LA
CITTADINANZA SOCIALE EUROPEA: UN PERCORSO INCOMPIUTO *
Maria cristina Carta
Assegnista di ricerca di Diritto dell’Unione Europea
nell’Università di Sassari
SOMMARIO: 1.
Premessa. – 2. La
genesi del mercato unico e del diritto alla libera circolazione. – 3. Dalla
cittadinanza mercantile al diritto alla mobilità nell’ordinamento
dell’Unione europea. – 4. Le originarie contraddizioni: il dichiarato
“carattere derivato” vs
gli “effetti diretti” della cittadinanza europea. – 5. Segue: Il tentativo di
“denazionalizzazione” della cittadinanza sociale europea. – 6. Le
criticità della Direttiva 2004/38/CE ed il Caso Dano del 2014. – 7.
La discriminazione tra cittadini europei
“statici” e “dinamici”. – 8. Le
implicazioni della Brexit per il
sistema di sicurezza sociale europeo. – 9.
Considerazioni conclusive. – Abstract.
Il
presente contributo si propone di compiere una riflessione sulle trasformazioni
in atto nel processo di integrazione europea ed in particolare in quelle insite
nell’istituto della cittadinanza europea[1],
fortemente messo in discussione da eventi derivanti dalle recenti derive
politiche antieuropeiste.
Al
riguardo deve osservarsi come l’instabilità dell’originario
disegno istituzionale eurounitario non sia emersa quando tutti gli sforzi delle
Istituzioni europee erano indirizzati a diffondere la consapevolezza
dell’importanza di una “cittadinanza comune” e dei vantaggi
da essa derivanti tra cui, in primis, il diritto di circolare e soggiornare
liberamente nel territorio dell’Unione europea. Le criticità di tale
istituto, infatti, sono risultate evidenti solo quando esso, abbandonando
l’idea di una cittadinanza meramente “mercantile”[2]
(market citizenship), è stato posto al centro del dibattito politico ed
in particolare quando, per la prima volta, i governi di alcuni Stati membri
hanno (maldestramente) tentato di “correre ai ripari” dinanzi alla
percezione di una perdita di controllo[3]
di fronte alle potenzialità espresse dai diritti derivanti dalla
cittadinanza europea[4].
Tale momento non casualmente è coinciso con i consistenti flussi
intra-europei connessi al clima di diffuso disagio economico[5]
che nei primi anni del XXI secolo ha coinvolto buona parte degli Stati membri
UE e pienamente legittimati dalla nuova matrice politica e sociale della
cittadinanza UE[6].
L’indagine
che si intende condurre analizzerà le “fragilità” del
processo di integrazione europea come originariamente immaginato ed i nuovi
limiti della cittadinanza europea[7],
a distanza di poco più di 25 anni dalla sua istituzione. Partendo da una
necessaria premessa sull’instaurazione del mercato unico e sulla
libertà di circolazione all’interno dello spazio giuridico europeo[8],
particolare focus è riservato alle ragioni insite nel concreto rischio
di una forte delegittimazione giuridica e politica della cittadinanza europea,
derivante sia dalla messa in discussione della libertà di movimento da
essa scaturente, sia dalla deriva “nazionalista” della c.d.
cittadinanza sociale europea, oggi caratterizzata da un’evidente quanto
ingiustificata discriminazione tra cittadini “dinamici” (c.d.
movers) e cittadini “statici”[9].
La
parte conclusiva del lavoro, senza alcuna pretesa di completezza in ragione del
fatto che ci si muove in una «terra incognita»[10] non esistendo precedenti
riguardo al recesso di uno Stato membro dall’Unione ed essendo i
negoziati ancora in corso, è dedicata ad alcune riflessioni relative
alle implicazioni della Brexit sul
sistema di sicurezza sociale europeo.
Prima
di esaminare gli aspetti più prettamente giuridici connessi alla
cittadinanza europea, si ritiene opportuno richiamare, seppur sinteticamente,
le principali tappe del processo evolutivo dell’istituto, indispensabili
per la comprensione dei meccanismi che rilevano nella materia in esame.
La
Comunità europea nasceva originariamente al fine di istituire un
“mercato comune” atto a realizzare gradualmente un’unione
economica e monetaria tra gli Stati membri[11].
Nell’ambito della politica di promozione del processo di espansione
continua ed equilibrata, il perseguimento di questo obiettivo rendeva
necessaria, per un verso, l’eliminazione delle disparità regionali
e settoriali e delle restrizioni agli scambi internazionali e, per altro verso,
la piena attuazione delle quattro libertà fondamentali di circolazione
delle persone, delle merci, dei servizi[12]
e dei capitali[13].
In
tale contesto, la crescente domanda di mobilità di merci e di persone
unitamente alla necessità degli Stati di operare all’interno di
una base comune fondata sulla condivisione degli obiettivi e dei mezzi per
perseguirli, aveva portato ad un ripensamento dell’intervento pubblico
nell’economia[14].
Quest’ultimo, infatti, non poteva più «spiegarsi unicamente
all’interno dei confini territoriali nazionali, ma era piuttosto chiamato
ad operare in un mercato ed in una politica realmente comunitaria»[15],
che premeva per l’affermazione del mercato unico[16]
e delle sue nuove regole concorrenziali in uno spazio territoriale decisamente
più vasto[17], ormai di livello sostanzialmente
continentale.
Ed
invero, l’abbattimento delle frontiere interne della Comunità
europea, conseguente alla creazione del mercato interno aveva comportato quale
effetto indiretto un mutamento del ruolo dei singoli Stati membri, delle
istituzioni e degli operatori economici all’interno della Comunità
e ciò sia nei rapporti reciproci fra Stati, sia anche e soprattutto nei
confronti dei cittadini. In un simile contesto, dunque, ad ogni Stato membro
era richiesto di cooperare attivamente con gli altri Stati membri al fine di
predisporre regole ed obiettivi comuni per l’affermazione di una reale
Unione europea.
L’interesse nei confronti della mobilità
costituisce oggi un obiettivo di particolare rilevanza per l’ordinamento
dell’Unione europea[18] nel cui ambito il diritto
di circolazione trova la propria base giuridica in una pluralità di
disposizioni contenute sia nei trattati sia in atti di diritto derivato.
Già l’art. 18, primo comma, del TCE (oggi art. 21
TFUE) riconosceva ad ogni cittadino di quella che oggi è l’Unione
europea, il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli
Stati membri[19];
tale norma rappresenta indiscutibilmente l’evoluzione della
libertà di circolazione che i Trattati di Roma riconoscevano solo ai
soggetti economicamente attivi ed ai loro familiari (c.d. cittadinanza mercantile)[20].
In questa prima fase del processo d’integrazione europea,
infatti, la libertà di movimento veniva subordinata alla garanzia della
sicurezza sociale, ovvero alla parità di trattamento di fatto e di
diritto dei lavoratori comunitari[21]. Al contempo l’ex art. 14 TCE (oggi art. 26 TFUE)
sanciva, nel contesto del mercato interno, la libera circolazione di merci,
persone, servizi e capitali.
Il
diritto alla mobilità trova il proprio fondamento nel diritto
costituzionale europeo[22]
ed è strettamente connesso alla cittadinanza europea che, come ormai da
tempo affermato dalla Corte di Giustizia, rappresenta «lo status fondamentale dei cittadini degli
Stati membri»[23]
e trae la sua concreta operatività dall’applicazione congiunta del
diritto di libera circolazione e del principio di non discriminazione[24].
Tale
diritto è riconosciuto in primis
dall’esplicito riferimento operato dall’art. 3, § 2, TUE[25] del diritto di ogni
cittadino dell’Unione a circolare ed a soggiornare liberamente nel
territorio degli Stati membri[26]. Il concetto di
mobilità, infatti, sintetizza una serie di situazioni giuridiche descritte
dall’ordinamento comunitario in virtù di basi giuridiche
differenti operando in tale ambito come principio guida in funzione
interpretativa od integrativa della disciplina comunitaria[27].
Il
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea menziona la mobilità
in quattro articoli[28]: l’art. 162 (ex articolo 146 del TCE) sul fondo
sociale europeo, avente l’obiettivo di «promuovere
all’interno dell’Unione le possibilità di occupazione e la
mobilità geografica e professionale dei lavoratori»[29]; l’art. 165 §
2 in materia di istruzione, secondo cui «l’azione dell’Unione
è intesa a favorire la mobilità degli studenti e degli
insegnanti, promuovendo tra l’altro il riconoscimento accademico dei
diplomi e dei periodi di studio»; l’art. 166 § 2 in tema di
formazione professionale, in forza del quale «l’azione
dell’Unione è intesa a facilitare l’accesso alla formazione
professionale ed a favorire la mobilità degli istruttori e delle persone
in formazione, in particolare dei giovani»; e l’art. 180 lett. d)
che, in materia di ricerca, afferma che tra le azioni svolte dall’Unione,
ad integrazione di quelle intraprese dagli Stati membri, vi è anche
quella di «impulso alla formazione e alla mobilità dei ricercatori
dell’Unione».
Alle
citate disposizioni di rango primario, si affiancano quelle contenute in fonti
di diritto derivato in materia di mobilità sanitaria, degli studenti,
dei lavoratori, dei soggetti inattivi e dei pensionati[30].
Anche
la Corte di Giustizia UE, ispirandosi alle costituzioni nazionali, ai Trattati
internazionali ed in particolare alla Convenzione europea dei diritti
dell’Uomo[31],
già a partire dalla nota sentenza Stauder[32] ha svolto con le sue
pronunce un ruolo chiave nell’ambito della tutela dei diritti
fondamentali, estendendo progressivamente la categoria dei beneficiari del
diritto alla libera circolazione.
Nel
2000, anche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea[33] ha sancito, nel Titolo V
e nell’ambito dei valori inerenti alla cittadinanza europea, la
libertà di circolazione, stabilendo all’art. 45 § 1 che
«ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri». Tale
disposizione, con formulazione analoga all’art. 21 TUE, pur non
soffermandosi sui limiti di tale libertà e sui poteri conferiti al
Consiglio per agevolare l’esercizio di tale diritto e non entrando nel
merito del riparto di attribuzioni tra Unione e Stati membri, riconosce
pienamente la libertà di circolazione e soggiorno[34].
Stessa
considerazione vale per l’art. 36 della Carta che, al fine di promuovere
la coesione sociale e territoriale dell’Unione[35], consente l’accesso
ai servizi di interesse economico generale[36] nel rispetto di quanto
previsto dalle legislazioni degli Stati membri nonché dall’art. 14
TFUE (ex art. 16 TCE), in
considerazione dell’importanza da essi rivestita «nell’ambito
dei valori comuni dell’Unione»[37]. La ratio dell’art. 36 della Carta è di mettere in
relazione la dimensione sociale comunitaria, come uguale soddisfacimento dei
diritti economici e sociali, con le regole della concorrenza[38] e del libero mercato[39].
Come
sopra evidenziato[40],
con il Trattato di Maastricht del 1992 [41], l’Unione
europea ha introdotto per tutti i cittadini degli Stati membri
lo status di cittadino europeo, che si aggiunge, arricchendolo, a
quello nazionale[42].
Ciò significa sostanzialmente che, trattandosi di una cittadinanza non
autonoma bensì derivata (o ancillare)[43], si è cittadini
europei in quanto (e non oltre che) cittadini di uno Stato
membro.
