Contributo-2018

 

 

Bussi-Foto-2015LA MEDIAZIONE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA NELLA PACE DI WESTFALIA

 

LUISA BUSSI, Roma

già professore di Storia del Diritto

nell’Università di Sassari

 

INDICE

INTRODUZIONE. – I. LE CONDIZIONI POLITICHE DELL’EUROPA ALL’INIZIO DEL XVII SECOLO. – I.1. Le cause della guerra. – I.2. Il periodo Boemo-Palatino. – I.3. Il periodo Danese e l'apogeo degli Asburgo. – I.4. – Il periodo Svedese. – I.5. L'entrata in guerra della Francia. – II. LA POLITICA DI VENEZIA NELLA GUERRA DEI TRENT’ANNI. – II.1. Venezia fra le potenze europee del XVII secolo. – II.2. Lo scoppio della guerra. La neutralità di Venezia. – II.3. La questione della Valtellina. – II.4. La successione al ducato di Mantova. – II.5. La mediazione di Venezia nella pace fra l'Inghilterra e la Francia. I negoziati della Repubblica per favorire l'ingresso di Gustavo Adolfo in guerra. – II.6. Venezia torna ad essere neutrale. – II.7. Le difficoltà di addivenire alla pace in Europa dopo l'entrata in guerra della Francia. – III. I MEZZI PACIFICI DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI. – III.1. Mediazione, arbitrato, intervento. – III.2. Mediazione e buoni uffici. – III.3. La mediazione e la storia del diritto internazionale. – III.4. La mediazione dal punto di vista degli studiosi di diritto internazionale. – III.5. Offerte di mediazione sul finire della guerra dei trent'anni. – IV. GLI ANNI PREPARATORI DEL CONGRESSO DI PACE. – IV.1. I progetti di pace e la politica di Urbano VIII. – IV.2. L'alleanza franco-svedese. – IV.3. L'offerta di mediazione della Repubblica di Venezia. – IV.4. Il problema della partecipazione dei Reichsstände al congresso di pace. – IV.5. Le ambascerie di Correr e Grimani. – IV.6. Il trattato preliminare di Amburgo. – V. IL CONGRESSO DI PACE – V.1. La sede. – V.2. L’ambasciatore veneto e il Nunzio apostolico. – V.3. Le principali legazioni. – V.4. Il cerimoniale. – V.5. La Dieta dell’Impero dopo Westfalia: primo areopago d’Europa. – VI. LA MEDIAZIONE DELL’AMBASCIATORE VENETO AL CONGRESSO DI PACE. – VI.1. Alcuni momenti di particolare rilievo. – VI.2. La forma delle trattative. – VII. I NEGOZIATI DEL CONGRESSO DI PACE NELLA RELAZIONE PRESENTATA DA CONTARINI AL SENATO AL TERMINE DELLA SUA AMBASCERIA. – VII.1. L’avvio del Congresso. – VII.2. La presentazione delle proposte per la pace. – VII.3. I negoziati sull’Alsazia. – VII.4. La soddisfazione dei Protestanti e l’accordo finale. – VII.5. Le trattative Franco-Spagnole. – APPENDICE. – Storia della storiografia dedicata alla Pace di Westfalia. – Abstract.

 

 

 – INTRODUZIONE

 

La Pace di Westfalia pose termine alla più disastrosa e lunga guerra di religione che l’Europa abbia conosciuto. Manca tuttavia, se si escludono pochi, sporadici approcci, di cui si farà cenno più avanti, uno studio che, avvalendosi degli ultimi strumenti di indagine messi a disposizione degli studiosi, ponga attenzione allo straordinario fondo conservato nell’Archivio di Stato di Venezia, contenente i dispacci che l’ambasciatore ad hoc, appuntato al congresso di pace dalla Repubblica, inviò metodicamente al Senato per metterlo al corrente delle trattative e riceverne istruzioni[1]. Eppure, a partire dalla seconda metà del 900, la pace di Westfalia ha richiamato studi che si sono rivolti a studiare le istituzioni che ne derivarono, e che ad autorevoli studiosi sono apparse assolutamente centrali nella storia del diritto d’Europa[2], anzi una prefigurazione dell’Unione Europea. Dal 1648, infatti – l’anno in cui la pace fu conclusa divenendo legge fondamentale del Sacro Romano Impero – la Dieta Imperiale di Regensburg rappresentò il primo vero areopago dell’Europa moderna[3], dal momento che, come già notava Johann Jacob Schmauss:

 

«Fremde Potenzen schicken auch fast bestaendig Gesandte zu den Reichstagen»[4].

 

Senza dubbio il motivo primo della guerra è connesso con le conseguenze della discordia religiosa che già nel 1517 aveva separato la Germania – e non solo – fra Cattolici e Luterani, continuamente in contrasto fra loro, mentre nelle regioni dell'Ovest prendeva piede, verso il 1570, la predicazione di Calvino.

Queste tre distinte confessioni religiose stabilirono sul suolo tedesco tre blocchi ideali che si saldarono presto con gli interessi politici dei potentati europei determinandone le alleanze. I rapporti fra le diverse confessioni religiose furono subito conflittuali. Dopo che Carlo V aveva confermato la scomunica dei luterani, nel 1531 essi strinsero un'alleanza militare, la Lega di Smalcalda. Le due fazioni religiose, la cattolica e la protestante, avevano trovato con la Pace di Augusta del 1555 un accordo teso a definirne la coesistenza. Il principio sancito ad Augusta – cuius regio et eius religio – , prendendo atto della impossibilità di una coesistenza pacifica, stabiliva che i prìncipi e le città libere avevano la facoltà di introdurre la confessione riformata (lo jus reformandi) nel loro territorio, pur godendo degli stessi diritti degli stati cattolici all'interno dell'Impero. La popolazione di confessione diversa da quella del principe, sia che fosse cattolica oppure protestante, doveva adattarsi alla confessione del principe oppure emigrare[5].

Ad aggravare ulteriormente la scissione politico-religiosa intervennero gli effetti della Controriforma, condotta in Germania come in altri Paesi dall'Ordine dei Gesuiti. Soprattutto i Gesuiti tedeschi furono un fattore di frattura per tutto il corso della controriforma tedesca, spingendo verso una soluzione armata della contesa religiosa, e prevalendo sui laici e sugli altri religiosi che viceversa erano favorevoli ad un compromesso[6].

Le espressioni usate ancora un secolo dopo dal Pütter[7] (forse il più famoso pubblicista tedesco del '700 di religione riformata), suggeriscono un'idea dell'avversione che i Gesuiti si guadagnarono e offrono, anche se solo in parte, il quadro della situazione da loro creata. In effetti, fu in buona parte per reagire alle loro violente pressioni che gli Stati protestanti costituirono l'Unione di Hall, unione che comprendeva il Palatinato, il Baden, il Wurtenberg, il Bandenburgo e il Palatinato-Neuburg, e che mirava alla difesa degli interessi della Riforma[8].

Per iniziativa di Massimiliano di Baviera, all'Unione di Hall, l'anno seguente si contrappose a Monaco la contro-lega cattolica, cui aderirono subito gli Elettori ecclesiastici, e che ottenne la sottoscrizione dell'Imperatore e l'appoggio del Papa e del re di Spagna, come l'altra si era guadagnata il favore della Olanda, dell'Inghilterra, di Enrico IV e del duca di Savoia. Così su tutto il continente i due partiti avevano completato la loro formazione: perché la lotta si attivasse mancava solo una scintilla.

Ma non fu una scintilla a scatenare il conflitto, bensì un problema cui era ineluttabile dare una soluzione: cioè se si dovesse costituire anche in Germania, come stava avvenendo in Francia, un forte potere centrale. Questo ambizioso progetto era divenuto il fine principale della politica degli Asburgo d'Austria.

Qualora però essi fossero riusciti nell'intento, non solo la Germania, bensì l'Europa intera – a causa della stretta alleanza familiare esistente fra gli Asburgo di Spagna e quelli d'Austria – si sarebbe trovata soggetta alla loro egemonia; pertanto non solo i principi tedeschi, ma pressoché tutte le potenze europee furono coinvolte nella lotta senza quartiere che continuò fintantoché non risultò impensabile la possibilità di dare al problema risposta positiva.

 

 

I. – LE CONDIZIONI POLITICHE DELL’EUROPA ALL’INIZIO DEL XVII SECOLO

I.1. – Le cause della guerra

 

Così nella prima metà del secolo XVII si patirono gli ultimi sussulti della contesa tra due mondi antitetici: l’universalismo medievale e lo statualismo dell’età moderna.

Noi sappiamo che era destinato a prevalere quest'ultimo, e così era infatti avvenuto chiaramente in Francia; grazie alla politica di Enrico IV e di Richelieu, certo, ma anche grazie al fatto che in Francia il Re era realmente il simbolo dei tempi nuovi.

Ciò non era in Germania, ove i Reichsstände avevano il governo del loro Land. Questo potere di governo si era venuto svolgendo da un insieme di diritti pubblici, che in ciascun Land avevano diversa fonte e diverso ambito di applicazione, ma che generalmente si riconnettevano al nesso feudale con il Reich. Per vero, mentre la storiografia meno recente ammetteva un potere generale di signoria anche nel Medio Evo[9], si tende ora a ritenere che la signoria territoriale si sia sviluppata gradualmente dalle regalie e dai privilegi che ciascuna casa regnante vantava per sé e che solo più avanti essa abbia assunto un significato univoco, cioè quando il signore territoriale riuscì ad affermare tanto la sua indipendenza nei confronti dell'Impero, quanto la sua supremazia nei confronti dei ceti del suo territorio. È a questo punto che Moser scriverà che i poteri del Landesherr non sono esercitati in des Röm. Kayser als des Reichs Oberhaupts Namens né per suo conto, bensì aus eigener Gewalt, in eigenem Namen e Schmauss preciserà che la Superioritas territorialis è il complesso dei diritti che riguardano il governo del Paese e dei sudditi, e che sono posseduti dal Landesherr «aus eigener Gewalt», in via originaria, anche nei confronti del Kaiser. A più riprese l’Imperatore tentò di avere ragione del particolarismo dell’Impero: ma invano. Questi princìpi dovevano trovare la loro formulazione positiva proprio nella Pace di Westfalia, quando, grazie all'articolo VIII dell' lnstrumentum Pacis Osnabrugensis (IPO), i Landesherren sarebbero stati riconosciuti nel possesso dello Jus armorun e dello Jus legationis verso l'esterno, così come, verso l'interno, del potere di coercizione sui loro sudditi. Pertanto, con la Pace di Westfalia la signoria territoriale (la Landeshoheit) venne ad assumere la forma di un diritto di sovranità, mentre corrispondentemente i diritti ancora in possesso del Reich vennero sempre più intesi come Reservatsrechte. Tuttavia, in linea di principio, la Landeshoheit rimase sino alla fine subordinata a quella del Reich come doveva essere riconosciuto ancora nella Pace di Presburgo del 26 dicembre 1805 [10].

E' forse per questa incertezza di posizioni che la guerra fu tanto lunga e aspra, o forse perché l'idea di una monarchia universale si ripresentava a quel tempo non più come l'Impero mistico quale era apparso nel suo primo periodo – il Sacro Romano Impero – bensì come l'ideale concreto della sovranità mondiale della casa degli Asburgo, che con centro a Madrid, avrebbe dovuto fondarsi sul possesso effettivo di un vastissimo territorio e sulla potenza del denaro che diventava elemento sempre più preponderante[11].

Il capo della casata, Filippo III, aveva in suo potere la Spagna, il Portogallo, le provincie belghe dei Paesi Bassi, la Franca Contea, la Sicilia, Napoli e il Milanese. Inoltre, quantunque si stessero già indebolendo, erano ancora salve le colonie portoghesi nelle Indie; erano in suo potere le Filippine, nonché tutta l'America del Sud, e, nell'America del Nord, il Messico e la Florida.

Anche se, per cause molteplici, la grande potenza spagnola mostrava già i sintomi di un avanzato stato di sfacelo interiore[12], il re di Spagna, circondato nell'enorme palazzo dell'Escurial da un fasto opprimente, accompagnato da un cerimoniale quasi religioso, appariva come il più temibile fra tutti i sovrani. Il ramo austriaco, dal canto suo, oltre alla corona imperiale - che, pur se elettiva, aveva finito con l’essere de facto suo appannaggio - possedeva i ducati patrimoniali d'Austria, Stiria e Carinzia, e i reami di Boemia e d'Ungheria. Però solo i ducati formavano un vero e proprio patrimonio dinastico: in Boemia e in Ungheria la corona era elettiva e la costituzione cetuale, che sussisteva in tutti i territori ad essa soggetti, limitava fortemente le sue risorse finanziarie e quindi militari[13].

Tuttavia, in linea di diritto, la sovranità della Casa d'Austria si estendeva su una ventina di milioni di persone: tutta la sua politica tendeva a fare di tale condizione giuridica una realtà concreta.

Così l'equilibrio europeo era disperatamente instabile e le prime avvisaglie della guerra si ebbero per la successione della casa di Jullier-Clèves ove la pretesa dei Ceti territoriali di essere governati da un principe che professasse la loro religione, si intrecciava con la pretesa dei ceti dell’Impero di migliorare a loro favore il rapporto con l’Impero[14]: la questione, però, a causa della morte di Enrico IV, ricevette una composizione temporanea.

Si riteneva che la guerra sarebbe scoppiata di lì a poco, allo scadere della tregua di dodici anni fra la Spagna e le Province Unite dell'Olanda, cioè nel 1621. Invece la tempesta scoppiò in Boemia.

 

I.2. – Il periodo Boemo-Palatino

 

Come si è detto, in Boemia la corona era elettiva e i Ceki erano riusciti a far riconoscere da Rodolfo II la libertà di culto. Sicché quando l'Imperatore Mattia, pensando che il miglior cammino verso l'egemonia dinastica prendesse le mosse dall'affermazione dell’unità cattolica, dopo avere ordinato la chiusura e la distruzione delle chiese evangeliche nelle signorie ecclesiastiche, vietò di erigere due chiese che dovevano servire al culto protestante, la nobiltà ceka si ribellò e gli inviati imperiali furono da una finestra gettati giù nel fossato del castello di Praga. I nobili boemi, che avevano dato così il segnale della rivolta, formarono un governo autonomo che, come suo primo atto, espulse i Gesuiti.

La morte dell'Imperatore interruppe e insieme allargò il conflitto, giacché, quando venne nominato suo erede Ferdinando di Stiria, di cui era ben nota l'avversione per il Protestantesimo, le Province della Boemia costituirono una confederazione, destituirono Ferdinando, e il 26 agosto proclamarono re Federico V, il giovane principe elettore del Palatinato. La scelta dei Boemi era stata calcolata appunto per indurre l’ Unione di Hall ad intervenire e ancor più per guadagnare l'appoggio del re d'Inghilterra di cui Federico era genero[15].

Federico esitò a lungo, incerto se accettare o no la corona offertagli. I fatti di Boemia fino allora non avevano oltrepassato i limiti di una rivolta, e Federico si rendeva conto che, accettando, avrebbe gettato l'Impero nella guerra. Spinto però dalle insistenti pressioni della ambiziosa Elettrice sua moglie, si risolse ad accettare. Inutilmente, prevedendo le sciagure che sarebbero seguite, il re d'Inghilterra suo suocero, gli Elettori protestanti e perfino il duca di Baviera cercarono di fargli abbandonare tale decisione: Federico andò in Boemia, ove fu incoronato il 25 ottobre 1618; quindi si legò in alleanza con Bethlen Gabor, principe di Transilvania, al quale l’indebolimento di Ferdinando II premeva assai, perché sperava in tal caso di attirare a sé la turbolenta nobiltà ungherese. Federico promise appoggio in tal senso, in cambio di aiuto militare.

Intanto l'Unione protestante si riuniva in assemblea a Norimberga, e dietro influenza dell'elettore Palatino e degli Olandesi si disponeva alla guerra: le esortazioni contrarie dei messi imperiali, i quali assicuravano che a tutte le lagnanze dei Protestanti sarebbe stato posto rimedio, non furono ascoltate.

Anche la Lega cattolica si riunì in assemblea e stabilì di domandare aiuto alla Spagna, al Papa e alla Francia in favore dell'Imperatore. A questi, dal canto suo, Massimiliano di Baviera, il più potente dei principi cattolici, assicurò illimitato appoggio, a condizione che fosse lasciata a lui la direzione della Lega e gli fosse concessa la dignità elettorale[16].

Quanto agli altri, la Spagna inviò subito soccorsi finanziari e militari, il Papa Paolo V contribuì con importanti somme di denaro[17]; la Polonia, poi, assicurò di essere pronta a invadere l'Ungheria se questa avesse aiutato i ribelli.

Anche la Francia in questo momento si schierò dalla parte dell'Imperatore. Già quando si era trattato dell’elezione del successore di Mattia, la Francia si era subito schierata dalla parte di Ferdinando, contro i suoi molti oppositori, e sembra che proprio il suo atteggiamento in quella occasione abbia permesso il permanere della corona imperiale nella famiglia Asburgo. Ora essa convinse i capi della Unione e della Lega a riunirsi nella città di Ulm, e qui il duca di Angoulême, mediatore delle conferenze, fece promettere all’ Unione che non si sarebbe ingerita nei fatti di Boemia, e alla Lega che non avrebbe attaccato il Palatino. Ciò significava la rovina senza scampo di Federico V; ma Luigi XIII era ben felice di umiliare un principe che era stato per lunghi anni il principale appoggio degli Ugonotti di Francia.

Fu così che nella celebre battaglia della Montagna Bianca, presso Praga, l'8 novembre 1620 la Boemia poté essere annientata dalle armate dell'Imperatore e dei suoi alleati. L’Imperatore spiegò che avendo suscitato una guerra contro il loro sovrano, ed essendo stati partecipi della ribellione di Federico V, i Boemi avevano perduto i loro privilegi, sicché egli si riteneva svincolato dal giuramento prestato in occasione dell'incoronazione. Egli infatti aveva riconquistato il regno con la spada e perciò non era più legato al passato, bensì poteva governare novo jure[18]. La patente del 10 maggio 1627 con cui venne rinnovato il diritto interno boemo, nota come Vernewerte Landesordnung, (nuovo ordinamento territoriale), oltre a rendere espressamente ereditaria la corona (nell'assumere la quale ora il Re giurava di voler conservare la religione cattolica), stabiliva pure che fosse riservato al re lo jus legis ferendae e tutto ciò che esso comportava, inclusa la concessione della cittadinanza. Particolarmente incisivo era l'art. 8, per il quale tutto ciò che atteneva alle più alte funzioni di governo era ormai nelle mani del sovrano, il quale oltre a quanto già detto, si arrogava altresì il diritto di ordinare arruolamenti, elevare imposte e tasse, costruire castelli e fortezze. I Ceti (Landstände) ormai, per tutto quanto concerneva lo Statum publicum, si riunivano solo su convocazione del sovrano, e per le materie dal sovrano stesso definite nella Proposition (art. 4), tramite i Landtags-Commissarien che erano anch'essi di nomina sovrana. Solo per quelle questioni che non toccavano la persona del Re, la maestà della corona o le regalie, gli Stände potevano, su permesso del sovrano o dei Landtags-Commissarien, consultarsi e portare a ratifica regia le loro conclusioni[19]. Nella nuova Landesordnung[20], Ferdinando II spiegava come egli avesse, finché possibile, conservati gli jura privatorum secondo le consuetudini sin qui in uso, ma per il resto aveva corretto l'ordinamento della Boemia, in parte, certo, secondo la costituzione propria di quel regno, popolato da stirpi di lingua e costumi diversi, ma in parte anche secondo i suggerimenti della religione, la natürliche Billichkeit, nonché i principi vigenti nell'Impero e negli altri regni e paesi da lui, Ferdinando, dominati.

Federico V, il quale aveva accettata la corona offertagli dai Boemi, fu condannato al bando dell'Impero. Tutta la Germania si indignò contro questa decisione che l'Imperatore aveva preso di propria iniziativa, senza consultare gli elettori, come invece lo obbligavano a fare le Capitolazioni Elettorali; si rilevava che Federico V non era colpevole né verso Ferdinando II come Imperatore, né verso l'Impero, ma solo contro l’Arciduca d’Austria e appariva ingiusto che un contrasto particolare con Casa d'Austria fosse punito con la pena del bando.

