IL
PRIMATO DELL’INGIUSTIZIA NELLE RIFLESSIONI DI WOLGAST E SEN
Università di
Sassari
Direttore del
Centro Universitario di Mediazione
SOMMARIO: 1. Il senso universale dell’ingiustizia. –
2. Innocenza e giustizia: l’analisi di Elisabeth Wolgast. –
3. La giustizia delle istituzioni –
4. Amartya Sen e la giustizia dei pesci: nīti e nyāya. – 5.
La nozione necessaria e inaffidabile dell’ingiustizia: il
ruolo delle emozioni. – 6. Ingiustizia e
conflitto. – 7. Giustizia come risoluzione giuridica del
conflitto. – 8. Bibliografia. - Abstract.
Il nostro primo
contatto con la giustizia avviene quando ci indigniamo per trattamenti e
divisioni ineguali, promesse mancate, punizioni sproporzionate, meriti non
riconosciuti. Sono queste le situazioni che definiscono il nostro personale
senso di ingiustizia e che ci spingono a chiedere che i trattamenti e le
divisioni siano eguali, le promesse mantenute, le punizioni proporzionate e i
meriti riconosciuti. È il senso dell’ingiustizia, che tutti sperimentiamo nella
vita quotidiana e che ci spinge a chiedere giustizia, quel tipo particolare di risentimento
che proviamo quando ci vediamo negati i benefici che ci erano stati promessi e
quando non otteniamo ciò che credevamo ci fosse dovuto. È la sensazione di tradimento che proviamo
quando gli altri deludono le attese che avevano creato in noi – una cosa antica
quanto l’uomo»[1].
Anche le indagini
filosofiche intorno al tema della giustizia partono dall’indignazione di fronte
all’ingiusto, da quel senso universale di ingiustizia
la cui ampiezza, scrive Ricoeur, è stupefacente «se misurata all’ampiezza delle
nostre esitazioni di adulti quando veniamo intimati a pronunciarci sul giusto
in termini positivi»[2]. In effetti, mentre ognuno
di noi, se interrogato, sarebbe in grado di fornire esempi di
ingiustizia e di abbozzare un concetto di ingiustizia, non lo sarebbe
altrettanto se richiesto di definire cosa sia la giustizia e cosa sia un atto
giusto[3].
L’ingiustizia, da
Platone in poi, è stata considerata come lo sfondo su cui rappresentare e
costruire il concetto di giustizia[4].
È Aristotele, nel quinto libro dell’Etica
Nicomachea, che fornisce il modello metodologico di indagine
della giustizia, cominciando a trattare l’ingiustizia come l’opposto della
giustizia e l’atto ingiusto come l’opposto dell’atto giusto[5]. La giustizia è una virtù,
l’ingiustizia un vizio, uomo ingiusto è chi viola la
legge, giusto chi la rispetta, ingiusto è l’avido, che vuole più di ciò che gli
spetta, giusto è l’uomo equo, che non prende più di ciò che gli è dovuto[6]. Da una lunga e
consolidata tradizione di pensiero, l’ingiustizia è stata interpretata come
l’assenza di giustizia, a cui si dedica uno sguardo
teoricamente frettoloso per rivolgere l’attenzione alla definizione della
giustizia e del giusto. ‘Giustizia’ e ‘ingiustizia’ sono
state definite come termini mutuamente esclusivi: se vi è l’una, non vi è –
perché non può necessariamente esservi – anche l’altra; per questa ragione,
nell’elaborazione concettuale della giustizia, l’ingiustizia non ha spazio. È
come se l’ingiustizia fosse la scala che usiamo per giungere a definire la
giustizia, ma della quale dobbiamo sbarazzarci per poterla concettualizzare[7].
Questo impianto
metodologico che ha guidato la ricerca della giustizia nella nostra cultura
filosofica, scrive Shklar, ha generato una forma di passiva accettazione delle
ingiustizie generate all’ombra di istituzioni e norme
coerenti con i principi di giustizia accolti dalle nostre società. È come se
questo metodo, che ha prodotto i suoi frutti eccellenti nella storia,
consentendo la costruzione di ordinamenti fondati sulla cultura dei diritti,
avesse trascurato un aspetto essenziale, che riguarda il perdurare delle forme di ingiustizia all’interno dei nostri sistemi sociali[8].
L’ingiustizia infatti non si sviluppa – almeno non solo – in un
ambito amorale e pregiuridico, ma prospera all’interno di società «bene
ordinate», governate in base ai principi costituzionali e ai diritti
fondamentali, talvolta generata proprio da quelle istituzioni e da quegli
operatori che hanno il compito di eliminare l’ingiustizia[9]. La ricorrente risposta
alla domanda del perché, nonostante tutti i nostri sforzi, l’ingiustizia attraversi la nostra esperienza quotidiana, è che il modello
di giustizia teorizzato non è stato ancora
realizzato e che lo scarto tra un’idea di giustizia e la sua concreta
realizzazione è incolmabile quanto la distanza platonica tra il mondo delle
forme perfette e il nostro[10].
Eppure, uno sguardo
più attento alla costante presenza dell’ingiustizia e alle sue forme potrebbe
offrire nuove vie alla ricerca del giusto e alla riduzione dell’ingiusto.
Invece che guardare all’ingiusto come a un errore, un vizio, una mancanza, che
il giusto corregge e colma, si potrebbe cominciare a considerarlo come una modalità non del tutto congruente con i nostri modelli di
giustizia distributiva, rappresentati negli stati costituzionali. Considerare
con rinnovata attenzione l’ingiustizia e le sue forme ci spinge
a chiedere se le risposte di giustizia affidate alle nostre istituzioni siano
adeguate alle nuove ingiustizie dell’era postmoderna.
Le pagine che
seguono vogliono offrire una breve introduzione al problema, a
partire dalle riflessioni di Elisabeth Wolgast e Amartya Sen. Pur
collocandosi in differenti prospettive teoriche, entrambi sostengono il primato
concettuale e metodologico dell’ingiustizia nella ricerca del giusto,
criticando le teorie della giustizia basate sulla formula del contratto
sociale, che affidano alle istituzioni la realizzazione del giusto[11]. In questo modello, il
cui massimo teorico contemporaneo è John Rawls, le persone vengono
concepite come eguali, autonome e indipendenti, in grado di operare delle
scelte e di rivendicare i propri diritti. Sebbene il modello contrattualistico
abbia grandi meriti, promuovendo le libertà fondamentali, riconoscendo i
diritti dell’uomo, introducendo le garanzie a tutela dei diritti[12], sia Wolgast che Sen lo criticano perché assume come
premessa implicita il fatto che tutti siano dotati delle medesime capacità e in
grado di far valere i propri diritti, dimentica i bisogni di cura che
caratterizzano gran parte della nostra vita, almeno il suo inizio e la sua
conclusione, ignora i soggetti vulnerabili, enfatizza i diritti e trascura le
responsabilità, alimentando le ingiustizie.