Un primo limite strutturale[44] dell’istituto in
esame si riscontra proprio nel fatto che, sin dalle sue origini, la
cittadinanza europea – pur non possedendo il carattere
dell’autonomia rispetto agli ordinamenti degli Stati membri da cui deriva[45] – ha dimostrato la
propria capacità di imporre modifiche alle legislazioni nazionali. Il
potere di controllo sugli effetti dell’automatica estensione della
cittadinanza da parte dei governi degli Stati membri, infatti, è in
più occasioni venuto meno[46]. Ed invero, dal
riconoscimento della titolarità dello status di cittadino europeo sono sovente derivate conseguenze di
carattere politico, sociale ed economico dinanzi alle quali la
discrezionalità statale, in virtù delle disposizioni di diritto
primario e di diritto derivato[47] dell’Unione
europea, ha subito delle forti limitazioni soprattutto in materia di libera
circolazione e soggiorno dei cittadini europei, che hanno visto fortemente
ampliato il proprio spazio d’azione.
Nonostante il dichiarato e rassicurante “carattere
derivato” della cittadinanza europea, volta ad attribuire ai cittadini
degli Stati membri diritti e tutele complementari che «non si
sostituivano in alcun modo alla cittadinanza del singolo Stato»[48], si è sovente
contrapposta la capacità della stessa di compiere atti definiti dalla
dottrina di “autonomizzazione”[49] rispetto agli ordinamenti
nazionali da cui formalmente dipende.
L’errore di fondo fu sostanzialmente quello di credere che
le nuove disposizioni in materia di cittadinanza europea fossero meramente
dichiarative, volte unicamente a cristallizzare e specificare un insieme di
diritti preesistenti al Trattato di Maastricht[50] ed in quanto tali
incapaci di limitare la sovranità degli Stati membri. Come osservato in
dottrina, l’idea del carattere meramente simbolico del nuovo istituto
«fece sottovalutare il possibile impatto che le relative disposizioni
avrebbero potuto avere sul lungo periodo»[51].
In realtà, è ben presto emerso come le
disposizioni dei Trattati, ed in particolare quelle relative alla cittadinanza
europea (art. 9 TUE e artt. 20-24 TFUE), non rivestissero un valore solo
simbolico ed anzi, poiché dotate di effetto diretto, fossero capaci di
ampliare rationae materiae o ratione personae l’ambito di
applicazione del diritto comunitario (oggi dell’Unione).
L’affermazione della cittadinanza europea e dei diritti da
essa derivanti ha, dunque, portato in progresso di tempo
all’instaurazione di un legame (inscindibile?)
tra Unione e cittadini degli Stati membri caratterizzato da doveri e diritti
loro riconosciti[52].
In tale contesto, la scelta della Corte di Giustizia di ampliare
la portata dei diritti di libertà ha attribuito all’Unione una
nuova identità. Le norme europee sono divenute condizione di
applicabilità dei diritti di cittadinanza che, in quanto espressione
della rappresentanza internazionale, possono essere fatti valere dal cittadino
di uno Stato membro che si trovi in uno Stato diverso da quello di appartenenza
o dal cittadino che vanti una situazione giuridica nei confronti delle
istituzioni europee[53].
In ragione di quanto sopra
evidenziato, può affermarsi che dall’attribuzione della
cittadinanza europea è scaturita una forte valorizzazione della
libertà di circolazione delle persone in tutto il territorio UE non
più riconosciuta ai soli soggetti economicamente attivi ed ai loro
familiari[54]
ma estesa erga omnes, in quanto avente natura preminentemente politica.
Al contempo, l’attribuzione di tale cittadinanza
ancillare, anche grazie alla valorizzazione del criterio della residenza[55]
ha comportato il consolidamento del divieto di discriminazione sulla base della
nazionalità quale principio ispiratore delle politiche dell’Unione
e di quelle interne[56].
Come sopra evidenziato[57], l’allora
Comunità europea (oggi Unione), acconsentendo ad una
“contaminazione” ad opera dei valori e dei principi costituzionali
degli Stati membri[58] e recependo i principi di
diritto sanciti dalla Corte di Lussemburgo, ha esteso quella che inizialmente
era la libertà economica esclusiva dei lavoratori[59] (c.d. cittadinanza mercantile) a tutti i
cittadini europei[60].
La cittadinanza europea nel momento in cui, al fine di offrire
una migliore tutela[61] ai diritti ed agli
interessi dei cittadini degli Stati membri (ex
art. 2, a linea 3 TUE), è stata integrata dal diritto di libera
circolazione e soggiorno[62], ha acquisito la veste di
istituto cardine chiamato a regolare la mobilità delle persone ed a
delineare i diritti dei soggetti in movimento[63].
L’attuale impegno dell’Unione per realizzare la
mobilità si inserisce nel più ampio disegno di costruzione del
«modello sociale europeo»
che inizialmente si limitava ad attribuire un riconoscimento sociale
comunitario unicamente ai lavoratori migranti, estendendosi in seguito ad un
numero sempre più ampio di destinatari[64]. Dopo l’entrata in vigore
del Trattato di Maastricht, infatti, in più occasioni la Corte di
Giustizia ha ribadito il principio secondo cui «la libertà di
circolazione, e con essa una serie di tutele sociali, spetta anche ai cittadini
non attivi»[65]; con ciò volendo
sottolineare la ratio della nuova
cittadinanza europea che non avrebbe più dovuto soccombere dinanzi a
“mere logiche di bilancio”[66], certamente degne di
tutela ma non tali da prevalere sui diritti del cittadino[67].
La qualità “mercantile” della cittadinanza
così come delineata nei trattati istitutivi del 1957, dunque, non ha
impedito un’importante evoluzione dell’istituto in chiave sociale.
In più pronunce i giudici di Lussemburgo hanno a tal proposito
sottolineato la necessità di un minimo di «solidarietà
finanziaria transnazionale tra gli Stati membri»[68].
Da
tale affermazione discende un corollario le cui implicazioni non sono di quelle
che possono essere ignorate o sottostimate quando si intenda valutare
compiutamente, da un punto di vista giuridico, l’evoluzione ed i possibili
futuri scenari dell’istituto in esame: la cittadinanza europea ha
esplicato i suoi effetti unicamente grazie allo spostamento dei cittadini dal
proprio Stato di provenienza nello spazio comune. Ciò a voler
significare che sono proprio le libertà di movimento e di soggiorno,
unitamente al diritto alla parità di trattamento, ovvero alla non
discriminazione sulla base della nazionalità[69], ad aver contribuito
ad evidenziare lo stretto legame intercorrente tra il godimento della
libertà di circolazione e la concreta fruizione dei diritti ad essa
connessi.
Sussiste,
dunque, un’evidente contraddizione tra il proclamato carattere di
“non autonomia” della cittadinanza UE e gli effetti diretti
“indesiderati” derivanti dallo status di cittadino europeo che si
riverberano negli Stati diversi da quello di provenienza e si concretano in una
sostanziale parificazione del cittadino europeo ai nativi nel godimento dei
diritti sociali[70],
economici e civili[71].
Di
qui il timore di alcuni Stati membri dell’UE di perdere le proprie
prerogative sovrane a causa di un preteso “indesiderati” da parte
dei cittadini europei dinamici (o mobili) a discapito dei diritti e degli
interessi dei nativi.
In
questo particolare momento storico-politico dell’UE, dunque, ad invertire
la rotta del processo di “autonomizzazione” dalle cittadinanze
nazionali è la “frattura” del legame tra il principio di
solidarietà fra Stati membri ed il principio di non discriminazione[72].
6.
– Le criticità della Direttiva 2004/38/CE ed il Caso Dano del 2014
Il
processo di separazione della cittadinanza sociale dal contesto meramente
nazionale[73],
avviatosi con successo alla fine degli anni 60, ha subìto una netta
battuta d’arresto nel momento in cui è stato messo in discussione
proprio il carattere sociale dell’istituto, con conseguente rischio di un
revirement alla cittadinanza mercantile. Al riguardo, in dottrina è
stato osservato che «al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale
non ha fatto seguito la creazione di un Welfare sovranazionale»[74],
lasciando che la tenuta dei sistemi nazionali di previdenza sociale costituisse
«il limite invalicabile alla liberalizzazione integrale della
circolazione e del soggiorno per tutti i cittadini UE»[75].
Non
è un caso se già nel 2004, a fronte del manifestato timore degli
Stati membri di perdere i poteri di controllo sui meccanismi di accesso
transfrontaliero ed al fine di sedare l’eccessivo attivismo della Corte
di Giustizia nel voler creare una sorta di Welfare europeo di matrice pretoria,
le Istituzioni legislative comunitarie abbiano emanato la Direttiva 2004/38/CE[76]
relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di
circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
In
essa, tuttavia, è stata introdotta la troppo “generica” nozione
di “onere irragionevole”[77], che ben si presta a
rappresentare lo strumento chiave per legittimare il “diritto di
prelazione” dei cittadini “nazionali” nel fruire delle
prestazioni sociali. Ed invero, a causa del deficit di definizione di alcune
nozioni in essa previste, è stato per anni consentito agli Stati membri
di abusare del margine di interpretazione[78] nel delineare
concetti quali quello di “onere eccessivo” e di “risorse
sufficienti”. È di facile intuizione comprendere che
l’assenza di un’uniformità di definizioni a livello europeo,
ha favorito il proliferare di una molteplicità di differenti definizioni
nazionali a discapito della corretta e certa applicazione del diritto europeo,
con l’evidente rischio per i cittadini europei di ricevere trattamenti
diversi a seconda dello Stato membro in cui si trovino ad emigrare.
Non
si tratta di disquisizioni meramente teoriche, quanto piuttosto di lacune
normative che hanno consentito che dal 2013 in Stati come il Belgio[79],
la Germania e la Francia siano esponenzialmente aumentate le espulsioni[80]
dei cittadini intra-comunitari inattivi, ovvero di tutti coloro che hanno perso
o non hanno reperito un’occupazione entro un termine che in genere va dai
sei ai dodici mesi; con evidente violazione del diritto europeo e dei suoi
principi generali. La citata direttiva, infatti, pur non mettendo in
discussione il potere sovrano degli Stati di procedere all’espulsione
qualora ne ricorrano i requisiti, all’art. 16 [81] specifica che il
ricorso al sistema di assistenza sociale[82] non è di per
sé un motivo automatico di espulsione, essendo piuttosto richiesta una
valutazione specifica per ogni caso concreto e da cui si evinca che essa
risulti giustificata in quanto rappresenti un “onere irragionevole”
per lo Stato sociale[83].
Sul punto,
la Corte di Giustizia ha cristallizzato nelle sue pronunce il principio secondo
cui la libertà di circolazione e di soggiorno non può essere
limitata da disposizioni nazionali che condizionino il soggiorno
all’accertamento dell’indipendenza economica del soggetto, essendo
peraltro proibito qualsiasi controllo sistematico sulle condizioni di residenza
dei cittadini UE[84].
Pur restando indubbia la legittimità di salvaguardare le finanze di uno
Stato, dunque, stante la vigente normativa europea, le espulsioni per motivi
economici andrebbero prese in considerazione solo in casi eccezionali con
obbligo per gli Stati membri di verificare con la dovuta accuratezza se il caso
specifico rappresenti un onere irragionevole per lo Stato sociale.
Tuttavia, le sempre più diffuse pratiche abusive di
espulsione lasciano pensare il contrario[85], essendo esse spesso
adottate in palese violazione del principio di proporzionalità[86]. Al riguardo merita
ricordare l’ormai tristemente noto Caso
Dano del 2014 in cui il clima politico caratterizzato dalle preoccupazioni
relative alla sostenibilità del Welfare
degli Stati membri, pare aver condizionato la Corte di Giustizia che, con tale
pronuncia, ha di fatto segnato un’inversione di tendenza, ammettendo
evidenti deroghe al principio della parità di trattamento in relazione
alle prestazioni sociali[87] ed interrompendo il
cammino intrapreso dalla c.d. giurisprudenza
costituente in materia di diritti e cittadinanza[88].
