente con i nostri modelli di giustizia distributiva, rappresentati negli stati costituzionali. Considerare con rinnovata attenzione l’ingiustizia e le sue forme ci spinge a chiedere se le risposte di giustizia affidate alle nostre istituzioni siano adeguate alle nuove ingiustizie dell’era postmoderna.

Le pagine che seguono vogliono offrire una breve introduzione al problema, a partire dalle riflessioni di Elisabeth Wolgast e Amartya Sen. Pur collocandosi in differenti prospettive teoriche, entrambi sostengono il primato concettuale e metodologico dell’ingiustizia nella ricerca del giusto, criticando le teorie della giustizia basate sulla formula del contratto sociale, che affidano alle istituzioni la realizzazione del giusto[11]. In questo modello, il cui massimo teorico contemporaneo è John Rawls, le persone vengono concepite come eguali, autonome e indipendenti, in grado di operare delle scelte e di rivendicare i propri diritti. Sebbene il modello contrattualistico abbia grandi meriti, promuovendo le libertà fondamentali, riconoscendo i diritti dell’uomo, introducendo le garanzie a tutela dei diritti[12], sia Wolgast che Sen lo criticano perché assume come premessa implicita il fatto che tutti siano dotati delle medesime capacità e in grado di far valere i propri diritti, dimentica i bisogni di cura che caratterizzano gran parte della nostra vita, almeno il suo inizio e la sua conclusione, ignora i soggetti vulnerabili, enfatizza i diritti e trascura le responsabilità, alimentando le ingiustizie.

 

 

2. – Innocenza e giustizia: l’analisi di Wolgast

 

C’è una certa seduzione, scrive Elisabeth Wolgast, nel poter immaginare la giustizia come una nozione morale primitiva, un ideale al quale rapportiamo le azioni malvagie per qualificarle come ingiuste. L’ingiustizia viene rappresentata come un discostarsi da quell’ideale, come la violazione delle regole di un sistema che la giustizia ripristina, riportando in equilibrio i piatti della bilancia. Tuttavia questo approccio alla giustizia è sbagliato, e quello stato di equilibrio che identifichiamo con uno stato di cose ideale, nel quale non ha ancora fatto irruzione la malvagità, si chiama «innocenza», non giustizia. Sia l’innocenza che la giustizia sono nozioni opposte all’ingiustizia, ma la prima ci indica ciò che non deve essere fatto, ciò che non dovrebbe accadere, senza mostrarci una guida per l’azione, la seconda ha il compito di dare le risposte, riparare i torti, approntare misure che proteggano la vita delle persone[13].

Riparare non significa cancellare ciò che è avvenuto, ripristinare un equilibrio antecedente, come se l’intervento correttivo potesse riportare a quello stato di cose ideale che chiamiamo ‘giustizia’. Il tempo della giustizia è sempre il dopo, che il torto, il delitto, il danno è stato compiuto o denunciato. Per Wolgast esiste una «cronologia logica», un ordine concettuale definito, in cui all’ingiustizia segue la giustizia come risposta al bisogno di riparazione[14].

Questa tesi forse ci aiuta a capire perché Giotto, nel rappresentare la giustizia e l’ingiustizia nella Cappella degli Scrovegni, dipinga la prima priva della bilancia con cui nell’immaginario collettivo questa viene presentata[15]. Una volta che l’ingiustizia sia stata commessa, i piatti della bilancia non potranno tornare in equilibrio: la giustizia non annulla e

non cancella l’ingiustizia, ma la riafferma necessariamente[16]. Per questo potremmo dire che la giustizia ‘contiene’ l’ingiustizia, nel senso che la comprende e la limita[17].

Wolgast propone quindi di invertire l’ordine concettuale, assegnando all’ingiustizia la priorità logica sulla giustizia, la cui elaborazione dipende dal modo in cui l’ingiusto viene percepito e riconosciuto, dalle condizioni storiche e culturali in base alle quali esprimiamo un giudizio di ingiustizia. La nostra elaborazione del giusto dipenderà da queste condizioni nelle quali sviluppiamo l’indignazione verso il male commesso, che identifichiamo con l’ingiustizia.

Tuttavia la tesi non riesce ad evitare il rischio di circolarità insito in una teoria che assegni priorità logica ad uno dei termini della coppia di opposti: in base a quali criteri definiamo e riconosciamo l’ingiusto se non abbiamo un modello di giusto dal quale la nostra esperienza si discosta? E se abbiamo un modello di giustizia, come abbiamo fatto a costruirlo senza passare per l’esperienza dell’ingiustizia?[18] Si tratta, a giudizio di Wolgast, di una falsa circolarità, determinata dal fatto che continuiamo a identificare la giustizia come un ideale e l’ingiustizia come il suo opposto: i due concetti, invece, sono complementari e andrebbero concettualizzati secondo un preciso ordine.

L’ingiustizia nasce dall’esperienza del male, di fronte al quale invochiamo una risposta[19]. Questa è la richiesta di giustizia che, sebbene appaia chiara nella sua esigenza del rimedio, tuttavia appare sfumata e indeterminata nell’indicazione di quale tipo di rimedio si chiede; per questo la giustizia, intesa come il contenuto della risposta al male, appare priva di una forma precisa e di contenuti definiti; questi cambiano di volta in volta, in base alle circostanze e alle condizioni delle persone[20].

Se la giustizia appare vaga e indeterminata, l’ingiustizia ha i contorni più netti. Nella ricostruzione di Wolgast, l’ingiustizia è l’esperienza del male che subiamo o a cui assistiamo[21]. È una reazione soggettiva ed emotiva che coincide con un sentimento morale: la denuncia dell’ingiustizia si accompagna sempre all’indignazione, spesso alla rabbia, di certo a un coinvolgimento personale[22]. Tuttavia, questa reazione non è innata, ma appresa con l’educazione che abbiamo ricevuto, non deriva da definizioni astratte e concettuali, almeno non solo, ma dallo sviluppo di pratiche morali condivise, che ci permettono ad esempio di esprimere una condanna universale della schiavitù, della sottomissione delle donne sancita per legge in numerosi stati, del sistema delle caste in India, senza aver necessariamente elaborato un sistema di principi in base al quale esprimiamo la nostra indignazione[23]. Dividere le pratiche dalle credenze che queste esprimono non è un utile esercizio teorico per la ricerca sulla giustizia.

L’analisi di Wolgast presenta alcuni problemi, legati all’identificazione dell’ingiustizia con l’esperienza del male e ai modi in cui possiamo articolare una risposta a questo.