Ma al momento Ferdinando aveva acquistato troppa superiorità con le sue vittorie per poter venire arrestato. L'esecuzione del bando fu affidata al duca di Baviera, cosicché il Palatinato rimase nelle mani di quest'ultimo. Il Paese fu ricattolicizzato con la forza, mentre la ricca biblioteca palatina dell'Università di Heidelberg veniva dal duca di Baviera donata al Vaticano.

Con il principe di Transilvania Bethlen Gabor l’Imperatore firmava la pace di Niclausburg, per la quale il primo, sia pure dietro un alto compenso, e cioè i ducati di Oppeln e Ratibor in Ungheria, una somma di denaro assai cospicua e la qualità di principe dell'Impero, rinunciava però al titolo di re di Ungheria.

Al duca di Baviera e ai suoi successori l'Imperatore volle che fosse trasferita la dignità elettorale sin qui appartenuta al Palatino[21].

In effetti solo il collegio dei Principi Elettori poteva disporre della dignità elettorale di uno dei suoi membri, così per questo trasferimento venne fatta istanza ai tre elettori ecclesiastici che furono subito d'accordo, mentre il Brandenburgo e la Sassonia – cui veniva a ridursi in definitiva il partito protestante nell'ambito del collegio – poco tempo dopo furono indotti anch'essi a dare il loro consenso[22]. In tal modo il trasferimento dell'elettorato veniva portato a termine già nel febbraio del 1623: era il trionfo dell'Imperatore e della Lega cattolica.

 

I.3. – Il periodo Danese e l’apogeo degli Asburgo

 

La situazione non mutò di molto quando nel 1625 Cristiano IV di Danimarca riaccese la guerra in favore dei Protestanti, i cui interessi, essendosi intanto sciolta l'Unione di Hall, erano curati soprattutto dalla Sassonia e difesi da tre comandanti mercenari: il conte Ernesto di Mansfeld, il principe Christian von Brunnswick e il margravio di Baden-Darlach. Infatti le vittorie di Wallenstein e di Tilly sottomisero all'Imperatore tutta la Germania settentrionale, mentre a Lutter l'esercito danese subiva la rotta decisiva.

L'anno 1628 segnò così l'apogeo degli Asburgo. I loro vasti e ben coordinati progetti, che si dispiegavano per tutta l'Europa, parevano ovunque coronati dal successo.

Mentre gli Spagnoli si impadronivano della Valtellina, chiave delle comunicazioni tra l'Austria e il Milanese, e riprendevano la guerra contro le Provincie Unite olandesi, trattandole come ribelli, Ferdinando dal canto suo metteva al bando i duchi di Mecklenburgo, rei di aver partecipato alla guerra in qualità di suoi nemici, e trasferiva i loro beni a Wallenstein, mentre un simile provvedimento si progettava a favore di Tilly cui doveva andare una parte del Braunschweig-Luneburg[23]. A Wallenstein Ferdinando conferiva pure la carica di grande ammiraglio del Mar Baltico e del mare del Nord: era così evidente la sua intenzione di assicurarsene il dominio e rovinare il commercio degli Olandesi a vantaggio proprio e della Spagna. Una prima flotta imperiale doveva porsi allo stretto fra il Sond (l’ Öresund )e la Danimarca, mentre un’altra, congiunta a quella degli Spagnoli, avrebbe tenuto a bada la marina olandese[24]. Al contempo, l'Imperatore inviava una armata considerevole al soccorso di Sigismondo di Polonia, per metterlo in grado di riconquistare la Livonia e riconquistare il trono di Svezia, che il troppo grande zelo per la religione cattolica gli aveva fatto perdere.

Riunito così tutto il Nord, nulla pareva più facile che spezzare la potenza olandese e ridurre all'obbedienza i principi dell'Impero.

Ispirato a questa politica fu, infatti, l'editto del 6 marzo 1629 sulla restituzione dei beni ecclesiastici, dei quali i Protestanti si erano appropriati dopo il 1555. Ferdinando lo impose puramente e semplicemente, senza fare distinzione tra benefici sottomessi mediatamente o immediatamente all'Impero. Egli accordava al contempo ai principi cattolici il permesso di espellere dalle loro terre i protestanti che vi si fossero stabiliti. Tale ordine rigoroso fu accompagnato dal bando contro tutti coloro che avessero osato opporsi alla sua esecuzione. E già l'Imperatore progettava di rendere ereditaria anziché elettiva la corona imperiale.

Apogeo, si è detto, ma anche inizio della parabola discendente.

Da un punto di vista militare, infatti, l'eccessiva dispersione delle truppe indebolì talmente le armate imperiali che il Re di Danimarca non faticò molto a riguadagnare terreno. L'Editto di Restituzione, d'altra parte, aveva allarmato anche i principi della Lega cattolica, i quali cominciavano a temere un eccessivo rafforzamento dell’Imperatore, tanto che, riunitisi a Heidelberg, gli inviavano degli ambasciatori perché rendesse la pace all'Impero.

In Francia, intanto, le cose erano cambiate. Dal 1624 Richelieu dirigeva gli affari dello Stato e il suo avvento al potere aveva segnato un netto mutamento politico, giacché il cardinale non aveva alcun dubbio che alla politica di Carlo V andasse opposta necessariamente quella di Francesco I, e il suo orientamento aveva finito col prevalere sulle correnti contrarie filo-asburgiche e filo-spagnole che facevano capo alla regina madre Maria de' Medici.

Pertanto, già nel 1624 la Francia si era alleata con l'Olanda, l'Inghilterra, la Danimarca, il duca di Savoia e la Repubblica di Venezia contro la casa Asburgo. Successivamente le continue assicurazioni di amicizia e di appoggio di Richelieu avevano contributo non poco a far risolvere Cristiano IV alla guerra. Ma la prima vera manifestazione aperta di questo mutamento d'indirizzo si ebbe in occasione della questione della successione al ducato di Mantova, questione che doveva risolversi nel primo insuccesso internazionale della coalizione austro-spagnola, quantunque per meglio sostenere la guerra in Italia si fosse affrettata la pace con la Danimarca. Tale pace venne conclusa con un trattato - sottoscritto a Lubecca il 12 maggio 1629 - in virtù del quale il Re di Danimarca si impegnava a non più intromettersi negli affari tedeschi. Veniva esplicitamente escluso ogni riferimento ai fatti dell'elettore Palatino e del duca di Mecklenburgo.

La Francia, però, al momento, non poteva entrare in lizza direttamente, perché troppo impegnata in lotte intestine; pertanto fu un vero successo politico di Richelieu quello di attirare nella lotta contro gli Asburgo la potenza svedese.

 

I.4. – Il periodo Svedese

 

Intervenire nella scena politica della Germania era stato un piano a lungo accarezzato dal re Gustavo Adolfo, prima di tutto perché egli era un protestante convinto, poi perché l'espansione della potenza asburgica minacciava il suo progetto di fare del Mar Baltico un lago svedese.

Per di più Gustavo Adolfo poteva addurre delle ottime ragioni per motivare la propria entrata in guerra: Ferdinando si era sempre rifiutato di riconoscerlo quale legittimo re della Svezia, sostenendo contro di lui le pretese del re di Polonia, tanto che gli inviati svedesi al Congresso di Lubecca erano stati rimandati indietro ingiuriosamente, ed i duchi di Mecklenburgo suoi alleati erano stati colpiti dal bando mentre i loro domini erano stati asegnati a Wallenstein.

La Svezia, però, pur possedendo l'esercito più moderno d'Europa, era un Paese povero e non poteva di conseguenza sostenere da sola l'onere di una guerra contro Casa d'Austria. Perciò Gustavo Adolfo non intervenne in Germania se non quando ebbe la certezza di essere sostenuto da aiuti finanziari alleati. A tal fine oltre che in Francia venne inviato il conte Fahrensbach anche in Inghilterra, Olanda, Mantova, Venezia e Transilvania per sondare ovunque la possibilità di raccogliere appoggi.

L'alleanza con la Francia, sottoscritta ad Amburgo nel 1631, fece seguito a lunghe e laboriose trattative. Nel 1629 veniva conclusa una tregua tra la Svezia e la Polonia. Nell'estate del 1630, mentre l'Imperatore nella Dieta convocata a Ratisbona, al fine di ottenere che il figlio Ferdinando III venisse eletto re dei Romani (titolo che lo avrebbe ufficialmente consacrato successore al trono imperiale) concedeva agli elettori il licenziamento di Wallenstein, l'esercito svedese invadeva la Pomerania.

I principi protestanti del Brandenburgo e della Sassonia, che fino allora si erano tenuti appartati dalla lotta, si schierarono anch'essi dalla parte del re Gustavo Adolfo, il quale a Leipzig e presso Lützen, con due vittorie schiaccianti, fece tali progressi sulle armate imperiali che la preponderanza dell'Imperatore, sin qui assoluta, sembrò cessata d'un colpo. Ma la morte del re svedese nella battaglia di Lützen (6 nov. 1632) ed una vittoria strappata dagli imperiali a Nördlingen, capovolsero di nuovo la situazione.

Fu così che l'elettore di Sassonia si adattò a trattare la pace con l'Imperatore. Essa venne prima concordata a Pirna il 22 nov. 1634, e quindi conclusa a Praga l'anno successivo, cioè il 12 giugno 1635. Per via di tale pace la Sassonia rinunciava all’ alleanza con la Svezia; la religione evangelica veniva assicurata per altri quarant'anni nello stato in cui era nel 1627, mentre tutto il resto, grazie ad una amnistia, doveva tornare allo status del 1630. Il principe Augusto di Sassonia avrebbe mantenuto vita natural durante, l’ arcivescovato (Erzstift) di Magdeburgo, vale a dire uno dei vescovati colpiti dall'editto di restituzione; al contrario, Palatinato, Baden, Mecklemburgo e Würtenberg, insieme a molti altri Stände espressamente nominati, venivano esclusi dall'amnistia[25]. Un altro accordo segreto, detto Prager Diplom, riguardò l'esercizio della religione evangelica nei territori delle quattro città di Nürnberg, Ulm, Strasburg e Frankfurt am Main. La maggior parte del Reichstände non cattolici, in conseguenza di una patente imperiale del 12 giugno 1635, furono costretti ad accettare la pace di Praga, già prima della scadenza dell'agosto 1635.

Il trattato di Praga offriva - per la prima volta dall'inizio del conflitto - quella che avrebbe potuto essere una base solida e relativamente equa per una pacificazione generale. Anche la Svezia pareva ora disposta a trattare. In un progetto andato poi sotto il nome di Trattato di Schönbeck, che il Cancelliere svedese Axel Oxenstierna aveva fatto recapitare al duca Federico di Mecklemburgo (18-22 nov. 1635), si facevano già moderate proposte di pace.

 

I.5. – L’entrata in guerra della Francia

 

Non è certo quando si formò la decisione di Richelieu di entrare in guerra e da che cosa questa prese immediata origine[26]. Sicuramente egli la evitò quanto più fu possibile, preferendo ad una aperta dichiarazione di ostilità l'abile giuoco delle alleanze; è anche chiaro, però, che egli, dopo lunga ponderazione, si decise per tempo, non lasciandosi sorprendere dagli avvenimenti.

All'inizio del 1633 Charnacè si recò all'Aja al fine di impedire un temuto armistizio ispano-olandese. In quel momento, sebbene avesse il consenso del re all’eventuale conflitto, Richelieu preferì comprare i vantaggi di una alleanza, ed evitare di entrare immediatamente in guerra; e ancora nel giugno-luglio del 1634 egli si mostrò propenso, nelle nuove trattative con i Paesi Bassi, a lasciare cadere l'alleanza piuttosto che assumersene l’impegno.

Si possiede una lettera del Re di questi giorni[27] nella quale egli, su desiderio di Richelieu, espone i motivi di una guerra aperta con la Spagna. Si ha l'impressione che Richelieu, con questo documento, abbia voluto creare a futura memoria la prova che la decisione di entrare in guerra era del re, e ad ogni modo egli, ancora anni più tardi, vi si richiamò. Per adesso il cardinale consentì ad una alleanza coi Paesi Bassi che conteneva il casus belli, lasciando impregiudicato il se e il quando. Contemporaneamente, su urgente desiderio del Papa, egli faceva però iniziare colloqui segreti a Vienna e a Madrid per sondare la possibilità di un accordo universale di pace, almeno per tutte le questioni pendenti fra gli Asburgo e la Francia. Ma il progetto di un congresso generale da tenersi a Roma ovvero in un altro luogo neutrale naufragò, perché Richelieu voleva che vi partecipassero le Potenze protestanti, cosa che il Kaiser e la Spagna rifiutavano assolutamente e che anche il Papa trovava inammissibile. Ma il problema della partecipazione diretta alle trattative da parte dei Ceti del Sacro Romano Impero costituiva uno degli argomenti del contendere, perchè la Svezia e i potentati protestanti, cui ora si aggiungeva la Francia, negavano che l’Imperatore avese la titolarità esclusiva dello jus belli ac pacis per tutto l’Impero[28].

Quando, nell'agosto del 1634, la Svezia e i suoi collegati protestanti mostrarono chiari segni di stanchezza, la Francia completò i suoi preparativi militari. L'8 Febbraio dell’anno successivo essa stipulò con i Paesi Bassi un'alleanza offensivo-difensiva con la quale si obbligava a partecipare ad un attacco nei Paesi Bassi spagnoli.

Il 26 maggio gli Spagnoli compirono un colpo di mano imprigionando il principe elettore di Treviri e diedero così alla Francia, sotto la cui protezione l'elettore si era posto nel 1632, il desiderato motivo per intervenire, sicché l'entrata in guerra della Francia seguì poco dopo, e venne a saldare insieme le due guerre fra Spagna e Olanda, e tra Svezia e Impero.

 

 

II. – LA POLITICA DI VENEZIA NELLA GUERRA DEI TRENT’ANNI

II.1. – Venezia fra le potenze europee del XVII secolo

 

L’atteggiamento di Venezia durante tutto il corso degli avvenimenti, che sono stati descritti nel capitolo precedente, fu di vigile osservatrice dei fatti e di attiva negoziatrice fra le parti contendenti.     Per la sua posizione geografica, Venezia si trovava in condizioni equivalenti a quelle della Francia, vale a dire stretta come in una morsa di qua dai domini spagnoli, di là da quelli austriaci degli Asburgo; tuttavia a differenza della Francia rivolgeva il suo interesse, più che all'Europa, al Mediterraneo, dov'erano gran parte dei suoi possedimenti, e donde proveniva tutta la sua ricchezza. Di conseguenza la sua politica consisteva nel non permettere che si creassero sul continente delle condizioni sfavorevoli al pacifico godimento dei suoi commerci e dei suoi beni.

Del resto la sua stessa civiltà, per il lungo contatto con l'Oriente, aveva subito uno sviluppo che la poneva ormai al di fuori del travaglio spirituale delle altre Nazioni europee.

Per la forma del governo, per la straordinaria disponibilità finanziaria che le permetteva di evitare o risolvere con scioltezza problemi per altri paesi assai spinosi, per la maturazione spirituale cui il continuo contatto con altre civiltà l'aveva condotta, la Repubblica di Venezia già da tempo aveva raggiunto un felice equilibrio, che oltre a meritarle in tutto il titolo di "Serenissima", suscitava lo stupore e l'invidia degli altri paesi.

Un esempio di quanto differente da quello degli altri paesi contemporanei fosse il sentimento di giustizia che esisteva in Venezia nel XVII secolo lo si può desumere dalla narrazione dell'assassinio di Vittoria Accoramboni raccolta da Stendhal nelle "Cronache Italiane".

Del resto è ben noto il conflitto giuridico-religioso fra Venezia e la S. Sede, apertosi nel 1605, ove con somma energia di spirito la Repubblica si difese dalle pretese giurisdizionalistiche propugnate a suo danno dalla Curia romana. Tale conflitto era scaturito da due episodi apparentemente poco importanti: vale a dire l'arresto da parte della Repubblica di due preti, rei di delitti comuni, e la promulgazione di una legge che assoggettava al controllo dello Stato la costruzione di nuove chiese.

Il pontefice Paolo V Borghese mise sotto interdetto l'intera città; questa, invece, sostenuta dal consiglio di Paolo Sarpi, obbligò tutti gli ecclesiastici a continuare negli uffici religiosi.

Il conflitto minacciava di prendere proporzioni assai gravi. Già il Papa aveva chiesto l'aiuto della Spagna per ridurre all'obbedienza la città ribelle, mentre Venezia a sua volta s'era accostata ai Protestanti, cercando l'appoggio dell'Inghilterra e dell'Olanda.

La mediazione di Enrico IV sopì la vertenza, dalla quale Venezia uscì assolta dalle censure ecclesiastiche, pur mantenendo fermo il principio che qualunque cittadino, sia pure membro del Clero, non poteva essere sottratto alla magistratura ordinaria[29].

L'orientamento politico mostrato da Venezia in quella circostanza non era stato, però, occasionale. Una spiegazione chiara e obiettiva della posizione di Venezia nella politica del tempo la troviamo nella relazione di J. Bapt. Lenk, il quale fu inviato dal Marchese di Anhalt a Venezia nel 1609 per svolgere attività favorevole all'Unione.

«Dacché la potenza Veneta – egli dice – si trova a pochi passi dalla potenza del Kaiser e da quella turca, e le sue entrate sono ogni giorno di più diminuite dalla flotta Spagnola, Olandese e Inglese, Venezia mira più a conservare il suo che a procacciarsi del nuovo. Perciò essa cerca l'amicizia dei principi italiani, ha da più di dodici anni rafforzato i rapporti con la Francia e con la Svizzera, e con i Grigioni ha ancor più stretti legami. Nel caso che queste amicizie non fossero sufficienti, essa guarda anche all'Inghilterra, ma poiché questo Paese pare troppo lontano e la sua armata più valorosa che costante, così è alla Francia che si volge soprattutto, mostrando solo di desiderare l'accordo con essa»[30].

Con l'Impero, Venezia aveva avuto frequenti contese, causate per lo più dalla strenua difesa che la Repubblica faceva del suo monopolio: il commercio sull'Adriatico.

E' appena il caso di ricordare qui la lotta tra la Repubblica e Massimiliano d'Asburgo e quella, assai più recente, con Ferdinando d'Asburgo, causata dalla questione degli Uscocchi e chiusa con la Pace di Madrid il 26 sett. 1617, proprio alla vigilia dello scoppio della guerra dei trent'anni.

Dopo la pace di Madrid, che non aveva in nulla alterato le posizioni delle parti contendenti (Venezia non aveva potuto spezzare ad Adria la potenza asburgo-tedesca, e questa doveva sopportare che il Leone di S. Marco fosse l'unico padrone del golfo) vi erano però cenni del ristabilimento di rapporti amichevoli.

Ambo le parti sapevano, è vero, che tale amicizia sarebbe durata solo sintantoché una delle due non avesse bisogno di un cambiamento; tuttavia per allora era impensabile la ripresa delle ostilità: Ferdinando non poteva distrarre le proprie forze se voleva imporre all'Impero la sua volontà; Venezia, a sua volta, si trovava nella imminenza di una guerra con la Spagna.

La Spagna, fino allora, si era limitata ad offrire e dare aiuti a Ferdinando contro Venezia, ma ormai il Vicario di Milano e il Vicerè di Napoli - cioè Don Pedro di Toledo e Pietro Giron, duca di Ossuna – mostravano di voler approfondire le ostilità contro la Repubblica, e passare all’azione diretta, incoraggiati in questa politica dall'ambasciatore spagnolo a Venezia, il marchese di Bedmar, che se n'era fatto convinto esponente. Essi ordirono, insieme a Jacques Pierre, un avventuriero normanno, una congiura mediante la quale progettavano di impadronirsi della città.

Il Senato fu avvisato per tempo dell’ esistenza di questa congiura; però, anche quando ne ebbe tutte le prove, emanò un decreto, e lo fece pubblicare a suon di tromba, in tutti i luoghi del suo dominio, vietando l'asserzione, per iscritto o per parole, che il re di Spagna, ovvero la Nazione spagnola, vi avesse preso parte. Con ciò la Repubblica voleva evitare di dover imputare al Re o alla nazione spagnola la congiura stessa. Tuttavia, questo fatto influenzò profondamente la politica veneziana negli anni successivi. Chi poteva sapere quali e quante altre insidie la Spagna avrebbe tramato contro di lei? Chi poteva sapere se anche la pace con il Kaiser non era un giuoco diplomatico per ingannarla? Così allo scoppio dei disordini in Boemia, Venezia si guardò bene dal consentire il passaggio per il golfo di vascelli spagnoli che avrebbero dovuto recare aiuto al Kaiser[31] e da questo atteggiamento non si distaccò neanche quando seppe che il re di Spagna, fatto chiamare l'ambasciatore veneto presso la sua corte, gli aveva parlato a denti stretti aggiungendo gravi minacce[32].