C’è una certa
seduzione, scrive Elisabeth Wolgast, nel poter immaginare la giustizia come una
nozione morale primitiva, un ideale al quale rapportiamo le azioni malvagie per
qualificarle come ingiuste. L’ingiustizia viene
rappresentata come un discostarsi da quell’ideale, come la violazione delle
regole di un sistema che la giustizia ripristina, riportando in equilibrio i
piatti della bilancia. Tuttavia questo approccio alla
giustizia è sbagliato, e quello stato di equilibrio che identifichiamo con uno
stato di cose ideale, nel quale non ha ancora fatto irruzione la malvagità, si
chiama «innocenza», non giustizia. Sia l’innocenza che
la giustizia sono nozioni opposte all’ingiustizia, ma la prima ci indica ciò
che non deve essere fatto, ciò che non dovrebbe accadere, senza mostrarci una
guida per l’azione, la seconda ha il compito di dare le risposte, riparare i
torti, approntare misure che proteggano la vita delle persone[13].
Riparare non
significa cancellare ciò che è avvenuto, ripristinare un equilibrio
antecedente, come se l’intervento correttivo potesse riportare a quello stato
di cose ideale che chiamiamo ‘giustizia’. Il tempo
della giustizia è sempre il dopo, che
il torto, il delitto, il danno è stato compiuto o denunciato. Per Wolgast
esiste una «cronologia logica», un ordine concettuale
definito, in cui all’ingiustizia segue la giustizia come risposta al bisogno di
riparazione[14].
Questa tesi forse ci
aiuta a capire perché Giotto, nel rappresentare la giustizia e l’ingiustizia
nella Cappella degli Scrovegni, dipinga la prima priva della bilancia con cui
nell’immaginario collettivo questa viene presentata[15]. Una volta che
l’ingiustizia sia stata commessa, i piatti della bilancia non potranno tornare
in equilibrio: la giustizia non annulla e
non cancella
l’ingiustizia, ma la riafferma necessariamente[16]. Per questo potremmo dire
che la giustizia ‘contiene’ l’ingiustizia, nel senso che la comprende e la limita[17].
Wolgast propone
quindi di invertire l’ordine concettuale, assegnando all’ingiustizia la
priorità logica sulla giustizia, la cui elaborazione dipende dal modo in cui
l’ingiusto viene percepito e riconosciuto, dalle
condizioni storiche e culturali in base alle quali esprimiamo un giudizio di
ingiustizia. La nostra elaborazione del giusto dipenderà da queste condizioni
nelle quali sviluppiamo l’indignazione verso il male commesso, che
identifichiamo con l’ingiustizia.
Tuttavia la tesi non
riesce ad evitare il rischio di circolarità insito in
una teoria che assegni priorità logica ad uno dei termini della coppia di
opposti: in base a quali criteri definiamo e riconosciamo l’ingiusto se non
abbiamo un modello di giusto dal quale la nostra esperienza si discosta? E se
abbiamo un modello di giustizia, come abbiamo fatto a costruirlo senza passare
per l’esperienza dell’ingiustizia?[18] Si tratta, a giudizio di
Wolgast, di una falsa circolarità, determinata dal fatto che continuiamo a
identificare la giustizia come un ideale e l’ingiustizia come il suo opposto: i
due concetti, invece, sono complementari e andrebbero concettualizzati secondo
un preciso ordine.
L’ingiustizia nasce
dall’esperienza del male, di fronte al quale invochiamo una risposta[19]. Questa è la richiesta di giustizia che, sebbene appaia
chiara nella sua esigenza del rimedio, tuttavia appare sfumata e indeterminata
nell’indicazione di quale tipo di rimedio si chiede; per questo la giustizia,
intesa come il contenuto della risposta al male, appare priva di una forma
precisa e di contenuti definiti; questi cambiano di
volta in volta, in base alle circostanze e alle condizioni delle persone[20].
Se la giustizia
appare vaga e indeterminata, l’ingiustizia ha i contorni più netti. Nella
ricostruzione di Wolgast, l’ingiustizia è l’esperienza del male che subiamo o a cui assistiamo[21]. È una reazione
soggettiva ed emotiva che coincide con un sentimento morale: la denuncia
dell’ingiustizia si accompagna sempre all’indignazione, spesso alla rabbia, di
certo a un coinvolgimento personale[22].
Tuttavia, questa reazione non è innata, ma appresa con
l’educazione che abbiamo ricevuto, non deriva da definizioni astratte e
concettuali, almeno non solo, ma dallo sviluppo di pratiche morali condivise,
che ci permettono ad esempio di esprimere una condanna universale della
schiavitù, della sottomissione delle donne sancita per legge in numerosi stati,
del sistema delle caste in India, senza aver necessariamente elaborato un
sistema di principi in base al quale esprimiamo la nostra indignazione[23]. Dividere le pratiche
dalle credenze che queste esprimono non è un utile
esercizio teorico per la ricerca sulla giustizia.
L’analisi di Wolgast
presenta alcuni problemi, legati all’identificazione dell’ingiustizia con
l’esperienza del male e ai modi in cui possiamo articolare una risposta a
questo.
Se il male è sempre
ingiusto, l’ingiustizia non è sempre, necessariamente, il male. Distribuire
fette di torta diseguali può suscitare il senso di ingiustizia
nei bambini che assistono alla divisione, ma non significa che sia
necessariamente un male assegnare la fetta più grande al bambino più affamato.
L’ingiustizia può avere gradi e forme molto diverse, legate
alle espressioni soggettive e alle reazioni emotive delle persone che la
denunciano, di cui Wolgast non sembra tenere conto adeguatamente. In
particolare la sua analisi non fornisce alcun criterio per una costruzione
intersoggettiva dell’ingiustizia che appare affidata a un radicale
soggettivismo.
Allo stesso modo,
appare problematica la forma indeterminata e aperta della giustizia che viene affidata alla pluralità delle risposte che escogitiamo
di fronte all’esperienza del male. La giustizia consiste nella denuncia
dell’ingiustizia, nella condanna morale del male e dell’ingiusto. Tuttavia
l’analisi della giustizia si arresta alla denuncia e alla domanda di giustizia,
individuando proprio in quest’ultima il concetto di giustizia. L’azione che
segue a tale condanna non appare utile a delineare una
teoria della giustizia, né Wolgast sembra interessata alla sua elaborazione.
Ciò che manca in
questa ricostruzione è il ruolo del diritto nell’elaborazione della risposta
all’ingiustizia. Se l’affermazione dei
diritti può essere considerata una risposta insufficiente alle ingiustizie, per
la loro inefficacia e per l’uso strumentale che talvolta ne viene
denunciato, il diritto, inteso come ordinamento giuridico, e come mezzo che fa
valere i diritti, è lo strumento attraverso il quale sono state articolate le
risposte all’ingiustizia [24].
Ma Wolgast nel suo discorso sulla giustizia si sofferma
proprio sui limiti che la teoria dei diritti, derivata dal modello atomistico e
individualistico, mostra nella riduzione dell’ingiustizia.
Se da un lato i
diritti rappresentano il fondamento della moderna concezione di dignità umana,
per la capacità che assegnano a ciascuno di rivendicare i benefici ad essi associati, dall’altro non rappresentano uno
strumento efficace per affrontare alcuni tipi di ingiustizia[25].
Wolgast si riferisce
alle ingiustizie che nascono dall’incapacità di rivendicare i diritti da parte
di chi, pur essendone titolare, come i malati e i bambini, non si trova in
quelle condizioni di autonomia e indipendenza che rappresentano uno degli
assunti delle moderne teorie della giustizia.