Se il male è sempre ingiusto, l’ingiustizia non è sempre, necessariamente, il male. Distribuire fette di torta diseguali può suscitare il senso di ingiustizia nei bambini che assistono alla divisione, ma non significa che sia necessariamente un male assegnare la fetta più grande al bambino più affamato. L’ingiustizia può avere gradi e forme molto diverse, legate alle espressioni soggettive e alle reazioni emotive delle persone che la denunciano, di cui Wolgast non sembra tenere conto adeguatamente. In particolare la sua analisi non fornisce alcun criterio per una costruzione intersoggettiva dell’ingiustizia che appare affidata a un radicale soggettivismo.

Allo stesso modo, appare problematica la forma indeterminata e aperta della giustizia che viene affidata alla pluralità delle risposte che escogitiamo di fronte all’esperienza del male. La giustizia consiste nella denuncia dell’ingiustizia, nella condanna morale del male e dell’ingiusto. Tuttavia l’analisi della giustizia si arresta alla denuncia e alla domanda di giustizia, individuando proprio in quest’ultima il concetto di giustizia. L’azione che segue a tale condanna non appare utile a delineare una teoria della giustizia, né Wolgast sembra interessata alla sua elaborazione.

Ciò che manca in questa ricostruzione è il ruolo del diritto nell’elaborazione della risposta all’ingiustizia. Se l’affermazione dei diritti può essere considerata una risposta insufficiente alle ingiustizie, per la loro inefficacia e per l’uso strumentale che talvolta ne viene denunciato, il diritto, inteso come ordinamento giuridico, e come mezzo che fa valere i diritti, è lo strumento attraverso il quale sono state articolate le risposte all’ingiustizia [24]. Ma Wolgast nel suo discorso sulla giustizia si sofferma proprio sui limiti che la teoria dei diritti, derivata dal modello atomistico e individualistico, mostra nella riduzione dell’ingiustizia.

Se da un lato i diritti rappresentano il fondamento della moderna concezione di dignità umana, per la capacità che assegnano a ciascuno di rivendicare i benefici ad essi associati, dall’altro non rappresentano uno strumento efficace per affrontare alcuni tipi di ingiustizia[25].

Wolgast si riferisce alle ingiustizie che nascono dall’incapacità di rivendicare i diritti da parte di chi, pur essendone titolare, come i malati e i bambini, non si trova in quelle condizioni di autonomia e indipendenza che rappresentano uno degli assunti delle moderne teorie della giustizia.

Per Wolgast il modello atomistico e contrattualistico che plasma la nostra concezione dei diritti riduce le relazioni tra le persone a una forma di contratto tra eguali, ignorando e lasciando ai margini del diritto gli stati di dipendenza e di bisogno. Il linguaggio dei diritti assegna al titolare dei diritti il potere di rivendicare ciò che gli è dovuto, ma non tutti, secondo Wolgast, sono in grado di parlare il linguaggio formale dei diritti: non il paziente nel momento in cui è debole e bisognoso di cure, non il bambino nel momento in cui dipende dagli adulti. “Ad una persona dipendente e sofferente serve un trattamento responsabile da parte di altri, proprio mentre essa è incapace di esigere alcunché”[26]. Bisogna ripensare quindi la relazione tra la nostra concezione dei diritti e la varietà dei rapporti di cura e dipendenza, delle situazioni di vulnerabilità a cui una teoria della giustizia basata sul linguaggio dei diritti non è in grado di offrire risposte, e da cui, secondo Wolgast, scaturiscono ingiustizie.

L’analisi di Wolgast, che in questa sede non possiamo approfondire, ci induce a guardare l’ingiustizia come un elemento permanente del paesaggio della giustizia. Più che considerare l’ingiusto come un momento teorico transitorio, il cui superamento è necessario per giungere al giusto ideale, o come un errore nell’esecuzione del disegno della perfetta giustizia, potremmo ipotizzare l’ingiusto come un elemento costitutivo e necessario della risposta di giustizia.

 

 

3. – La giustizia delle istituzioni

 

Prendere sul serio la domanda del perdurare dell’ingiustizia offre l’opportunità di volgere uno sguardo più attento ai nostri modelli istituzionali e alle loro inadeguatezze. Illuogo’ dell’ingiustizia, tuttavia, non sono le istituzioni e i principi, ma le persone e le loro risposte morali[27]. Per questo riflettere sull’ingiustizia richiede un nuovo sguardo al comportamento delle persone, diseducate alla virtù della giustizia, occultata da una malintesa cultura dei diritti[28].

Questo non significa che le persone ignorino cosa si intenda con ‘giustizia’. La definizione aristotelica della virtù generale della giustizia come osservanza delle norme viene ancora oggi ripetuta come prima accezione di giustizia[29]. Ma dire «quello è un uomo giusto» suona anacronistico, si preferisce piuttosto dire che «è corretto» perché rispetta le regole, indicando solo un aspetto, e non il più importante, dell’insegnamento aristotelico, secondo cui si diventa giusti compiendo cose giuste, con la giusta disposizione d’animo. Ciò che Aristotele mette in luce è proprio la qualità relazionale della giustizia, il cui senso si definisce nell’azione verso gli altri[30]. Oggi la giustizia non è più considerata come una virtù del cittadino, ma piuttosto come una qualità delle istituzioni, che deriva da un accordo o contratto tra i membri di una collettività, e si realizza attraverso principi e regole[31].

John Rawls, il massimo teorico contemporaneo della giustizia, apre il suo libro più famoso scrivendo che «La giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero»[32]. Secondo Rawls, La società giusta è quella in cui tutti abbiamo diritto al più ampio sistema di libertà, compatibile con quelle di tutti gli altri, e l’eventuale trattamento disuguale al quale ognuno di noi può essere sottoposto deve essere giustificato dal maggior vantaggio che potrebbero trarne i più svantaggiati.

Egli formula due principi: «Primo principio – “Ogni persona ha un uguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti.

Secondo principio – Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio di giusto risparmio, e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di eguaglianza di opportunità».

A questi principi seguono le regole di priorità: in base alla prima la libertà può essere limitata solo dalla libertà stessa; in base alla seconda l’equa opportunità precede il principio di differenza. Egli conclude enunciando La concezione generale della giustizia: «Tutti i beni sociali principali – libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi per il rispetto di sé – devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno avvantaggiati»[33].