Vi
è chi ritiene che la diretta conseguenza di tale sentenza sia quella di
sancire una netta distinzione tra cittadini «buoni e benestanti» e
cittadini «cattivi e turisti sociali»[89] laddove a questi
ultimi nessuna protezione sociale è dovuta, essendo piuttosto questi
sussidi destinati unicamente ai lavoratori meritevoli, con evidente ritorno ad
una concezione meramente mercantile della cittadinanza. In tal senso, una certa
preoccupazione (soprattutto per l’eccessivo allarmismo che ne sta
derivando) desta la recente notizia diffusa dalla trasmissione Cosmo
dell’emittente radiofonica tedesca “Radio Colonia”[90],
secondo cui il Governo Merkel avrebbe notificato ai cittadini europei inattivi
regolarmente residenti in Germania, tra cui oltre cento italiani, una circolare
in cui si invitano coloro che non godono “di protezione sanitaria e di
mezzi di sussistenza sufficienti” a chiarire la propria posizione entro
quindici giorni; con la precisazione che nell’ipotesi in cui entro sei
mesi i soggetti interessati da tale provvedimento non dovessero dimostrare di
aver reperito un’occupazione (almeno part time) o di stare attivamente
cercandone una, essi dovranno fare rientro nel proprio Paese d’origine
volontariamente o, se necessario, anche tramite rimpatrio coatto.
Al
riguardo, non ci si può esimere dall’osservare come, a fronte di
una legittima negazione di una prestazione sociale, ciò che pare
discutibile è la decisione di alcuni comuni tedeschi di invitare ad
abbandonare il territorio federale, pur trattandosi di cittadini comunitari
regolarmente residenti in Germania.
Se,
come precedentemente evidenziato[91],
il carattere distintivo della cittadinanza europea consiste nel riconosciuto
diritto alla mobilità[92],
una seconda contraddizione insita nell’istituto oggetto di trattazione,
è certamente rappresentata dalla sostanziale discriminazione tra
cittadini europei “dinamici” o movers
e cittadini “statici”.
La
mobilità, infatti, non rappresenta un diritto incondizionato,
esercitabile da tutti gli european
citizens, restando esclusi gli indigenti, ovvero coloro che in assenza di
risorse economiche sufficienti sono impossibilitati a circolare e soggiornare
nello spazio comune europeo. Per i cittadini statici, dunque, lo spazio
dell’Unione si riduce ad essere unicamente il “territorio”
dei singoli Stati membri quasi a voler confermare la natura preminentemente
economica (e non politica) della cittadinanza europea. Potrebbe, pertanto,
ritenersi sussistente un’insormontabile contraddizione tra il
riconoscimento della libertà di movimento come elemento costitutivo
della cittadinanza europea ed il “carattere condizionato” di tale
libertà alle possibilità economiche del singolo cittadino.
La
cittadinanza europea, essendo inscindibilmente connessa alla libertà di
circolazione, crea, dunque, una sorta di discriminazione fondata sulla
“sedentarietà”. Ciò in quanto l’Unione – a cui, come è
noto, è vietato ogni tipo di incursione nelle sfere di competenza
esclusiva degli Stati – può intervenire esigendo il rispetto della
sua normativa (di rango primario e di diritto derivato) solo se sia messa in
discussione la libertà di circolazione dei cittadini europei. Da
ciò discende quale diretta conseguenza che «si finisce per avere
più diritti in quanto cittadini europei mobili»[93].
I cittadini sedentari, invece, non riescono a vedere tutelati i propri diritti
di cittadini europei nei confronti del proprio Stato di appartenenza, da cui
non si sono mai spostati. In questi casi, infatti, non avendo i cittadini
statici esercitato il proprio diritto alla libertà di circolazione, il
diritto dell’UE non può trovare applicazione rationae materiae, essendosi la questione configurata in via
esclusiva come meramente interna.
Dinanzi
ad un simile paradosso, la Corte di Giustizia ha iniziato a svincolare
gradualmente il riconoscimento dei diritti di cittadinanza dalla
necessarietà di uno spostamento fisico in uno Stato membro diverso dal
proprio anche in casi che (apparentemente) riguardavano questioni di competenza
esclusiva statale. Uno dei più noti è quello relativo alla
vicenda Ruiz-Zambrano del 2011 [94], i cui principi di diritto volti a sancire la separazione della
cittadinanza dalla mobilità sono stati successivamente confermati nel
Caso Chavez-Vilchez del 2017 [95].
La
discriminazione tra differenti tipologie di cittadini europei non riguarda
unicamente il problema della negata libertà di circolazione per i
cittadini statici, ma entra in gioco anche nella ricordata questione della
mancata “europeizzazione” dei sistemi sociali nazionali[96].
Al riguardo deve osservarsi che i cittadini europei statici degli Stati
sottoposti alle misure anticrisi[97]
rimangono esclusi anche dal sistema di coordinamento europeo della cittadinanza
sociale transnazionale. In dottrina è stato evidenziato che
«l’Europa, lungi dall’essere uno spazio comune in cui
l’eguaglianza è una prospettiva essenziale, è segnata dalle
differenze fra sistemi socio-economici»[98].
Basti pensare ai problemi che, nostro malgrado, accomunano diversi Stati membri
UE, quali il costante deterioramento dell’accesso alla sicurezza sociale
per i cittadini statici dei Paesi in crisi finanziaria (ad esempio la
mobilitazione sociale degli ultimi anni in Grecia), gli allarmanti tassi di
disoccupazione giovanile e l’esponenziale aumento dei lavoratori che vivono
in condizioni di semi-indigenza in un contesto di emarginazione sociale[99].
È
indubbio, infatti, che le misure di austerità adottate da taluni Stati
in seguito alla crisi economica vadano a discapito non solo dei cittadini
dinamici, per cui non trovano più applicazione i principi della
solidarietà transnazionale europea[100],
ma anche dei diritti sociali dei cittadini sedentari “nativi”, con
grave rischio di far definitivamente implodere il modello europeo di
cittadinanza politica e sociale.
È
certamente “merito” della Brexit (Britain Exit) se il tema della
cittadinanza sociale europea[101]
è divenuto di stringente attualità, richiamando
l’attenzione (o forse sarebbe più opportuno parlare di
“preoccupazione”) anche dei “non addetti” al settore.
In
merito all’imminente recesso della Gran Bretagna dall’Unione
europea[102], infatti, occorre
evidenziare come i fautori del “leave”[103]
abbiano strumentalmente utilizzato la nozione di “turismo sociale”[104] per
convincere gli elettori del fatto che l’uscita dall’UE avrebbe
rappresentato l’unico valido strumento per salvaguardare le prerogative
sovrane del proprio Stato e limitare efficacemente la protezione sociale e la
libertà di movimento (assicurate dai Trattati e dal diritto derivato)
verso la “ricca” Gran Bretagna dei cittadini europei, il cui
ingresso stava esponenzialmente aumentando in ragione della crisi economica che
negli ultimi anni ha colpito numerosi Stati membri[105].
Ed
invero, a fronte della storica insofferenza britannica nei confronti delle
regole comunitarie[106]
e dei vani tentativi di modificare i Trattati Ue nella parte relativa alla libera circolazione ed
all’accesso al Welfare[107],
l’unico modo per tutelare i diritti e gli interessi dei nativi ed
allontanare i cittadini comunitari inattivi[108],
che avrebbero potuto rappresentare un peso ritenuto insostenibile per il Welfare britannico, è apparso ai
più quello di proporre un referendum
“a forte impatto emotivo” sull’opportunità di recedere
dall’Ue[109].
A
distanza di oltre due anni dall’inizio dei negoziati che entro il 29
marzo 2019 condurranno ad un’Unione europea a 27 [110], può
affermarsi che il “Caso Brexit” ha certamente fatto emergere
l’importanza dei cc.dd. EU citizens’ rights, ossia i diritti
derivanti dal riconoscimento dello status di cittadino europeo agli oltre tre
milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito ed al milione di
cittadini britannici in Europa.
L’8
dicembre del 2017 con un report congiunto[111] tra i negoziatori
dell’Unione europea e i rappresentanti del Governo britannico si è
conclusa con successo la prima fase delle trattative per il recesso del Regno
Unito dall’Unione europea (c.d. Withdrawal Agreement). Di poco successiva
è la prima bozza di accordo (“Draft Agreement on the Withdrawal of
the United Kingdom”)[112],
pubblicata lo scorso 19 marzo, sulla quale è stata raggiunta “in
larga misura” un’intesa tra i negoziatori delle due parti[113].
Pur evidenziando la natura mutevole del negoziato che potrebbe portare dei
cambiamenti nei mesi a venire[114],
può affermarsi che il Draft Agreement fornisce già una prima base
per riflettere sulle ripercussioni che la Brexit avrà sul sistema di
sicurezza sociale europeo.
L’accordo,
infatti, dedica il Titolo III della Parte seconda al coordinamento dei sistemi
di sicurezza sociale[115];
dall’esame del testo emerge la volontà del Regno Unito di rimanere
in linea con il sistema di sicurezza europeo che, è bene precisarlo, non
gli «ha mai impedito di organizzare autonomamente il proprio sistema di
sicurezza sociale ma lo ha solo obbligato ad estendere tutte le prestazioni
previste per britannici ai cittadini europei che ne hanno/avessero
diritto»[116].
L’art. 29 del citato accordo, infatti, in conformità
all’art. 48 TFUE[117],
garantisce l’accesso all’attuale sistema di sicurezza europeo per
tutti i cittadini, europei o britannici, coinvolti nel processo da prima
dell’uscita della Gran Bretagna dall’UE. In buona sostanza, costoro
continueranno a godere dell’attuale sistema non solo durante il periodo
di negoziazione ma anche nel periodo successivo, conservando i loro benefici
intatti.
Questo
discorso, tuttavia, potrebbe non valere per i flussi migratori futuri (si pensi
a titolo esemplificativo ai disoccupati in cerca di lavoro, che potrebbero
trovare maggiori difficoltà nell’entrare nel Regno Unito e godere
di prestazioni garantite dal diritto UE quali quelle in denaro di carattere non
contributivo). L’attuale bozza di accordo, infatti, nulla dice sulle distinzioni
che potrebbero sussistere tra la restrizione al libero movimento dei lavoratori
e le restrizioni ai diritti di eguale trattamento sotto il profilo della
sicurezza sociale.
Tali
nodi a tutt’oggi insoluti evidenziano, a parere di chi scrive, che la
vicenda della Brexit scaturisce da un grave “errore di
sottovalutazione” dei suoi effetti da parte del governo e degli stessi
cittadini britannici, dal momento che essa rappresenta un chiaro esempio in cui
al godimento di un diritto non sempre segua la piena consapevolezza della sua
portata innovativa; importanza questa che sovente, come avvenuto per un gran
numero di britannici oggi dichiaratamente “pentiti”, riemerge solo
quando ormai si è giunti ad un “punto di non ritorno”[118].
È
recente la richiesta del Sindaco di Londra di un secondo referendum sulla
Brexit[119],
motivata sull’incapacità del Governo May di condurre adeguatamente
i negoziati che perfezioneranno la procedura di recesso dall’Ue ex art.