 

II.2. – Lo scoppio della guerra. La neutralità di Venezia

 

Potrebbe sorprendere tuttavia che nel '19, progettandosi una grande alleanza contro Casa d'Austria Venezia non vi abbia aderito, e abbia risposto negativamente sia alla richiesta di aiuti per i Boemi fattale dal Marchese di Ansbach e dal conte di Mansfeld a mezzo di una ambasceria speciale, sia alla proposta di una lega con l'Olanda, l'Inghilterra, i principi dell'Impero e il duca di Savoia per ostacolare i disegni egemonici dell'Imperatore[33].

Il comportamento di Venezia non rifletteva tanto una necessità, quanto il risultato di una libera scelta fatta sul fondamento di una attenta ponderazione. Il pericolo di una guerra con la Spagna non era imminente. Ma Venezia era ricca, ancora nel fiore del suo benessere, e il pacifico godimento di ciò che possedeva appariva alle grandi famiglie assai più desiderabile dei pericoli e dei sacrifici che una politica aggressiva avrebbe implicato.

Inoltre, malgrado tutte le controversie con la curia romana, essa era uno Stato cattolico. La Riforma non aveva trovato terreno favorevole né presso il patriziato né presso il popolo.

Venezia, infine, era uno Stato commerciale, nelle cui banche e aziende venivano svolte le transazioni commerciali di tutte le Nazioni. Una neutralità pacifica è un ottimo motivo per fare affari con amici e con nemici. D'altra parte essa non nutriva molta fiducia verso i principati tedeschi che, al contrario della Repubblica, avevano assai meno da perdere che da guadagnare. Ai signori veneziani sembrò molto più prestigioso non impegolarsi nei disordini tedeschi.

Pertanto la posizione della Repubblica nei confronti dell'Imperatore non subì cambiamenti; Venezia mantenne una stretta neutralità e osservò una puntigliosa esecuzione dei trattati, sorvegliando però ogni mutamento della politica austriaca, per la qual cosa, oltre che dei suoi ambasciatori essa si servì di agenti segreti, inviati in Boemia, Ungheria e ovunque ne vedesse la necessità[34]. Conservò l'alleanza con il duca di Savoia, e un'altra alleanza puramente difensiva stipulò con l'Olanda il 31 Dicembre del 1619. In virtù di tale lega - che doveva avere la durata di quindici anni - ciascuna delle parti s'impegnava a versare all'altra un contributo di cinquantamila fiorini al mese, a partire dal mese successivo a quello in cui una parte ne avesse fatta istanza all'ambasciatore dell'altra, e ciò sino alla fine della eventuale guerra[35].

Quali che fossero le ragioni che convinsero Venezia alla neutralità certo si è che proprio per la decisione di non aderire alla grande alleanza contro il Kaiser l'influenza della Repubblica di Venezia sugli avvenimenti del primo periodo della guerra dei trent'anni fu assai rilevante. Se si pone mente al fatto che mai come al tempo in cui gli eserciti erano costituiti da mercenari il denaro equivaleva a potenza, se si riflette sulla situazione territoriale di Venezia in relazione ai Paesi austriaci ci si può rendere conto facilmente di quel che avrebbe significato la partecipazione di Venezia all'azione Boemo-Palatino-Savoiarda, e si può concordare con lo Zwiedineck[36] che la Casa di Asburgo dovette la sua salvezza allo spirito conservatore della Repubblica veneta, giacché vi furono dei momenti in cui l'inimicizia di Venezia avrebbe posto per sempre in forse l'esistenza di un legame tra i Paesi austriaci.

Così fu, per esempio, nel 1620 dopo la conferenza di Ulm. Il piano di coalizione europea contro Casa d'Asburgo, se non nel principio, nella pratica pareva fallire. Il Re d'Inghilterra non intendeva più aiutare il genero, la Francia non era prodiga che di parole, l'Olanda non poteva esporsi né mandare, nonostante le migliori intenzioni, una armata in Boemia. Rimanevano solo Bethlen Gabor e Venezia, e a loro si appuntavano le ultime speranze dei Boemi.

Bethlen Gabor aveva ripreso le ostilità col Kaiser, ma aveva bisogno di molto oro, oro che solo Venezia poteva fornirgli, sicché mentre le sue truppe cominciavano a scontrarsi con quelle imperiali, tre ambasciatori mossero alla volta di Venezia, che li ricevette il 28 Giugno nel Collegio.

Gli ambasciatori spiegarono i rapporti correnti tra Bethlen, il re di Boemia e il Sultano, inneggiarono alla fastosa incoronazione di Bethlen a re d'Ungheria e infine suggerirono l'opportunità di stringere con Venezia una lega che si presentava come una vera e propria simbiosi: infatti l'Ungheria abbondava di soldati, ma era esausta per le continue guerre contro il Turco; al contrario la Repubblica era assai potente finanziariamente, mentre difettava di reclute, che in occasione di guerre era costretta a procurarsi con spese ingentissime.

Dunque nulla pareva più conveniente e naturale di una simile lega, per la quale Bethlen si dichiarava prontissimo ad aumentare anche il traffico commerciale con la Repubblica[37].

Questa proposta non incontrò in Venezia il favore sperato. Già alla nuova richiesta di aiuto dei Boemi essa aveva risposto con grande finezza diplomatica di non poter credere che l'Unione sarebbe rimasta in disparte.

Dal proprio segretario Antelmi la Repubblica era stata informata che la Lega e il Kaiser avevano messo insieme un esercito formidabile, quale non s'era visto del tempo di Carlo V: Venezia non avrebbe impiegato nemmeno un ducato per una causa persa!

Pertanto la risposta alle proposte di Bethlen Gabor (cui comunque si evitava di dare il titolo di Re di Ungheria) consisté in vivaci assicurazioni, unite alla spiegazione che al Palatino si era già così spesso portato aiuto, che le grosse spese della Repubblica per l'esercito e la flotta avevano reso impossibile prestare ancora quello che veniva ora richiesto[38].

In verità moriva proprio allora il Generale Bouquoi, sulla cui abilità nella direzione degli eserciti il Kaiser aveva fondato tutta la propria forza militare, e il tempo di Wallenstein non era ancora venuto: non è improbabile che un diverso comportamento della Repubblica in questo momento avrebbe posto una seria ipoteca sulla vittoria della coalizione cattolica. Ma a Venezia doveva sembrare di assai dubbia opportunità lo scardinamento del potere imperiale a favore di un ordine diverso, chissà mai se migliore o non peggiore; essa era, piuttosto, fautrice convinta di una politica di equilibrio europeo, condizione necessaria al felice svolgimento dei suoi commerci. Ciononpertanto è lecito supporre che, al momento, gli uomini di Stato della città lagunare non siano stati del tutto sicuri di avere adottato la risoluzione giusta, giacché presto si trovarono a dover salvaguardare interessi che per la Repubblica erano assolutamente vitali, proprio dalle mire egemoniche di quella Casa Asburgo contro la quale avevano esitato ad assumere posizione ostile. Così avvenne per la questione della Valtellina e per quella della successione al ducato di Mantova.

 

II.3. – La questione della Valtellina

 

La questione della Valtellina si affacciò all'orizzonte nel 1620. L'alta valle lombarda, confinante con la Svizzera, il Tirolo e le Provincie di Bergamo e di Como, era stata concessa come feudo dell'Impero ai Vescovi di Coira, i quali nel 1530 l’avevano ceduta a loro volta ai Grigioni, sicché questi, di religione protestante, detenevano il dominio della valle che era invece cattolica.

Nel luglio del 1620 gli abitanti della regione insorsero contro l'oppressione politico-religiosa svizzera, massacrarono i protestanti e aprirono le porte alle truppe della Spagna che da lungo tempo aveva puntato le sue mire sulla vallata.

In effetti il motivo che aveva spinto l'imperatore Massimiliano I a concludere nel 1518 coi Vescovi di Coira "l'ereditario ed eterno contratto per sé e per i suoi successori", risaliva all'aspirazione di creare un diaframma neutrale fra i suoi territori ereditari e i quelli Francesi, inclini allora ad aspirazioni ostili su Milano. Ma da quando il possesso di Milano rappresentava buona parte del potere degli Asburgo, la Valtellina era solamente uno scomodo impedimento nelle relazioni fra le due potenze.

In nessun altro luogo si toccavano più ampi e così vicini complessi territoriali delle due linee di Casa Asburgo come qui, fra l'Adda, l'Inn, e l'Adige. In nessun altro luogo la Spagna avrebbe trovato un così breve cammino per il Tirolo.

Così la neutralità e l'indipendenza di confini della Valtellina divenne una questione di importanza europea e di straordinario rilievo politico soprattutto per la Repubblica veneta, la quale intendeva impedire con ogni mezzo che l'accerchiamento ispano-austriaco nella terraferma si completasse da ogni parte.

Non appena il Senato aveva avuto sentore del fine cui miravano gli Spagnoli, s'era affrettato a stringere vieppiù l'alleanza coi Grigioni, e quando le truppe spagnole entrarono nella Valtellina, Venezia agì per via diplomatica presso il Papa e presso le corti di Madrid e Vienna, sollecitando nel contempo i Grigioni a promettere ai ribelli un ampio perdono del passato; essa invitò all'unione Berna e Zurigo e le incitò a prendere le armi, impegnandosi a sostenerle con i suoi sussidi.

Quando i Grigioni, dopo essere stati sconfitti, mandarono a Venezia un ambasciatore a chiedere consiglio ed aiuto, Venezia interpose la mediazione della Francia.

All'ambasciatore straordinario di Venezia, Luigi XIII rispose che non avrebbe sopportato che i Grigioni venissero oppressi, che avrebbe mandato a Madrid il maresciallo Bassompierre per definire la questione e che, se questo non fosse bastato, avrebbe unito le sue forze a quelle della Repubblica e del duca di Savoia per sgombrare la Valtellina dagli Spagnoli.

Con ciò i rapporti della Repubblica con la Spagna, già tesi, peggiorarono ulteriormente. La Spagna richiamò il proprio ambasciatore a Venezia e cercò di provocare nelle corti europee dei dissidi fra i propri ambasciatori e quelli della Repubblica. Soprattutto alla corte di Vienna - s ove dopo il matrimonio dell’Imperatore con Eleonora di Mantova era aumentata l'influenza della corrente filo-spagnola, gli effetti della politica spagnola si manifestarono in maniera clamorosa[39], tanto che Venezia dové richiamare il proprio ambasciatore Gritti, lasciando al suo posto solo un segretario «a testimonio della osservanza e della sincerissima disposizione della Repubblica» nei confronti dell'Imperatore. Intanto gli Spagnoli mascheravano come preoccupazione verso la religione cattolica i loro reali interessi nella Valtellina, e già il Papa ne era commosso; ma l'ambasciatore veneto gli fece considerare essere la religione solo un pretesto; che della religione cattolica era protettrice la Repubblica, la quale come sapeva di conservarla pura e intatta nei suoi domini, così particolarmente si preoccupava perché non fosse lesa nei vicini; che il vero scopo degli Spagnoli era di farsi padroni di uno Stato sul quale non avevano alcun diritto.

Così il Papa scrisse che assai male si voleva impiegare la religione a sostegno di una ingiustizia. Ma quando Venezia mandò a Roma un gruppo di ambasciatori per ossequiare il Papa, questi prese a parlare della riammissione dei Gesuiti, un argomento per il quale gli ambasciatori non avevano istruzioni, e che li lasciò pertanto quasi senza parole.

Lo stesso faceva in Venezia il marchese di Coeuvres in nome di Luigi XIII. La Repubblica, però, indovinando bene l'origine spagnola di queste pressioni, non si lasciò minimamente smuovere[40].

Dopo che una prima convenzione sulla sistemazione della Valtellina – convenzione conclusa il 25 aprile 1621 – era rimasta praticamente inosservata[41], Venezia negoziò, insieme con il duca di Savoia, una lega con la Francia, concertando di aiutare il conte di Mansfeld[42] con dei sussidi, in modo che questi, sostenendo la guerra in Germania, richiamasse buona parte delle truppe spagnole che premevano ai confini dello Stato di Milano. Dopo lunghe trattative diplomatiche la lega arrivò finalmente alla sua formulazione sul finire dell'anno 1623.

Già il 7 gennaio giunse il primo progetto in Venezia e il 7 febbraio 1623 l'accordo venne sottoscritto a Parigi. In questo accordo venivano anzitutto indicate le conquiste della Spagna e dell'arciduca Leopoldo del Tirolo come la causa di questa lega, il cui scopo era quello di procurare agli alleati il ritorno della Valtellina e degli altri luoghi occupati nel pristino stato.

Di fronte a questa lega la Spagna cercò subito un mezzo mediante il quale la guerra potesse venire differita e fosse assicurato in Valtellina uno stato di cose non molto dissimile da quello già esistente.

Il trattato di alleanza fra Francia, Venezia e Savoia era stato appena sottoscritto che già al Pontefice veniva sottoposto uno scritto ufficiale ove il re di Spagna dichiarava di voler soddisfare il desiderio del Papa, vale a dire che fosse garantito il mantenimento della tranquillità in Italia, e che pertanto egli era pronto a trasferirgli la Valtellina in deposito, col diritto di fare occupare la stessa da proprie truppe, sotto suoi personali comandanti. La Repubblica sollecitò più volte il suo ambasciatore a Parigi perché dissuadesse Luigi XIII dal cercare un accomodamento con gli spagnoli e restasse aderente ai termini in cui era stata conclusa la lega[43]; tutte le fatiche furono inutili: la Francia accolse l'intervento papale e l'ambasciatore francese in Venezia comparve il 26 aprile nel collegio facendone comunicazione ufficiale, colla introduzione abbastanza ironica che il suo governo non aveva intrapreso nulla senza intendersi con l’ambasciatore veneziano Pesaro.

L'avvento di Richelieu al potere segnò un maggiore avvicinamento della politica di Venezia a quella Francese, giacché il grande statista aveva già delineato una propria linea politica, nettamente anti-asburgica e antispagnola, ch'era bene in contrasto con quella cui cercavano di indirizzare il Re la madre Maria dei Medici e il suo consigliere Bérulle.

Il primo atto politico del cardinale fu quello di mandare un esercito al comando del Marchese di Coeuvres per impadronirsi della Valtellina, dopo che il marchese di Bethun, inviato a Roma, aveva dichiarato al Papa che il precedente accordo sulla Valtellina – soprattutto per quanto riguarda il passaggio delle truppe spagnole – era stato concesso dal predecessore di Richelieu contro la volontà del Re, la cui intenzione era che nulla fosse cambiato nelle condizioni stabilite coi Veneziani e con il duca di Savoia[44].

Purtuttavia la decisione finale su tutta la questione venne raggiunta in un senso molto diverso da quello che Venezia desiderava ed aspettava. La Francia mediante il suo ambasciatore Fargis trattò a Madrid, direttamente e senza che i suoi alleati potessero nemmeno supporlo. Col pretesto che Fargis avrebbe trasgredito l'istruzione ricevuta, il 5 marzo 1626 venne stipulato il famigerato trattato di Monzon, ratificato poi a Barcellona il 16 maggio, mediante il quale la Francia sacrificò i vantaggi già conseguiti nella Valtellina e offese in maniera gravissima i suoi alleati, rinunciando per il momento alla sua posizione in Italia.

Non è improbabile che all'accordo tra il Re Cattolico (lo spagnolo) e il Cristianissimo (il francese) si fosse pervenuti alle spalle di Richelieu e che esso fosse opera della fazione rigidamente cattolica la quale aveva tentato vanamente d'impedire la pace con gli Ugonotti, e soprattutto non voleva impegnarsi con la Spagna in una guerra che era contraria a tutte le sue idee e simpatie[45].

Fu in questa occasione che Venezia dimostrò tutta la sua saggezza politica. Il comportamento della Francia aveva fortemente sdegnato i Veneziani, e già si discuteva sulle misure da prendere. In Senato, però, si alzò a parlare Girolamo Trevisan, il quale notò che non conveniva lagnarsi troppo o protestare troppo duramente in via diplomatica, giacché l'amicizia con uno più potente non sempre corrisponde alle speranze, e non conveniva, esposti alle minacce degli Spagnoli, perdere pure l'appoggio della Francia, anche perché l'adoperarsi di questa nazione per la Spagna era chiaramente contro natura: una amicizia tra Spagna e Francia non poteva essere che occasionale[46]. Queste argomentazioni convinsero il Senato, e nonostante l'ambiguo comportamento della Francia, la Repubblica non mutò linea politica.

In verità assai più della pace di Monzon (per la quale del resto Luigi XIII si affrettò a inviare a Venezia uno speciale ambasciatore per giustificare l’accaduto) doveva preoccupare gli uomini di Stato veneziani il riacutizzarsi in Francia delle discordie con gli Ugonotti e la rottura che ne poteva discendere con l’Inghilterra. In questo momento Venezia avrebbe potuto anche trarsi fuori dal suo allineamento con la Francia: alla corte di Vienna, Werdenberg - cancelliere dei Paesi ereditari - intratteneva il residente della Repubblica in discorsi più che amichevoli. Venezia rimase fredda. Come i Paesi Bassi essa sapeva che i propri interessi non erano comuni a nessun'altra nazione più che alla Francia, come infatti si dimostrò chiaramente in quello che – condotti appena a termine gli affari della Valtellina – fu nuovo argomento di questione politica in Italia, vale a dire la successione alla sovranità ducale di Mantova.

 

II.4. – La successione al ducato di Mantova

 

Il 26 dicembre 1627 moriva a Mantova privo di discendenza il duca Vincenzo II Gonzaga. Con lui si estingueva la linea principale dei Gonzaga e si apriva pertanto il problema della successione al ducato, ch'era feudo dell'Impero.

Non v'era dubbio che erede legittimo dovesse essere considerato Carlo, duca di Nevers e Rethel, senonché questi apparteneva ad un ramo francese della famiglia Gonzaga, e l'eventualità ch'egli si insediasse in Mantova riusciva assai sgradita alla corte di Madrid, dal momento che il ducato di Mantova si estendeva lungo la linea delle comunicazioni fra la provincia spagnola di Milano e il mare; pertanto gli Spagnoli, interessati che vi fosse in Mantova un principe a loro devoto, già prima della morte di Vincenzo II avevano progettato il matrimonio fra la nipote di Vincenzo, Maria Gonzaga, e il duca Carlo di Guastalla affinché questi - ch'era d'un ramo più lontano della famiglia Gonzaga - potesse diventare un pretendente alla successione. Questo matrimonio venne però sventato in extremis da Richelieu, il quale, quando già ne era stato concordato il capitolato, convinse il duca di Mantova a chiamare a sé e nominare suo erede Carlo di Nevers; questi, poi, mentre Vincenzo era agli estremi, sposò Maria e, spirato Vincenzo, assunse il titolo di duca.

Alla successione era interessato pure il duca di Savoia Carlo Emanuele che domandava il Monferrato, sul quale la sua casata aveva una antica pretesa e che, posto sulla strada tra Torino e Alessandria, con la sua formidabile fortezza di Casale, era un territorio di enorme importanza strategica. Venezia immediatamente si adoperò, mediante trattative diplomatiche, affinché sulle pretese del duca di Savoia si giungesse al più presto ad un accordo, perché era evidente che ogni mossa da parte della Savoia avrebbe fatto il giuoco degli Spagnoli[47]. A tal fine essa raddoppiò i propri sforzi alla corte di Francia ove cercava di indurre il Re alla pace con l'Inghilterra, insistendo sulla sua necessità non solo per il corso degli eventi in Italia, ma anche per gli ampi progressi degli eserciti imperiali in Germania, che minacciavano i confini dell'Olanda e della stessa Francia.

Il tentativo di Venezia di tener fuori il duca di Savoia dalla contesa fallì. Al principio del 1628 Carlo Emanuele e l'ambasciatore di Filippo IV a Torino firmavano un accordo con cui entrambi si impegnavano ad intraprendere una azione militare contro il Monferrato. Contemporaneamente, essendo il ducato di Mantova feudo dell'Impero, la causa della successione fu portata davanti all'Imperatore, perché fosse da lui decisa.