Il principio di libertà e il principio di differenza vengono scelti dalle persone in un ipotetico stato di natura che Rawls chiama «posizione originaria»[34], in cui ciascuno sceglie i principi della società giusta in una condizione di ignoranza, che non gli permette di sapere quale sia la propria età, genere, condizione sociale, grado di istruzione ecc. La giustizia delle istituzioni è garantita dalle norme che le regolano, ispirate dai principi di libertà ed eguaglianza. Sebbene la teoria di Rawls rappresenti il modello indiscusso di riferimento delle nostre società, per alcuni critici trascura proprio l’aspetto della virtù, assegnando ai comportamenti delle persone un ruolo marginale e secondario[35].

 

 

4. – Amartya Sen e la giustizia dei pesci: Nity e Nyaya

 

Amartya Sen ritiene che la teoria di Rawls si preoccupi di individuare l’assetto sociale ideale, concentrandosi sulle istituzioni di una società bene ordinata, ma trascuri il modo in cui le persone tradurranno nella loro vita reale i principi e le regole dettate dalle istituzioni[36].

Ciò che Rawls assume nella sua teoria è che le persone siano agenti ragionevoli, in grado di elaborare schemi di comportamento che garantiscono il funzionamento delle istituzioni prescelte[37]. Sen sostiene che una teoria della giustizia dovrebbe preoccuparsi della vita concreta delle persone e di come i principi della giustizia e le istituzioni ne migliorino effettivamente la qualità[38]. Una teoria della giustizia deve sempre tener conto dell’ingiustizia all’opera nelle nostre società e prevedere modi per ridurla e incrementare la giustizia, oltre che preoccuparsi di descrivere una società perfettamente giusta[39].

Per chiarire il suo proposito, Sen ricorre a due concetti elaborati dall’antica giurisprudenza indiana, espressi dai termini nīti e nyāya. In sanscrito classico entrambi significano ‘giustizia’: mentre il primo indica ‘conformità’,coerenza’, che può riferirsi «all’adeguatezza di un’istituzione o alla correttezza di un comportamento» il secondo si riferisce alla giustizia concretamente realizzata[40].

Le due nozioni sono differenti ed entrambe necessarie per una compiuta teoria della giustizia. La prima corrisponde alla giustizia ideale, quella che non contempla nella sua costruzione l’ingiustizia se non in opposizione alla giustizia; la seconda corrisponde al giusto, e nasce dalla continua dialettica tra giustizia e ingiustizia. In base a questa distinzione non apparirebbe contraddittorio dire che «la nostra giustizia è ingiusta», dove ‘giustizia’ sta per nyāya. Per spiegare la relazione tra i due concetti gli antichi giuristi indiani citano la «giustizia del mondo dei pesci» (matsyanyāya giustizia concretamente realizzata), in cui il pesce grosso può divorare impunemente il pesce piccolo, ammonendo che è parte costitutiva della giustizia degli uomini evitare il matsyanyāya. Per quanto le nostre istituzioni e i nostri assetti sociali possano essere coerenti con i principi della giustizia (nīti), se un pesce grande può continuare a divorare liberamente uno piccolo, il modello istituzionale è viziato e deve essere ripensato. La realizzazione della giustizia nel senso di nyaya, afferma Sen, non consiste esclusivamente in un giudizio sulle istituzioni e sulle regole che governano una società, ma nel giudizio sulle società stesse[41]. In questo giudizio le istituzioni giocano un ruolo importante, ma non determinante, sono piuttosto le pratiche sociali, determinate da ragioni culturali, comportamenti accettati e incoraggiati, che completano l’opera delle istituzioni.

Le due forme di giustizia si completano reciprocamente, ma è importante sottolinearne la differenza. Per esempio incrementare il numero delle scuole pubbliche in quelle regioni in cui vi è un basso livello di alfabetizzazione potrebbe essere un importante risultato di giustizia, nīti, ma ciò che sarebbe considerato tale in una prospettiva nyāya sarebbe l’effettivo raggiungimento dell’istruzione da parte dei ragazzi e delle ragazze e della libertà che da questa deriva.

La giustizia sociale si coglie considerando le pratiche sociali, in cui le istituzioni hanno un ruolo importante, ma non determinante per stabilire il livello di giustizia sociale.

La grande tradizione filosofica politica moderna, nata dal contrattualismo di Hobbes, che annovera tra i suoi massimi teorici Locke, Rousseau e Kant, fino a Rawls, può essere interpretata in termini di nīti, perché si concentra sui caratteri della giustizia perfetta, anziché considerare le società reali, per riconoscere nel confronto tra queste, l’alternativa meno ingiusta. Questo insieme di teorie, che Sen chiama «istituzionalismo trascendentale», non tiene in considerazione quegli elementi non istituzionali, come il comportamento delle persone e le loro interazioni sociali, da cui dipende la giustizia sociale[42].

Vi è un altro filone teorico a cui Sen s’ispira, che si oppone al filone contrattualista della giustizia sociale, rappresentato principalmente da Adam Smith, ma anche da Bentham, Marx, Wollstonecraft e Mill, in cui la ricerca sulla giustizia si basa su una comparazione tra le concrete realizzazioni sociali, «frutto delle istituzioni reali, dei reali comportamenti e altri fattori»[43] e sui modi per ridurre l’ingiustizia presente in esse. Nonostante le radicali differenze tra gli esiti derivanti da queste teorie, in esse l’ingiustizia rappresenta una contraddizione teorica necessaria e feconda per la realizzazione della giustizia.

Ma cosa significa giustizia realizzata? Corrisponde a una registrazione fattuale, una mera valutazione dei risultati delle azioni? Ci possiamo accontentare di una giustizia basata sui risultati delle azioni che prescinda dalle intenzioni e dalle circostanze storiche in cui le persone operano? Sen propone quindi un “comprehensive concept” di giustizia realizzata, che preveda, oltre alle regole e principi, la valutazione delle pratiche che da questi principi derivano. È in essa che cogliamo l’importanza dell’ingiustizia, la cui presenza impone una continua ridefinizione delle pratiche della giustizia.

La giustizia realizzata corrisponde a un esito «comprensivo» che deve essere distinto dal concetto di «esito conclusivo». Mentre quest’ultimo si limita a prendere in considerazione il mero dato che risulta dal processo di giustizia, il primo considera come parte della giustizia i processi attraverso i quali quel risultato è stato raggiunto[44]. In base a questo criterio, l’esito finale di un processo che giudicheremo come giusto o ingiusto non può ignorare il ruolo che «le operazioni compiute, le operazioni coinvolte, i processi impiegati» hanno avuto nel suo svolgimento[45]. Sen ci mostra che la giustificazione teorica della giustizia non è indipendente dalla sua realizzazione pratica, e che le forme della giustizia non corrispondono a un modello ideale, ma alle risposte concrete offerte alla domanda di giustizia.