Per Wolgast il
modello atomistico e contrattualistico che plasma la nostra concezione dei
diritti riduce le relazioni tra le persone a una forma di contratto tra eguali,
ignorando e lasciando ai margini del diritto gli stati di dipendenza e di
bisogno. Il linguaggio dei diritti assegna al titolare dei diritti il potere di
rivendicare ciò che gli è dovuto, ma non tutti,
secondo Wolgast, sono in grado di parlare il linguaggio formale dei diritti:
non il paziente nel momento in cui è debole e bisognoso di cure, non il bambino
nel momento in cui dipende dagli adulti. “Ad una
persona dipendente e sofferente serve un trattamento responsabile da parte di
altri, proprio mentre essa è incapace di esigere alcunché”[26]. Bisogna ripensare quindi
la relazione tra la nostra concezione dei diritti e la varietà dei rapporti di
cura e dipendenza, delle situazioni di vulnerabilità a cui
una teoria della giustizia basata sul linguaggio dei diritti non è in grado di
offrire risposte, e da cui, secondo Wolgast, scaturiscono ingiustizie.
L’analisi di
Wolgast, che in questa sede non possiamo approfondire, ci induce a guardare
l’ingiustizia come un elemento permanente del paesaggio della giustizia. Più
che considerare l’ingiusto come un momento teorico transitorio, il cui
superamento è necessario per giungere al giusto ideale, o come un errore
nell’esecuzione del disegno della perfetta giustizia, potremmo ipotizzare
l’ingiusto come un elemento costitutivo e necessario della risposta di
giustizia.
Prendere sul serio
la domanda del perdurare dell’ingiustizia offre l’opportunità di volgere uno
sguardo più attento ai nostri modelli istituzionali e alle loro inadeguatezze.
Il ‘luogo’ dell’ingiustizia, tuttavia, non sono le
istituzioni e i principi, ma le persone e le loro risposte morali[27]. Per questo riflettere
sull’ingiustizia richiede un nuovo sguardo al comportamento delle persone,
diseducate alla virtù della giustizia, occultata da una malintesa cultura dei
diritti[28].
Questo non significa
che le persone ignorino cosa si intenda con ‘giustizia’.
La definizione aristotelica della virtù generale della giustizia come
osservanza delle norme viene ancora oggi ripetuta come prima accezione di
giustizia[29].
Ma dire «quello è un uomo giusto» suona anacronistico,
si preferisce piuttosto dire che «è corretto» perché rispetta le regole,
indicando solo un aspetto, e non il più importante, dell’insegnamento
aristotelico, secondo cui si diventa giusti compiendo cose giuste, con la
giusta disposizione d’animo. Ciò che Aristotele mette in luce è proprio la
qualità relazionale della giustizia, il cui senso si definisce nell’azione
verso gli altri[30].
Oggi la giustizia non è più considerata come una virtù del cittadino, ma
piuttosto come una qualità delle istituzioni, che deriva da un accordo o contratto tra i membri di una collettività, e si realizza
attraverso principi e regole[31].
John Rawls, il
massimo teorico contemporaneo della giustizia, apre il suo libro più famoso
scrivendo che «La giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali,
così come la verità lo è dei sistemi di pensiero»[32].
Secondo Rawls, La società giusta è quella in cui tutti abbiamo diritto al più
ampio sistema di libertà, compatibile con quelle di tutti gli altri, e
l’eventuale trattamento disuguale al quale ognuno di noi può essere sottoposto
deve essere giustificato dal maggior vantaggio che potrebbero trarne i più
svantaggiati.
Egli formula due
principi: «Primo principio –
“Ogni persona ha un uguale diritto al più ampio sistema totale di eguali
libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per
tutti.
Secondo
principio – Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a)
per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il
principio di giusto risparmio, e b) collegate a
cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di eguaglianza di
opportunità».
A questi principi
seguono le regole di priorità: in base alla prima la libertà può essere
limitata solo dalla libertà stessa; in base alla
seconda l’equa opportunità precede il principio di differenza. Egli conclude enunciando La
concezione generale della giustizia: «Tutti i beni sociali principali –
libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi per il rispetto di sé –
devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale
di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno avvantaggiati»[33].
Il principio di
libertà e il principio di differenza vengono scelti
dalle persone in un ipotetico stato di natura che Rawls chiama «posizione
originaria»[34], in cui ciascuno sceglie i principi della società giusta in
una condizione di ignoranza, che non gli permette di sapere quale sia la
propria età, genere, condizione sociale, grado di istruzione ecc. La giustizia
delle istituzioni è garantita dalle norme che le regolano, ispirate dai
principi di libertà ed eguaglianza. Sebbene la teoria di Rawls rappresenti il
modello indiscusso di riferimento delle nostre società, per alcuni critici trascura proprio
l’aspetto della virtù, assegnando ai comportamenti delle persone un ruolo
marginale e secondario[35].
Amartya Sen ritiene
che la teoria di Rawls si preoccupi di individuare l’assetto sociale ideale,
concentrandosi sulle istituzioni di una società bene ordinata, ma trascuri il
modo in cui le persone tradurranno nella loro vita reale i principi e le regole
dettate dalle istituzioni[36].
Ciò che Rawls assume
nella sua teoria è che le persone siano agenti ragionevoli, in grado di
elaborare schemi di comportamento che garantiscono il funzionamento delle
istituzioni prescelte[37].
Sen sostiene che una teoria della giustizia dovrebbe preoccuparsi della vita
concreta delle persone e di come i principi della giustizia e le istituzioni ne
migliorino effettivamente la qualità[38].
Una teoria della giustizia deve sempre tener conto dell’ingiustizia all’opera
nelle nostre società e prevedere modi per ridurla e incrementare la giustizia,
oltre che preoccuparsi di descrivere una società perfettamente giusta[39].
Per chiarire il suo
proposito, Sen ricorre a due concetti elaborati dall’antica giurisprudenza
indiana, espressi dai termini nīti e nyāya. In sanscrito classico entrambi
significano ‘giustizia’: mentre il primo indica ‘conformità’,
‘coerenza’, che può riferirsi «all’adeguatezza di un’istituzione o alla
correttezza di un comportamento» il secondo si riferisce alla giustizia
concretamente realizzata[40].
Le due nozioni sono
differenti ed entrambe necessarie per una compiuta teoria della giustizia. La
prima corrisponde alla giustizia ideale, quella che non contempla nella sua
costruzione l’ingiustizia se non in opposizione alla giustizia; la seconda
corrisponde al giusto, e nasce dalla continua dialettica tra giustizia e
ingiustizia. In base a questa distinzione non apparirebbe
contraddittorio dire che «la nostra giustizia è ingiusta», dove ‘giustizia’ sta
per nyāya. Per spiegare la relazione
tra i due concetti gli antichi giuristi indiani citano la «giustizia
del mondo dei pesci» (matsyanyāya
giustizia concretamente realizzata), in cui il pesce grosso può divorare
impunemente il pesce piccolo, ammonendo che è parte costitutiva della giustizia
degli uomini evitare il matsyanyāya.
Per quanto le nostre istituzioni e i nostri assetti sociali possano essere
coerenti con i principi della giustizia (nīti),
se un pesce grande può continuare a divorare liberamente uno piccolo, il
modello istituzionale è viziato e deve essere ripensato. La realizzazione della
giustizia nel senso di nyaya, afferma
Sen, non consiste esclusivamente in un giudizio sulle istituzioni e sulle
regole che governano una società, ma nel giudizio sulle società stesse[41]. In questo giudizio le istituzioni giocano un ruolo
importante, ma non determinante, sono piuttosto le
pratiche sociali, determinate da ragioni culturali, comportamenti accettati e
incoraggiati, che completano l’opera delle istituzioni.