Intanto, vuoi per coprire i fini che già da molto tempo gli imperiali meditavano – come scrive il Nani – vuoi perché si credesse davvero di poter attirare la Repubblica in un diverso sistema di alleanza, il consigliere aulico conte Werdenberg proponeva al residente veneziano presso la corte imperiale Pietro Vico una lega che aveva tutte le caratteristiche per poter entusiasmare Venezia. L'Imperatore – diceva il Werdenberg – aveva avuto ragione dei suoi avversari e non desiderava ormai nulla più della quiete. Pertanto la Repubblica non poteva augurarsi nulla di meglio che una lega con lui, che l'avrebbe garantita in ogni occasione. Inoltre la sottoscrizione di questa lega avrebbe fatto tornare a transitare per Venezia tutto il commercio di droghe e mercanzie dirette verso la Germania, rimettendosi così in auge un traffico che avrebbe portato milioni sia alle entrate della Repubblica sia a quelle dell'Imperatore, mentre al momento questi era legato agli Olandesi e agli Inglesi. Dalla Germania si sarebbero pure banditi i panni inglesi a favore di quelli di Venezia e degli altri potentati italiani. Inoltre, una volta incamminata la pratica della confederazione, si sarebbe potuta concertare con il generale Wallenstein una guerra comune contro il Turco, che rimaneva sempre il principale nemico di tutta la Cristianità[48].

Questa proposta aveva estremamente lusingato la Repubblica, tanto più che l'affare di Mantova pareva avviarsi alla soluzione ed essa poteva credere che la proposta corrispondesse alla effettiva intenzione dell'Imperatore, dal momento che tra questi e le città anseatiche non correva buon sangue. Infatti, il Senato era stato informato come di recente la città di Amburgo avesse chiesto che i suoi bastimenti non venissero impiegati contro la Danimarca, affinché non fossero danneggiati i propri rapporti commerciali con quel Paese, l'Olanda, e l'Inghilterra. Era pertanto ragionevole supporre che l'Imperatore desiderasse sinceramente rompere il traffico del Sond (Öresund) per togliere alla Danimarca le altissime entrate dei dazi. Si diceva perfino che Wallenstein volesse a proprie spese tagliare un canale nel ducato di Mecklenburg, cosicché le navi non sarebbero passate più per lo stretto e anche le città anseatiche sarebbero state costrette ad accordarsi con l'Imperatore[49].

Pertanto Venezia diede istruzioni al suo segretario presso la corte di Vienna affinché mostrasse la sua buona disposizione nei confronti della lega, senza però mancare di essere vigile.

Su Mantova non era stata presa ancora nessuna decisione, e tuttavia si pensava che ormai essa avrebbe teso al mantenimento della quiete e che il duca di Nevers avrebbe ricevuto l'investitura. Invece poco appresso il suo segretario in Germania avvertiva la Repubblica che la decisione dell'Imperatore al riguardo era stata affatto diversa. Fatto chiamare dal consigliere Trauttmansford l'ambasciatore del duca, egli aveva detto che: «per i molti pretendenti agli Stati di Mantova e del Monferrato, giudicava bene non concedere l'investitura domandata dal duca, e per levare i rumori di guerra che parevano imminenti, S.M. aveva pensato di prendere temperamento utile e giovevole a tutti gli interessati, ed era di sequestrare il possesso degli Stati di Mantova e del Monferrato e di mandare un commissario imperiale in Italia il quale avesse cura di essi fintantoché fosse definita la lite»[50].

Quando il duca di Nevers, dichiarò di essere succeduto legittimamente al ducato, anche per esservi stato chiamato dal defunto duca Vincenzo, e si rifiutò di abbandonarne il possesso, in attesa della decisione del Consiglio Aulico, l'Imperatore lo mise al bando dell'Impero e una armata imperiale, unitasi a truppe spagnole e piemontesi, lo spogliò di tutti i suoi Stati con l'eccezione della sola fortezza di Casale, di dove il duca chiedeva soccorso alla Francia e a Venezia.

Venezia fu lesta a intuire quale doveva essere la sua linea politica. Il suo interesse stava dalla parte del duca di Nevers. Perciò, pur continuando a dimostrare segni di buona amicizia con l'Imperatore, lasciò però cadere il progetto della lega: nessuna amicizia era possibile con l'Imperatore finché questi era così strettamente legato con la Spagna, che Venezia riteneva il proprio principale nemico. In Senato si discusse a lungo sul da farsi; si temeva l'espansione della potenza spagnola proprio ai confini dello stato veneziano. Al momento, la Francia era impegnata nell'assedio de La Rochelle, centro della resistenza ugonotta organizzata da Enrico II di Rohan e da suo fratello Beniamino di Rohan Soubise, sostenuti dall’Inghilterra. Tuttavia era evidente che si stava avvicinando la resa della città, e pertanto non conveniva esporsi direttamente, dato che non v'era dubbio che la Francia avrebbe difeso il duca di Rethel[51].

Così Venezia fortificò le sue piazze e mandò precise istruzioni al proprio ambasciatore in Francia[52], incaricandolo di appoggiare il partito favorevole ad un intervento in Italia, e offrire la mediazione della Repubblica per una pacificazione tra le due corone di Francia e d'Inghilterra.

Sfavorevole all'intervento in guerra era il partito della Regina madre, favorevole Richelieu, il quale invitò la Repubblica a difendere subito il duca di Rethel, assicurando il proprio soccorso non appena ciò fosse stato possibile. Ma il Senato, avvezzo a diffidare, non volle spingere le sue forze fuori dai confini dello Stato fintantoché non lo avessero fatto i Francesi.

Finché la Rochelle resistette, Richelieu non poté fare nulla per venire in soccorso di quell'avamposto francese che gli accidenti della successione avevano così convenientemente stabilito al di là delle Alpi. Quando però la resa degli Ugonotti lo lasciò libero di agire, assieme al Re in persona egli mosse con un esercito di 35.000 uomini, sconfisse a Susa il duca di Savoia e gli impose la pace. Quindi, insieme alle truppe dei Veneziani, costrinse gli Spagnoli a levare l'assedio da Casale. I moti degli Ugonotti in Provenza e in Linguadoca impedirono che il duca di Nevers venisse immediatamente insediato, ma la città venne fortificata retandovi, in compagnia di quella veneziana, una guarnigione francese agli ordini del generale Thoiras.

 

II.5. – La mediazione di Venezia nella pace fra l'Inghilterra e la Francia. I negoziati della Repubblica per favorire l'ingresso di Gustavo Adolfo in guerra

 

Intanto l'ambasciatore veneto in Francia Zorzi e quello in Inghilterra Alvise Contarini[53] cercavano con ogni mezzo di portare queste due potenze ad un accordo, nonostante le molte e spinose difficoltà. Si dimostrò anche qui come una grande perspicacia dei Veneziani l'aver intuito che una pace tra Francia e Inghilterra era condizione essenziale per la lotta contro la supremazia cattolico-asburgica in Europa, e l'aver fatto sì che essa venisse portata a conclusione.

In Susa, il 24 aprile, Luigi XIII sottoscrisse gli articoli che erano stati proposti da Giorgio Zorzi e Alvise Contarini. Fu quella la prima vera occasione di ampia portata nella quale Contarini[54], l’uomo cui doveva essere affidata la mediazione nel primo grande Congresso di pace europeo, potè dimostrare l'eminente talento diplomatico di cui era dotato. Il suo contributo venne riconosciuto con gratitudine dalle parti interessate, come manifestarono apertamente le lettere che il Re e la Regina madre di Francia gli indirizzarono[55].

In Inghilterra Contarini cercò di far valere il suo influsso perché fosse riconosciuta la necessità di un convenevole appoggio ai protestanti tedeschi, entrando nello stesso tempo in trattative con l'ambasciatore di Gustavo Adolfo, il quale allora cominciava a progettare una alleanza di tutte le potenze interessante contro Casa d'Austria[56].

Gustavo Adolfo aveva da lungo tempo intuito che il momento per lui più favorevole, al fine di portare a esecuzione il piano d'un intervento a favore dei protestanti in Germania, sarebbe stato quello in cui l'Imperatore si sarebbe deciso per una campagna in Italia.

Il Colonnello Wolmar Fahrensbach che egli mandò in Transilvania per stabilire un comune piano di operazioni con Bethlen Gabor, viaggiò quindi per Mantova e Venezia, onde rafforzare i due Stati nella resistenza contro la Spagna e l'Austria, mettendo in evidenza l'aiuto della Svezia, la quale, mercé lo sbarco di 60.000 uomini sulle coste tedesche del mar del Nord, avrebbe richiamato laggiù un considerevole numero di truppe imperiali che erano destinate in Italia.

Gli accenni di Fahrensbach, il quale ufficialmente chiedeva l'appoggio della Repubblica solo per il suo viaggio verso la Transilvania, erano a dire il vero di natura molto generica, ma furono senza dubbio capiti dal Senato anche nel loro senso celato. A Fahrensbach venne posta a disposizione una galera per il viaggio verso Zara; in più egli ricevette una catena d'oro del peso di trecento ducati, e si rallegrò del trattamento pieno di attenzioni riservatogli dai Veneziani.

Con lui tuttavia non si andò più in là, ma ci si contentò di insistere a Londra e all'Aja sui vantaggi che derivavano alle potenze settentrionali dal fatto che la Repubblica avesse così volentieri favorito l'invio dell'agente svedese alla corte di Bethlen Gabor.

Contarini, però, grazie ai suoi rapporti con l'ambasciatore svedese a Londra Spens, seppe farsi un’ idea precisa delle intenzioni di Gustavo Adolfo e poté riferire in patria che lo stesso, qualora avesse iniziato la guerra contro il Kaiser, contava su una sovvenzione annua di 400.000 talleri. A questa sovvenzione Venezia doveva contribuire con 80-100.000 talleri. Durante le trattative si chiarì, tuttavia, che il Re poteva eseguire questa spedizione non nel corrente anno, ma nella estate successiva[57]. Perciò la Repubblica pensò bene di non obbligarsi subito in via definitiva.

Solamente l'andamento della campagna in Italia la rese accorta che il piano di Gustavo doveva essere per lei della più grande importanza e che per renderlo possibile anche sacrifici notevoli non sarebbero stati cari.

La guerra in Italia si riaccese nel 1630. Il 18 luglio Mantova veniva di nuovo presa dagli Imperiali e per tre giorni spaventosamente devastata. Al saccheggio si unì il contagio della peste che, nonostante ogni precauzione, si estese anche alla città di Venezia[58].

La caduta di Mantova, che essa aveva direttamente cercato di difendere, era per Venezia una grande sciagura, e tuttavia non la trovava impreparata. L'11 luglio Alvise Contarini, nel campo francese di S. Giovanni di Moriana in Savoia, aveva sottoscritto l’ accordo in forza del quale la Francia e Venezia si obbligavano a elargire al re di Svezia una sovvenzione annua sino a un milione e duecentomila scudi affinché egli potesse muovere in Germania la progettata guerra contro l'Imperatore[59].

I piani e le idee prima solamente accennati si erano tramutati, con eccezionale rapidità, in fatti concreti. Avevano contribuito a realizzarli non solo la potente forza di volontà e la convincente eloquenza di Richelieu, ma anche il genio politico e la rapida intuizione di Contarini.

Il Senato di Venezia, questa volta, aveva preso la sua decisione in un tempo eccezionalmente breve. L'11 giugno era arrivato il primo dispaccio di Contarini, ed il 13 erano pronte le plenipotenze degli ambasciatori per obbligarsi in nome della Repubblica. Il giorno successivo venne avvisato l'ambasciatore all'Aja che il Senato era disposto ad appoggiare finanziariamente l’intervento della Svezia e gli venne annunciato che gli sarebbero state date quelle somme che secondo le istruzioni di Contarini egli avrebbe pagato agli ambasciatori svedesi, accertandosi che da parte della Francia si facesse altrettanto[60].

L'entrata del re di Svezia in guerra produsse l’ effetto sperato. L' Imperatore fu obbligato a ritirare le sue truppe dall'Italia e a consentire senza indugio – il 13 di ottobre – al trattato di Ratisbona, in virtù del quale il ducato di Mantova e del Monferrato rimaneva al duca di Nevers.

Le città di Alba e Trino con un distretto che poteva produrre 15.000 scudi d'oro toccarono al duca di Savoia, che però doveva cedere ai Francesi l'importantissima fortezza di Pinerolo. Al duca di Guastalla toccò una porzione del ducato pari ad una rendita di 6.000 scudi. Il trattato ricevette la sua formazione definitiva a Cherasco, l'anno successivo, quando vennero precisate anche alcune questioni rimaste controverse a Ratisbona, come l'obbligo della Francia di non fare alleanza coi nemici della Casa d'Austria, che Richelieu rifiutò di assumere.

In Mantova, per ogni evenienza, rimaneva una guarnigione di veneziani.

 

II.6. – Venezia torna ad essere neutrale

 

Con la definizione del problema di Mantova e sventato il pericolo di una eccessiva espansione della potenza austro-spagnola in Italia, alle immediate vicinanze dei suoi confini, comincia una nuova fase della politica veneziana. Da questo momento in poi Venezia torna a rimanere sempre neutrale, sia perché non si trattavano interessi che la toccavano direttamente, sia perché, senza estraniarsi dal concerto europeo, ogni sua attenzione politica e militare si volgeva ora al Mare Egeo e alla potenza turca, i cui appetiti sui possedimenti veneziani in Candia, dopo la pace con la Persia, si facevano di anno in anno più manifesti.

Così, se Venezia era uscita dalla neutralità per la Valtellina e per Mantova, cercando di indurre la Francia a una politica più decisa, quando ancora essa pareva esitare, ora, mentre la Francia entrava in guerra per arrecare il colpo di grazia alla potenza austro-spagnola, Venezia invece cominciava a cercare seriamente di indurre le potenze europee ad un accomodamento. La prosecuzione della interminabile guerra, nell’imminenza di una rottura con Costantinopoli, era guardata dalla Repubblica con grande apprensione, come una condizione quanto mai critica, che bisognava cercare di far cessare al più presto possibile.

La posizione politica di Venezia era ideale per tale scopo. Se i suoi ambasciatori erano sempre stati tenuti in gran conto per la loro particolare abilità diplomatica, ora in particolare essa si trovava a godere a un tempo sia della amicizia delle potenze protestanti e della Francia, sia di quella del Kaiser il quale, pur non essendo riuscito a legare la Repubblica alla propria politica, riteneva però conveniente intrattenere con essa buoni rapporti. Dopo la partenza di Gritti dalla corte imperiale – causata da un alterco con l'ambasciatore spagnolo Oñate, per una questione di etichetta – per lungo tempo la Repubblica non aveva lasciato a Vienna che dei segretari. Ora essa venne nuovamente invitata a inviare un proprio ambasciatore ordinario, con l'assicurazione che egli avrebbe ricevuto trattamento pari agli ambasciatori delle teste coronate[61].

Compito del nuovo ambasciatore era di cercare appoggio presso le potenze europee per l'eventualità di una guerra con la Porta, eventualità divenuta tanto più probabile dopo l'arresto del bailo della Repubblica Alvise Contarini, mandato a Costantinopoli proprio per le sue eccezionali doti di diplomatico.

Ma Grimani riferisce in Patria che, sinché dura la guerra, non c'è nulla da sperare, né in aiuti finanziari né in reclute[62].

Se a ciò si aggiunge che, dopo aver dovuto sopprimere la propria linea marittima per il Mar del Nord la Repubblica aveva visto, per gli effetti della guerra, gravemente intralciata anche la via terrestre, al punto da doversi servire, per inviare le proprie mercanzie in Inghilterra e nei paesi del Nord, della rivale Livorno; che i suoi mercati più ricettivi erano quelli tedeschi e che ormai il prolungarsi della guerra aveva condotto a un fortissimo calo del volume stesso dei commerci, accompagnato dalla crisi delle costruzioni navali, si può ben comprendere come tanto più stringente dovesse apparire agli uomini di Stato veneti la necessità che in Europa si giungesse finalmente alla pace.

 

II.7. – Le difficoltà di addivenire alla pace in Europa dopo l'entrata in guerra della Francia

 

Senonché, le vie per venire ad un accordo erano divenute spaventosamente difficili, per i molteplici contrasti esistenti tra le potenze che si combattevano. Tutte erano per di più incatenate l'una con l'altra da alleanze che erano a un tempo di sostegno ma anche di peso. Da quando poi anche la Francia era entrata in guerra questi legami reciproci erano diventati pressoché indissolubili, e ogni sovrano temeva di uscire dalla cerchia dei propri alleati e iniziare i passi per una pace separata. Come sapere, infatti, se l'avversario trattava onestamente o non lo sacrificava, invece, agli alleati traditi? Come sapere se non lo si voleva isolare al fine di rivolgere ancora le armi contro di lui, dopo la vittoria raggiunta? Non solo gli avversari, ma anche gli alleati diffidavano l'uno dell'altro. Ciascuno temeva di venire piantato in asso e di essere abbandonato, solo, alla coalizione nemica. Una atmosfera di avvelenato sospetto dominava non solamente fra i nemici, ma anche fra gli amici, nonostante i trattati di alleanza.

Così il "se" e il "come" della pace si erano tramutati in altrettanti problemi.

Era la prima guerra paneuropea, con tutte le sue complicazioni e l'intrico di interessi contrastanti che un coinvolgimento generale portava con sé. Solamente una soluzione altrettanto generale appariva efficace, e del resto non vi sarebbe stato alcun profitto ove uno solo fosse uscito dal conflitto: unicamente una pace universale europea poteva ora porre termine alla guerra. Eppure passò molto tempo prima che questo concetto si facesse strada e divenisse una convinzione generale, prima che le trattative singole e i colloqui segreti avessero termine e venisse stabilito un congresso generale.

La disputa circa l'ambito dei partecipanti, circa l'organizzazione, il luogo e il tempo del congresso durò più a lungo delle trattative stesse. Tutto ciò, infatti, non costituiva solo questione di forma, ma era nello stesso tempo decisione di sostanziale importanza.

L'invito dei Reichstände in corpore alle trattative, ad esempio, metteva in dubbio il potere costituzionale dell’ Imperatore e la direzione che egli poteva avere della politica estera; se venivano ammessi al congresso col diritto alla rappresentanza dei loro interessi particolari, essi erano per ciò stesso riconosciuti come internazionalmente indipendenti. Questo significava decidere preventivamente su punti essenziali, perseguiti come scopo della guerra da Francesi e Svedesi, ancor prima che cominciassero le vere e proprie trattative. Perciò questa questione fu una delle più spinose e si trascinò fin oltre l'inizio del congresso, dopo essere stata una delle prime ad essere dibattuta. Il problema era tanto grave che l'ambasciatore veneto scrisse espressamente al Senato di non aver voluto esporsi in proposito, preferendo indurre il Nunzio a insinuare all'Imperatore: "ch'egli avrebbe potuto donare al bene pubblico anche la clausola nondum reconciliati", al che l'Imperatore aveva dato in escandescenze, replicando che quando i Francesi, per aver solo le prime aperture di pace con loro, già lo volevano portare a tali inique condizioni, era meglio mettere la causa nelle mani di Dio, e ciascuno avrebbe cercato la propria salute per la via delle armi[63].

L'ammissione al Congresso della Lorena, dei Paesi Bassi spagnoli e dei Catalani e portoghesi che si erano ribellati sollevava uguali problemi. Anche la forma del Congresso e delle trattative era estremamente arduo stabilire, perché si trattava del primo congresso europeo al quale ci si preparava senza avere alle spalle alcun precedente salvo i Concili ecclesiastici.

Bisognava chiarire questioni di cerimoniale, di titoli, di precedenze, tutte cose che avevano un notevole rilievo internazionale, in un tempo che amava esprimere la dignità delle monarchie simbolicamente, sin nelle più piccole manifestazioni.

Non si era formato ancora alcun ordine di rango; o per meglio dire, esso era oggetto di discussione in misura direttamente proporzionale al mutare della Comunità dei principi sovrani. Sulla forma dei passaporti, dei pieni poteri, sui titoli e le allocuzioni si disputò per anni, e non solo per guadagnare tempo.