 

 

5. – La nozione necessaria e inaffidabile dell’ingiustizia: il ruolo delle emozioni

 

Nella definizione dell’ingiustizia le emozioni soggettive giocano un ruolo determinante[46]. Se tutti siamo disposti a riconoscere che è ingiusto lo sfruttamento del lavoro minorile e che le donne in alcuni Stati non possano avere la patente di guida, allo stesso tempo siamo disposti a riconoscere che in alcuni casi ciò che è considerato un’ingiustizia per alcuni, per altri non lo è affatto.

Basti pensare agli scritti di Wollstonecraft sul diritto di voto per le donne e al dibattito nell’Inghilterra vittoriana, per rendersi conto che il sentimento di ingiustizia veniva manifestato equamente da entrambe le parti[47]. Come dice Cahn, l’ingiustizia è un sentimento passionale, nutrito dall’indignazione, dall’ira, dalla frustrazione e dalla ribellione, quindi è una percezione soggettiva, situata e contestualizzata[48]. Possiamo obiettare che il relativismo dell’ingiustizia è mitigato dalla morale positiva[49] e che nelle nostre elaborazioni soggettive esprimiamo credenze condivise, valori appresi attraverso l’educazione, che limitano il relativismo del senso di ingiustizia e lo convogliano verso un uso condiviso del termine ‘ingiustizia’[50]. Questo aspetto tuttavia non elude il problema di una nozione affidabile dell’ingiustizia. Il senso di ingiustizia corrisponde sempre a una nostra personale interpretazione della morale condivisa. Cos’è dunque che ci permette di qualificare come ingiusto un comportamento, un’azione, un atto? Con quale strumento superiamo il relativismo sacrosanto dell’ingiustizia?

Riferirci al diritto dello Stato che determina i criteri del giusto e dell’ingiusto orientando i comportamenti sociali non elimina il problema. Questo argomento mostra i suoi limiti nel momento in cui, nell’assetto istituzionale che riteniamo coerente con la nostra concezione della giustizia irrompono denunce di ingiustizia; quando, all’ombra del nostro sistema costituzionale si consumano indisturbate nuove ingiustizie che mettono in discussione il nostro assetto.

 

 

6. – Ingiustizia e conflitto

 

La messa in discussione è ciò che generalmente definiamo come ‘conflitto’[51].

Il conflitto è un elemento che caratterizza l’espressione dell’ingiustizia, si protesta per qualcosa e contro qualcuno, si discute e si litiga per affermare ragioni e pretese, per far prevalere credenze e visioni morali, per affermare principi politici. Il conflitto è sempre situato, personale e appassionato, proprio come l’ingiustizia. Tuttavia il conflitto non fa necessariamente parte della definizione di ingiustizia. Possiamo esprimere un giudizio di ingiustizia senza dover discutere con qualcuno che non la pensa allo stesso modo; ad esempio potremmo affermare che è ingiusto che interi popoli siano costretti a fuggire dai propri paesi per non morire sotto le bombe, senza entrare in conflitto con altre persone. Viceversa è più problematico sostenere che della definizione di conflitto non faccia parte l’ingiustizia, perché non esiste conflitto in cui almeno uno dei contendenti non denunci un’ingiustizia, intesa come offesa, azione malvagia, turpe o scorretta.

Per questo potremmo dire che il sentimento dell’ingiustizia caratterizza la dinamica del conflitto, sebbene quest’ultima non sempre caratterizzi l’espressione dell’ingiustizia.

Il conflitto è sempre presente nelle nostre vite, sappiamo bene che non si tratta di un accidente, di un’eventualità, ma di un elemento che ci costituisce come animali sociali. I sociologi descrivono il conflitto come quel fenomeno che definisce l’identità di un individuo o di un gruppo rispetto all’ambiente circostante[52]. I biologi lo descrivono come un meccanismo che ci permette di affrontare i cambiamenti e adattarci ad essi[53]. Per questo il conflitto è un’esperienza universale, così come la paura del conflitto è un sentimento che ci accomuna per la capacità devastante che gli riconosciamo. Entrare in conflitto con le altre persone, sebbene spesso sia un’esperienza dolorosa, ci spinge a confrontare idee, pretese, domande. La gestione e il superamento del conflitto generano nuovi equilibri personali, sociali e politici. Ogni mamma sa quanto sia importante che i propri figli discutano e litighino, perché devono imparare a fare spazio alle ragioni degli altri e ad apprendere l’arte della pace e del compromesso che dà equilibrio alle nostre vite. Imparare a gestire i conflitti significa imparare a crescere, per un bambino come per uno Stato[54]. «In un ordine sociale e nell’esperienza di un individuo, scrive Hampshire, uno stato di conflitto non è il segno di un vizio, di un difetto o di un malfunzionamento. Non è una deviazione dallo stato normale di una città o di una nazione, e non è una deviazione dal corso normale dell’esperienza personale»[55].

Il conflitto è il banco di prova dell’ingiustizia, è il luogo in cui le opposte pretese, rivendicazioni, richieste si affrontano, in cui i sentimenti di ingiustizia si traducono nella richiesta di giustizia, in cui vengono cercate quelle faticose risposte alla malvagità e stoltezza delle azioni umane. La gestione del conflitto è ciò che ci permette di stabilire le condizioni per il suo superamento. In breve, la gestione del conflitto definisce le condizioni di giustizia, il suo superamento è ciò che ci permette la riduzione dell’ingiustizia. La gestione e la risoluzione del conflitto corrispondono nell’ordine alla costruzione della giustizia e alla risposta all’ingiustizia. È qui che cominciamo ad elaborare la giustizia, è qui che cominciamo a sperimentare il diritto.

 

 

7. – Giustizia come risoluzione giuridica del conflitto

 

«La giustizia giuridica non è quella delle istituzioni e delle loro procedure, ma è quella del loro risultato, cioè del caso concreto. Non bastano regole e procedure, di per sé giuste o corrette se esse non rispondono alle richieste di giustizia che provengono dai casi concreti, dai singoli individui e dalle particolari formazioni sociali. Pertanto nel diritto, a differenza della politica (almeno se intesa nei termini rawlsiani), il processo di applicazione delle regole e delle procedure fa parte dell’essere stesso del diritto»[56]. Queste parole di Viola ci introducono alla giustizia del diritto. Il diritto infatti ha il compito di ‘mettere in scena’, di rappresentare, secondo una forma, e quindi secondo una regola, il conflitto. L’insieme delle regole definisce lo spazio del conflitto, lo separa dal mondo ordinario delle relazioni sociali, ne delimita la forza e la violenza. Per questo la risoluzione del conflitto, intesa come ‘soluzione’ che placa il senso di ingiustizia che ha dato luogo allo scontro delle pretese, non è l’obiettivo primario del diritto. Il suo primo obiettivo è gestire, trattare il conflitto, neutralizzando la sua potenza disgregante e rappresentandolo secondo un nuovo linguaggio, quello delle regole. Il ruolo del terzo nel conflitto è quello di interporsi, installarsi al centro di un rapporto di forza per ristabilire la «giusta distanza fra gli antagonisti delle divisioni, degli scambi e delle retribuzioni, che la nostra indignazione denuncia come ingiusti»[57].