Le due forme di
giustizia si completano reciprocamente, ma è importante sottolinearne
la differenza. Per esempio incrementare il numero delle scuole pubbliche in
quelle regioni in cui vi è un basso livello di alfabetizzazione
potrebbe essere un importante risultato di giustizia, nīti, ma ciò che sarebbe considerato tale in una prospettiva nyāya sarebbe l’effettivo raggiungimento
dell’istruzione da parte dei ragazzi e delle ragazze e della libertà che da
questa deriva.
La giustizia sociale
si coglie considerando le pratiche sociali, in cui le istituzioni hanno un
ruolo importante, ma non determinante per stabilire il
livello di giustizia sociale.
La grande tradizione
filosofica politica moderna, nata dal contrattualismo di Hobbes, che annovera
tra i suoi massimi teorici Locke, Rousseau e Kant, fino a Rawls, può essere
interpretata in termini di nīti,
perché si concentra sui caratteri della giustizia perfetta, anziché considerare
le società reali, per riconoscere nel confronto tra queste, l’alternativa meno ingiusta. Questo insieme di teorie, che Sen
chiama «istituzionalismo trascendentale», non tiene in
considerazione quegli elementi non istituzionali, come il comportamento delle
persone e le loro interazioni sociali, da cui dipende la giustizia sociale[42].
Vi è un altro filone
teorico a cui Sen s’ispira, che si oppone al filone
contrattualista della giustizia sociale, rappresentato principalmente da Adam
Smith, ma anche da Bentham, Marx, Wollstonecraft e Mill, in cui la ricerca
sulla giustizia si basa su una comparazione tra le concrete realizzazioni
sociali, «frutto delle istituzioni reali, dei reali comportamenti e altri
fattori»[43]
e sui modi per ridurre l’ingiustizia presente in esse.
Nonostante le radicali differenze tra gli esiti derivanti da queste teorie, in
esse l’ingiustizia rappresenta una contraddizione teorica necessaria e feconda
per la realizzazione della giustizia.
Ma cosa significa
giustizia realizzata? Corrisponde a una registrazione fattuale, una mera
valutazione dei risultati delle azioni? Ci possiamo accontentare di una
giustizia basata sui risultati delle azioni che prescinda dalle intenzioni e
dalle circostanze storiche in cui le persone operano? Sen propone quindi un “comprehensive concept” di giustizia
realizzata, che preveda, oltre alle regole e principi, la valutazione delle
pratiche che da questi principi derivano. È in essa che cogliamo l’importanza
dell’ingiustizia, la cui presenza impone una continua ridefinizione delle
pratiche della giustizia.
La giustizia
realizzata corrisponde a un esito «comprensivo» che deve essere distinto dal
concetto di «esito conclusivo». Mentre quest’ultimo si
limita a prendere in considerazione il mero dato che risulta
dal processo di giustizia, il primo considera come parte della giustizia i
processi attraverso i quali quel risultato è stato raggiunto[44]. In
base a questo criterio, l’esito finale di un processo che giudicheremo
come giusto o ingiusto non può ignorare il ruolo che «le operazioni compiute,
le operazioni coinvolte, i processi impiegati» hanno avuto nel suo svolgimento[45]. Sen ci mostra che la
giustificazione teorica della giustizia non è indipendente dalla sua
realizzazione pratica, e che le forme della giustizia non
corrispondono a un modello ideale, ma alle risposte concrete offerte
alla domanda di giustizia.
Nella definizione
dell’ingiustizia le emozioni soggettive giocano un ruolo determinante[46]. Se tutti siamo disposti
a riconoscere che è ingiusto lo sfruttamento del lavoro minorile e che le donne
in alcuni Stati non possano avere la patente di guida,
allo stesso tempo siamo disposti a riconoscere che in alcuni casi ciò che è
considerato un’ingiustizia per alcuni, per altri non lo è affatto.
Basti pensare agli
scritti di Wollstonecraft sul diritto di voto per le donne e al dibattito
nell’Inghilterra vittoriana, per rendersi conto che il sentimento di ingiustizia veniva manifestato equamente da entrambe le
parti[47]. Come dice Cahn,
l’ingiustizia è un sentimento passionale, nutrito dall’indignazione, dall’ira,
dalla frustrazione e dalla ribellione, quindi è una percezione soggettiva,
situata e contestualizzata[48].
Possiamo obiettare che il relativismo dell’ingiustizia è mitigato dalla morale positiva[49] e
che nelle nostre elaborazioni soggettive esprimiamo credenze condivise, valori
appresi attraverso l’educazione, che limitano il relativismo del senso di
ingiustizia e lo convogliano verso un uso condiviso del termine ‘ingiustizia’[50]. Questo
aspetto tuttavia non elude il problema di una nozione affidabile
dell’ingiustizia. Il senso di ingiustizia corrisponde
sempre a una nostra personale interpretazione della morale condivisa. Cos’è dunque che ci permette di qualificare come ingiusto un
comportamento, un’azione, un atto? Con quale strumento superiamo il relativismo
sacrosanto dell’ingiustizia?
Riferirci al diritto
dello Stato che determina i criteri del giusto e dell’ingiusto orientando i
comportamenti sociali non elimina il problema. Questo
argomento mostra i suoi limiti nel momento in cui, nell’assetto istituzionale
che riteniamo coerente con la nostra concezione della giustizia irrompono
denunce di ingiustizia; quando, all’ombra del nostro sistema costituzionale si
consumano indisturbate nuove ingiustizie che mettono in discussione il nostro
assetto.
La messa in
discussione è ciò che generalmente definiamo come
‘conflitto’[51].
Il conflitto è un
elemento che caratterizza l’espressione dell’ingiustizia, si protesta per
qualcosa e contro qualcuno, si discute e si litiga per affermare ragioni e
pretese, per far prevalere credenze e visioni morali, per affermare principi
politici. Il conflitto è sempre situato, personale e appassionato, proprio come
l’ingiustizia. Tuttavia il conflitto non fa necessariamente parte della
definizione di ingiustizia. Possiamo esprimere un
giudizio di ingiustizia senza dover discutere con
qualcuno che non la pensa allo stesso modo; ad esempio potremmo affermare che è
ingiusto che interi popoli siano costretti a fuggire dai propri paesi per non
morire sotto le bombe, senza entrare in conflitto con altre persone. Viceversa
è più problematico sostenere che della definizione di
conflitto non faccia parte l’ingiustizia, perché non esiste conflitto in cui
almeno uno dei contendenti non denunci un’ingiustizia, intesa come offesa,
azione malvagia, turpe o scorretta.
Per questo potremmo
dire che il sentimento dell’ingiustizia caratterizza la dinamica del conflitto,
sebbene quest’ultima non sempre caratterizzi l’espressione dell’ingiustizia.