D'altra parte ciò avveniva in una Europa dilaniata e divisa confessionalmente, dove i mezzi di comunicazione erano cattivi, le strade tutte minacciate dalle guerre e i rapporti fra le potenze particolarmente ardui. Se si considera tutto ciò può parere quasi un miracolo che, sia pure dopo infinite pene, si sia giunti ad un accordo su di un Congresso Generale di pace e che i diplomatici di tutte le potenze europee si siano infine potuti trovare uniti per trattare la pace.

Raggiungere una conclusione di pace equivaleva anzitutto a trovare una soluzione il più possibile definitiva al contrasto d'interessi delle parti in giuoco.

Per quale via si potesse raggiungere tale soluzione era però un problema sempre più intricato. Che le parti si intendessero direttamente era pressoché impossibile. Le armi non ne avevano portato nessuna ad una superiorità tale da poter imporre all'altra il proprio punto di vista, e nell'equilibrio delle forze la guerra sembrava destinata a protrarsi indefinitamente. Occorrevano dunque l'abilità e l'autorità di una potenza neutrale volte a conciliare le opposte pretese e calmare i risentimenti delle parti in conflitto.

 

 

III. – I MEZZI PACIFICI DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI

III.1. – Mediazione, arbitrato, intervento

 

In una controversia fra soggetti di diritto internazionale, l'attività posta in essere, fra le parti, da un soggetto a tale controversia estraneo, indirizzata a provocarne la soluzione, può assumere varie forme. Essa si può verificare vuoi perchè il terzo avvicina le posizioni contrapposte e facilita l'accordo, vuoi perchè, dietro incarico di queste, formula una sentenza munita di valore vincolante, vuoi perchè, con la minaccia o con l'uso della forza, provoca autoritativamente una soluzione imponendosi alla loro volontà. Tale attività, cioè, si può configurare come arbitrato, come intervento, o come una di quelle figure che si trovano talvolta separatamente indicate nella prassi internazionale come mediazione o buoni uffici, senza che peraltro si ravvisi sempre, fra di esse, una reale differenza qualitativa[64].

Le parti di una controversia internazionale possono, infatti, pervenire alla soluzione della controversia anzitutto mediante un accordo di accertamento del diritto obiettivo preesistente o, se del caso, mediante un accordo costitutivo di una nuova si­tuazione giuridica, atta a comporre il conflitto di interessi da cui la controversia è scaturita. Se, però, questa via è inaccessibile o improduttiva, le parti possono avvalersi dell'opera di un terzo. Questa, a sua volta, può concretarsi in una attività arbitrale, nell'ipotesi in cui le parti attribuiscano al terzo il potere di risolvere la contro­versia mediante una sua manifestazione di volontà avente ad oggetto così l'accertamento del diritto preesistente come, se del caso, la creazione di diritto nuovo; oppure la stessa può restare al di qua dell'esercizio della funzione giurisdizionale e concretarsi in una attività volta a facilitare il raggiungimento di un accordo fra le parti, accordo che, in ipotesi, potrebbe essere tanto un accordo risolutivo del­la controversia, quanto un accordo diretto a porre in essere un procedimento risolutivo della medesima.

D'altro canto, la soluzione di una determinata controversia in un senso o in un altro, ovvero il mero fatto della sua sussistenza, può interessare un terzo soggetto, il quale può autonomamente farsi avanti cercando di portare le parti ad un avvicinamento, vuoi proponendo, vuoi addirittura imponendo una soluzione determinata, configurandosi la sua attività, in quest'ultimo caso, come un intervento.

Già dal diritto romano, a caratterizzare l’arbitrato – astrazion fatta per le norme materiali e formali su cui se ne fonda la procedura – è la sua natura obbligatoria[65]. Fra mediazione e arbitrato sussiste dunque una differenza fondamentale, che risiede essenzialmente nella natura della funzione corrispettiva[66] dell'arbitro e del mediato­re. Il primo infatti, pur derivando i suoi poteri dal compromesso intercorso fra le parti, è chiamato a rendere una sentenza obbligatoria, mentre il secondo si incarica soltanto di porta­re le parti ad un accordo[67], e anche quando, in vista di tale scopo, renda un parere sul merito della controversia, o proponga un piano di soluzione, si intende che esso non è vincolante per le parti. Caratteristica precipua della mediazione, infatti, è la sua facoltatività, vuoi perchè i soggetti della Comunità internazionale non sono obbligati a ricorrervi – dato, questo, che accomuna peraltro la mediazione agli altri mezzi di soluzione delle controversie internazionali – vuoi perchè gli stessi soggetti non sono obbligati a conformarvisi. D’altro canto, i limiti che tale facoltatività incontra in via di fatto segnano il confine rispettivo fra la mediazione e l’intervento, cioè fra l’attività conciliativa rivolta alle parti in controversia per facilitarne l’accordo, e l’ingerenza autoritativa consistente nell’intimazione ad accettare la soluzione indicata, dietro implicita o esplicita minaccia dell’uso della forza[68].

Ma la discriminante fra mediazione e intervento è, a volte, di non immediata evidenza, e non è difficile osservare come spesso l’intervento si attui sotto le spoglie di una mediazione. La discriminante fra mediazione e intervento è, a volte, di non immediata evidenza, e non è difficile osserva­re come spesso l'intervento si attui sotto le spoglie di una mediazione[69]. Ciononpertanto, se la distinzione fra mediazione e intervento si colloca, per il diritto internazionale generale, nella zona spesso indefinibile dei rapporti di forza e dell’opportunità politica, quella fra la mediazione e l’arbitrato, che si pone nell’ottica degli effetti giuridici della decisione resa dall’arbitro, rispetto al piano proposto dal mediatore, non manca per questo di zone d’ombra.

Infatti se, concettualmente, la mediazione è chiaramente distinta dall'arbitrato, e lo è stata ancor prima che la scienza del diritto internazionale intraprendesse l'analisi dei dati della vita di relazione, la funzione comune ha fat­to sì che si siano sempre, anche se confusamente, mostrati in evidenza i dati di connessione. Essi si richiamano essen­zialmente a due ordini di fattori: il primo è di natura sociologica, vale a dire che sussiste una interrelazione profonda fra i due procedimenti, talchè la frequenza del primo influenza l'altra; il secondo è di natura procedurale, e cioè è frequente, sebbene la configurazione pratica oltrechè concettuale sia notevolmente differenziata, che l'attività di mediazione o di conciliazione si presenti come una procedura preliminare rispetto all'arbitrato, vuoi che, rispetto a questo, sia semplicemente strumentale, e cioè sia volta a portare le parti al compromesso; vuoi che si configuri come un obbligo o una facoltà dell'arbitro di tentare anzitutto una conciliazione e, solo ove questa fallisca, pronunciare una sentenza obbligatoria sulla base dello stretto diritto. La clausola di conciliazione, inserita talvolta nel compromesso, d'altra parte, presuppone l'impossibilità, per il giudice, di rendere una decisione fondata sul diritto, ma concerne una funzione relativa al potere di sta­tuire ex aequo et bono in quanto si realizza in una situazione che sta a cavallo fra le carenze e le lacune del diritto[70].

 

III.2. – Mediazione e buoni uffici

 

Dalla mediazione in senso stretto, si distinguono i buoni uffici, differenziatisi da quella nella medesima maniera in cui la mediazione stessa si era differenziata dall'arbitrato medioevale, e cioè come una forma più blanda di interessamento di un terzo in relazione a un conflitto rispetto al quale sia rimasto neutrale. Il termine "buoni uffici" si trova già nei documenti diplomatici della guerra dei trent'anni, usato senza una precisa distinzione da quello di "mediazione". Ancora oggi da taluni autori si cerca di ammettere e delineare una differenza fra mediazione e buoni uffici, da altri la si nega[71].

Per chiarire questo punto va detto innanzitutto che entrambe le forme sono della stessa natura: il fine che si propongono è il medesimo; sia l'una sia l'altra hanno, rispetto all'arbitrato, la comune caratteristica di non voler emettere alcuna sentenza, ma solamente facilitare l'intesa delle parti; rispetto all'intervento quella di essere assolutamente esenti da minaccia. A paragone della mediazione i buoni uffici rappresentano un minus, ma in che cosa consista questo minus è difficile stabilire. Chi esercita i buoni uffici non è certamente solo un messo che s'incarica di far pervenire le proposte dell'una all'altra parte, perché egli svolge, invece, anche un'attività propria, intesa a ottenere la formulazione delle proposte stesse, evitare il rifiuto puro e semplice dell'altra, ad avere quindi delle risposte contrapposte e mantenere insomma in vita la possibilità di trattative.

Anche chi pratica i buoni uffici cerca di rendersi conto del limite cui una parte è disposta a giungere nelle proprie concessioni: in che cosa dunque i buoni uffici si distinguono dalla mediazione?

Salvioli suggerisce che la diversità consista nella proposizione di un "piano" di accordo che sarebbe caratteristica della mediazione e non dei buoni uffici[72]. Ma poiché a nessuno Stato neutrale è negato di prestare il proprio aiuto, anche se non espressamente richiesto, al fine di comporre un conflitto, e siccome perché si abbia mediazione è necessario invece un accordo in tal senso degli Stati contendenti fra loro e con il mediatore, ecco che altri autori vedono giusto in questo punto la differenza fra mediazione e buoni uffici. Arangio-Ruiz[73] scrive acutamente: "Con molta approssimazione si potrebbe dire che i buoni uffici sono un mezzo estraneo sia alla procedura, che resta il negoziato, sia all'oggetto di essa che è la ricerca della soluzione o del mezzo ulteriore da esperire. La mediazione investe invece il negoziato sia nella procedura, modificandone i termini, che non sono più bilaterali, sia nella sostanza, grazie alla partecipazione del terzo come suggeritore neutrale ed eventualmente autorevole di soluzione o di mezzi di soluzione".

Si tratta certamente di differenze sottili, forse più di forma e di procedura che di sostanza, ma poiché l'oggetto stesso della attività della mediazione e dei buoni uffici è estremamente delicato, non si può negare a questa differenza una qualche influenza di ordine pratico[74].

Al termine della guerra dei trent'anni, per la prima volta dal sorgere del nuovo sistema di Stati, la diplomazia si trovava di fronte al compito di comporre i contrastanti interessi delle potenze in conflitto, con riguardo per la loro già molto accentuata pretesa di sovranità: risultò chiaro ben presto che nessun'altra forma poteva portare al fine desiderato se non la mediazione, e veste di mediatori cercarono di assumere quegli Stati che, pur prendendo notevolissimo interesse all'esito della lite, volevano evitare che la loro intromissione avesse l'apparenza di un intervento o della pretesa di fungere da arbitri.

 

III.3. – La mediazione e la storia del diritto internazionale

 

Quelle che si sono appena delineate sono naturalmente distinzioni le cui linee di confine derivano dall'astrazione dei dati necessari alla speculazione giuridica derivanti da una realtà storica determinata, portatrice di un equibrio fra individuo e Stato, diritto interno e diritto internazionale che non è se non uno di quelli possibili.

In via specifica se, come è stato detto [75], il solo mezzo giuridico di regolamento delle controversie, dal punto di vista dell'attuale diritto internazionale finisce con l'essere lo stesso accordo con il quale gli Stati compongono i loro conflitti, vuoi direttamente, ponendo norme di diritto materiale, vuoi indirettamente, creando strumenti e strutture atte a comporre una determinata controversia ovvero, in ipotesi, ogni possibile controversia, è anche vero che la mancanza di norme generali, dotate di una reale efficacia, che impongano un’organizzazione determinata e la esplicazione di una attività concreta, dipende pur sempre dalla struttura decentrata e paritaria attualmente propria della Comunità internazionale[76] così come dall'attuale modo di essere della comunità statuale dipende l'esistenza di una organizzazione e di norme di tal genere.

La storia del diritto internazionale fa risalire molto addietro nel tempo l'uso di concludere la pace o di prevenire la guerra mediante l'opera di un terzo. Più di molti istituti di diritto internazionale, anzi, la mediazione mostra quanto lontane e complesse siano le radici di questo diritto, il cui inizio è stato viceversa ritenuto a lungo una ricaduta della guerra dei trent’anni[77].

L'antichità sumera, in due stele a caratteri pre-cuneiformi, ci ha lasciato notizia della funzione arbitrale riconosciuta ai sacerdoti del dio Enlil di Nippur. Così un lungo conflitto di frontiera, fra gli Stati sumeri di Lagasca[78] e di Umma[79], fu terminato grazie alla pronuncia di Mesilim, re di Kish. Degno di particolare rilievo è il fatto che essa sarebbe stata resa in conformità alle indicazioni di Kadi, dea della giustizia. Questa avrebbe rivelato al re di Kish in quali termini le rispettive divinità delle due città fossero state a loro volta riconciliate da Enlil, dio del Nippur[80]. Il caso è stato variamente interpretato: come un arbitrato, pronunciato da un principe al quale le parti avevano affidato la controversia con un apposito compromesso[81]; come un intervento di Mesilim, che si sarebbe trincerato dietro la volontà del dio Enlil "re della terra e padre degli dei"; ovvero come il giudizio di un superior[82]. Ma più convincente pare l'interpretazione del Preiser il quale suggerisce si possa esser trattato di una mediazione[83]. Certo è interessante che, parallelamente e anteriormente ad un accordo "internazionale" che si realizzava sulla terra, si ammetteva si verificasse un accordo analogo in un mondo sovraordinato che ne costituiva l'archetipo e ne garantiva l'equità. È qui evidente la stretta connessione tra linguaggio giuridico e linguaggio religioso propria del mondo antico[84] e la necessità di non lasciarsi fuorviare dal diaframma mitico-religioso che ai nostri occhi vela il modo in cui l’evo antico discorre di scienza e di diritto.[85]

Conosciuta come mezzo per la soluzione delle controversie fra dei ed eroi, la mediazione appare frequentemente usata nelle relazioni fra le città dell’antica Grecia[86]. Le fonti raccolte dal Piccirilli[87] mostrano come i casi di mediazioni o di arbitrati, numerosissimi, risalgano fino al periodo eroico e mitico della Grecia. Dalla contesa di Poseidone e Atena per il possesso dell'Attica[88], a quella fra Poseidone ed Elio, per il possesso di Corinto[89], allo stesso arbitrato di Paride nella contesa fra Era, Atena e Afrodite, dal quale doveva prendere origine la guerra di Troia[90], la tendenza a risolvere le controversie intersoggettive mediante il deferimento volontario del giudizio ad un terzo soggetto si affaccia prepotentemente nella mitologia greca[91]. Ammessa come mezzo di soluzione delle controversie di dei ed eroi, l'interposizione conciliativa divenne assai per tempo una prassi consueta nella meccanica dei rapporti fra le diverse poleis e all' interno di ciascuna di esse.

Talvolta la potenza mediatrice garantiva il rispetto del trattato con la propria forza militare: un uso che Roma farà abilmente proprio[92]. Superato da più recenti studi[93] il quadro a suo tempo tratteggiato dal Mommsen[94], si ritiene ormai che Roma si sia inserita nella comunità di potentati ellenistica, mutuandone gli istituti. La tesi che Roma abbia usato largamente di mezzi diplomatici per espandere la propria egemonia, intervenendo con le armi solo quando venivano minacciati direttamente e pericolosamente i suoi interessi[95], si lega peraltro alla concezione del bellum, che intersecando la delicata connessione tra fas e jus non poteva essere intrapreso da Roma se non con estrema cautela religiosa e giuridica, dopo l’esperimento dei rituali affidati ai fetiales e in presenza di una justa causa[96].

In altra sede si è visto come questa concezione sia riecheggiata così nella dottrina civilistica come in quella canonistica della guerra giusta[97]. L’eredità romana viene raccolta e trasmessa anzitutto dalla Chiesa, il cui ruolo, anche in questo campo, cresce già a partire dal tardo Impero: la funzione di supremo garante della pace, viene subito rivendicata dal Pontefice[98] in quanto vicario di Cristo, il mediatore fra Dio e gli uomini[99], grazie al quale pacificantur caelestia cum terrestribus et terrestria cum caelestibus[100]. Anzi la ratio pacis fractae configura un'autonoma fattispecie delittuosa che richiama direttamente la competenza della Chiesa[101].

La mediazione, tuttavia, non necessariamente era affidata agli esponenti della Chiesa. Intesa come tentativo di componimento bonario intrapreso da terzi, essa sin dall’alto medioevo si frammescola sovente ad un vero e proprio arbitrato sicchè era frequente che le stesse persone sulla cui nomina si era d'accordo, fossero chiamate anzitutto a guidare le parti ad un componimento amichevole e solamente se questo tentativo non riusciva, a emettere una sentenza obbligatoria[102].

A un primo sguardo la stessa scelta delle persone che la porranno in essere, differenzia la mediazione dai semplici buoni uffici. Il mediatore pone sul piatto delle trattative tutto il peso della propria forza politica[103]. Dal momento che, come si è detto, l’uso dei diversi possibili mezzi pacifici di soluzione delle controversie internazionali è in relazione con la struttura rilevabile nello stesso mo­mento storico nella comunità internazionale, sembra che il procedimento di mediazione, non portando ad una decisione obbligatoria, sia apparso alle parti più conveniente di un tribunale arbitrale a mano a mano che gli Stati andavano accentuando una sovranità di tipo moderno[104]. Perciò l’arbitrato, a partire dalla fine del Medioevo, perse sempre più terreno. Al suo posto progrediva la mediazione come istituto autonomo, e gli anni che servirono di preparazione al congresso di Westfalia, così come il congresso stesso, servirono meglio a delinearla[105].

Non per nulla Grozio, pur riferendo delle funzioni arbitrali espletate dal re di Svezia Magnus fra il re di Danimarca e il re di Norvegia (1285), e ancora fra il re di Norvegia e le città anseatiche, non nasconde di guardare con qualche scetticismo all’arbitrato che, a suo avviso,

 

inter reges et populos locum habere non potest. Nulla enim hic est potestas superior quae promissi vinculum aut impediat aut solvat[106].

 

La scienza giuridica fece seguito dopo qualche tempo alla pratica. Benchè il termine mediator esistesse già nella prassi diplomatica[107], nel De jure belli ac pacis[108], scritto proprio in questo torno di anni, Grozio gli preferisce espressioni come conciliatio, arbitrium, ad reconciliandos o pacificationis negotium, usati senza apparente distinzione tra loro[109].

Viceversa nello Jus Gentium methodo scientifica pertractatum del Wolff, al V Capitolo che porta il titolo De modo componendi controversias gentium troviamo, accanto alla rinuncia unilaterale e alla transactio, anche la mediazione come possibilità autonoma nominata accanto e prima dell'arbitrato, mentre vengono dall'autore rigettati la sorte e il duello singolare.

Ma già prima di lui Boguslav Chemnitz, la cui famosa storia dell'intervento svedese in Germania fu pubblicata nel 1648, fece frequente uso del termine e anzi già distingueva tra una accettata e una non accettata offerta di uffici diplomatici da parte di un terzo Stato, a proposito della composizione di una controversia internazionale. L'offerta non accettata veniva da lui chiamata interposizione, mentre, se l'offerta veniva accolta, il procedimento che ne seguiva prendeva il nome di mediazione[110]. Quindi, a partire dal tempo di Luigi XIV e in genere dai giuristi del XVIII secolo, la mediazione prende un posto definito fra i mezzi volti alla pacifica soluzione di controversie internazionali.

 

 

III.4. – La mediazione dal punto di vista degli studiosi di diritto internazionale

 

Tuttavia, a voler definire il contenuto della mediazione come istituto giuridico, anche tenendo conto degli apporti della dottrina più recente, non si andrebbe molto più in là di quanto già or sono due secoli scriveva Vattel:

 

«La médiation, dans laquelle un Ami commun interpose ses bons offices se trouve souvent efficace, pour engager les parties contendantes à se rapprocher, à s'entendre, à convenir, ou à transiger de leurs droits, et s'il s'agit d'injurie, à offrir et à accepter une satisfaction raisonnable. Cette fonction exige autant de droiture, que de prudence et de dextérité. Le médiateur doit garder una exacte impartilitè, il doit adoucir les reproches, calmer les ressentiments, rapprocher les esprit. Son devoir est bien de favoriser le bon droit, de fair rendre à chacun ce qui lui appartient: Mais il ne doit point insister scrupuleusement sur une justice rigoureuse. Il est Conciliateur et non pas Juge: sa vocation est de procurer la paix et il doit porter celui qui a le droit de son côté à relacher quelque chose, s'il est nécessaire, dans la vue d'un si grand bien. Le Mediateur n'est pas Garant du Traité qu'il a ménagé, s'il n'en a pris expressément la Garantie. C'est un engagement d'une trop grande conséquence pour en charger quelqu'un sans son consentement clairement manifesté. Aujourd'hui que les affaires des Souverains de l'Europe sont si liées que chacun a l'Oeil sur ce qui se passe entre le splus éloignés, la Médiation est un moyen de conciliation fort usité. S'élève-t-il un différend? Les puissances amies, celles qui craignent de voir allumer le feu de la Guerre, offrent leur Médiation, font des ouvertures de paix et d'accommodement»[111].