Questa terzietà del giudice – ma potrebbe essere un conciliatore, un arbitro – che potremmo anche interpretare in senso ampio come mediazione, per il suo stare nel mezzo, costringe le parti a ridefinire le loro pretese, a giustificarle secondo le norme che regolano il vivere sociale, a spiegare il loro comportamento e giustificare le loro azioni, a tradurre in un discorso razionale e ragionevole la forza e la violenza del conflitto[58].

In tal senso possiamo dire che tra i compiti essenziali del diritto vi sia il trattamento dei conflitti[59]. Il trattamento del conflitto equivale al suo inserimento in uno schema normativo prefissato: una volta che il fenomeno viene ricondotto all’interno della cornice delle norme giuridiche, sostanziali e processuali, avviene la trasformazione del conflitto in controversia[60]. Nella stessa definizione di controversia giuridica è implicata la sua risoluzione: la controversia è – almeno a partire dall’art. 4 del Code Napoléon – per definizione, risolvibile. Il diritto infatti garantisce la conclusione della controversia, istituendo gli strumenti per la sua risoluzione.

Se possiamo correttamente affermare che tra le funzioni del diritto vi sia la risoluzione delle controversie, non possiamo dire altrettanto correttamente che tra le funzioni del diritto vi sia la risoluzione dei conflitti. L’ingiustizia denunciata nel conflitto non sempre, anzi raramente, corrisponde all’ingiustizia denunciata nella controversia. Questo spiega la riluttanza, tra alcuni sociologi, ad accogliere tra le funzioni del diritto quelle di risoluzione e composizione dei conflitti, e a preferire quella di gestione e trattamento dei conflitti. Queste posizioni «trascurano la potenzialità disgregatrice del diritto»[61] che interferisce nella dinamica del conflitto, alimentandolo e potenziandolo attraverso la vicenda processuale. La chiusura del processo origina nuovi conflitti e nuove occasioni di controversie[62]. Quindi possiamo dire che il processo risolve la controversia, ma non risolve il conflitto.

Se la decisione del giudice ha la finalità a breve termine di porre fine all’incertezza, di ricostruire un ordine, a lungo termine dovrebbe esplicare un’altra funzione, quella di contribuire alla realizzazione della pace sociale che compone il senso di giustizia.

 

 

8. – Bibliografia

 

Arielli E. - Scotto G., Conflitti e mediazione, Milano, Bruno Mondadori, 2003.

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Abstract

 

This article intends to provide a brief introduction to the role of injustice in the contemporary theories of justice. The main theories of justice do not consider injustice as a subject with theoretical significance, but rather as an essential premise to understand the concept of justice. In fact, many scholars argue that a closer look at injustice and its forms is necessary and that an analysis of injustice that grows in the shadow of the institutions and law could provide useful tools for its reduction. Elisabeth Wolgast e Amartya Sen in particular criticize those theories (like Rawls's one) which consider justice as a virtue of institutions rather than a result of people’s behaviour.

Sen distinguishes two different meanings of ‘justice’ that correspond to two words of the classical Sanskrit: nity and nyāya. Niti is organisational property, nyāya stands for a more comprehensive concept of realised justice. Every plausible theory of justice must also take due account of the realised justice, revealed by the forms of injustice, rather than by the principles on which our institutions are founded.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] J. S. Shklar, I volti dell’ingiustizia, Milano, Feltrinelli, 2000 (The Face of Injustice, Yale, 1990), 101.

[2] P. Ricoeur, Il giusto, Torino, SEI, 1998 (Le Juste, Paris, 1995), 6.

[3] Cfr. J. R. Lucas, On Justice, London, Oxford University Press, 1980, secondo cui dovremmo adottare un approccio «negativo» nell’elaborazione della giustizia, studiando i casi in cui protestiamo contro l’ingiustizia. La giustizia è una virtù fredda e statica, mentre l’ingiustizia è animata dai nostri sentimenti ed è dinamica, 4-5; per una breve analisi della tesi di Lucas, vedi N. S. Care, Lucas’ on Justice, in Nous, vol. 17, n. 4 nov. 1983, 689-693; cfr. inoltre M. Ricciardi, Introduzione a L’ideale di giustizia, cit., VIII s.

[4] Platone, La Repubblica, (trad. di F. Sartori), Roma-Bari, Laterza, 1997: «Ebbene, anche per sviscerare con metodo la questione, ti ripeto la domanda di poco fa, che cosa sia la giustizia rispetto all’ingiustizia» 351a (67), si veda inoltre 358a; 358b5. Si veda E.A. Havelock, Dike, la nascita della coscienza, Roma-Bari, Laterza, 1981 (The Greek Concept of Justice from its Shadow in Homer to its Subtance in Plato, Cambridge, Mass. 1978), che nota l’impiego del termine ‘ingiustizia’ nel momento in cui Platone passa da una definizione procedurale, ereditata dalla tradizione omerica ed esiodea (ciò che la giustizia fa) ad una definizione concettuale (ciò che la giustizia è), 379 ss.

[5] Aristotele, Etica Nicomachea, Opere, vol. 7, (trad. di A. Plebe), Roma-Bari, Laterza, 1983, «Vediamo dunque che tutti vogliono indagare quella disposizione d’animo per cui tutti sono inclini a compiere cose giuste e per la quale operano giustamente e vogliono le cose giuste: altrettanto è dell’ingiustizia, per la quale gli uomini commettono ingiustizie e vogliono le cose ingiuste», 1129a, (105).