50 TUE[120]
e sul diritto dei cittadini britannici, oggi maggiormente consapevoli, di
«avere l'ultima parola sugli effetti dei negoziati, inclusa la
possibilità di rimanere in Europa».
Dall’analisi
svolta emerge come le esaminate contraddizioni della cittadinanza europea possano
giungere sino al punto di legittimare gli Stati membri a far regredire tale
istituto alla sua originaria condizione economica e nazionale, ridimensionando
la sua innovativa valenza sociale ed il carattere “autonomo” e
“sovranazionale” che, seppur con evidenti limiti, ha dimostrato di
possedere. A parere di chi scrive, infatti, sostenere l’idea che la
libertà di movimento non debba più rappresentare un principio
assoluto derivante dalla cittadinanza europea, equivale a far perdere di
significato ed importanza l’intero processo di integrazione europea. Allo
stesso modo, deve osservarsi come il “rinchiudersi dentro i confini
nazionali” per difendere un ipotetico diritto di precedenza dei nativi
nella fruizione delle prestazioni sociali per timore di un presunto
“turismo sociale” e della insostenibilità del welfare statale, rischia di rappresentare il principale volano di
ingiustificate discriminazioni sulla base della nazionalità, così
vanificando la moderna costruzione della cittadinanza “autonoma”
europea.
Al
contempo spiace rilevare come anche la recente giurisprudenza della Corte di
Giustizia, nel tentativo di rassicurare alcuni Stati membri, pare riflettere
l’attuale clima politico e sociale dell’Unione europea, sancendo
sostanzialmente la priorità della protezione dei confini statali e dei
sistemi di welfare nazionali rispetto
alla libertà di circolazione come elemento costitutivo della
cittadinanza (anche sociale) sovranazionale. In un’ottica di
bilanciamento di interessi, dunque, ciò che sembra prevalere è il
recente carattere simil punitivo
della cittadinanza europea, oggi inscindibilmente legata al reddito ed a
pratiche discriminatorie fondate sull’appartenenza nazionale.
Dinanzi
al rischio di insostenibilità del sistema di sicurezza sociale nell’Unione
europea[121] probabilmente i Capi di
Stato e di Governo degli Stati membri dovrebbero debitamente considerare
fattori quali il costante “invecchiamento” della popolazione ed il
fatto che le uniche posizioni lavorative stabili siano di prevalente appannaggio
di soggetti over 55 [122].
Solo trovando valide soluzioni a siffatte questioni, infatti, si
riuscirà – contrariamente a quanto sinora sostenuto dai
socialdemocratici britannici – a non snaturare l’istituto della
cittadinanza europea ed a considerare nuovamente il Welfare come «una risorsa e non più come un
vincolo»[123].
The article deals with changes taking
place in the European integration process, with particular reference to
European citizenship. On the one hand, the paper examines contradictions in the
original definition of the status of European citizen. On the other, new
limitations impacting on rights to free movement are considered in the context
of serious economic and financial problems which have combined with strong
anti-European forces to create fears about loss of sovereignty on the part of
some EU member states. Particular emphasis is given to the real risk of a major
legal and political de-legitimisation of European citizenship, driven both by
challenges to the right to freedom of movement which derives from that
citizenship, and from a nationalist drift within European society. This drift
is characterised today by a distinction, as clear as it is unjustified, between “dynamic” European
citizens (so-called “movers”) and those who are considered
“static”.
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind]
* Il presente articolo si inserisce
nell’ambito del Progetto della Universidad de Málaga «Los muros en el Derecho Internacional
contemporáneo: consecuencias para la seguridad, la dignidad humana y la
sostenibilidad» (DER-2015-65486-R) finanziato dal Ministerio de
Economía y Competitividad de España e delle attività del
Grupo de Investigación «Protección
Internacional de los Derechos Humanos, Seguridad y Medioambiente (SEJ-593)»
del Plan Andaluz de Investigación.
1 Cfr.
B. Caravita, Le trasformazioni istituzionali in 60 anni di integrazione europea,
in federalismi.it 14, 2017, < https://www.federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=443&content=&content_auth= >.
[2] V. G. Giraudi, La cittadinanza dell’UE tra
‘dialogo civilizzatore’ tra cittadinanze nazionali e rappresentanza
politica non competitiva, in I
quaderni europei 6, 2014, 42 ss.; C. Margiotta,
Cittadinanza europea. Istruzioni per
l’uso, Roma-Bari 2014, 125 ss.; L. Appicciafuoco,
Lo status sociale dei cittadini europei economicamente non attivi: una
“cittadinanza sociale di mercato europeo”?, in Le nuove frontiere della cittadinanza
europea, a cura di E. Triggiani,
Bari 2011, 279 ss.; A. Rosenthal,
La direttiva europea sui lavoratori
altamente qualificati: elementi di cittadinanza sociale o di cittadinanza
mercantile?, in Le nuove frontiere
della cittadinanza europea, loc. cit., 425 ss.
[3] Tale perdita di controllo ha riguardato diversi aspetti tra cui
i principali sono rappresentati dall’immigrazione intracomunitaria,
dall’allargamento dei diritti civili e delle garanzie sociali dei
cittadini comunitari e dall’uguale trattamento e non discriminazione
sulla base della nazionalità negli Stati membri ospitanti. In tal senso v. D. Kochenov – B. Pirker, Deporting the Citizens within the European
Union: a Counter-Intuitive Trend in Case C-348/09? P.I. v Oberburgermeistern
der Stadt Remscheid, in University of
Groningen Faculty of Law Research Paper 6, 2013.
[4] V. R. Mastroianni,
Stato di diritto o ragion di Stato? La
difficile rotta verso un controllo europeo del rispetto dei valori
dell’Unione negli Stati membri, in Dialoghi con Ugo Villani, a cura di E. Triggiani – F.
Cherubini – I. Ingravallo – E. Nalin – R. Virzo, Bari 2017,
605-612.
[5] Per un approfondito esame del tema v. ex multis, R. Cafari Panico,
L’affievolimento dei diritti nella
crisi economica e politica dell’Unione europea, in Studi sull’Integrazione europea, a
cura di E. Triggiani – U. Villani, 12, 2017, 289-316.
[6] Nell’aprile 2013 i Ministri degli Affari Interni di
Germania, Austria e Regno Unito, concordi nel ritenere necessaria la chiusura
dei confini intra-europei, al fine di tutelare i propri sistemi di sicurezza
sociale e le finanze nazionali, avevano interpellato la Commissione europea
denunciando l’abuso del diritto alla libertà di circolazione da
parte di cittadini economicamente inattiva e l’inefficacia della
direttiva CE 2004/38. Con comunicazione COM(2013)837, la Commissione aveva, per
un verso, evidenziato l’assenza di «una relazione statistica tra la
generosità dei sistemi di sicurezza sociale e i flussi di cittadini dell’UE»
e, per altro verso, ribadito la presenza nella citata direttiva di tutte le
norme di garanzia contro eventuali abusi del diritto. V. infra § 5.
[7] S.M. CARBONE, L’Unione
europea a vent’anni da Maastricht. Verso nuove regole, Napoli 2013,
169; L. Moccia, Brexit: cronaca di una separazione annunciata e
alcune riflessioni di scenario, in La
cittadinanza europea 1, 2016, 23, in cui l’autore, con riferimento al
futuro del processo d’integrazione europea dopo Brexit, pone in evidenza che: «questo processo si trova di
fronte a una inversione di tendenza verso derive nazionalistiche, con possibili
ulteriori abbandoni e, comunque, alle prese con un passaggio denso di rischi
per il suo futuro».
[8] Tale espressione nel diritto comunitario (oggi
dell’Unione) indica l’unione di ordinamenti giuridici determinatasi
con l’istituzione dell’Unione europea nel 1992 e di cui sono
soggetti gli Stati, i popoli europei ed i singoli cittadini degli Stati membri.
[9] V. infra § 7. Al
riguardo vi è chi ha indicato tale distinzione utilizzando le espressioni
cittadini “itineranti” e cittadini “sedentari”. In tal
senso v. F. Strumia, La metamorfosi della cittadinanza in Europa,
Napoli 2013, 9 ss.
[10] V. C. Curti Gialdino,
Oltre la Brexit: brevi note sulle
implicazioni giuridiche e politiche per il futuro prossimo dell’Unione
europea, in federalismi.it 13,
2016, < https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?artid=32126&dpath=document&dfile=29062016165126.pdf&content=Oltre+la+Brexit:+brevi+note+sulle+implicazioni+giuridiche+e+politiche+per+il+futuro+prossimo+dell%27Unione+europea+-+stato+-+dottrina+-+ >.
[11] L’obiettivo
principale perseguito dal Trattato di Roma, istitutivo delle Comunità
europee, era quello di realizzare
un’integrazione progressiva degli Stati europei ed istituire un mercato
comune, fondato sulle quattro libertà di circolazione (dei beni, delle persone,
dei capitali e dei servizi) e sul graduale ravvicinamento delle politiche
economiche. Di conseguenza, gli Stati membri avevano rinunciato a parte della
loro sovranità riconoscendo alle Istituzioni comunitarie il potere di
adottare atti normativi direttamente applicabili negli ordinamenti nazionali (regolamenti e direttive) e che prevalgono sul diritto interno. Gli attuali Trattati sul
funzionamento dell’Unione europea e sull’Unione europea,
rispettivamente indicati come TFUE e TUE, sono il risultato delle modifiche
apportate al Trattato che istituisce la Comunità economica europea
(Trattato CEE), firmato a Roma nel 1957 ed entrato in vigore il 1° gennaio
1958. Quest’ultimo è stato modificato più volte, in
particolare dall’Atto unico europeo entrato in vigore nel 1987, dal Trattato di Maastricht (Trattato sull’Unione europea) entrato in vigore nel 1993, dal Trattato di Amsterdam entrato in vigore nel 1999 e dal Trattato di Nizza entrato in vigore il 1° febbraio 2003 e da ultimo dal
Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. A seguito
dell’entrata in vigore del Trattato sull’Unione europea, firmato a
Maastricht ed entrato in vigore nel novembre 1993, l’espressione
“Comunità Economica Europea” è sostituita
dall’espressione “Comunità Europea” in tutto il testo
del Trattato. Da ultimo, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona,
la denominazione “Comunità europea” è stata
sostituita da “Unione europea”.
[12] R. Mastroianni, La libera prestazione di servizi, in G.
Strozzi (a cura di), Il diritto
dell’Unione europea. Parte speciale, Torino 2017, 241 ss.
[13] V. F. Bestagno, La libera circolazione delle merci, in A. Arena, F. Bestagno, G. Rossolillo, Mercato unico e libertà di
circolazione nell’Unione europea, Torino 2016, 1, in cui si precisa che la scelta di utilizzare
l’espressione “mercato comune” rispondeva all’esigenza
di «rimarcare che nella CEE non si sarebbe instaurata una semplice unione
doganale: quest’ultimo concetto indicava infatti i soli due requisiti
della libera circolazione delle merci all’interno e
dell’istituzione di una tariffa doganale verso l’esterno (cfr. art.
28 TFUE)». Sul punto v. ancora F.
Bestagno, L’unione doganale
e la politica commerciale comune, in Elementi
di diritto dell'Unione europea - Parte speciale, a cura di U. Draetta, N.
Parisi, Milano 1999, 18 ss.
[14] Cfr. M.C. Carta, Dalla libertà di circolazione alla
coesione territoriale nell’Unione europea, Napoli 2018, 6 ss.
[15] Così in M.C.
Carta, Dalla libertà di
circolazione, cit., 3.