 

Così come Vattel non ne parla è assolutamente da escludere l'idea che esista un dovere giuridico degli Stati neutrali di offrire la loro interposizione ogni volta che essa possa servire al mantenimento della pace. Questa teoria, che fu sostenuta da Bulmericq[112] e Kamarowsky[113], dava per lex lata quello che era solo una necessità politica, la quale però, come tale, viene riconosciuta da parecchi autori sino alle organizzazioni internazionali dei nostri giorni. Ma anche nella comunità gerarchica medievale dipendeva dal buon volere delle potenze neutrali offrire o no la loro mediazione, e dipendeva dalla loro libera decisione assumere la mediazione loro richiesta. Anche i principi belligeranti restano liberi di invocare o no l’intromissione di una terza potenza o di accettarne l’offerta di mediazione, e questo principio valeva anche per il caso che l’offerta di mediazione o di arbitrato provenisse dal Papa.

Innocenzo III e Bonifacio VIII, all'inizio e alla fine del XIII secolo, tentarono di rafforzare la posizione del capo della Cristianità, nel senso di far ricomprendere nelle sue funzioni una vera e propria giurisdizione ex officio in caso di conflitto internazionale[114]. Sia Innocenzo III nella contrapposizione a Federico II, sia più tardi Bonifacio VIII[115] in occasione della contesa fra Edoardo I di Inghilterra e Filippo il Bello di Francia, tentarono di spingere la teoria della potestà papale ratione peccati sino ad affermare che, in materia di trattati internazionali confermati da giuramento, il Papa avesse il diritto di intervenire per giudicarne anche al di là della volontà delle parti.

Proprio le reazioni generate da queste prese di posizione[116], tuttavia, dimostrano come i principi cristiani non accettassero, per la soluzione delle loro controversie, una vera e propria giurisdizione del Papa. Si può dunque affermare che, riguardo alla non obbligatorietà del procedimento della mediazione, valeva sempre la massima giuridica precisata da Wolff:

 

«Si ad pacem faciendam adhibeantur mediatores uterque belligerantium in eosdem consentire debent»[117].

 

Veri e propri obblighi in proposito possono derivare solo da una clausola compromissoria inserita preventivamente in un trattato, sebbene, per quanto attiene alla comunità gerarchica medievale, la logica della dottrina del bellum justum ci autorizza a ipotizzare l’ obbligo di previo esperimento dei mezzi pacifici di soluzione delle controversie intersoggettive[118]. Un vero e proprio mutamento di indirizzo è rilevabile proprio col sorgere dello Stato moderno, che percepisce come una violazione della sua sovranità financo il riconoscimento di una obbligazione in tal senso.

Pufendorf – il discepolo e critico di Grozio[119] – i cercò di stabilire il principio secondo il quale uno Stato belligerante sarebbe stato obbligato ad accettare un’offerta di mediazione; anzi, che le potenze neutrali avrebbero avuto il diritto di costringere i belligeranti ad un accordo nei termini da esse stesse definiti unendo le forze contro lo Stato renitente[120]. Probabilmente Pufendorf aveva in mente i progetti di una mediazione armata che avevano solleticato le ambizioni di Giacomo I d’Inghilterra e di suo figlio Carlo nel corso di buona parte delle guerra[121].

Ma già Textor la cui "Sinopsis juris Gentium" veniva pubblicata[122] qualche anno dopo l'opera di Pufendorf, precisava al contrario che nessuno Stato belligerante può essere costretto ad accettare una offerta di mediazione se ha buone ragioni per non farlo, e il rifiuto della mediazione offerta non doveva essere considerato quale legittimo motivo per offendersi o per dichiarare una guerra. La stessa posizione venne assunta da un altro discepolo di Grozio, Van Bynkerschoek, che scrive:

 

Ut iniquum est principem invitum ad bellum cogere, ita et ad pacem[123].

 

Dipende perciò dal buon volere dei neutrali offrire o no la propria mediazione, come pure dipende dalla loro libera decisione l'acconsentire o no alla mediazione loro richiesta. Analogamente gli Stati in discordia sono liberi di invocare o no l'intromissione di un terzo Stato, e ugualmente liberi sono di accogliere o no l'offerta che un terzo Stato faccia della propria mediazione per l'appianamento del conflitto[124]. Naturalmente un dovere giuridico di ricorrere a questa intromissione o di chiederla per evitare un conflitto armato o per mettervi fine può sorgere da speciali disposizioni di trattati[125].

In ogni caso il fondamento giuridico su cui l'istituto si fonda è l'accordo mediante il quale le parti in controversia affidano al terzo neutrale il compito di svolgere l'attività pacificatrice. Il concetto stesso di mediazione presuppone un incontro di voleri fra il mediatore e le parti. Per tale accordo valgono le norme giuridiche generali. Norme particolari della mediazione non se ne possono dare, e questo è stato – secondo lo Schücking – il motivo per cui la maggior parte delle opere di diritto internazionale non hanno dedicato all'argomento che poche esposizioni, limitate alla descrizione delle funzioni del mediatore.

Anche Anzilotti sostiene che:

 

«Una determinazione esatta della figura giuridica del mediatore non sembra possibile né utile al diritto internazionale stante la mancanza di norme positive e l'estrema variabilità dei casi concreti»[126].

 

Per la stessa ragione da taluno è stato fatto il tentativo di eliminare la mediazione dal sistema del diritto internazionale e di rimandarla alla politica[127].

Bisogna tuttavia considerare che, sebbene in relazione alla mediazione non si possano dare delle norme giuridiche generali, nemmeno si può negare alla stessa qualsiasi rilevanza giuridica, in quanto l'accettazione della mediazione – sia quella spontanea, sia quella che derivi da un obbligo precedentemente assunto – dà luogo a rapporti giuridici che interessano sia lo Stato mediatore sia ciascuna delle parti contendenti. Stabilire quali siano in particolare questi rapporti dipende dalla volontà delle parti nel caso concreto.

In generale si può dire che lo Stato mediatore si assume l'obbligo di adoperarsi per risolvere il conflitto, e gli Stati che hanno richiesto - o accettato - la mediazione quello di consentirgli di esplicare una certa attività a tale scopo[128].

Anche dal mediatore si esige la rigorosa imparzialità del giudice, ma il suo compito non consiste nel portare ad effetto il diritto, bensì nel condurre le parti ad una intesa, riconciliandole[129]. Salvioli, anzi, va più in là e sostiene che opera di mediazione è solamente quella che non accolga integralmente la tesi dell'una o dell'altra parte in conflitto, perché, in tal caso, si tratterebbe di attività di giudice o di arbitro. Alla sua tesi, però, non si può aderire completamente: in primo luogo perché, quand'anche l'accordo fra le parti venisse raggiunto con l'integrale soddisfacimento di una di esse, rimane pur vero che a ciò ha portato un'attività di mediazione non un'attività decisoria; in secondo luogo perché in ogni caso le parti non avevano attribuito al terzo se non funzione di mediatore, e di conseguenza solo l’accordo fra di esse sarebbe produttivo della estinzione della controversia.

Il mediatore dirige le trattative, assiste agli incontri delle parti contendenti, partecipa alle eventuali conferenze, le presiede. E' suo compito ricevere le reciproche proposte; in tale occasione egli deve cercare di chiarire le tesi in conflitto, e relativamente ai punti in discussione, domandare a ciascuna parte se è disposta a modificare in qualche punto le sue pretese, suggerisce qualche variazione studiandosi di avvicinare le due tesi; quindi, portando a conoscenza di una parte le proposte di un'altra, chiede che questa si pronunci, si sforza di evitare un rigetto puro e semplice, si adopera perché vengano fatte ulteriori controproposte. Se poi, nonostante tutti questi sforzi, non giunge alla composizione della vertenza, allora propone egli stesso un "piano" come base di comune accordo[130].

Che il mediatore con ciò non si renda garante del trattato che successivamente fra le parti può venire stipulato, non è nemmeno posto in discussione dalla dottrina più recente, mentre gli autori più antichi hanno qualche volta ritenuto necessario specificarlo. Wolff in proposito spiega che pur esortando le parti alla transazione il mediatore:

 

«... dum hoc facit minime promitit auxilium contra eum qui conventa non servaverint; nec ad guarandam se obligat. Nec obstat si instrumentum pacis subscripserit. Subscribit enim tanquam testis, non tanquam guarandus...».

 

Poco più oltre, Wolff aggiunge che al mediatore non compete nemmeno lo "Jus instrumentum pacis interpretandi" giacché in tal caso gli si attribuirebbe un potere maggiore di quello che le parti avevano voluto conferirgli.

 

«Si jus interpretandi instrumentum pacis mediatori competere deberet - chiarisce lo stesso autore - consensus pacem facientium in eum translatum esse deberet. Sed deficit consensus expressus, quia nihil de eo dictum in Instrumentum Pacis; deficit etiam tacitus, quia id in Mediatione non continetur»[131].

 

Insomma l'opera del mediatore non deve mai superare: limiti di una intromissione amichevole, non autoritativa né tanto meno accompagnata da minacce. Se tacita o espressa chiaramente ci fosse anche la minaccia di ricorrere alla forza per imporre una determinata soluzione della controversia non di mediazione si tratterebbe, ma di intervento[132]. Viceversa essenziale alla mediazione è che gli Stati contendenti restino sempre liberi di accettare o no le proposte del mediatore, come pure di dare all'accordo che chiuderà la contesa il contenuto che vogliono, e il mediatore non deve darsi altro pensiero che di predisporre o di facilitare quell'intesa che, nelle concrete circostanze del caso, reputa possibile e conveniente.

 

III.5. – Offerte di mediazione sul finire della guerra dei trent'anni

 

Non fu certo per mancanza di offerte di mediazione o di buoni uffici da parte di paesi neutrali che la guerra dei trent'anni venne tanto prolungata. Secondo il Colegrove, in nessun'altra guerra dell’ età moderna si è spiegata attività più intensa da parte di Stati non belligeranti per offrire i loro uffici al fine di giungere ad una cessazione delle ostilità e di intavolare i negoziati preliminari per la pace[133]. Oltre a Venezia e al Papa si possono ricordare l'Inghilterra, la Danimarca e perfino la Francia, giacché l’ intervento di Richelieu negli affari tedeschi, già prima della entrata in guerra, pur non proponendosi se non di dirigere a proprio vantaggio gli interessi delle parti in Germania, conservò tuttavia le forme esterne della mediazione. Prima di intromettersi, Richelieu volle essere "fortemente pregato" dai principi tedeschi, e non si stancò mai di assicurare che Luigi XIII pensava di farsi avanti non "en qualité d'arbitre, mais de mediateur". Ora, a dir la verità, la Francia non era propriamente una potenza neutrale, e in nessun modo si poteva credere che tendesse solamente al ristabilimento della pace, giacché molto le interessava anche il suo contenuto; perciò essa era assai poco adatta a fare da mediatrice. Nessuno in Germania ebbe dubbi in proposito. L'elettore sassone, ch'era parte in causa e fautore di una mediazione danese, respinse quella francese e chiese a Féuquieres se la Francia era disposta a una semplice interposition d'autorité, vale a dire a una specie di buoni uffici, per il congresso di pace ch'egli aveva progettato di riunire a Breslau e per il quale era stata scelta come mediatrice la Danimarca. Naturalmente questo non bastava a Richelieu, al quale solamente la posizione riconosciuta di mediatore poteva permettere d'influire in maniera decisiva sulle condizioni di pace, attribuendogli la funzione che più si avvicinava a quella di arbitro[134].

Similmente a Richelieu, Cristiano IV di Danimarca, già nel 1629, mentre stava trattando la pace con l'Imperatore, si offrì di condurre questi e Gustavo Adolfo alla composizione delle loro dispute. Il motivo che lo spingeva a ciò era il timore di vedere intraprendere da Gustavo Adolfo una azione bellica che, ove fosse riuscita vittoriosa, avrebbe guadagnato alla Svezia il dominio del Mar Baltico, compromettendo gli interessi della Danimarca. Come risultato dei negoziati promossi da Cristiano IV, venne tenuta a Danzica, tra i plenipotenziari imperiali e Gustavo Adolfo, una conferenza che però non produsse il risultato sperato.

Nel 1633, dopo la morte del re svedese, Cristiano IV cercò ancora di ridar vita a dei negoziati segreti con la corte imperiale, per escludere gli Svedesi dagli affari tedeschi e convenire una pace particolare fra l'Imperatore e i Protestanti. L’arcivescovado di Bremen e il vescovado di Verden dovevano essere la ricompensa dei suoi sforzi, se questi fossero stati fecondi; ma così come quello della Francia, anche l'interessamento della Danimarca era troppo sospetto per essere efficace[135].

Altre offerte infruttuose vennero, dopo la pace di Praga, da parte dell'elettore Sassone e di quello del Brandenburgo, nonché dal duca di Lüneburg. Nel 1636 il duca di Arundel fu inviato a Vienna dal re d'Inghilterra con l'incarico di «interporre la mediazione e il credito nostro presso tutti i principi e Stati di nostra professione religiosa nell'ambito dell'Impero, al fine di persuaderli a sottomettersi all'Imperatore e fare la pace»[136].

Richelieu e Cristiano IV parlavano di mediazione e pensavano ad una autorità arbitrale, cioè davano al concetto un significato più ampio di quel che ad esso competeva. Viceversa il Papa Urbano VIII, la cui mediazione venne invocata alcuni anni più tardi, si impose tali e tanti limiti che l'attività dei suoi legati si potrebbe certo meglio definire dal punto di vista del diritto internazionale col concetto dei buoni uffici. Infatti proponendosi di avere riguardo per la sensibilità delle potenze belligeranti e di non pregiudicare con la propria opera i tentativi di pace, egli rinunciò a qualsiasi azione che avesse la sia pur lontana apparenza di voler influire sulle parti. Nell’ istruzione che il cardinal Ginetti nel 1636 ricevette per il Congresso di Colonia, veniva a lui sottratta espressamente una delle più importanti facoltà di un mediatore, vale a dire quella di fare delle proposte proprie, per la definizione della lite.

Il Papa temeva che si potesse dubitare della sua imparzialità se il suo legato esprimeva il punto di vista personale sulle questioni in discussione: i suoi primi tentativi di mediazione in Italia erano stati per lui – così egli diceva – una spiacevole esperienza.

La funzione che Venezia esercitò nel corso delle trattative si potrebbe invece proporre come un esempio accademico, poiché essa rivestì sia i caratteri dei buoni uffici, prima del congresso, sia quelli di una vera e propria mediazione, in senso formale e sostanziale, durante il congresso.

La Repubblica offrì i propri uffici e venne appoggiata dalla Francia che vedeva ancora in lei quella sostenitrice e quella alleata ch'essa era stata nella prima parte della guerra dei trent'anni, e in un certo senso tale doveva essere ancora, come si vedrà, in tutto quel periodo che servì di preparazione al Congresso vero e proprio. Ma ciò avvenne solo in quanto Venezia si rendeva conto che il cedimento dell'Imperatore su determinati punti era indispensabile al conseguimento di risultati concreti.

In effetti quello che premeva alla Repubblica era soprattutto la fine della guerra.

 

 

IV. – GLI ANNI PREPARATORI DEL CONGRESSO DI PACE

IV.1. – I progetti di pace e la politica di Urbano VIII

 

Per la pace universale era necessario un congresso universale. Questo concetto si era cominciato a diffondere un poco ovunque, già prima della entrata in guerra della Francia, verso il 1632; fino ad allora si era sempre pensato a trattative bilaterali da governo a governo. Tuttavia il progetto stesso incontrava delle difficoltà quasi insormontabili. La più ardua consisteva nel fatto che la Francia voleva trattare solo a patto che fossero presenti i suoi alleati protestanti, mentre il Papa, il Kaiser e la Spagna pretendevano di estromettere proprio questi alleati, per cercare una soluzione tra le sole potenze cattoliche. Dal punto di vista della Chiesa, i Protestanti erano nell’errore, e con l’errore non si poteva venire a patti. Dal punto di vista dell’Imperatore, quanti si erano alleati con Federico V avevano partecipato ad una ingiustificabile ribellione contro il legittimo signore, quindi potevano chiedere mercé, non trattare da pari a pari.

In questo modo non si poteva evidentemente arrivare ad alcun risultato sicché si pensò bene, nei negoziati preparatori, di dividere il congresso secondo le confessioni, o meglio, di convocare due distinti congressi.

Questo pensiero fu concepito contemporaneamente sia dalla parte cattolica sia da quella evangelica, ma venne per la prima volta espresso dal consigliere (ed eminenza grigia) di Richelieu, il cappuccino Padre Giuseppe. Questi nel febbraio del 1634 aveva formulato il progetto di conciliare innanzitutto le vertenze tra Impero e Francia, e di cercare poi di perseguire un componimento generale, che lui intendeva, però, come una separazione spazio-temporale, non come una separazione oggettiva[137].

Il Papa raccolse il progetto e lo svolse nel senso di due congressi indipendenti l'uno dall'altro: in Roma per i cattolici, in Trento o altrove per i protestanti.

Era l'idea del futuro, e tuttavia nella formulazione del Papa essa conteneva una condizione che la rendeva inaccettabile: il desiderio che fra i due congressi non vi fosse alcun rapporto, e che il trattato fra le potenze cattoliche non dovesse dipendere dal successo delle trattative di pace con i protestanti.

Anche i protestanti facevano progetti simili: essi proponevano un congresso tripartito, ma compreso in un confine più ristretto: in Erfurt per gli evangelici, in Mühlhausen per i cattolici, in Langensalza per i mediatori. Ma fintantoché le corti di Vienna e di Madrid rimanevano aderenti alla posizione intransigente del Papa il problema pareva irresolubile.

In realtà la politica del Papato non era adeguata ai bisogni dell'Europa durante un conflitto così vasto quale la guerra dei trent'anni. La Chiesa romana non aveva ancora accettato la Riforma come un fatto compiuto, e l'unità del mondo cristiano che essa propugnava si restringeva all'ambito delle potenze cattoliche. Era entro questo confine che il Papa cercava la pace; ciò che accadeva al di là di esso non lo riguardava, e indirettamente soltanto, solo in quanto l'ambito delle nazioni cattoliche potesse venirne minacciato, egli se ne interessava.

Un Innocenzo III aveva potuto dichiarare che il Capo della Chiesa era il "mediatore supremo di tutti i paesi della terra". Ma nel passato il Papa era il mediatore naturale di un ideale Corpus Christi[138]. Secondo la dottrina canonistica, era lecito sguainare la spada solo per difendere sè stessi o per combattere contro chi poteva essere definite nemico[139]. I civilisti avevano tratto dal Digesto il concetto di nemico, hostis[140]. Secondo la Magna Glossa non ogni avversario poteva essere qualificato come hostis e non ogni bellum era licitum, ma solo quello dichiarato perchè reso necessario per recuperare beni sottratti da altri popoli ovvero per chiedere riparazione ad offese arrecate al Popolo Romano. In questa ottica, la Guerra medievale si presentava come una executio juris[141]. L’ Ostiense aveva poi identificato il Popolo Romano con la Christianitas e di conseguenza il bellum licitum con la lotta inter fideles et infideles[142]. Un tale bellum era non solo justum, ma anche necessarium quia ab illo nulla die abstinendum est[143].