[6] Aristotele, Etica Nicomachea, cit.: «Vediamo dunque in quanti sensi si dice che uno è ingiusto. Sembra che ingiusto sia tanto il trasgressore della legge, tanto chi vuole avvantaggiarsi, quanto l’iniquo, per cui è evidente che anche il giusto sarà sia il rispettoso della legge sia l’equo» 1129a, (106). M. Villey, Le droit et les droits de l’homme, Paris, Presses Universitaires de France, 1983, 42 s.; B. Williams, La giustizia come virtù, in Id., Il senso del passato. Scritti di storia della filosofia, Milano, Feltrinelli, 2009, 226-237 (Justice as a Virtue, in A. Oksenberg Rorty (ed.), Essays on Aristotle’s Ethics, Berkeley-Los Angeles, UCP, 1981, 189-199); G. Zanetti, La nozione di giustizia in Aristotele, Bologna, Il Mulino, 1993, 22 ss. Sull’origine dell’idea di giustizia e il suo sviluppo fino alla tragedia, si veda F. Todescan, Giustizia e destino: dalla filosofia presocratica alla tragedia attica, in F. Bombelli, A. Mazzei (a cura di) Dike Polipoinos. Archetipi di giustizia fra tragedia greca e dramma moderno, Padova, CLEUP, 2004, 21-40.

[7] Il riferimento è al noto passo di L. Wittgenstein, a conclusione del Tractatus, (6.54): «Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salite per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito.) Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo», L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, (trad. di A. G. Conte), Torino, Einaudi, 1964 (Tractatus logico-philosophicus, London, Routledge and Kegan Paul, 1961; Notebooks 1914-1916, Oxford, Basil Blackwell, 1961), 82.

[8] J. S. Shklar, I volti dell’ingiustizia, Milano, Feltrinelli, 2000 (The Face of Injustice, Yale, 1990), 30.

[9] Cfr. E. Heinz, The Concept of Injustice, New York, Routledge, 2013, il quale sostiene che l’ingiustizia, interpretata dalla concezione classica della giustizia come il suo opposto, ne è, almeno in gran parte, il prodotto, derivato dai caratteri assegnati alla giustizia dalla tradizione filosofica occidentale, da Platone a Rawls: «I shall argue, however, that the traditional binarism tells us less about injustice than either our institutional practices or our programmatic theories have generally assumed. We overlook the rich and the complexity of injustice, we impoverish our understanding of it, when we instinctively obey the arbitrary dictates of etymology, theorising injustice as a sheer negation of something else», 6.

[10] Si vedano le riflessioni di E. Opocher, Analisi dell’idea di giustizia, Milano, Giuffrè, 1977, sui limiti delle visioni «platonizzanti» della giustizia e la riaffermazione della storicità dell’esperienza in base alla quale elaboriamo l’idea di giustizia, 14-15.

[11] A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, Mondadori, 2010 (The Idea of Justice, Pengouin Books, 2009), 23.

[12] E. Wolgast, “Il modello atomistico

[13] Cfr. E. H. Wolgast, La grammatica della giustizia, Roma, Editori Riuniti, 1991 (The Grammar of Justice, Cornell University, 1987), 128 ss.

[14] E. Wolgast, La grammatica della giustizia, cit., 129: «Ed è questa la mia tesi: la giustizia non è una nozione originaria dalla quale discende l’ingiustizia: è vero il contrario, e perciò è tanto difficile definire l’ingiustizia». Sul primato concettuale dell’ingiustizia si veda anche E. M. Cahn, The Sense of Injustice, New York, New York University Press, 1949, che distingue il senso dell’ingiustizia dall’ingiustizia in sé. È solo in base a questo, che può essere reale o immaginato, che possiamo stabilire un primato concettuale della denuncia dell’ingiusto sulla ricerca del giusto (13 s.).

[15] Cfr. le osservazioni di Shklar, I volti dell’ingiustizia, cit., 122 ss.; si veda l’ampia ricerca di J. Resnik e D. Curtis, dedicata all’iconografia e all’architettura della giustizia, Representing Justice: Invention, Controversy and Rights in City-State and Democratic Courtrooms, New Haven, Yale University Press, 2011. Cfr. inoltre G. Mannozzi, La giustizia senza spada, Milano, Giuffrè, 2003, 3 ss., a cui si rinvia per la bibliografia iconografica sulla giustizia.

[16] Cfr. F. Stella, La giustizia e le ingiustizie, Bologna, Il Mulino, 2006, cit.; per un commento alle tesi di Stella M. Barberis, Il primato dell’ingiustizia, in Ragion Pratica, 2008, n. 1, 227-230.

[17] Cfr. E. Opocher, Analisi dell’idea di giustizia, cit., che sottolinea il carattere drammatico della stessa idea di giustizia attraverso le sue contraddizioni: «Essa, infatti, non può affermarsi senza negare, esaltare senza comprimere, salvare senza perdere», 15.

[18] Sul problema della circolarità, con particolare riferimento alla teoria di Amartya Sen, cfr. E. Beerbohm, The conceptual Priority of Injustice, in Jurisprudence, 2014, 5-1, 329-343.

[19] H. Hoffman, Il diritto e il giusto: la questione della giustizia, in Filosofia politica, 2001, n. 1, 57-67, «[…] tale giustizia è il prodotto dell’esperienza originaria dell’ingiustizia, cioè di concetti generali senza fondamento, di violazioni e delusioni; in particolare è il prodotto di esperienze di abuso della forza e del diritto» (59).

[20] Per un’analisi antropologica del tema, cfr. L. Nader: «[…] per quanto l’anelito di giustizia sia universale, il significato che le è attribuito varia a seconda dei diversi contesti culturali e sociali, e persino all’interno di uno stesso contesto socio-culturale, come nel caso di una società gerarchizzata e stratificata. Per questo la concezione di della giustizia derivante dal pensiero degli antichi Greci, incentrata sull’uguaglianza e l’armonia, può sembrare una bestemmia ai coreani, presso i quali la vita sociale è strutturata verticalmente sulla base di un esplicito rifiuto dell’idea di intrinseca uguaglianza di tutti gli uomini», Giustizia, diritti umani e sentimento d’ingiustizia, in Antropologia, 2008, n. 11, 106-124 ( 110).

[21] E. Wolgast, La grammatica della giustizia, cit., 185 ss.

[22] Cfr. E. Cahn, The Sense of Injustice, cit., il quale propone una nozione psicologica dell’ingiustizia, affermando che ha un contenuto emozionale, perché esprime un coinvolgimento personale che implica una reazione, a differenza della giustizia il cui contenuto è razionale, astratto e evoca un atteggiamento passivo, 24.

[23] Vicina alla tesi di Wolgast è quella espressa da S. Hampshire, Non c’è giustizia senza conflitto, cit., che sostiene il primato dell’ingiustizia, fondata sul sentimento morale e la giustizia come il risultato della risoluzione dei conflitti, 31-32.