[16] V. F. Bestagno, La libera circolazione delle merci,
cit., 2-3, in cui l’autore evidenzia che a partire dall’Atto unico
europeo del 1986 «si introdusse e si ampliò l’uso
dell’espressione “mercato interno” (internal market), che ha oggi sostituito l’espressione
mercato comune» anche all’interno del Trattato di Lisbona, quasi a
voler sottolineare «l’obiettivo della creazione di uno spazio senza
frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle
merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, analogo a quelli esistenti
all’interno dei confini nazionali». L’autore pone
altresì in evidenza come, in realtà, in altri documenti delle
Istituzioni europee sia presente l’espressione “mercato
unico” che starebbe ad indicare «l’assoluta unicità
del contesto in cui gli operatori economici si trovano ad operare e le merci ad
essere scambiate nell’UE»; con la precisazione che
«concretamente, non vi sono differenze concettuali rilevanti tra le tre
espressioni (mercato comune, interno, unico), che risultano usate in modo
intercambiabile specie nei documenti delle istituzioni».
[17] V. amplius A. Arena, F. Bestagno, G. Rossolillo, Mercato unico e libertà di
circolazione nell’Unione europea, cit.; P. De Pasquale, L’economia
sociale di mercato nell’Unione europea, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, Napoli 2014, 1643 ss.; L. Daniele,
Diritto del mercato unico europeo,
Milano 2012, 28 ss.; E. Cannizzaro, L.F.
Pace, Le politiche di concorrenza,
in Aa.Vv., Diritto dell’Unione europea – Parte speciale, Torino
2010, 293 ss.; S. Bastianon, Il diritto comunitario della concorrenza e
l’integrazione dei mercati, Milano 2005, 14 ss.; M. Condinanzi, A. Lang, B. Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone,
Milano 2003.
[18] Al
riguardo v. G. Rinaldi Baccelli, La mobilità come diritto fondamentale
della persona, in Continuità
territoriale e servizi di trasporto aereo. Atti del convegno Sassari-Alghero, 15 e 16 ottobre 1999, Torino 2002,
25 ss.
[19] I primi due commi dell’art. 18 TCE così
recitavano: «Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le
limitazioni e le condizioni previste dal presente trattato e dalle disposizioni
adottate in applicazione dello stesso. 2. Quando un’azione della
Comunità risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo e salvo che
il presente trattato non abbia previsto poteri di azione a tal fine, il Consiglio
può adottare disposizioni intese a facilitare l'esercizio dei diritti di
cui al paragrafo 1. Esso delibera secondo la procedura di cui all'articolo
251». Tale disposizione è oggi contenuta nell’art. 21 TFUE.
[20] Ex art. 39 TCE (già art. 48 TCEE). Cfr. P. Gargiulo, La cittadinanza sociale europea tra mito e realtà, in Le nuove frontiere della cittadinanza
europea, cit., 229 ss.; P. Barile,
P. Caretti, Libertà
costituzionali e limiti amministrativi, Trattato
di Diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, XII, Padova 1990,
133; P. Giocoli Nacci, F. Mastroviti, La libertà di circolazione e soggiorno, in Libertà costituzionali e limiti
amministrativi, Trattato di Diritto
amministrativo, loc. cit., 133 ss.
[21] V. Corte di giustizia, sentenza del 11 luglio 1985, Pubblico Ministero c. Robert Heinrich Mutsch,
causa C-137-84, in Raccolta, 1985,
2691 ss., in cui i giudici di Lussemburgo affermano che la parità tra
cittadini comunitari doveva essere riferita non solo al rapporto di lavoro ma
anche ad assicurare «la piena integrazione del lavoratore straniero e
della sua famiglia nello Stato membro ospitante».
[22] V. G.G. Carboni, Il diritto alla mobilità dei cittadini europei, in La continuità territoriale della
Sardegna. Passeggeri e merci, Low cost e turismo, cit., 7, ove
l’autrice sottolinea che «la formazione di un diritto
costituzionale europeo si è sviluppata attraverso processi incrociati di
recezione ed attraverso la creazione di una fitta rete di interdipendenze fra
gli ordinamenti costituzionali degli Stati membri e quello comunitario».
In tal senso v. anche P. Ridola, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino 2010,
52.
[23] V. C. giust. Ce 20 settembre 2001, causa C-184/99, Grzelczyk, in Raccolta, 2001, I-6193. In particolare con tale pronuncia la Corte di
Lussemburgo aveva enunciato un principio di portata generale secondo cui:
«la cittadinanza dell’Unione è destinata ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli
Stati membri, che abilita quanti fra costoro si trovino nella stessa
situazione, a godere dello stesso trattamento giuridico, indipendentemente
dalla loro cittadinanza, salve le eccezioni espressamente previste». In
senso conforme v. anche C. giust. Ce 15 marzo 2005, causa C-209/03, Bidar, in Raccolta, 2005, I-3681. In tema di diritti dei cittadini europei
cfr. C. Morviducci, I diritti dei cittadini europei, Torino
2017, 61 ss.
[24] V. G. Conetti, Manuale di diritto comunitario, a cura
di E. Pennacchini, R. Monaco, L. Ferrari Bravo, S. Puglisi, vol. II, Torino
1984, 305 ss.
[25] Tale disposizione stabilisce che: «l’Unione offre
ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza
frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone
insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere
esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della
criminalità e la lotta contro quest’ultima».
[26] Così in M.C.
Carta, Coesione territoriale e
principio di insularità nell’ordinamento dell’Unione europea,
in Studi sull’integrazione europea,
a cura di U. Villani – E.
Triggiani, III, Bari 2015, 599
ss.
[27] In tal senso v. M. Maresca,
Il ruolo dei principi nel progetto di
trattato costituzionale e il diritto alla mobilità, in Valori e principi nella Costituzione europea,
a cura di M. Maresca, Bologna
2004, 61.
[28] V. M.C. Carta, Dalla libertà di circolazione,
cit., 6 ss.
[29] Ai sensi di tale disposizione: «Per migliorare le
possibilità di occupazione dei lavoratori nell’ambito del mercato
interno e contribuire così al miglioramento del tenore di vita, è
istituito, nel quadro delle disposizioni seguenti, un Fondo sociale europeo che
ha l’obiettivo di promuovere all'interno dell’Unione le
possibilità di occupazione e la mobilità geografica e
professionale dei lavoratori, nonché di facilitare l’adeguamento alle
trasformazioni industriali e ai cambiamenti dei sistemi di produzione, in
particolare attraverso la formazione e la riconversione professionale».
[30] Per un maggior approfondimento di queste tematiche cfr. G.G.
Carboni, Il diritto alla
mobilità dei cittadini europei, cit., 33; M. Condinanzi, A. Lang, B. Nascimbene,
Cittadinanza dell’Unione e libera
circolazione delle persone, cit., 67 ss.
[31] La
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU) è stata adottata il 4 novembre del
1950 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ed è entrata
in vigore il 3 settembre 1953. I 47 Paesi che formano il Consiglio
d’Europa, sono parte della Convenzione; tra essi i 28 Stati membri dell’Unione
europea (27 dopo Brexit).
[32] C. giust. Cee, 12 novembre 1969, causa 29/69, Stauder, in Raccolta, 1969, 419. Sul punto v. M.
Cartabia, J.H.H. Weiler, L’Italia in Europa. Profili
istituzionali e costituzionali, Bologna 2000, 217 ss.
[33] La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(Carta DFUE) è stata adottata dal Consiglio europeo di Nizza del 2000,
riadattata (alle esigenze medio tempore
emerse) e riproclamata con alcune modifiche a Strasburgo nel 2007; nel dicembre
2009, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, è stato
conferito alla Carta lo stesso effetto giuridico vincolante dei trattati (art.
6 TUE). Avendo acquisito il rango di fonte primaria dell’Unione,
pertanto, essa non può più essere considerata come normativa di soft law. Cfr. A. ADINOLFI, La rilevanza della Carta dei diritti
fondamentali nella giurisprudenza interna: qualche riflessione per un tentativo
di ricostruzione sistematica, in Studi
sull’integrazione europea 2018, 29 ss.; ID:, La rilevanza esterna della Carta dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro,
cit., 27 ss.; A. DI STASI, L’ambito
di applicazione della Carta dei diritti fondamentali per gli Stati membri
dell’Unione europea: verso nuovi limiti o “confini” tra
ordinamenti?, in Scritti in onore di
Giuseppe Tesauro, cit., 165 ss.; V. Piccone, Il giudice e l’Europa dopo Lisbona,
in Diritti fondamentali e politiche dell’Unione europea dopo Lisbona, a cura di P. Puoti, F. Guarriello, S.
Civitarese Matteucci, Rimini 2013, 97 ss.; L.
Daniele, Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea e Trattato di Lisbona, in Liber Fausto Pocar, a
cura di G. Venturini, S. Bariatti, I, Milano 2009, 235 ss.
[34] Deve altresì evidenziarsi che il Capo IV della Carta dei
diritti fondamentali UE, intitolato al principio di solidarietà, prevede
una serie di diritti economici e sociali, tra cui il diritto alla sicurezza ed
all’assistenza sociale. Per
un approfondito esame della materia v. D. Damjanovic – B. De Witte, Welfare Integration through EULaw: the Overall Picture in the Light of
the Lisbon Treaty, in U. Neergaard
–R. Nilsen – L.M. Roseberry, Integrating Welfare Function into EU Law. From Rome to Lisbon, Copenaghen 2009, 78 ss.
[35] V. A. Lucarelli, Art. 36, in L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco, M. Cartabia,
A. Celotto, Bologna 2001, 251 ss.; M.
Ross, Article 16 E. C. and
Services of General Interest, in European
Law Review 2000, 22 ss.; L.G.
Radicati Di Brozolo, La nuova disposizione sui servizi di
interesse economico generale, in Diritto
dell’Unione europea 1998, 273 ss.
[36] Per una trattazione approfondita del tema v. A. Lucarelli, R. Mastroianni (a cura
di), I servizi di interesse economico generale,
Napoli 2012.
[37] Cfr.
O. PORCHIA, Alcune considerazioni
sull’art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea: l’accesso ai servizi di interesse economico generale, in Dir. Ue 4, 2002, 637 ss. I servizi di interesse
economico generale non rappresentano delle mere deroghe alla concorrenza ma
costituiscono un valido strumento per perseguire politiche pubbliche volte
all’eliminazione delle condizioni di svantaggio sociale e territoriale.
Da mera deroga al mercato, dunque, il sistema SIEG è divenuto principio
comunitario in forza del quale il diritto europeo prevede un peculiare modello
di organizzazione dei rapporti tra Stato, impresa e consumer-citizen.
L’Unione europea mantiene il potere di dettare i principi di
funzionamento, ma la responsabilità dell’erogazione e del
finanziamento dei SIEG permane in capo agli Stati. Salvo poi attuare un
decentramento degli stessi che, con particolare riferimento al riparto delle
competenze tra Stato e Regioni, ha generato problemi interni. In tal senso v.
R. CARANTA, Il diritto dell’Unione
europea sui servizi di interesse economico generale e il riparto di competenze
tra Stato e Regioni, in Regioni
6, 2011, 1176 ss. Sul punto v. F. CINTIOLI, La
dimensione europea dei servizi di interesse economico generale, in
federalismi.it 11, 2012, < https://federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=247&content=&content_auth=
>; G. CAGGIANO, Il ruolo della
Commissione per la compensazione del Servizio Pubblico nella disciplina
generale e televisiva, in Studi
Sull’integrazione Europea 64, 2006; G. CAGGIANO, Cultura e media nel diritto dell’Unione europea in prospettiva
della Brexit, in federalismi.it
18, 2017, < https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=34787
>.