Il conflitto è
sempre presente nelle nostre vite, sappiamo bene che non si tratta di un
accidente, di un’eventualità, ma di un elemento che ci costituisce come animali
sociali. I sociologi descrivono il conflitto come quel fenomeno che definisce
l’identità di un individuo o di un gruppo rispetto all’ambiente circostante[52]. I biologi lo descrivono come un meccanismo che ci permette
di affrontare i cambiamenti e adattarci ad essi[53]. Per questo il conflitto
è un’esperienza universale, così come la paura del conflitto è un sentimento
che ci accomuna per la capacità devastante che gli riconosciamo. Entrare in
conflitto con le altre persone, sebbene spesso sia un’esperienza dolorosa, ci
spinge a confrontare idee, pretese, domande. La gestione e il superamento del
conflitto generano nuovi equilibri personali, sociali e politici. Ogni mamma sa
quanto sia importante che i propri figli discutano e litighino, perché devono
imparare a fare spazio alle ragioni degli altri e ad apprendere l’arte della
pace e del compromesso che dà equilibrio alle nostre vite. Imparare a gestire i
conflitti significa imparare a crescere, per un bambino come per uno Stato[54]. «In
un ordine sociale e nell’esperienza di un individuo, scrive Hampshire, uno
stato di conflitto non è il segno di un vizio, di un difetto o di un
malfunzionamento. Non è una deviazione dallo stato normale di una città o di
una nazione, e non è una deviazione dal corso normale dell’esperienza personale»[55].
Il conflitto è il
banco di prova dell’ingiustizia, è il luogo in cui le opposte pretese,
rivendicazioni, richieste si affrontano, in cui i sentimenti di
ingiustizia si traducono nella richiesta di giustizia, in cui vengono
cercate quelle faticose risposte alla malvagità e stoltezza delle azioni umane.
La gestione del conflitto è ciò che ci permette di stabilire le condizioni per
il suo superamento. In breve, la gestione del conflitto definisce le condizioni
di giustizia, il suo superamento è ciò che ci permette la riduzione
dell’ingiustizia. La gestione e la risoluzione del conflitto corrispondono
nell’ordine alla costruzione della giustizia e alla risposta all’ingiustizia. È
qui che cominciamo ad elaborare la giustizia, è qui
che cominciamo a sperimentare il diritto.
«La giustizia
giuridica non è quella delle istituzioni e delle loro procedure, ma è quella
del loro risultato, cioè del caso concreto. Non bastano regole e procedure, di
per sé giuste o corrette se esse non rispondono alle richieste di giustizia che
provengono dai casi concreti, dai singoli individui e dalle particolari
formazioni sociali. Pertanto nel diritto, a differenza della
politica (almeno se intesa nei termini rawlsiani), il processo di applicazione
delle regole e delle procedure fa parte dell’essere stesso del diritto»[56]. Queste parole di Viola
ci introducono alla giustizia del diritto. Il diritto infatti
ha il compito di ‘mettere in scena’, di rappresentare, secondo una forma, e
quindi secondo una regola, il conflitto. L’insieme delle regole definisce lo
spazio del conflitto, lo separa dal mondo ordinario delle relazioni sociali, ne
delimita la forza e la violenza. Per questo la risoluzione del conflitto,
intesa come ‘soluzione’ che placa il senso di ingiustizia
che ha dato luogo allo scontro delle pretese, non è l’obiettivo primario del
diritto. Il suo primo obiettivo è gestire, trattare il conflitto,
neutralizzando la sua potenza disgregante e rappresentandolo secondo un nuovo
linguaggio, quello delle regole. Il ruolo del terzo nel conflitto è quello di interporsi, installarsi al centro di un rapporto
di forza per ristabilire la «giusta distanza fra gli antagonisti delle
divisioni, degli scambi e delle retribuzioni, che la nostra indignazione
denuncia come ingiusti»[57].
Questa terzietà del
giudice – ma potrebbe essere un conciliatore, un arbitro – che potremmo
anche interpretare in senso ampio come mediazione, per il suo stare nel mezzo,
costringe le parti a ridefinire le loro pretese, a giustificarle secondo le
norme che regolano il vivere sociale, a spiegare il loro comportamento e
giustificare le loro azioni, a tradurre in un discorso razionale e ragionevole
la forza e la violenza del conflitto[58].
In tal senso
possiamo dire che tra i compiti essenziali del diritto vi sia il trattamento
dei conflitti[59].
Il trattamento del conflitto equivale al suo inserimento in uno schema
normativo prefissato: una volta che il fenomeno viene
ricondotto all’interno della cornice delle norme giuridiche, sostanziali e
processuali, avviene la trasformazione del conflitto in controversia[60]. Nella stessa definizione
di controversia giuridica è implicata la sua risoluzione: la controversia
è – almeno a partire dall’art. 4 del Code Napoléon – per definizione,
risolvibile. Il diritto infatti garantisce la
conclusione della controversia, istituendo gli strumenti per la sua
risoluzione.
Se possiamo
correttamente affermare che tra le funzioni del diritto vi sia la risoluzione
delle controversie, non possiamo dire altrettanto correttamente che tra le
funzioni del diritto vi sia la risoluzione dei conflitti. L’ingiustizia
denunciata nel conflitto non sempre, anzi raramente, corrisponde
all’ingiustizia denunciata nella controversia. Questo spiega la riluttanza, tra
alcuni sociologi, ad accogliere tra le funzioni del diritto quelle di
risoluzione e composizione dei conflitti, e a preferire quella di gestione e
trattamento dei conflitti. Queste posizioni «trascurano la potenzialità
disgregatrice del diritto»[61] che
interferisce nella dinamica del conflitto, alimentandolo e potenziandolo
attraverso la vicenda processuale. La chiusura del processo origina nuovi
conflitti e nuove occasioni di controversie[62].
Quindi possiamo dire che il processo risolve la
controversia, ma non risolve il conflitto.
Se la decisione del
giudice ha la finalità a breve termine di porre fine
all’incertezza, di ricostruire un ordine, a lungo termine dovrebbe esplicare
un’altra funzione, quella di contribuire alla realizzazione della pace sociale
che compone il senso di giustizia.
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This article intends to
provide a brief introduction to the role of injustice in the contemporary
theories of justice. The main theories of justice do not consider injustice as
a subject with theoretical significance, but rather as an essential premise to
understand the concept of justice. In fact, many scholars argue that a closer
look at injustice and its forms is necessary and that an analysis of injustice
that grows in the shadow of the institutions and law could provide useful tools
for its reduction. Elisabeth Wolgast e Amartya Sen in particular criticize those theories (like Rawls's one) which consider
justice as a virtue of institutions rather than a result of people’s behaviour.
Sen distinguishes two
different meanings of ‘justice’ that correspond to two words of the classical
Sanskrit: nity and nyāya. Niti is organisational property, nyāya stands for a more comprehensive concept of
realised justice. Every plausible theory of justice must also take due account
of the realised justice, revealed by the forms of injustice, rather than by the
principles on which our institutions are founded.
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] J. S. Shklar, I volti dell’ingiustizia, Milano, Feltrinelli, 2000 (The Face of Injustice, Yale, 1990), 101.
[2] P. Ricoeur, Il giusto, Torino, SEI, 1998 (Le
Juste, Paris, 1995), 6.
[3] Cfr. J. R. Lucas, On Justice, London, Oxford University Press, 1980, secondo cui
dovremmo adottare un approccio «negativo» nell’elaborazione della giustizia,
studiando i casi in cui protestiamo contro l’ingiustizia. La giustizia è una virtù
fredda e statica, mentre l’ingiustizia è animata dai nostri sentimenti ed è
dinamica, 4-5; per una breve analisi della tesi di Lucas, vedi N. S. Care, Lucas’ on Justice, in Nous,
vol. 17, n. 4 nov. 1983, 689-693; cfr. inoltre M. Ricciardi, Introduzione
a L’ideale di giustizia, cit., VIII
s.