[24]  Zagrebelsky, Diritti per forza, Torino, Einaudi, 2017, «Ecco qua la questione: i diritti non come protezione contro le ingiustizie, ma al contrario, come legittimazione delle ingiustizie», 6; cfr. inoltre M. Villey, Le droit et les droits de l’homme, Paris, P.U.F., 1983. Sulla relazione tra concezioni della giustizia e teorie dei diritti si veda I. Trujillo, che affronta il tema in relazione al problema della giustizia globale, Giustizia globale. Le nuove frontiere dell’uguaglianza, Bologna, Il Mulino, 2007, 104 ss.

[25] Cfr. J. Feinberg, The Nature and value of Rights, in Journal of value Inquiry, 1970, n. 4, 243-257; Cfr. T. Casadei, a cura di, Diritti umani e soggetti vulnerabili. Violazioni, trasformazioni, aporie, Giappichelli, Torino, 2012, 112 s.

[26] E. H. Wolgast, La grammatica della giustizia, cit., 39.

[27] J. S. Shklar, I volti dell’ingiustizia, cit., 101, «Ma che cos’è il senso di ingiustizia? Innanzitutto è il tipo particolare di risentimento che proviamo quando ci vediamo negati i benefici che ci erano stati promessi e quando non otteniamo ciò che credevamo ci fosse dovuto. È la sensazione di tradimento che proviamo quando gli altri deludono le attese che avevano creato in noi – una cosa antica quanto l’uomo».

[28] Sull’ambiguità insita nei diritti, si veda G. ZAGREBELSKY, Diritti per forza, cit.: «I diritti hanno un doppio lato, uno benefico e uno malefico, e il guaio è che il lato malefico sta nelle mani dei potenti, mentre il lato benefico è spesso in mano agli impotenti. Così i diritti, invece di servire la giustizia, spesso alimentano le ingiustizie», 8. Cfr. le osservazioni di E. CASTRUCCI, Il discorso sui diritti dell’uomo, in ID., Ricognizioni. Quattro studi di critica della cultura, Firenze, San Gallo, 2005, 11 ss.; sul rapporto tra diritti e democrazia A. PINTORE, Diritti insaziabili, in ID., Democrazia e diritti. Sette studi analitici, Pisa, ETS, 2010, 83-99.

[29] Cfr. G. Del Vecchio, La giustizia, Roma, Studium, 1959, 27 ss.

[30] Aristotele, Etica Nicomachea, cit., II (B), 4, 1105a-b: «nel caso delle virtù, non è sufficiente che alcune azioni siano di una data qualità, che si agisca con giustizia o moderazione, bensì occorre che chi le compie lo faccia in una determinata disposizione d’animo, cioè anzitutto che siano compiute consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di esse stesse, B. Williams, La giustizia come virtù, in Id. Il senso del passato, Milano, Feltrinelli, 2006, 226-237, (Justice as a Virtue, in Id., Moral Luck, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1998, 83-93).

[31] «[…] la giustizia è principalmente una qualità delle relazioni tra gli esseri umani, anche qualora essa trovi espressione preponderante nelle istituzioni statali e internazionali», così I. Trujillo, Giustizia globale, cit., 16.

[32] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1991 (A Theory of Justice, Harvard, 1971), 21.

[33] J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., 255.

[34] J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., 28.

[35] Per una lettura critica della teoria di Rawls, si veda la posizione di M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, secondo il quale l’individuo di Rawls non ha nulla a che vedere con le persone reali, 14 ss.; si vedano inoltre le riflessioni di P. Ricoeur, È possibile una teoria procedurale della giustizia? A proposito di Una teoria della giustizia di John Rawls, in Id., Il giusto, cit., (sulla posizione originaria 64 ss.); cfr. F. Stella, La giustizia e le ingiustizie, cit., 149 ss., che lamenta «La vana ricerca dell’idea di giustizia» nella filosofia di Rawls: «Cosa c’entrano con i dati della realtà gli ipotetici stati di natura, gli ipotetici esseri razionali, le persone morali provviste del senso di giustizia di cui parla Rawls?», 154-155.

[36] A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, Mondadori, 2010 (The Idea of Justice, Pengouin Books, 2009), 79 ss. Sulla limitazione di Rawls al soggetto ragionevole, cfr. E. Ceva, Giustizia e conflitti di valori, cit., 114-115.

[37] Attraverso l’equilibrio riflessivo: «È un equilibrio perché, alla fine, i nostri principi coincidono con i nostri giudizi; è riflessivo poiché sappiamo a quali principi si conformano i nostri giudizi, e conosciamo le premesse della loro derivazione», Rawls, Una teoria della giustizia, cit., 35; sull’equilibrio riflessivo si vedano le riflessioni di R. Dworkin, Giustizia e diritti, in M. Ricciardi (a cura di), L’ideale di giustizia, cit., 76 ss.; per un’analisi del soggetto morale teorizzato da Rawls, si veda M. D. Hauser, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, Milano, Il Saggiatore, 2007 (Moral Minds, New York, London, Toronto, Sidney, 2006), 48 ss.

[38] A. Sen, L’idea di giustizia, cit., 7.

[39] La critica di Sen alle teorie deontologiche della giustizia, che egli chiama «trascendentali», contrapponendole alle teorie «comparative» si sofferma sulla separazione concettuale tra i principi generali della giustizia e la loro applicazione. In questo modo la validità della giustizia appare separata dal giudizio sul giusto e sull’ingiusto. In tal senso si veda lo studio di A. Ferrara sull’impiego del giudizio determinante e giudizio riflettente nell’analisi delle teorie contemporanee della giustizia, Giustizia e giudizio, Roma-Bari, Laterza, 2000, 15 ss., 284 ss. Cfr. le osservazioni di P. Ricoeur sull’impiego del giudizio determinante nel diritto, Il giusto, cit., 161 s.

[40] A. Sen, L’idea di giustizia, cit., 35.