[38] Cfr. R. Cafari Panico,
Concorrenza, benessere del consumatore e
programmi di compliance, in Scritti
in onore di Giuseppe Tesauro, cit., 1473 ss.
[39] V. G.G. Carboni, Il diritto alla mobilità dei cittadini europei, cit., 15; R.
Cafari Panico, Concorrenza, benessere del consumatore e
programmi di compliance: nuove
tendenze, cit., 1473 ss.
[40] V. supra § 3.
[41] Il Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a
Maastricht il 7 febbraio 1992, è entrato in vigore il 1º
novembre 1993.
39 Cfr. U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, Bari 2017, 119; L.A. Valvo, Lineamenti di Diritto dell’Unione europea. L’integrazione
europea oltre Lisbona, Padova 2017, 91; E.
Triggiani, La cittadinanza europea
per la “utopia” sovranazionale, in Studi sull’integrazione europea III, 2006, 435, in cui
l’autore evidenzia la “centralità” della cittadinanza
europea sotto il profilo non solo simbolico ma sostanziale,
nell’evoluzione dell’intero processo di integrazione europea.
[43] V. C. Morviducci,
I diritti dei cittadini europei,
cit., 3 ss.
[44] V. C. Margiotta, Cittadinanza europea. Istruzioni per
l’uso, cit., 125 ss.
[45] Sussiste, infatti, un legame necessario tra la cittadinanza
europea e le cittadinanze nazionali dei singoli Stati membri, essendo questi
ultimi competenti in via esclusiva nell’individuazione dei criteri di
attribuzione e perdita della cittadinanza nazionale (e conseguentemente anche
di quella europea).
[46] Al riguardo basti ricordare il leading case del c.d. Caso
Micheletti, Corte di Giustizia, sentenza del 7 luglio 1992, Micheletti ed altri c. Delegazione del
Governo della Cantabria, causa C- 369/90, in Raccolta, 1992, 4258. Cfr.
H.U. Jessurun D’Oliverira, Annotation Case C-369/90 Micheletti, in Common Market Law Review 30, 1993,
623-637.
[47] Al
riguardo si ricorda che le condizioni ed i limiti della libertà di movimento
e soggiorno dei cittadini europei sono stabiliti nella Direttiva 2004/38/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei
cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento
(CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE,
73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE. I diritti
di sicurezza sociale e di mobilità sono disciplinati dal Regolamento CE
n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004
relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale e dal Regolamento CE
n. 987/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, che
stabilisce le modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 883/2004
relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.
[48] V. Accordo di Edimburgo dell’11 e 12 novembre 1992,
ratificato dal Consiglio europeo su sollecitazione della Danimarca, fortemente
preoccupata delle possibili conseguenze che avrebbero potuto derivare
dall’istituzionalizzazione della cittadinanza europea.
[49] Così in C. Margiotta,
I presupposti teorici della cittadinanza
europea: originarie contraddizioni e nuovi limiti, in fsjeurostudies.eu 1, 2018, 51 ( http://www.fsjeurostudies.eu/files/FSJ.2018.I.Margiotta.4.pdf ).
[50] V. M. Cartabia,
J.H.H. Weiler, L’Italia in Europa. Profili
istituzionali e costituzionali, cit., 233-234.
[51] Artt. 8 e seguenti TCE. Sul punto v. D. Kostakopoulu, Ideas, Norms and European Citizenship: Explaining Institutional Change,
in Modern Law Review 2, 2005, 233 ss.
[52] Cfr. C. Koenig, A.
Haratsch, M. Bonini, Diritto Europeo. Introduzione al diritto pubblico e privato della Comunità e
dell’Unione europea, Milano 2000, 206 ss.
[53] Sul nesso tra diritti di cittadinanza, con particolare
riferimento alla libertà di circolazione nel diritto comunitario, la
Corte di Giustizia si è pronunciata nelle sentenze C. giust. Ue 15 novembre 2011, causa C-256/11, Dereci, in Raccolta, 2011, I-11315, e C. giust. Ue,
causa C-34/09, Ruiz-Zambrano, in Raccolta, 2011, I-01177,
quest’ultima vertente sui diritti dei c.d. cittadini stanziali, ovvero di coloro che non hanno mai varcato i
confini del proprio Stato di origine. Tale pronuncia ha evidenziato come il
portato dell’art. 20 TFUE, interpretato estensivamente, possa
rappresentare un meccanismo inibitorio per le legislazioni nazionali in materia
di controllo dell’immigrazione extracomunitaria. Sul punto, in dottrina,
v. C. Mordivucci, I diritti
dei cittadini europei, Torino 2014, 49 ss. Sul tema dei rapporti tra
diritto UE e ordinamento interno v. amplius
F. Munari, Gli effetti del diritto dell’Unione europea sul sistema interno
delle fonti, in Scritti in onore di
Giuseppe Tesauro, cit., 2121 ss.
[54] Cfr. M.C. Carta, Dalla libertà di circolazione alla
coesione territoriale nell’Unione europea, cit., 8; P. Gargiulo, La cittadinanza sociale europea tra mito e realtà, in Le frontiere della cittadinanza europea,
cit., 229; J. Ziller Il diritto di soggiorno e di libera
circolazione nell’Unione europea, alla luce della giurisprudenza e del
Trattato di Lisbona, in Diritto
amministrativo IV, 2008, 946.
[55] V. art. 22 TFUE che riconosce il diritto di elettorato attivo e
passivo alle elezioni amministrative e del Parlamento europeo ad «ogni
cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è
cittadino», con ciò volendo esaltare, in riferimento alle elezioni
del PE, il carattere unitariamente rappresentativo dei cittadini degli Stati
membri.
[56] Cfr. M. Abagnale,
Brexit e cittadinanza europea, in opiniojuris.it 27 febbraio 2018,
http://www.opiniojuris.it/brexit-e-cittadinanza-europea/.
[57] V. supra §§
3 e 4.
[58] V. J. Ziller, I diritti fondamentali tra tradizioni
costituzionali e «costituzionalizzazione» della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, in Diritti fondamentali e politiche dell’Unione europea dopo Lisbona,
cit., 47 ss.
[59] V. G. Rossolillo, La libera circolazione dei lavoratori,
in A. Arena, F. Bestagno, G. Rossolillo,
Mercato unico e libertà di
circolazione nell’Unione europea, cit., 195 ss.
[60] V. supra § 3.
[61] Appare opportuno ricordare che nel 1999 sono state adottate dal
Consiglio tre direttive che hanno avuto il merito di estendere la
libertà di circolazione e soggiorno ai pensionati, agli studenti e alle
persone inattive; si tratta rispettivamente della direttiva 90/364/Cee del 28
giugno 1990; la direttiva 90/366/Cee del 1990, annullata dalla Corte di
Giustizia e sostituita dalla direttiva 93/96/Cee del 29 ottobre 1993; e la
direttiva 90/363/Cee del 28 giugno 1990. Il riconoscimento della
mobilità dei soggetti inattivi era stato preceduto dalla giurisprudenza
della Corte di Giustizia in materia di libera prestazione dei servizi, che
aveva riconosciuto la libertà dei destinatari di recarsi in un altro
Stato per beneficiare della prestazione. Sul tema del diverso fondamento della
libertà di circolazione prima e dopo il Trattato di Maastricht, cfr. G. Tesauro,
Diritto dell’Unione europea,
Padova 2012, 443 ss.; M. Condinanzi, B.
Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone
fisiche, in Trattato di Diritto amministrativo
europeo, diretto da M. Chiti, M. Greco, Milano 2007, 87 ss.
[62] V. C. Koenig, A.
Haratsch, M. Bonini, Diritto europeo, cit., 206 ss.
[63] Cfr. T. Pullano, La
citoyenneté européenne. Une space quasi étatique,
Paris 2014, 73 ss., ove si pone in evidenza che la
“sovranità” in Europa consiste nella gestione di una
popolazione mobile e gli spazi nazionali vengono superati da un più
ampio spazio definito in termini giuridici più che territoriali: i
diritti dei cittadini vengono, infatti, fissati dal diritto europeo e non
discendono più dai singoli ordinamenti nazionali.
[64] V. P. Gargiulo,
La cittadinanza sociale europea tra mito
e realtà, cit., 229 ss. Cfr. anche G.
Caggiano, Il ruolo della Commissione, cit., 61, in cui relativamente
all’importanza rivestita in ambito europeo dai servizi di interesse
economico generale, viene precisato che: «la necessità che la
disciplina dei SIEG rifletta non solo i principi della concorrenza, ma il
diritto fondamentale ai servizi essenziali, rappresenta il nucleo centrale del
dibattito sul modello sociale europeo» e ciò in quanto il settore
dei SIEG «tocca la qualità della vita dei cittadini
europei».
[65] In caso contrario, si sarebbe confermata la concezione
esclusivamente economica dei precedenti sistemi di circolazione. In tal senso v. N. Reich, Union Citizenship: Metaphor or Source of Rights, in European Law Journal 1, 2001, 4-23.
[66] Cfr. M. Condinanzi, A. Lang., B. Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone,
cit., 39.
[67] V. Corte di Giustizia, sentenza del 17 settembre 2002, Baumbast e R. c. Secretary of the State for
the Home Department, causa C-413/99, in Raccolta, 2002, 7091, in cui viene precisato che
la subordinazione ai legittimi interessi economici degli Stati dell’esercizio
del diritto di soggiorno del cittadino non nativo, avrebbe dovuto rispettare il
principio di ragionevolezza e di proporzionalità. Conseguentemente i
provvedimenti adottati dallo Stato membro per limitare la libertà di
circolazione e soggiorno di un cittadino europeo al fine di non subire
svantaggi economici, avrebbero dovuto essere necessari e proporzionali rispetto
al fine perseguito giacché, in caso contrario, si sarebbero tradotti in
una illegittima quanto ingiustificata lesione dei diritti di cittadinanza
dell’Unione.
[68] V. Corte di Giustizia, sentenza del 20 settembre 2001, Rudy Grzelczyk c. Centre public d’aide
sociale d’Ottignies-Louvain-la-Neuve, causa C-184-99, in Raccolta, 2001, 6229, in cui si ribadisce la possibilità di accedere
all’assistenza sociale in uno Stato ospitante anche per i soggetti non
economicamente attivi. In particolare si afferma che: «uno Stato
ospitante non potrebbe – in quanto inammissibile per l’ordinamento
comunitario – negare sulla sola base della nazionalità una prestazione
sociale al cittadino straniero legittimamente residente sul suo
territorio».
[69] V. supra § 4.
[70] V. G. Contaldi, Diritti sociali e programmi di riforme
economiche nell'Unione europea, in Dialoghi
sul welfare, a cura di G.L.
Canavesi, Milano 2014, 42 ss.; E.
Triggiani, La complessa vicenda
dei diritti sociali fondamentali nell’Unione europea, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro,
cit., 693 ss.
[71] V. C. Morviducci,
La libera circolazione dei cittadini
nell’Unione europea, Torino 2009, 26 ss.
[72] V. C. Margiotta, I presupposti teorici della cittadinanza
europea, cit., 53.
[73] Al riguardo, si precisa che il “sistema sociale
europeo” era stato creato nel 1958 per mettere a disposizione dei
cittadini dell’Unione strumenti imparziali a cui accedere per salvaguardare
la libera circolazione o, quantomeno, per mitigare gli svantaggi dovuti alla
non armonizzazione dei sistemi di sicurezza sociale dei singoli Stati membri.