[4] Platone, La Repubblica, (trad. di F. Sartori), Roma-Bari, Laterza, 1997:
«Ebbene, anche per sviscerare con metodo la questione, ti ripeto la domanda di
poco fa, che cosa sia la giustizia rispetto all’ingiustizia» 351a (67), si veda
inoltre 358a; 358b5. Si veda E.A.
Havelock, Dike, la nascita della coscienza, Roma-Bari, Laterza, 1981 (The Greek Concept of Justice from its Shadow
in Homer to its Subtance in Plato, Cambridge, Mass. 1978), che nota
l’impiego del termine ‘ingiustizia’ nel momento in cui Platone passa da una
definizione procedurale, ereditata dalla tradizione omerica ed esiodea (ciò che
la giustizia fa) ad una definizione
concettuale (ciò che la giustizia è),
379 ss.
[5] Aristotele, Etica Nicomachea, Opere, vol. 7, (trad. di A. Plebe), Roma-Bari,
Laterza, 1983, «Vediamo dunque che tutti vogliono indagare quella disposizione
d’animo per cui tutti sono inclini a compiere cose giuste e per la quale
operano giustamente e vogliono le cose giuste: altrettanto è dell’ingiustizia,
per la quale gli uomini commettono ingiustizie e vogliono le cose ingiuste»,
1129a, (105).
[6] Aristotele, Etica Nicomachea, cit.: «Vediamo dunque in quanti sensi si dice che
uno è ingiusto. Sembra che ingiusto sia tanto il trasgressore della legge,
tanto chi vuole avvantaggiarsi, quanto l’iniquo, per cui è evidente che anche
il giusto sarà sia il rispettoso della legge sia l’equo» 1129a, (106). M. Villey, Le droit et les droits de l’homme,
Paris, Presses Universitaires de France, 1983, 42 s.; B. Williams, La giustizia come virtù, in Id.,
Il senso del passato. Scritti di storia della filosofia, Milano,
Feltrinelli, 2009, 226-237 (Justice as a
Virtue, in A. Oksenberg Rorty
(ed.), Essays on Aristotle’s Ethics,
Berkeley-Los Angeles, UCP, 1981, 189-199); G.
Zanetti, La nozione di giustizia
in Aristotele, Bologna, Il Mulino, 1993, 22 ss. Sull’origine dell’idea di
giustizia e il suo sviluppo fino alla tragedia, si veda F. Todescan, Giustizia
e destino: dalla filosofia presocratica alla tragedia attica, in F. Bombelli, A. Mazzei (a cura di) Dike Polipoinos. Archetipi di giustizia fra
tragedia greca e dramma moderno, Padova, CLEUP, 2004, 21-40.
[7] Il
riferimento è al noto passo di L.
Wittgenstein, a conclusione del Tractatus,
(6.54): «Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende,
infine le riconosce insensate, se è salite per esse – su esse – oltre esse.
(Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito.) Egli deve
superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo», L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, (trad. di A.
G. Conte), Torino, Einaudi, 1964 (Tractatus
logico-philosophicus, London, Routledge and Kegan Paul, 1961; Notebooks 1914-1916, Oxford, Basil Blackwell,
1961), 82.
[8] J. S. Shklar, I volti dell’ingiustizia, Milano, Feltrinelli, 2000 (The Face of Injustice, Yale, 1990), 30.
[9] Cfr. E. Heinz, The Concept of Injustice, New York, Routledge, 2013, il quale
sostiene che l’ingiustizia, interpretata dalla concezione classica della
giustizia come il suo opposto, ne è, almeno in gran parte, il prodotto,
derivato dai caratteri assegnati alla giustizia dalla tradizione filosofica
occidentale, da Platone a Rawls: «I shall
argue, however, that the traditional binarism tells us less about injustice
than either our institutional practices or our programmatic theories have
generally assumed. We overlook the rich and the complexity of injustice, we impoverish our
understanding of it, when we instinctively obey the arbitrary dictates of
etymology, theorising injustice as a sheer negation of something else», 6.
[10] Si vedano le
riflessioni di E. Opocher, Analisi dell’idea di giustizia, Milano,
Giuffrè, 1977, sui limiti delle visioni «platonizzanti» della giustizia e la riaffermazione
della storicità dell’esperienza in base alla quale elaboriamo l’idea di
giustizia, 14-15.
[11] A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, Mondadori, 2010 (The Idea of Justice, Pengouin Books, 2009), 23.
[12] E. Wolgast, “Il modello atomistico
[13] Cfr. E. H. Wolgast, La grammatica della giustizia, Roma, Editori Riuniti, 1991 (The Grammar of Justice, Cornell
University, 1987), 128 ss.
[14] E. Wolgast, La grammatica della giustizia, cit., 129: «Ed è questa la mia tesi:
la giustizia non è una nozione originaria dalla quale discende l’ingiustizia: è
vero il contrario, e perciò è tanto difficile definire l’ingiustizia». Sul
primato concettuale dell’ingiustizia si veda anche E. M. Cahn, The Sense
of Injustice, New York, New York University Press, 1949, che distingue il
senso dell’ingiustizia dall’ingiustizia in sé. È solo in base a questo, che può
essere reale o immaginato, che possiamo stabilire un primato concettuale della
denuncia dell’ingiusto sulla ricerca del giusto (13 s.).
[15] Cfr. le osservazioni
di Shklar, I volti dell’ingiustizia, cit., 122 ss.; si veda l’ampia ricerca di
J. Resnik e D. Curtis, dedicata all’iconografia e
all’architettura della giustizia, Representing
Justice: Invention, Controversy and Rights in City-State and Democratic
Courtrooms, New Haven, Yale University Press, 2011. Cfr. inoltre G. Mannozzi, La giustizia senza spada, Milano, Giuffrè, 2003, 3 ss., a cui si
rinvia per la bibliografia iconografica sulla giustizia.
[16] Cfr. F. Stella, La giustizia e le ingiustizie, Bologna, Il Mulino, 2006, cit.; per
un commento alle tesi di Stella M.
Barberis, Il primato
dell’ingiustizia, in Ragion Pratica,
2008, n. 1, 227-230.
[17] Cfr. E. Opocher, Analisi dell’idea di giustizia, cit., che sottolinea il carattere
drammatico della stessa idea di giustizia attraverso le sue contraddizioni:
«Essa, infatti, non può affermarsi senza negare, esaltare senza comprimere,
salvare senza perdere», 15.
[18] Sul problema della
circolarità, con particolare riferimento alla teoria di Amartya Sen, cfr. E. Beerbohm, The conceptual Priority of Injustice, in Jurisprudence, 2014, 5-1, 329-343.
[19] H. Hoffman, Il diritto e il giusto: la questione della giustizia, in Filosofia politica, 2001, n. 1, 57-67,
«[…] tale giustizia è il prodotto dell’esperienza originaria dell’ingiustizia,
cioè di concetti generali senza fondamento, di violazioni e delusioni; in
particolare è il prodotto di esperienze di abuso della forza e del diritto»
(59).