[41] A. Sen, Global Justice, 37

[42] Sen analizza con particolare attenzione la proposta di Rawls, sottolineando le due fasi del suo pensiero, la prima elaborata in Una teoria della giustizia, caratterizzata dall’equità garantita dall’esperimento del velo d’ignoranza, la seconda in Liberalismo politico, Torino Edizioni di Comunità, 1999 (Political Liberalism, New York, 1993), in cui Rawls rivede la sua impostazione iniziale per assegnare un rilievo più marginale alla posizione originaria, considerata come uno strumento argomentativo tra gli altri. Sen rileva che in entrambe le fasi dell’elaborazione di Rawls manca lo spazio per l’ingiustizia, come costante polo dialettico della sua riflessione teorica, e che la preoccupazione primaria di Rawls è quella di costruire una società giusta a partire dai principi, dalle fondamenta, che tuttavia non appronta adeguati strumenti per riparare le crepe che inevitabilmente si formano nell’edificio perfetto della giustizia istituzionale, L’idea di giustizia, cit., 65 s.; M. Nussbaum che esprime una posizione vicina a quella di Sen, basata sulle capabilities, che esige una riformulazione del modello di giustizia basato sul contratto, di cui la teoria di Rawls rappresenta uno degli esiti più riusciti. Questa, tuttavia, non è in grado di offrire risposte a problemi fondamentali di ingiustizia, definiti dalla ‘disabilità’, ‘nazionalità’, ‘appartenenza ad una specie’, Le nuove frontiere della giustizia, Bologna, Il Mulino, 2007, 43 ss. (New Frontiers of Justice Disability, Nationality, Species Membership, London, Cambridge Mass., 2006); si veda M. Gilardone, L’approccio situato di Amartya Sen, in A. Sen et Al., Sull’ingiustizia, Trento, Erickson, 2013, 42 ss.

[43] A. Sen, L’idea di giustizia, cit., 23.

[44] A. Sen, La giustizia e il mondo globale, in A. Sen et Al., Sull’ingiustizia, cit., 15 ss.

[45] «Per “esito” si intende la situazione che risulta da una qualunque decisione che stiamo prendendo o che abbiamo perso, sia questa un’azione, una norma o una disposizione». Così A. Sen, L’idea di giustizia, cit., 226. Ricorrendo al concetto di esito comprensivo, distinto da quello di «esito conclusivo» Sen rifiuta l’accusa di «conseguenzialismo» che può venir mossa alla sua teoria, perché il giudizio sulle azioni non dipende esclusivamente dalle conseguenze, ma ricomprende le modalità attraverso le quali queste vengono generate.

[46] Si vedano le riflessioni di A. Incampo che annovera l’ingiustizia come tra le “emozioni giuridiche fondamentali”, Metafisica del processo, Bari, Cacucci, 2016, 50-51

[47] M. Wollstonecraft, Sui diritti delle donne, Rizzoli, Milano, 2008 (A Vindication of the Rights of Woman, Boston, 1792).

[48] Cahn, The Sense of Injustice, cit., 24.

[49] H. L. A. Hart, Diritto, morale e libertà, trad. di G. Gavazzi, Acireale, Bonanno, 1968 (Law, Liberty and Morality, Stanford, 1963), 40: «la morale effettivamente accettata e condivisa da un certo gruppo sociale», alla quale si contrappone la morale critica, costituita dai principi morali in base ai quali si esprime una critica alle istituzioni esistenti e alla stessa morale positiva”.

[50] Cfr. S. Hampshire, che mostra i limiti dell’elaborazione di un modello astratto di giustizia: «L’errore, la trappola fondamentale è proiettare in un modello astratto le abitudini e le convenzioni più stabili e diffuse in un luogo e in un tempo particolari e chiamare questo modello “natura umana”. […] L’errore è assumere il modello astratto come verità completa e esatta, ovvero presumere che corrisponda ai molti e diversi sentimenti, atteggiamenti e convenzioni reali presenti nel mondo osservato», Non c’è giustizia senza conflitto, cit., 51-52.

[51] E. Arielli - E. G. Scotto, Conflitti e mediazione, Milano, Bruno Mondadori, 2003, 17 ss. Sul conflitto e le sue rappresentazioni vedi infra Cap. 5.

[52] G. Simmel, Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1989 (Soziologie. Untersuchungen über die ormen der Vergesellshaftung, Berlin, 1908), 214; L. A. Coser, Le funzioni del conflitto sociale, Milano, Feltrinelli, 1967 (The Functions of Social Conflict, The Free Press, 1956), 41 ss.

[53] Cfr. S. Castelli, La mediazione. Teorie e tecniche, Milano, Raffaello Cortina, 1996, 10 ss.

[54] Per questo Platone illustra la sua giustizia nell’animo umano e nella polis. Prima di giungere a descrivere la giustizia come l’armonia tra le virtù dell’anima, nel mito della biga alata Platone ci mostra un’anima in conflitto, in una continua tensione tra le pulsioni del desiderio, della paura e il richiamo della ragione. Prima di proporci la giustizia della polis come l’armonia tra le tre classi della città, Platone ci racconta una polis divisa, che ha perso i suoi punti di riferimento fino al punto da condannare a morte uno dei suoi uomini migliori. La forma della giustizia, anche di quella ideale e perfetta, passa attraverso il conflitto.

[55] S. Hampshire, Non c’è giustizia senza conflitto, cit., 35.

[56] F. Viola, La legalità del caso, in La Corte Costituzionale nella costruzione dell’ordinamento attuale. Principi fondamentali, Atti del 2° Convegno nazionale della Società Italiana Studiosi di Diritto Civile, 18-19-20 aprile 2006, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 2007, 135.

[57] P. Ricoeur, Il giusto, cit., 7. Sul ruolo del terzo, V. Ferrari, Funzioni del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1997, 180; T. Eckhoff, Il mediatore, il giudice e l’amministratore nella soluzione dei conflitti, in A. Giasanti - V. Pocar (a cura di), La teoria funzionale del diritto, Milano, Unicopli, 1983, 159 ss.

[58] Cfr. I. Trujillo, Imparzialità, Torino, Giappichelli, 2003, 50 ss.

[59] È questa l’espressione che impiega V. Ferrari, distanziandosi dalle più comuni concettualizzazioni, in cui si adottano i termini ‘risoluzione’ e composizione’ dei conflitti, Funzioni del diritto, cit., 95.

[60] Occorre precisare che sono varie le modalità giuridiche di trattamento dei conflitti, derivanti dall’ambizione di ogni ordinamento giuridico a di ricondurre ogni tipologia di conflitto sociale all’interno dei propri schemi normativi. La controversia quindi è una modalità giudica di regolazione, tuttavia per le finalità di questa ricerca, orientata dai limiti della pratica della giustizia, sarà l’unica considerata.

[61] V. Ferrari, Funzioni del diritto, cit., 96; cfr. N. Luhmann, Conflitto e diritto, in Laboratorio politico, 1982, n. 1, 5-25.

[62] Si vedano le osservazioni di A. Catania, Purezza del diritto e politicità delle decisioni, in AA.VV.. Nuove frontiere del diritto. Dialoghi su giustizia e verità, Bari, Dedalo, 2001, 25-31 (27).