Cfr. H. VERSCHUEREN, Scenarios for Brexit
and social security, in Maastricht
Journal of European and Comparative Law 24 (3), 2017, 371 ss. Il vigente
art. 48 TFUE al riguardo prevede la necessità di adottare «in
materia di sicurezza sociale le misure necessarie per l’instaurazione
della libera circolazione dei lavoratori». In particolare il sistema di
coordinamento deve garantite «[…] ai lavoratori migranti dipendenti
e autonomi e ai loro aventi diritto: a) il cumulo di tutti i periodi presi in
considerazione dalle varie legislazioni nazionali, sia per il sorgere e la
conservazione del diritto alle prestazioni sia per il calcolo di queste; b) il
pagamento delle prestazioni alle persone residenti nei territori degli Stati
membri».
[74] Così in S. Giubboni
- G. Orlandini, La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea,
Bologna 2007, 68 ss.; v. anche E. Fumero
- F. Strumia, Stranieri integrati e cittadini emarginati? Profili evolutivi di una
nozione sociale della cittadinanza europea, in Materiali per una storia della cultura giuridica 2, 2015, 423-440.
[75] Cfr. M. Ferrara, The Boundaries
of Welfare, European Integration and the New Spatial Politics of Social
Protection, Oxford 2005. In tal senso v. anche C. Jeorges, What is
Left of the Integration through Law Project? A Reconstruction in Conflicts-Law Union, Oslo 2012, 46 ss.
[76] Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del
29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro
familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive
64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE,
90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE.
[77] V. infra
§ 7.
[78] Cfr. P.
Minderhoud, Directive 2004/38 and
Access to Social Assistance Benefits, in Journal on Free Movement of Workers in the European Union 2013,
26-33.
[79] Tra il 2008 e il 2016, il Belgio ha notificato ad un totale di
12.735 cittadini dell’Unione una decisione che metteva fine al loro
soggiorno, con annesso ordine di espulsione (ordre de
quitter le territoire). Da sole 8 nel 2008, tali decisioni
si sono moltiplicate in anni recenti subendo incrementi esponenziali, con un
picco di 2.712 nel 2013, fino ad approdare, nel 2016, ad un totale di 1.918.
[80] Nel preambolo della citata direttiva 2004/38, le espulsioni
sono definite come lo strumento che più rappresenta la restrizione al
diritto di circolazione e residenza. In
proposito v. S. Maslowski, The Expulsion of European Union Citizens
from the Host Member State: Legal Grounds and Practice, in Central and Eastern European Migration
Review 2, 2015, 61-85.
[81] Ai sensi di tale disposizione: «as long as the beneficiaries of the right of
residence do not become an unreasonable burden on the social assistance system of
the host Member State they should not be expelled».
[82] Per
benefici dell’assistenza sociale si intendono quei benefit che lo Stato
membro garantisce a coloro che non hanno risorse sufficienti per far fronte ai
loro bisogni primari. I lavoratori ed i loro familiari hanno titolo per
ricevere le stesse prestazioni assistenziali e sociali dall’inizio del
periodo di permanenza nello Stato ospitante. Il principio generale è,
dunque, quello di reciprocità piena per i lavoratori nativi e non (e le
loro famiglie). Detta reciprocità, invece, allo scopo di evitare
sovraccarichi per la spesa sociale dello Stato ospitante, per i non lavoratori
(legalmente residenti) risulta “condizionata” al rispetto di
specifici requisiti. In particolare, la richiamata normativa europea prevede
che per i primi tre mesi ogni cittadino europeo ha il diritto di risiedere nel
territorio di un altro Stato europeo senza alcuna condizione o formalità
se non quella di avere un valido documento. Dopo i primi tre mesi i cittadini
europei necessitano di soddisfare talune condizioni che dipendono dal loro
status nel Paese ospitante e che possono essere sinteticamente riassunte come
segue: gli studenti e le altre persone “non” attive (i pensionati e
le loro famiglie) hanno il diritto di risiedere per più di tre mesi
soltanto se hanno un’assicurazione sanitaria completa e sufficienti
risorse finanziarie per se stessi e la propria famiglia, allo scopo di non
diventare un peso per il sistema assistenziale e sociale del Paese ospitante.
Coloro che cercano lavoro possono risiedere sino a sei mesi senza condizioni ed
anche oltre a patto che dimostrino che hanno un’effettiva
possibilità di trovare lavoro.
[83] V. A. Nico - G. Luchena, Lo Stato sociale sub condicione
quale esito delle politiche finanziarie: le “raccomandazioni”
europee per l’inclusione, in Studi
sull’integrazione europea 2, 2018, 249-266.
[84] Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 20 maggio 2014, causa
C-333/13, Elisabeta Dano, Florin Dano c.
Jobcenter Leipzig, in cui nelle conclusioni dell’Avvocato Generale M.
Wathelet si legge che: «una semplice domanda di assistenza sociale non
può costituire di per sé un onere eccessivo per il sistema di
assistenza sociale di uno Stato membro e causare la perdita del diritto di
soggiorno». È, infatti, difficilmente concepibile che
l’aiuto accordato ad un solo richiedente, nella sua esiguità,
possa essere insostenibile per uno Stato membro.
[85] V. S. Maslowski,
The Expulsion of European Union Citizens
from the Host Member State: Legal Grounds and Practice, cit., 70, in cui
l’autore evidenzia che: «Many
Member States have already exercised their power of expulsion. Some do it with
discretion and expel a limited number of EU citizens, while other Member
States’ expulsion practices are more mediatised because of the huge number
of expelled migrants. In the last ten years, cases of expulsion of EU citizens
have become increasingly common and mainly concern two types of migrants: EU
citizens of Roma origin and noneconomic migrants who pose an unreasonable
burden for the host Member State».
[86] L’eccessiva discrezionalità concessa agli Stati
ha, da ultimo, consentito alla Germania di introdurre con la riforma del 2016
(modificata nel 2017) il divieto di re-ingresso nel territorio tedesco per un
determinato periodo per coloro che abbiano subito un’espulsione di tipo
economico.
[87] Cfr. ancora Corte di Giustizia, sentenza 20 maggio 2014, causa
C-333/13, Elisabeta Dano, Florin Dano c. Jobcenter Leipzig. Con tale sentenza,
la Corte di Giustizia, in Grande Sezione, seguendo le conclusioni dell’avvocato
generale Melchior Wathelet, ha affermato la compatibilità con il diritto
UE della normativa tedesca che nega prestazioni sociali non contributive ai
cittadini di altri Stati membri, allorché questi non godano di un diritto
di soggiorno in forza della direttiva 2004/38 nello Stato membro ospitante,
oppure non dispongano di risorse economiche sufficienti per non divenire un
“onere eccessivo” per il sistema interno di sicurezza sociale. La
Corte, citando espressamente al punto 76 il fenomeno del “turismo
sociale” precisa che il criterio delle risorse economiche sufficienti
«mira ad evitare che i cittadini dell’Unione economicamente
inattivi utilizzino il sistema di protezione sociale dello Stato membro
ospitante per finanziare il proprio sostentamento». La
particolarità di tale pronuncia consiste nel fatto che la Corte,
nell’attribuire particolare rilevanza alle condizioni di autosufficienza
economica, ha subordinato il diritto alla parità di trattamento al
possesso non di “risorse economiche tout court”, ma di risorse
“proprie”; in tal modo reinterpretando la direttiva 2004/38 come
«strumento di controllo dell’accesso al welfare per i cittadini
migranti, piuttosto che come strumento per facilitare la libertà di
circolazione». Così C. Margiotta, I presupposti teorici della
cittadinanza europea, cit., 64.
[88] V. D.
THYM, When Union Citizens turn into
illegal migrants: The Dano Case, in European
Law Review 2, 2015, 249-262; C. SANNA, La
crisi economica impone restrizioni alla libera circolazione delle persone?,
in Eurojus.it 2014, < http://rivista.eurojus.it/la-crisi-economica-impone-restrizioni-alla-libera-circolazione-delle-persone/
>.
[89] Così in E. Spaventa, Citizenship:
Reallocating Welfare Responsibilities to the State of Origin, in P. Koutrakos, N.N. Shuibhne, P. Syrpis,
Exceptions from Eu Free Movement Law,
Oxford 2016, 32-43.
[90] Durante il servizio a cura della giornalista Luciana Mella,
andato in onda il 19 settembre 2018 è stato precisato che in base alla
vigente normativa tedesca (Freizügigkeitsgesetz/EU
vom 30. Juli 2004 (BGBl. I S. 1950, 1986), das zuletzt durch
Artikel 6 des Gesetzes vom 20. Juli 2017 (BGBl. I S. 2780) geändert worden ist. Stand:
Zuletzt geändert durch Art. 6 G v. 20.7.2017 I 2780), dopo un anno di lavoro, si matura il diritto al sussidio di
disoccupazione, che ha la durata di 6 mesi. Per altri 6 mesi, nel caso se ne
faccia richiesta, si possono percepire prestazioni di sostegno sociale.
Superato questo periodo, se non si risiede in Germania da almeno cinque anni, o
si svolge una prestazione lavorativa di almeno 10,5 ore settimanali, non si ha
più diritto alle prestazioni assistenziali. Alcuni comuni tedeschi,
dopo aver ricevuto l’informazione da parte dei Jobcenter (gli uffici del
lavoro locali) di richieste di rinnovo di aiuto sociale, oltre i 6 mesi
garantiti, avendo accertato l’insussistenza dei requisiti di legge (5
anni di residenza o prestazione lavorativa di almeno 10,5 ore settimanali),
hanno "consigliato" agli italiani, e agli altri stranieri di origine
europea, di lasciare la Germania, a meno che non dimostrino di essere alla
ricerca di un lavoro.
[91] V. supra § 3.
[92] Sul nesso tra diritti di cittadinanza, con particolare
riferimento alla libertà di circolazione nel diritto comunitario, la
Corte di Giustizia si è pronunciata nella nota sentenza Corte di
giustizia, 15 novembre 2011, causa C-256/11, Dereci, in Racc., 2011, I-11315. Cfr. D.G. Rinoldi – N. Parisi, Mobilità globale? Migrazioni e altri
movimenti incidenti sull'integrazione europea al tempo delle libertà e
dei conflitti, in Le sfide
dell'Unione europea a 60 anni dalla Conferenza di Messina, a cura di L. Panella, Napoli 2016, 201-236.
[93] Cfr. C. Margiotta,
I presupposti teorici della cittadinanza
europea, cit., 56.
[94] Corte di giustizia, causa C-34/09, Ruiz-Zambrano, in Raccolta,
2011, I-01177, vertente sui diritti dei cc.dd. cittadini stanziali, ovvero di coloro che non hanno mai varcato i
confini del proprio Stato di origine. Sul punto, in dottrina, v. C. Morviducci,
I diritti dei cittadini europei,
cit., 49.
[95] Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza del 10 maggio
2017, causa C-133/15, Chavez-Vilchez e
alti c. Comitato di Previdenza Sociale dei Paesi Bassi, reperibile online.
[96] V. supra
§ 5.
[97] V. F. Fabbrini,
The Fiscal Compact, the ‘Golden Rule’ and the Paradox of
European Federalism, in Boston
College International and Comparative Law Review 36, 2013, 1-38.
[98] In tal senso v. T. Pullano,
La citoyenneté européenne, cit., 73-81.
[99] Cfr. E. Balibar, Crisi e fine
dell’Europa, Torino 2016; A.J. MENÉNDEZ, The existential crisis of the European Union, in German Law Journal 5, 2014, 453-526.
[100] V. supra § 5.