[20] Per un’analisi
antropologica del tema, cfr. L. Nader:
«[…] per quanto l’anelito di giustizia sia universale, il significato che le è
attribuito varia a seconda dei diversi contesti culturali e sociali, e persino
all’interno di uno stesso contesto socio-culturale, come nel caso di una
società gerarchizzata e stratificata. Per questo la concezione di della
giustizia derivante dal pensiero degli antichi Greci, incentrata
sull’uguaglianza e l’armonia, può sembrare una bestemmia ai coreani, presso i
quali la vita sociale è strutturata verticalmente sulla base di un esplicito
rifiuto dell’idea di intrinseca uguaglianza di tutti gli uomini», Giustizia, diritti umani e sentimento
d’ingiustizia, in Antropologia,
2008, n. 11, 106-124 ( 110).
[21] E. Wolgast, La grammatica della giustizia, cit., 185 ss.
[22] Cfr. E. Cahn, The Sense of Injustice, cit., il quale propone una nozione
psicologica dell’ingiustizia, affermando che ha un contenuto emozionale, perché
esprime un coinvolgimento personale che implica una reazione, a differenza
della giustizia il cui contenuto è razionale, astratto e evoca un atteggiamento
passivo, 24.
[23] Vicina alla tesi di
Wolgast è quella espressa da S.
Hampshire, Non c’è giustizia senza
conflitto, cit., che sostiene il primato dell’ingiustizia, fondata sul
sentimento morale e la giustizia come il risultato della risoluzione dei
conflitti, 31-32.
[24] Zagrebelsky,
Diritti per forza, Torino, Einaudi, 2017, «Ecco
qua la questione: i diritti non come protezione contro le ingiustizie, ma al
contrario, come legittimazione delle ingiustizie», 6; cfr. inoltre M. Villey, Le droit et les droits de l’homme, Paris, P.U.F.,
1983. Sulla relazione tra concezioni della giustizia e teorie dei diritti si
veda I. Trujillo, che affronta il
tema in relazione al problema della giustizia globale,
Giustizia globale. Le nuove frontiere
dell’uguaglianza, Bologna, Il Mulino, 2007, 104 ss.
[25] Cfr. J. Feinberg, The Nature and value of Rights, in Journal of value Inquiry, 1970,
n. 4, 243-257; Cfr. T. Casadei, a cura di, Diritti
umani e soggetti vulnerabili. Violazioni, trasformazioni, aporie,
Giappichelli, Torino, 2012, 112 s.
[26] E. H. Wolgast, La grammatica della giustizia, cit., 39.
[27] J. S. Shklar, I volti dell’ingiustizia, cit., 101, «Ma che cos’è il senso di
ingiustizia? Innanzitutto è il tipo particolare di risentimento che proviamo
quando ci vediamo negati i benefici che ci erano stati promessi e quando non
otteniamo ciò che credevamo ci fosse dovuto. È la sensazione di tradimento che
proviamo quando gli altri deludono le attese che avevano creato in noi –
una cosa antica quanto l’uomo».
[28] Sull’ambiguità
insita nei diritti, si veda G. ZAGREBELSKY, Diritti
per forza, cit.: «I diritti hanno un doppio lato,
uno benefico e uno malefico, e il guaio è che il lato malefico sta nelle mani
dei potenti, mentre il lato benefico è spesso in mano agli impotenti. Così i
diritti, invece di servire la giustizia, spesso alimentano
le ingiustizie», 8. Cfr. le osservazioni di E.
CASTRUCCI, Il discorso sui diritti
dell’uomo, in ID., Ricognizioni.
Quattro studi di critica della cultura, Firenze, San Gallo, 2005, 11 ss.; sul rapporto tra diritti e democrazia A. PINTORE, Diritti insaziabili, in ID., Democrazia e diritti. Sette studi analitici,
Pisa, ETS, 2010, 83-99.
[29] Cfr. G. Del Vecchio, La giustizia, Roma, Studium, 1959, 27 ss.
[30] Aristotele, Etica Nicomachea, cit., II (B), 4, 1105a-b: «nel caso delle virtù,
non è sufficiente che alcune azioni siano di una data qualità, che si agisca
con giustizia o moderazione, bensì occorre che chi le compie lo faccia in una
determinata disposizione d’animo, cioè anzitutto che siano compiute
consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di esse stesse, B.
Williams, La giustizia come virtù, in Id.
Il senso del passato, Milano,
Feltrinelli, 2006, 226-237, (Justice as a
Virtue, in Id., Moral Luck, Cambridge (Mass.), Cambridge
University Press, 1998, 83-93).
[31] «[…] la giustizia è
principalmente una qualità delle relazioni tra gli esseri umani, anche qualora
essa trovi espressione preponderante nelle istituzioni statali e
internazionali», così I. Trujillo,
Giustizia globale, cit., 16.
[32] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1991 (A Theory of Justice, Harvard, 1971), 21.
[33] J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., 255.
[34] J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., 28.
[35] Per una lettura
critica della teoria di Rawls, si veda la posizione di M. Sandel, Liberalism
and the Limits of Justice, Cambridge, Cambridge University Press, 1982,
secondo il quale l’individuo di Rawls non ha nulla a che vedere con le persone
reali, 14 ss.; si vedano inoltre le riflessioni di P. Ricoeur, È possibile
una teoria procedurale della giustizia? A proposito di Una teoria della
giustizia di John Rawls, in Id.,
Il giusto, cit., (sulla posizione
originaria 64 ss.); cfr. F. Stella,
La giustizia e le ingiustizie, cit.,
149 ss., che lamenta «La vana ricerca dell’idea di giustizia» nella filosofia
di Rawls: «Cosa c’entrano con i dati della realtà gli ipotetici stati di
natura, gli ipotetici esseri razionali, le persone morali provviste del senso
di giustizia di cui parla Rawls?», 154-155.
[36] A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, Mondadori, 2010 (The Idea of Justice, Pengouin Books, 2009), 79 ss. Sulla
limitazione di Rawls al soggetto ragionevole, cfr. E. Ceva, Giustizia e
conflitti di valori, cit., 114-115.
[37] Attraverso
l’equilibrio riflessivo: «È un equilibrio perché, alla fine, i nostri principi
coincidono con i nostri giudizi; è riflessivo poiché sappiamo a quali principi
si conformano i nostri giudizi, e conosciamo le premesse della loro
derivazione», Rawls, Una teoria della giustizia, cit., 35; sull’equilibrio riflessivo si vedano le
riflessioni di R. Dworkin, Giustizia e diritti, in M. Ricciardi (a cura di), L’ideale di giustizia, cit., 76 ss.; per
un’analisi del soggetto morale teorizzato da Rawls, si veda M. D. Hauser, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, Milano, Il
Saggiatore, 2007 (Moral Minds, New
York, London, Toronto, Sidney, 2006), 48 ss.
[38] A. Sen, L’idea di giustizia, cit., 7.
[39] La critica di Sen
alle teorie deontologiche della giustizia, che egli chiama «trascendentali»,
contrapponendole alle teorie «comparative» si sofferma sulla separazione
concettuale tra i principi generali della giustizia e la loro applicazione. In
questo modo la validità della giustizia appare separata dal giudizio sul giusto
e sull’ingiusto. In tal senso si veda lo studio di A. Ferrara sull’impiego del giudizio determinante e giudizio
riflettente nell’analisi delle teorie contemporanee della giustizia, Giustizia e giudizio, Roma-Bari,
Laterza, 2000, 15 ss., 284 ss. Cfr. le osservazioni di P. Ricoeur sull’impiego del giudizio determinante nel
diritto, Il giusto, cit., 161 s.
[40] A. Sen, L’idea di giustizia, cit., 35.