Ora l'autorità di cui la Chiesa aveva goduto nelle questioni politiche per tutto il Medio Evo era decaduta. Il Rinascimento prima e la Riforma poi avevano avviato una laicizzazione dello Stato e della politica che era già evidente non solamente nei rapporti fra Stato e Chiesa, ma anche nelle relazioni degli Stati fra loro, nel diritto e nella prassi internazionale. La Chiesa proibiva alle potenze cattoliche di avere commercio con gli infedeli; ma come sarebbe stato possibile obbedirle quando ormai venivano conclusi - da parte di Venezia, della Francia, della Spagna - trattati e alleanze perfino con la Porta? Meno che mai, quindi, poteva trovare soddisfazione la pretesa del Papa che si rifiutasse riconoscimento agli Stati eretici e che si evitassero i contatti con essi. Ostinarsi in questa pretesa equivaleva a rifiutare la realtà e rinunciare ad ogni influenza sui rapporti del mondo cattolico con i Protestanti[144].

Quando, all'inizio del 1635, cominciò a prendere forma concreta l'idea di un congresso generale di pace, e già si discuteva della sede (si parlava delle città di Costanza, Spira, Augusta o Trento), Urbano VIII, vuoi che avesse seriamente a cuore il problema della pace, vuoi che desiderasse non essere da meno del re Cristiano IV che non cessava di prodigarsi allo stesso scopo, offrì la propria mediazione di Vicario di Cristo per persuadere i principi cattolici ad un accomodamento, e per pungolare le potenze cattoliche ad affrettare le cose, incaricò il cardinale Ginetti di sostenere l'ufficio di mediatore, nominandolo "legatus a latere".

La nomina di Ginetti spinse effettivamente le potenze belligeranti a fissare un luogo per il congresso. Venne scelta Colonia perché nel Sud della Germania infuriava la peste, e così il 26 ottobre 1636 Ginetti si mise in viaggio alla volta di quella città. Ma quivi egli trovò solo i plenipotenziari del Kaiser e della Spagna: la Francia era rimasta ferma insieme con la Svezia, l'Olanda e tutte le altre Potenze protestanti.

 

IV.2. – L’alleanza franco-svedese

 

Il fatto è che l'offerta papale di mediazione era stata trasmessa ai principi cattolici attraverso i Nunzi che si trovavano nelle capitali europee. Ma sebbene la regina di Svezia avesse un ambasciatore a Parigi, nessun invito era stato ricevuto da questo dignitario. La posizione della Svezia non era più quella che era stata al tempo della pace di Praga quando con la proposizione del trattato di Schönbeck essa s'era mostrata disposta a rinunciare ai piani ambiziosi di Gustavo Adolfo; la brillante campagna condotta nel 1636 da Beners, culminata nella vittoria sulla Sassonia elettorale presso Vittstock, aveva convinto il cancelliere Axel Oxenstierna a proseguire decisamente la guerra e a concludere la pace solamente a condizioni favorevoli. L'atteggiamento del Papa forniva perciò un buon pretesto per non partecipare al congresso di Colonia[145].

La Francia, dal canto suo, era ben lungi dal desiderare di mettere a repentaglio il suo delicato sistema di alleanze aderendo alle posizioni estremiste di Urbano VIII. Nel '35 Richelieu era riuscito a persuadere Oxenstierna a firmare a Compiègne un trattato secondo il quale Francia e Svezia non avrebbero negoziato con l'Imperatore se non insieme e di comune accordo. Ma ormai Oxenstierna non era più tanto convinto che un allineamento con la Francia potesse giovare alla Svezia e alle Potenze protestanti in Germania di più che non concludere, invece, una pace separata con l'Imperatore; sicché il trattato di Compiègne non era stato ratificato, e all'ambasciatore francese inviato da Richelieu in Svezia era stata fatta solo una ristretta promessa che gli Svedesi avrebbero fiancheggiato la Francia al congresso di Colonia, e questa promessa era stata inclusa nel trattato di Wismar del 20 Marzo 1636[146].

Richelieu si trovava perciò nella necessità di conseguire di nuovo un avvicinamento con la Svezia, anche per evitare che quella nazione assumesse in Germania la posizione di preponderanza che egli preparava, invece, per la Francia.

L'attitudine del Papato era d'inciampo anche per la realizzazione del grande progetto di forzare l'invito al Congresso dei principi protestanti, giacché nella politica del cardinale il problema della pace non era soltanto quello di un accordo fra le potenze europee su singoli argomenti in controversia, ma anche e soprattutto quello di tramutare in un sistema durevole le già esistenti alleanze coi Reichstände tedeschi, e quindi di modificare la costituzione interna del Reich per ciò che concerneva la libertà di agire dei singoli Stände in materia di politica estera. Perciò a Wesel, nell'Ottobre del 1636, la Francia aveva assicurato il langravio dello Hessen-Kassel che non avrebbe trattato se non insieme ai suoi confederati, cioè non prima che gli ambasciatori dello Hessen e degli altri principi dell'Impero fossero stati ammessi a congresso nello stesso tempo e luogo in cui la Francia con la mediazione del Papa si sarebbe incontrata con le altre potenze[147].

Si può quindi comprendere quanto poco fosse gradito a Richelieu l'atteggiamento della S. Sede. Non bastava che il Papa, come eccezionale concessione - assicurasse che il suo legato avrebbe tollerato la presenza di plenipotenziari protestanti al Congresso; perché il Congresso non si tramutasse in una utopia, occorreva l'intromissione di un'altra potenza non compromessa dalla guerra, che potesse apparire abbastanza disinteressata per riuscire gradita alle parti in causa, e sufficientemente autorevole per poter sostenere il peso dei negoziati. La scelta non era facile, giacché non tutti quelli che si offrivano come mediatori erano adatti a tale delicata funzione o perché di scarso rilievo politico, o perché troppo deboli e volubili di governo, o perché troppo interessati all'oggetto delle trattative.

Politicamente inadeguato al compito, date le proporzioni degli interessi in giuoco era il duca di Parma, il quale offrì la propria mediazione nel 1637: una proposta che Richelieu declinò con fredde e cortesi parole[148].

Troppo instabile l'Inghilterra, la cui disordinata politica durante tutta la guerra dei trent'anni si era attirata molto biasimo sul continente. Del resto Carlo I Stuart non poteva nemmeno essere considerato veramente neutrale dati i suoi rapporti di parentela con il principe elettore palatino: in effetti quando, nel 1638, tentò di giocare ancora la parte di mediatore, insistendo perché fosse fissata una conferenza a Bruxelles, si adoperava innanzitutto perché l'Imperatore assicurasse la posizione del Palatino[149].

Troppo interessata era anche la Danimarca, il cui re Cristiano IV aveva presentato una nuova offerta di mediazione, quasi contemporanea a quella del Papa. La sua intromissione era assai poco gradita alla Svezia, che la giudicava, non a torto, più ansiosa di far fallire le pretese svedesi sul Mar Baltico che non di procurare la pace. Per motivi analoghi era sospetta la Polonia che si era fatta innanzi per lo stesso ufficio.

La scelta, quindi, cadde quasi naturalmente sul Leone di San Marco, e il 21 febbraio 1637 Richelieu diede istruzioni all'ambasciatore francese a Venezia perché chiedesse alla Repubblica di offrire la sua mediazione alla Svezia, per la pacificazione con l'Impero.

La preferenza di Richelieu era determinata in parte anche dalle ambizioni che egli nutriva verso l'Italia, ambizioni per la cui realizzazione egli sperava di avere Venezia dalla sua parte e, al seguito di Venezia, anche gli altri principi italiani[150].

 

IV.3. – L’offerta di mediazione della Repubblica di Venezia

 

E' quasi superfluo notare che l'invito di Richelieu costituiva per la Repubblica a un tempo l'onore più grande ch'essa potesse desiderare e l'occasione migliore di controllare a proprio vantaggio la sistemazione politica del continente: essa acquistava così per via diplomatica la posizione che altri avevano cercato di raggiungere con le armi.

Secondo il suggerimento di Richelieu, il 21 marzo 1637 Venezia scrisse al governo svedese una lettera con la quale offriva i propri uffici diplomatici con la proposta che le Potenze protestanti accettassero la mediazione del suo ambasciatore a Colonia.

In Svezia era ancor vivo il ricordo dei negoziati così felicemente portati a termine assieme a Contarini, e in ogni caso non si sospettava Venezia di aspirare ad altro se non alla propria sicurezza[151].

Perciò l'eventualità che la Repubblica assumesse la mediazione era assai ben vista dal cancelliere svedese Oxenstierna, anche in considerazione della possibilità di non restare sempre legato alla Francia.

Nelle istruzioni per l'ambasciatore svedese Adler Salvius, che portano la data del settembre 1637, si legge a proposito:

 

(Art. 16): «Per ciò che riguarda il luogo il meglio è che tra i cattolici e il Kaiser in Colonia e tra S.M. Reale e l'Imperatore si tratti in Amburgo. Per ciò che riguarda il termine bisogna accordarsi perché esso venga stabilito nello stesso momento. Ci sono due mediatori che si sono offerti a noi per favorire le trattative di pace: il Re di Danimarca in particolare e Venezia in generale. Per quanto riguarda la Danimarca null'altro si può stabilire se non che essa debba venire accettata se ancora offerta e mantenuta. Veramente per il caso che essa in seguito venga rivolta ancora alle due Corone di Svezia e di Francia, dovranno seguire delle precisazioni. Venezia offre cortesemente i suoi uffici con un suggerimento e un'offerta, e viene proposta dal Re di Francia. E dal momento che fra i Re non c'è nessuno che si interessi della cosa più del Re di Danimarca, la cosa migliore è che si ringrazino ambedue e si accolgano le offerte. Per via di ciò S.M. Reale ha fatto comporre un dispaccio per la Repubblica di Venezia, come dimostra la qui aggiunta copia, ed ha inviato le lettere al Signor Salvio affinché egli le consegni a mani al Signor Grozio, ambasciatore di S.M. nonché all'ambasciatore di Venezia colà residente»[152].

 

La lettera, che fu consegnata da Grozio al Corrèr, ambasciatore veneto presso la corte di Francia, era ispirata ai sentimenti della maggiore stima e fiducia. Essa diceva che le espressioni con le quali la Serenissima metteva a disposizione la propria opera per promuovere la pace universale erano state accolte con animo grato; che quanto dalla Svezia si voleva amichevolmente ricordare alla Repubblica, sarebbe stato comunicato a voce dall'ambasciatore svedese Grozio al Corrèr; che si era certi del fatto che per udire tali comunicazioni e riportarle fedelmente al Senato Veneto, Corrèr possedesse tutto l'intuito e la finezza diplomatica necessaria. Si assicurava infine alla Repubblica l'amicizia e l'ossequio della nazione svedese[153].

Nella lettera si accennava anche all’ indugio con il quale la Svezia aveva risposto. Difatti la lettera porta la data del 30 dicembre del 1637. Sembra che tanto ritardo fosse dipeso da un piccolo incidente nato a proposito del titolo che doveva essere attribuito alla regina Cristina, alla quale, nell'offrire la mediazione della Repubblica, gli uomini di stato di S. Marco si erano rivolti coll'attributo di "Serenissima Regina Sueciae" anziché con quello di "Serenissima ac Potentissima Regina Sueciae". La Svezia era molto suscettibile in materia di cerimoniale e nella discussione per la riforma del titolo era trascorso quasi un anno. Perciò Bougeant, il famoso storico dei negoziati di Westfalia, fa addirittura ricadere su Venezia e sulla Svezia gran parte della responsabilità del fallimento del congresso di Colonia[154].

 

IV.4. – Il problema della partecipazione dei Reichsstände al congresso di pace

 

In realtà si può credere a buon diritto che, se il Congresso di Colonia rimase infruttuoso, non fu solo per questo motivo. Come già abbiamo detto altrove, la guerra dei trent’ anni era stata condotta soprattutto contro una soluzione monarchica del problema tedesco, quale s'era prospettata in particolare nel primo periodo Boemo-Palatino, ma anche successivamente, al tempo della pace di Praga. Ecco dunque che, al fine di influire sulle questioni interne del Reich, diventava di importanza essenziale la partecipazione al Congresso dei Reichstände. A tal proposito si può notare che la Svezia, ancora nel 1636, era disposta a trattare direttamente con il Kaiser e concludere la pace con lui, contentandosi della sua conferma da parte dei Reichstände in un prossimo Reichstag o Churfürstentag, e fu solo cinque anni più tardi, nell'ottobre 1641, che il plenipotenziario venne incaricato di invitare gli Stände evangelici a partecipare alle trattative.

Viceversa Richelieu nemmeno per un momento riconobbe la competenza del Kaiser alla rappresentanza internazionale degli Stände dell’Impero[155]. Dalla relazione presentata dal Grimani al Senato di Venezia sappiamo che fin dai primi abbozzi del congresso di Colonia:

 

«haveva il Re Cristianissimo richiesti all'Imperatore i passaporti per gli Olandesi, Svedesi e principi protestanti d'Allemagna confederati con la Francia. I primi due, come di principi liberi et indipendenti dall'Impero così facilmente conceduti, quanto costantemente negati poi gli altri, come di sudditi vassalli a punto caduti, per quella loro confederazione con principe estero e nemico, stante le costituzioni dell'Imperio nel crimine di Maestà lesa»[156].

 

Dunque era questo lo scoglio sul quale si infrangevano i tentativi di addivenire ad un accordo anche solo preliminare, perché la semplice ammissione dei Reichstände al Congresso, indipendentemente dalle decisioni di quest'ultimo, avrebbe costituito il raggiungimento dello scopo. Infatti il mezzo con cui gli Stände riuscivano ad acquistare il maggior numero di diritti era proprio quello di conseguirne il possesso almeno per una volta; se un determinato modo di agire veniva non contraddetto o anche tollerato in silenzio, ciò bastava agli Stände per dire che una "consuetudine" (Herkommen) si era già formata, talché si meravigliavano se essa veniva poi contraddetta[157]

L'Imperatore sperava ancora di averla vinta su questo punto e ad Amburgo, ove sotto la mediazione danese s'era riunita una conferenza di pace protestante, cercava di raggiungere una pace separata con la Svezia.

L'Imperatore sperava molto in questa mediazione danese, giacché poteva ben credere di essersi assicurato il favore di re Cristiano IV con la promessa di territori e altri vantaggi; viceversa il governo svedese guardava con molto sospetto alle iniziative danesi e, nonostante ogni attestazione di riconoscenza, evitava che i negoziati vertessero sugli argomenti principali, e portava invece la discussione sulle norme che avrebbero dovuto dirigere i negoziati e sulla formula dei passaporti.

 

IV.5. – Le ambascerie di Correr e Grimani

 

A questo proposito, intanto, Venezia interponeva con profitto i suoi uffici presso le corti di Vienna e di Parigi.

A Parigi l'ambasciatore veneto Correr si era guadagnato molto credito, e Richelieu nutriva per lui tanta stima che spesso se ne serviva come di una persona di fiducia nelle congiunture più difficili[158].

Fu in gran parte dovuto alla sua abilità se i negoziati circa i passaporti giunsero infine a conclusione: il cardinal Ginetti scrisse al Correr una lettera in cui lo lodava per le sue molte cure al riguardo, e lo stesso Urbano VIII gliene mandò un'altra in cui magnificava i suoi meriti per la pace universale.

A Vienna, già prima dell'arrivo di Grimani, il ministro di Venezia quivi residente, Ballarino, era stato più volte pregato dal Nunzio pontificio Baglioni di cercare di ottenere qualcosa dall'Imperatore riguardo ai salvacondotti. L'Imperatore tuttavia aveva opposto la più viva resistenza. Non solo, come ci fa sapere Grimani, per la riluttanza dei ministri che tutti indistintamente ve lo sconsigliavano, trattandosi di approvare una ribellione di sudditi che si erano alleati con aperti nemici dell'Impero, con pessimo esempio per l'avvenire, ma anche e assai più per l'assoluta avversione che a dare il suo consenso provava lo stesso Imperatore, il quale a questi discorsi era stato visto turbarsi e impallidire, mentre le sue risposte erano sempre mordaci. Egli diceva, infatti, che gli si chiedeva a bella posta ciò che certo non poteva dare, al fine di far cadere su di lui la colpa di non volere la pace e aggiungeva che il permettere eccessi di tal natura, cioè che i suoi sudditi andassero a un libero congresso, invece di venire ai suoi piedi a rendergli l'omaggio della loro devozione, non l'avrebbe tollerato mai.

Un simile atteggiamento e siffatte parole mostravano la più viva e ferma risoluzione di non voler nemmeno sentir parlare dell'argomento, ed erano tali da scoraggiare chiunque dal tentare di nuovo di accennarvi; e infatti Grimani confessa d'essersi sentito assai in angustia quando, dietro pressione della Francia, il Senato lo aveva incaricato di rivolgere i suoi uffici a tal fine, insistendo presso lo stesso Imperatore e presso i suoi ministri con tutti i mezzi possibili.

Tanto più difficile era questo compito in quanto l'ambasciatore spagnolo Castañeda cercava in tutti i modi di gettare il discredito sull'ambasciatore veneto, sostenendo in ogni sua udienza presso l'Imperatore che anche col solo prestare orecchio a simili richieste dei Francesi, egli veniva a rimetterci troppo della sua reputazione imperiale. E aggiungeva che, se l'ambasciatore di Venezia le sosteneva, non gli si poteva giammai prestare fede, poiché la Repubblica era sempre stata interessata e piena di gelosia e di timore della Casa d'Austria, e non si poteva credere che il Senato veneziano, dopo aver tanto brigato e aver speso tanto oro per metterla in guerra con la Francia, negoziasse ora sinceramente per riunirle e accordarle; che se poi avesse mutato veramente partito e si fosse messo a disfare il suo stesso operato, bisognava egualmente ridere di questa mediazione dei Veneziani, giacché la Repubblica dava segni evidenti d'essere ormai giunta al declino e di avviarsi verso la fine della sua potenza[159].

Grimani tuttavia adempì egualmente le proprie commissioni. Secondo quanto egli stesso ci fa sapere, adducendo le ragioni più forti che gli riusciva di trovare, misurando le parole, cogliendo le occasioni, ora pazientando e ora insistendo, lasciando cadere il discorso senza più parlarne anche per dei mesi interi e riprendendolo poi or con l'uno or con l'altro, con fervore più o meno accentuato a seconda delle occasioni e finalmente mettendo sempre bene in chiaro che il proprio interessamento non derivava dal desiderio di compiacere la Francia, bensì da quello di facilitare la quiete e la pace, Grimani riuscì per prima cosa a imprimere bene negli animi di tutta la corte la convinzione della sincerità e del disinteresse del Senato Veneto e della sua mediazione, e quindi ad ottenere non solo i passaporti particolari per il langravio dello Hessen e il duca Bernardo di Weimar, ma anche quello generale per tutti i principi protestanti tedeschi nominati nello stesso passaporto con il titolo - tanto aborrito dall'Imperatore quanto a tutti i costi bramato da Richelieu - di alleati della Francia.

I passaporti furono inviati speditamente in Francia e quivi tramite gli uffici di Correr approvati dal Re e da Richelieu. Era logico aspettarsi che secondo quanto era stato promesso - i plenipotenziari francesi facessero la loro apparizione a Colonia. Ma così non fu e per questo motivo Grimani si ebbe le rimostranze dell'Imperatore e di tutta la corte.

Il fatto è che la Francia non solo non intendeva adempiere la promessa, grazie alla quale aveva ottenuto la partecipazione al congresso sia di quelli che restavano tuttavia contumaci con l'Imperatore, sia anche di tutti gli altri che avevano già per la pace di Praga ricevuto il perdono con il recupero dei beni e degli stati, ma aveva fatto nuovamente ricorso al Senato di Venezia per la concessione di un altro passaporto particolare ai principi Palatini, dei quali non s'era parlato mai in precedenza, in quanto esclusi dalla Capitolazione di Praga.

Che un principe dell'Impero, reo di ribellione e pertanto messo al bando dell'Impero, potesse comparire non già ai piedi dell'Imperatore suo sovrano come supplice, ma a un libero congresso insieme con gli altri a produrre le sue ragioni, per il recupero sia dei suoi beni - attualmente in possesso degli Spagnoli e della Baviera - sia del suo voto elettorale - trasferito dall'Imperatore al duca di Baviera - era cosa tanto inusitata ed enorme che nessuno credeva che Grimani sarebbe riuscito nel suo intento.

Si diceva anche, a Vienna, che il Palatino perseverasse nella sua ribellione all'Imperatore e che già avesse tracciato a Bruxelles un trattato di alleanza offensiva con il re d'Inghilterra.