[101] V. supra §§
3, 5 e 6.
[102] V. C. CURTI GIALDINO, Verso
la fase due della Brexit: promesse, insidie e risultati parziali del negoziato,
in Integrazione europea e
sovranazionalità, a cura di G. Caggiano, Bari 2018, 177; B.
CARAVITA, Brexit: ad un anno dal
referendum a che punto è la notte?, in federalismi.it 16, 2017, < https://www.federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=448 >, in cui l’autore
definisce Brexit come «la
scommessa costituzionale del momento più grave di una struttura
federata, che è quella della secessione»; P. Manzini, Brexit: il “lungo addio”, tra diritto dell’Unione
europea e diritto internazionale, in Le
Istituzioni del federalismo numero speciale, 2017, 89-104.
[103] Il referendum consultivo sulla permanenza del Regno Unito
nell’Unione europea del 23 giugno 2016, che ha visto la partecipazione
del 72,21% degli aventi diritto, si è concluso con un voto favorevole
all’uscita (leave) per il
51,9%, contro il 48,1% (remain) che
ha votato per rimanere nell’Unione. Il voto ha manifestato una spaccatura
tra le nazioni del Regno Unito, con Inghilterra (73%) e Galles (71%) favorevoli
al recesso dall’Ue e Scozia
(67,2%) e Irlanda del Nord (62,6%) che hanno votato per rimanere.
[104] Tale espressione è utilizzata per indicare il fenomeno
della circolazione delle persone finalizzata a fruire di benefici non correlati
ad una situazione lavorativa o alla richiesta di lavoro. V. A. Poggi, Brexit e lo Stato sociale, in federalismi.it
16, 2017, < https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=34671 >.
[105] In tal senso v. C. Margiotta,
I presupposti teorici della cittadinanza
europea, cit.,
49-72.
[106] Il Regno Unito ha sempre avuto un rapporto controverso con
l’Unione europea, improntato su un regime che si potrebbe definire
“derogatorio” e riassumibile con l’emblematica formula del “yes, but...”. La Gran Bretagna,
infatti, non ha adottato l’euro nel 2001 né ha sottoscritto il Fiscal Compact nel 2012, mantenendo in
tal modo intatto il proprio potere in materia di politica monetaria e di
bilancio; ha, altresì, ottenuto nel 1984 il diritto al c.d. rebate, vale a dire il rimborso di una
parte dei contributi versati; non ha, infine, aderito agli accordi di Schengen
relativi all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere né
si è vincolata alle norme comunitarie previste per la cooperazione
giudiziaria e di polizia in materia penale.
Al riguardo cfr. P. Selicato,
Le conseguenze fiscali dell’uscita
del Regno Unito dall’Unione Europea (prime valutazioni), in federalismi.it 16, 9 agosto 2017. < https://www.sipotra.it/old/wp-content/uploads/2017/09/Le-conseguenze-fiscali-dell’uscita-del-Regno-Unito-dall’Unione-Europea-prime-valutazioni.pdf >.
[107] Con
tale espressione di suole indicare il sistema sociale di uno Stato, volto a
garantire a tutti i cittadini la fruizione dei servizi sociali ritenuti
indispensabili. Al riguardo si precisa che, benché gli Stati membri abbiano
competenza esclusiva nelle materie del welfare, l’accesso a tale sistema
di protezione sociale del Paese ove si soggiorna è connesso a due
principi cardine dell’ordinamento comunitario: la libertà di
circolazione e il divieto di discriminazione (dei lavoratori) fondata sulla
nazionalità (artt. 45 e 46 TFUE). V. infra §§ 3, 4, 6 e 7.
[108] In realtà, il clima di “allarme” per la
sostenibilità del welfare
britannico rispetto agli ingressi intra-Unione nel Paese, riguarda tanto i
cittadini inattivi quanto i lavoratori ed i loro familiari in ricongiungimento
ai quali è riconosciuto il principio di parità di trattamento ex artt. 7 e 12 del Regolamento CEE
1612/1968 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione
dei lavoratori all’interno della Comunità. Cfr. A. POGGI, Brexit e lo Stato sociale, cit.
[109] Vi è chi, con riferimento all’esito di tale
referendum, ha parlato della «più grave crisi del sistema
politico-istituzionale inglese a far data dal 1688». Così si
è espresso D. Galligan, The Constitution in Crisis 2016, in
occasione della Conferenza tenuta l’8 dicembre 2016 presso il Wolfson
College, Oxford, la cui sintesi è reperibile online sul sito web di The Foundation for Law, Justice and Society.
V. anche F. Bilancia, La Brexit: il più grave sintomo
nazionalista della crisi della libertà di circolazione delle persone
nell’UE, in eticaeconomica.it 2017, < https://www.eticaeconomia.it/la-brexit-il-piu-grave-sintomo-nazionalista-della-crisi-della-liberta-di-circolazione-delle-persone-nellue/ >; S. Amadeo, Questione
1.1.1 Brexit, reperibile online < https://moodle2.units.it/pluginfile.php/112979/mod_resource/content/1/Brexit_Treccani_def2.pdf >; P. Mindus, European
citizenship after Brexit, Basingstoke 2017; P. Manzini, Sulla revoca
della notifica di recesso dall'Unione europea, in Dialoghi con Ugo Villani, a cura di E. Triggiani - F. Cherubini - I. Ingravallo - E. Nalin - R. Virzo, Bari 2017, 735-741.
[110] Corre l’obbligo di precisare al riguardo che ai sensi del
§ 3 dell’art. 50 TFUE i trattati cessano di essere applicabili allo
Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di
recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica al Consiglio
europeo dell’intenzione di voler recedere dall’Unione europea;
fatta salva la possibilità per il Consiglio europeo, d’intesa con
lo Stato membro interessato, di decidere all'unanimità di prorogare tale
termine.
[111] V. Report TF50 (2017)
19 – Commission to EU 27
dell’8 dicembre 2017 presentato in vista del Consiglio europeo del 14-15
dicembre 2017, in < www.ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/joint_report.pdf >.
[112] Cfr. Draft Agreement on the Withdrawal of the United Kingdom of Great Britain
and Northern Ireland from the European Union and the European Atomic Energy
Community highlighting the progress made (coloured version) in the negotiation
round with the UK of 16-19 March 2018, 19 March 2018, reperibile online in <https://www.ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/draft_agreement_coloured.pdf > in cui viene specificata la leggenda relativa ai
colori utilizzati.
[113] La bozza di accordo consta di 168 articoli, evidenziati in tre
diversi colori volti rispettivamente a significare il raggiungimento di
un’intesa (verde), il conseguimento di un accordo politico (giallo), gli
aspetti che ancora devono essere negoziati (bianco).
[114] C. Curti Gialdino,
Le trattative tra il Regno Unito e
l’Unione europea per la Brexit alla luce dei primi due cicli negoziali,
in federalismi.it 16, 2017, 2-37, < https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=34677&content=Le+trattative+tra+il+Regno+Unito+e+l%27Unione+europea+per+la+Brexit+alla+luce+dei+primi+due+cicli+negoziali&content_author=%3Cb%3ECarlo+Curti+Gialdino%3C/b%3E > ; Id., Verso la fase due
della Brexit: promesse, insidie e risultati parziali del negoziato, in federalismi.it 24, 2017, 1-11, < https://federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=461&content=Verso+la+fase+due+della+Brexit:+promesse,+insidie+e+risultati+parziali+del+negoziato&content_auth=%253Cb%253ECarlo+Curti+Gialdino%253C/b%253E >.
[115] I
primi tre articoli (28, 29 e 29a) sono focalizzati ad individuare i soggetti
aventi diritto ed a stabilire le norme da applicare. Gli altri due articoli (il
30 ed il 31) riguardano l’amministrazione cooperativa e lo sviluppo ed
adattamento delle norme, basate in larga parte sul regolamento CE 883/2004, che
rimane sostanzialmente invariato. Sul punto v. Com.it.es, La Sicurezza Sociale Europea nel contesto dei negoziati tra Regno Unito
ed Unione europea, 12 giugno 2018, reperibile online. < www.comiteslondra.info/brexit/osservatorio-politico/la-sicurezza-sociale-europea-nel-contesto-dei-negoziati-tra-regno-unito-ed-unione-europea/ >.
[116] House of Commons Library, Brexit:
the draft withdrawal agreement, Briefing Paper n. 8269, 23 March 2018, 22.
[117] V. supra § 6.
106
Dai sondaggi effettuati subito dopo l’esito del referendum del 26 giugno
2016 è emerso che oltre un milione di cittadini britannici che aveva
votato in favore del ‘leave’, è risultato essersi pentito e
si è mostrato favorevole all’ipotesi di un secondo referendum sul
c.d. Bregret, acronimo di Brexit e regret, ovvero il rammarico per
l’uscita dall’Ue. In
tal senso cfr. S. WALTERS, Theresa May is
the only Tory who can stop Boris becoming PM, poll shows as it emerges
1.1million people regret voting Leave, in Daily Mail 26 giugno 2016, reperibile online in < http://www.dailymail.co.uk/news/article-3660294/May-Tory-stop-Boris-PM-poll-shows-emerges-1-1million-people-regret-voting-Leave.html >.
[119]
«Sfortunatamente - ha dichiarato lo scorso 16 settembre Sadiq Khan -
siamo in una posizione in cui il governo sta intraprendendo negoziati che ci
porteranno verso due scenari: o un cattivo accordo, con la possibilità
di lasciare l’Unione europea senza sapere quale sarà la nostra
futura relazione con Bruxelles, o nessun accordo. Entrambe le opzioni
porterebbero gravi danni a Londra e al Paese». Fautori della “linea
dura” sull’addio all’Europa e, dunque, in netto contrasto con
l’azione portata avanti dal governo inglese per l’uscita della Gran
Bretagna dall’UE, sia David Davis, ex ministro del Governo May con delega
alla Brexit (sostituito da Dominic Raab, già viceministro della
Giustizia ed esponente del fronte pro-Leave durante la campagna referendaria
del 2016), sia l’ex ministro degli esteri britannico Boris Johnson,
entrambi dimissionari lo scorso 9 luglio.
[120] In virtù dell’art. 50 paragrafi 2 e 3 TUE,
l’Unione europea deve concludere con il Regno Unito, entro due anni dalla
notifica della propria decisione di recedere dall’Ue datata 29 marzo 2017 «un
accordo volto a definire le modalità di recesso, tenendo conto del
quadro delle future relazioni con l’Unione». Nell’ipotesi in
cui non si dovesse addivenire ad un accordo di recesso, salvo eccezionali
proroghe, i Trattati cesseranno di essere applicati al Regno Unito. V. F. Munari, You can’t have your cake and eat it too: Why the UK has not right
to revoke its prospected notification on Brexit, 9 dicembre 2016, in sidiblog.org. Per un commento
all’art. 50 TUE v. M. Vellano,
Commento art. 50 TUE, in Commentario breve ai Trattati sull'Unione
europea e sul funzionamento dell’Unione europea, a cura di F. Pocar - M.C. Baruffi, Padova 2014, 150-152.
[121] V. supra §§
3 e 6.
[122] V. Commissione europea, COM(2017)206, 26 aprile 2017, Documento di riflessione sulla dimensione
sociale dell’Europa, in www.ec.europa.eu .
[123] Cfr. M. Rhodes, Alla disperata ricerca di una soluzione:
democrazia sociale, thatcherismo e “terza via” nel sistema del
welfare britannico, in Nuova Europa e
nuovo welfare, a cura di M.
Ferrara, Bari 2001, 59.