[41] A. Sen, Global Justice, 37
[42] Sen analizza con
particolare attenzione la proposta di Rawls, sottolineando le due fasi del suo
pensiero, la prima elaborata in Una teoria della giustizia, caratterizzata dall’equità garantita dall’esperimento
del velo d’ignoranza, la seconda in Liberalismo
politico, Torino Edizioni di Comunità, 1999 (Political Liberalism, New York, 1993), in cui Rawls rivede la sua
impostazione iniziale per assegnare un rilievo più marginale alla posizione
originaria, considerata come uno strumento argomentativo tra gli altri. Sen
rileva che in entrambe le fasi dell’elaborazione di Rawls manca lo spazio per
l’ingiustizia, come costante polo dialettico della sua riflessione teorica, e
che la preoccupazione primaria di Rawls è quella di costruire una società
giusta a partire dai principi, dalle fondamenta, che tuttavia non appronta
adeguati strumenti per riparare le crepe che inevitabilmente si formano
nell’edificio perfetto della giustizia istituzionale, L’idea di giustizia, cit., 65 s.; M.
Nussbaum che esprime una posizione vicina a quella di Sen, basata sulle capabilities, che esige una
riformulazione del modello di giustizia basato sul contratto, di cui la teoria
di Rawls rappresenta uno degli esiti più riusciti. Questa, tuttavia, non è in
grado di offrire risposte a problemi fondamentali di ingiustizia, definiti
dalla ‘disabilità’, ‘nazionalità’, ‘appartenenza ad una specie’, Le nuove frontiere della giustizia,
Bologna, Il Mulino, 2007, 43 ss. (New
Frontiers of Justice Disability, Nationality, Species Membership, London,
Cambridge Mass., 2006); si veda M.
Gilardone, L’approccio situato di
Amartya Sen, in A. Sen et Al.,
Sull’ingiustizia, Trento, Erickson,
2013, 42 ss.
[43] A. Sen, L’idea di giustizia, cit., 23.
[44] A. Sen, La giustizia e il mondo globale, in A. Sen et Al., Sull’ingiustizia,
cit., 15 ss.
[45] «Per “esito” si
intende la situazione che risulta da una qualunque decisione che stiamo
prendendo o che abbiamo perso, sia questa un’azione, una norma o una
disposizione». Così A. Sen, L’idea di giustizia, cit., 226.
Ricorrendo al concetto di esito comprensivo, distinto da quello di «esito
conclusivo» Sen rifiuta l’accusa di «conseguenzialismo» che può venir mossa
alla sua teoria, perché il giudizio sulle azioni non dipende esclusivamente
dalle conseguenze, ma ricomprende le modalità attraverso le quali queste
vengono generate.
[46] Si vedano le
riflessioni di A. Incampo che
annovera l’ingiustizia come tra le “emozioni giuridiche fondamentali”, Metafisica del processo, Bari, Cacucci,
2016, 50-51
[47] M.
Wollstonecraft, Sui
diritti delle donne, Rizzoli, Milano, 2008 (A Vindication of the Rights of Woman,
Boston, 1792).
[48] Cahn, The
Sense of Injustice, cit., 24.
[49] H. L. A. Hart, Diritto, morale e libertà, trad. di G. Gavazzi, Acireale, Bonanno,
1968 (Law, Liberty and Morality,
Stanford, 1963), 40: «la morale effettivamente accettata e condivisa da un
certo gruppo sociale», alla quale si contrappone la morale critica, costituita
dai principi morali in base ai quali si esprime una critica alle istituzioni
esistenti e alla stessa morale positiva”.
[50] Cfr. S. Hampshire, che mostra i limiti
dell’elaborazione di un modello astratto di giustizia: «L’errore, la trappola
fondamentale è proiettare in un modello astratto le abitudini e le convenzioni
più stabili e diffuse in un luogo e in un tempo particolari e chiamare questo
modello “natura umana”. […] L’errore è assumere il modello astratto come verità
completa e esatta, ovvero presumere che corrisponda ai molti e diversi
sentimenti, atteggiamenti e convenzioni reali presenti nel mondo osservato», Non c’è giustizia senza conflitto, cit.,
51-52.
[51] E. Arielli - E. G. Scotto, Conflitti e mediazione, Milano, Bruno
Mondadori, 2003, 17 ss. Sul conflitto e le sue rappresentazioni vedi infra Cap. 5.
[52] G. Simmel, Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1989 (Soziologie. Untersuchungen über die ormen
der Vergesellshaftung, Berlin, 1908), 214; L. A. Coser, Le
funzioni del conflitto sociale, Milano, Feltrinelli, 1967 (The Functions of Social Conflict, The
Free Press, 1956), 41 ss.
[53] Cfr. S. Castelli, La mediazione. Teorie e tecniche, Milano, Raffaello Cortina, 1996, 10 ss.
[54] Per questo Platone
illustra la sua giustizia nell’animo umano e nella polis. Prima di giungere a descrivere la giustizia come l’armonia
tra le virtù dell’anima, nel mito della biga alata Platone ci mostra un’anima
in conflitto, in una continua tensione tra le pulsioni del desiderio, della
paura e il richiamo della ragione. Prima di proporci la giustizia della polis come l’armonia tra le tre classi
della città, Platone ci racconta una polis
divisa, che ha perso i suoi punti di riferimento fino al punto da condannare a
morte uno dei suoi uomini migliori. La forma della giustizia, anche di quella
ideale e perfetta, passa attraverso il conflitto.
[55] S. Hampshire, Non c’è giustizia senza conflitto, cit., 35.
[56] F. Viola, La legalità del caso, in La
Corte Costituzionale nella costruzione dell’ordinamento attuale. Principi
fondamentali, Atti del 2° Convegno nazionale della Società Italiana
Studiosi di Diritto Civile, 18-19-20 aprile 2006, Napoli, Edizioni Scientifiche
italiane, 2007, 135.
[57] P. Ricoeur, Il giusto, cit., 7. Sul ruolo del terzo, V. Ferrari, Funzioni
del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1997, 180; T. Eckhoff, Il
mediatore, il giudice e l’amministratore nella soluzione dei conflitti, in A. Giasanti - V. Pocar (a cura di), La teoria funzionale del diritto,
Milano, Unicopli, 1983, 159 ss.
[58] Cfr. I. Trujillo, Imparzialità, Torino, Giappichelli, 2003, 50 ss.
[59] È questa
l’espressione che impiega V. Ferrari,
distanziandosi dalle più comuni concettualizzazioni, in cui si adottano i
termini ‘risoluzione’ e composizione’ dei conflitti, Funzioni del diritto, cit., 95.
[60] Occorre precisare
che sono varie le modalità giuridiche di trattamento dei conflitti, derivanti
dall’ambizione di ogni ordinamento giuridico a di ricondurre ogni tipologia di
conflitto sociale all’interno dei propri schemi normativi. La controversia
quindi è una modalità giudica di regolazione, tuttavia per le finalità di
questa ricerca, orientata dai limiti della pratica della giustizia, sarà
l’unica considerata.
[61] V. Ferrari, Funzioni del diritto, cit., 96; cfr. N. Luhmann, Conflitto e
diritto, in Laboratorio politico, 1982,
n. 1, 5-25.
[62] Si vedano le
osservazioni di A. Catania, Purezza del diritto e politicità delle
decisioni, in AA.VV.. Nuove frontiere
del diritto. Dialoghi su giustizia e verità, Bari, Dedalo, 2001, 25-31
(27).