In effetti vi erano altre ragioni assai più gravi, per cui era assurdo pensare che l'Imperatore potesse ammettere la sua presenza al Congresso di Colonia: in primo luogo il riguardo per gli Spagnoli che si erano insediati nel Palatinato inferiore; o ancor più il fatto che il duca di Baviera, cognato dell'Imperatore, era stato fatto padrone del voto e possessore degli Stati del principe palatino a disimpegno dell'Austria superiore (feudo patrimoniale degli Asburgo) a lui ipotecata per le grandi spese precedenti e successive alla guerra. Perciò non era pensabile che l'Imperatore volesse rimettere in discussione una questione tanto importante.

Invece, contro ogni aspettativa, Grimani riuscì a conseguire anche questo risultato. Nel frattempo i Francesi, per mezzo del generale Bernhard von Saxen Weimar (legato a loro dal trattato di S. Germano), avevano riportato una serie di vittorie in Lorena e sulla parte alta del Reno, culminanti nella presa di Rheinfelden, di Friburgo e della fortezza chiave di Breisach. In particolare quest’ ultima conquista rompeva d'ora in poi e decisamente la stretta degli Asburgo sulla Francia; cosicché Grimani aveva avuto buon gioco nel far riflettere che le cose non erano a un punto tale che gli Austriaci potessero permettersi di dettare legge alla Francia escludendo dal Congresso i suoi confidenti ed includendovi i propri amici e fautori, e che del resto senza la soluzione della vertenza relativa all’elettore Palatino non era ragionevole sperare che si instaurasse in Germania una pace durevole e sicura: le insistenze con cui si richiedeva la partecipazione di quel principe al congresso ne erano una prova.

Insomma l'Imperatore concesse il passaporto per il principe Palatino, e per di più dette a Grimani la facoltà di poterlo regolare e farvi le aggiunte ch'egli considerava convenienti[160]. Concessione e favore così straordinari - ci fa sapere Grimani - da suscitare viva sorpresa ovunque. Grimani si ebbe le congratulazioni e i ringraziamenti di quegli stessi che lo avevano scoraggiato dicendogli che aveva intrapreso un affare disperato.

Grimani si occupò anche della intitolazione da usare per i salvacondotti degli Olandesi e della Savoia, e di sua spontanea iniziativa - vale a dire senza che il Senato gli avesse affidato alcuna commissione in proposito - visto che il Nunzio proponeva una tregua d'armi, se ne fece anche lui fautore "affinché non si credesse che Venezia si interessava meno di chicchessia della quiete pubblica".

Da un punto di vista definitorio, le funzioni di Grimani a Vienna, così come quelle del Correr alla corte di Francia, mostrano chiaramente, rispetto ai negoziati per la pacificazione dell'Europa, quanto labili si presentino i confini fra mediazione e buoni uffici. Difatti, benché suggerita caldamente dalla Francia e accettata con entusiasmo dalla Svezia, mancava ancora alla intromissione veneta l'accoglimento del Kaiser, il quale, per motivi ormai noti, preferiva la mediazione danese.

D’altra parte, i negoziati degli ambasciatori veneti in questo periodo non si discostano dai limiti della persuasione, né investono così intimamente i negoziati fra gli Stati contendenti, da fare loro perdere il carattere di negoziati diretti, anche se molte concessioni vennero fatte e su molti punti si raggiunse l'intesa proprio grazie all'incessante opera della diplomazia veneta.

L'ambasceria di Correr a Parigi non terminò che nel '41, perché quando già la Repubblica lo avrebbe richiamato, Richelieu mostrò così vivo disappunto che Correr dovette restare e fermarsi ancora oltre l'arrivo del suo successore Giustiniani, che venne da lui presentato a corte. Il richiamo in patria di Grimani coincise con il momento in cui l'Imperatore, convocata una Dieta a Regensburg col proposito di compiere un ultimo tentativo di riguadagnare a sé gli Stände, partiva alla volta di quella città.

 

IV.6. – Il trattato preliminare di Amburgo

 

A questo punto delle trattative,  la corte imperiale aveva cercato di rendere definitiva la scelta della città di Colonia per i negoziati con la Francia, e della città di Amburgo per quelli con la Svezia. Ambedue le corone non ritennero opportuno, però, di lasciarsi separare l'una dall'altra da tanta distanza. Avevano, anzi, nuovamente rinnovato ad Amburgo la loro alleanza[161], impegnandosi a proseguire la guerra e trattare la pace di comune accordo.

Ad Amburgo, tuttavia, si approntarono finalmente i preliminari del congresso; veniva stabilito che le trattative di pace sarebbero state condotte con la Francia a Münster e con la Svezia a Osnabrück: due città della Westfalia non più distanti d'una giornata l'una dall'altra. Il trattato constava di due accordi: il trattato svevo-imperiale, concluso fra l'ambasciatore imperiale Konrad von Lützow e quello svedese Johann Salvius, e la lettera dello stesso ambasciatore imperiale diretta all'ambasciatore francese Claude de Mesmes conte D'Avaux, unita alla risposta di quest'ultimo al re di Danimarca che fungeva da mediatore.

Una forma tanto complessa dimostra quanto intricata fosse la situazione. Di due monarchi che decidevano di iniziare trattative di pace l'uno non riconosceva lo stato giuridico dell'altro e tutt'e due, quindi, si trovavano nella condizione di non poter essere parti di un accordo, dal che derivavano confusioni di vario genere e parecchie riserve[162].

Veniva comunque stabilito che i due documenti suddetti dovessero valere come un unico trattato; nello stesso modo anche le due assemblee di Münster e Onsabrück sarebbero state considerate come un unico congresso. Ognuna delle parti interessate doveva avere piena libertà e sicurezza di viaggiare da un luogo all'altro ovvero di potere comunicare vicendevolmente con un luogo posto a metà strada tra le due suddette località.

Tenere le trattative in due luoghi differenti ma non molto lontani fra loro era infine apparsa la soluzione più pratica, non solo, come si sa, per superare lo scoglio dell'atteggiamento del Papa, ma altresì per evitare grossi problemi relativi al cerimoniale e alle precedenze. Soprattutto gli Svedesi si rifiutarono puntualmente di cedere la precedenza ad alcun'altra Corona che non fosse quella dell'Imperatore.

Münster era guardata allora dal presidio imperiale mentre Osnabrück era tenuta dagli Svedesi: ma questi furono allontanati dalla città e per salvaguardare la libertà del Congresso il paese fu dichiarato neutrale per molte miglia tutt'intorno.

La funzione di potenze mediatrici sarebbe stata affidata tra Francia e Impero, come pure tra Francia e Spagna, alla Repubblica di Venezia e al Papa; tra la Svezia e l'Impero alla Danimarca, che aveva promosso il trattato preliminare di Amburgo. Alla fine, però, la Danimarca dovette ritirarsi a causa della guerra che all'improvviso le mosse contro la Svezia; quanto alla mediazione della Sede apostolica, anche il Nunzio alla fine si ritirò, aborrendo il Trattato di pace sino al punto da non volerlo sottoscrivere né volervi essere nemmeno nominato. Contro di esso, anzi, elevò una vibrata protesta per avere esso mancato di tenere conto degli interessi della religione cattolica.

 

 

V. – IL CONGRESSO DI PACE

V.1. – La sede

 

La guerra ardeva ancora in ogni provincia, in ogni isola e angolo d’Europa. Descrivere a quale fondo di abbrutimento e di miseria avessero portato cinque lustri di continui passaggi di armate non è compito di questo studio. Basterà qui accennare al fatto che, soprattutto in Germania, la civiltà pareva tornata indietro di secoli. Più ancora delle armi, la peste e le carestie avevano decimato la popolazione che la fame spingeva a gesti estremi.

 

«La desolazione della Germania dopo trent’anni di guerra è spaventosa – scrive l’ambasciatore veneto inviato come mediatore al congresso, in uno dei suoi primi dispacci – città distrutte, campagne abbandonate, mortalità grande, miseria, fame; non basteranno cento anni a rimettere questa provincia nello stato nel quale io stesso l’ho veduta in altri tempi»[163].

 

In questa cornice va inserito quello che fu il primo grande congresso internazionale della storia europea. Come è stato, infatti, ripetutamente notato, si trattava della prima applicazione ad una regolazione generale degli affari internazionali di un procedimento destinato a fare scuola e ad essere seguito ripetutamente sino ai nostri giorni. Fino allora, infatti, solo i concili ecclesiastici avevano avuto tale carattere ecumenico: essi, però, anche quando avevano degli scopi politici, erano formalmente riuniti esclusivamente per definire problemi di natura religiosa. La novità fu rilevata dagli stessi contemporanei:

 

«Le historie dei secoli andati, né forse quelle dei venturi produrranno un generale Congresso come quello che per la Pace universale abbiamo ai nostri tempi venduto. Si può chiamare una delle meraviglie del mondo che in un sol luogo habbino tanti diversamente acconsentito che si trattino li proprj con gl’affari di tutta la Cristianità»[164].

 

Così si legge nella relazione finale che Contarini presentò al Senato al termine della sua missione.

Come s’è detto, quali sedi del Congresso, a preferenza di altre città più grandi come Francoforte, Colonia, o Amburgo, ch’erano state proposte in un primo tempo e poi subito scartate, si erano scelte due piccole città della Westfalia che non contavano più di diecimila abitanti ciascuna[165]. Münster con le sue case nobiliari e borghesi, le sue undici chiese e il suo bel mercato principale, era molto graziosa: i Francesi le fecero l’onore di paragonarla ad Orleans. Osnabrück era più povera e duramente provata dalla guerra. Entrambe conservavano i caratteri di cittadine di campagna: molte case borghesi avevano lo stesso aspetto delle case contadine della Westfalia, con il caratteristico traliccio di quercia, l’aia e la stalla. Il bestiame circolava di giorno e di sera per le strade; accadeva sovente di incontrare per le vie cittadine dei carri agricoli e più di una volta gli ambasciatori si lagnarono della sporcizia e del disordine delle due città. Chi veniva dal Sud, però, era soprattutto colpito dalla durezza del clima nordico che contribuì a rendere più pesante l’annosa sosta nella terra inospitale.

Presto ci si dovè occupare di trovare un alloggio per ognuno dei moltissimi ambasciatori colà convenuti. Tale compito spettò al consigliere imperiale Crane, il quale lo poté assolvere, sembra senza difficoltà. Osnabrück accolse solo gli Svedesi e parte dei Reichstände: alcune canoniche e le più grandi case patrizie bastarono alla bisogna. A Münster, ove l’intera Europa s’era data appuntamento, c’erano, secondo la relazione di Crane, migliori abitazioni che a Colonia, dove egli aveva acquisito una certa esperienza in preparativi di quartieri per il Congresso. A Münster si spiegò così, dopo l’arrivo degli ambasciatori, una elegante vita di società. Le case nobiliari offrivano un ambiente acconcio al lusso degli ambasciatori. Anche alcune case borghesi servirono come quartieri d’ambasciata[166] .

Per l’ambasceria veneziana venne proposto, in un primo momento, l’affitto della ‘Casa dei commercianti’. Tuttavia non fu qui che andò ad abitare l’ambasciatore veneto, bensì in un edificio del Capitolo nella Piazza del Duomo. Su questa piazza si affacciavano anche le abitazioni degli ambasciatori di più alto rango. La bella ‘Casa dei commercianti’, che è sopravvissuta alla distruzione della città nella II guerra mondiale, servì di abitazione agli Olandesi[167].

All’inizio, le trattative ebbero luogo ora in questo, ora in quel quartiere degli ambasciatori, sicché non ci fu bisogno di alcuna vera e propria aula di sessioni. Poi, per i negoziati dei Reichstände si scelse a Münster la casa episcopale del Duomo, in Osnabrück il nuovo municipio.

Il trattato di Amburgo aveva stabilito che entrambe le città dovessero essere dichiarate neutrali. Anche questo compito spettò a Crane[168], il quale nell’ estate del 1643 proclamò, a Münster come ad Osnabrück, l’editto imperiale che scioglieva i cittadini dai loro giuramenti e doveri nei confronti del Kaiser e del loro Landesherr. Entrambe le città furono così sovrane.

Allontanate quelle delle potenze belligeranti, a protezione di Münster rimase una speciale truppa di 1200 uomini, che, secondo la necessità, poteva venire rinforzata da cittadini armati.

Entro le mura della città, a Münster la giurisdizione veniva esercitata dal Consiglio cittadino, che giudicava anche sul basso personale d’ambasciata, in questi casi spogliato dei suoi caratteri diplomatici. La responsabilità della sicurezza del Congresso venne assunta dai magistrati della città, i quali dell’adempimento di questo compito erano responsabili verso i mediatori[169].

Pertanto ai mediatori spettò anche la funzione di vegliare sulla libertà dei commerci e la conservazione della neutralità nella regione circostante le due cittadine, nonché di prendere le disposizioni necessarie per il mantenimento della quiete interna. Pertanto ad essi si fece ricorso per ottenere una mitigazione dei dazi imposti dallo Hessen e degli Svedesi[170]; all’ambasciatore veneziano si rivolsero i Francesi per esporre i loro dubbi circa l’osservanza della neutralità di Münster[171]; e da una lettera indirizzata a Chigi, nella quale il Consiglio cittadino si difendeva dall’accusa, noi possiamo dedurre con quanta prontezza Contarini avesse assolto il suo mandato[172].

Nel luglio del 1646 la città di Münster chiese l’aiuto del Veneziano affinché i soldati dello Hessen restituissero dei cavalli rubati o requisiti nottetempo in contravvenzione alla neutralità della regione disposta dal trattato preliminare. Nello stesso tempo si sollecitava l’ambasciatore veneto perché interponendo la propria opera di mediatore presso i plenipotenziari svedesi e francesi evitasse che l’esercito di Turenne e quello svedese comandato da Wrangel, unendosi, prendessero quartiere nelle vicinanze[173].

L’intervento dell’ambasciatore veneto venne altresì richiesto per convincere le parti a disporre d’accordo una specie di coprifuoco per il servitorame, affinché esso non circolasse più per le strade dopo il suono serale delle campane[174].

Ad Osnabrück la protezione del congresso, mancando una potenza mediatrice colà accreditata, fu più difficile. A quanto si sa, vi provvedé la stessa cittadinanza. Nel complesso le due cittadine godettero, durante gli anni delle trattative, di una serena quiete, ma subito oltre le loro mura era il caos: non di rado gli stessi corrieri diplomatici venivano aggrediti. Delle missive intercettate si faceva poi un uso disinvolto.

 

V.2. – L’ambasciatore veneto e il Nunzio apostolico

 

L’uomo cui il Senato di Venezia commise l’incarico di mediatore al congresso di Münster, quegli cui solo spettò l’onore di venire gloriosamente riconosciuto come tale nello strumento di pace, fu lo stesso che aveva già mostrato di essere il miglior diplomatico di cui la Repubblica potesse vantarsi: Alvise Contarini[175]. Di lui Wicquefort avrebbe scritto che era talmente fatto per negoziare che tutta la sua vita non doveva essere altro che una continua ambasceria.

Già molti membri della sua nobile famiglia avevano servito la Repubblica nelle cariche più alte. Quanto a lui, com’è noto, era stato dapprima corriere nei servizi diplomatici, poi ambasciatore a Londra, Parigi, Roma e Costantinopoli; ovunque aveva riportato successo, dispiegando una rara abilità diplomatica. L’incisione che di lui si possiede ce ne dà il ritratto fisico; quello morale è più difficile da tracciare. Nelle testimonianze che parlano di lui, noi possiamo, comunque, intravedere l’uomo di grande fermezza, cui la lucidità dell’ingegno, non disgiunta da personali doti di spirito, aveva guadagnato il favore delle corti europee. Indiscusse ne erano l’abilità, l’esperienza e la dirittura morale, sicché la sua presenza al congresso fu vista con piacere, quantunque si sapesse che non era uomo da piegarsi facilmente ai piani altrui[176].

La chiarezza con cui discerneva gli elementi essenziali di un problema - e di ciò è una prova il suo stesso stile, quale appare dai dispacci e dalla lunga relazione presentata al Senato al termine dell’ambasceria, stile che, per risalire al Seicento, è di una insolita modernità – così come lo portava ad aborrire l’ impreparazione e la mancanza di razionalità, gli conferiva altresì quella franchezza, più volte e da molti rimarcata, che era insieme la sua qualità precipua e il difetto di cui veniva spesso accusato.

Così ad esempio rilevano i plenipotenziari francesi:

 

Nous sommes mesmes obbligez de vous dire pour ne rien desguiser que monsieur Contarini particulièrement en divers endroitz de la conférence a faict paroistre une chaleur accompagnée quelquefois d’un peu d’aigreur: que nous voulons plustost imputer à sa franchise et au zèle qui il a pour l’avancement des affaires qu’a aucune autre cause[177].

 

La risposta della corte francese sembra voler scivolare sul problema:

 

«L’esprit de monsieur Contarini paroist plain de chaleur, et pour estre né dans une ville libre il devroit se souvenir de la prudence et de la lenteur avec laquel les affaires y sont traitctées»[178].

 

Ma nel memorandum inviato ai plenipotenziari nello stesso giorno, gli accenti erano invece assai duri:

 

«...on ne juge pas expédient de se laisser mettre le pied sur la gorge ny de supporter davantage le proceder du Contarini s’il continuoit à parler avec la hauteur et la véhémence qu’il a commencé. Il faut considérer que les Vénitiens sont fort avantageux en leur manière de négotier quand on les souffre et que parmy eux peut estre n’y en a-t-il pas un qui n’emportast que monsieur Contarini si on le laisse faire.... le Roy et son conseil n’avoient pas truvé fort bon tant de chaleur qu’a tesmoignée monsieur Contarini ...S’il allègue d’estre libre, il faut qu’il uze de ses libertez dans sa patrie, non pas avec des ministres du Roy qui ne sont pas obligez de souffrir ce qu’on luy pourroit souffrir à Venize»[179].

 

Certe sue frasi di tanto in tanto, ci appaiono davvero un poco troppo pungenti per essere quelle di un diplomatico. Come quando - ad esempio - lo sentiamo accusare esplicitamente l’ambasciatore francese Servient di essere la causa di ogni difficoltà, oppure altrove quando quasi lo udiamo rispondere ironicamente all’ insinuazione che cedendo in qualcosa avrebbe potuto con più facilità ottenere alla Repubblica degli aiuti contro il Turco, che la Repubblica farebbe bene a cedere qualcosa alla Turchia, affinché questa, conclusa la pace con Venezia, volgesse le sue armi contro gli altri Stati.

La sua libertà, poi, non si mostrava soltanto nel linguaggio: anche nello scrivere egli non si faceva scrupolo di usare le espressioni più caustiche per stigmatizzare meglio fatti e comportamenti.

Così, lamentando l’apatia del Pontefice, egli scrive al Senato:

 

«Sarebbe anche necessario qualche gagliardo urto al Pontefice per distaccarlo dal sonno profondissimo nel quale al presente si trova, a segno che possa con qualche fondamento affermare che egli né veda né forse capisca l’importanza di che si tratta, lasciando che la natura operi senza alcun aiuto, non avendo fatta ancora dichiarazione alcuna straordinaria per mostrare il desiderio della Pace»[180].

 

Per vero il Nunzio – che in buon accordo divise con Contarini le fatiche della mediazione – temeva un poco lo spregiudicato linguaggio del collega, da lui ritenuto eccessivo e imprudente. Ma il Veneziano vedeva con esattezza e sapeva far vedere anche agli altri le ragioni dei fatti; in questo era la sua forza; e del resto non abbiamo notizia che si sia mai lasciato sopraffare dalle circostanze.

Che come mediatore abbia curato gli interessi della sua patria, si comprende da sé. Ma quegli interessi si accordavano pienamente col suo compito, al contrario di quanto accadeva per quelli della Curia. Lo sguardo di Venezia, come si è accennato, si volgeva al Mediterraneo, cioè si appuntava al minaccioso pericolo musulmano; e alla città importava solo che i contrasti delle Potenze si componessero, perché queste potessero unire le proprie forze contro il nemico ereditario della Cristianità.

A ciò Contarini mirò intelligentemente ed energicamente. Egli cercò di apparire assolutamente imparziale, non accettò alcun dono, non pranzò mai con alcun ambasciatore e non invitò mai nessuno alla sua tavola. Si concesse solo di avere quei pochi, scelti ospiti che non gli procurassero il sospetto di parzialità[181].

Data la lunga alleanza di Venezia con la Francia, questa si aspettava di essere in qualche modo favorita nel corso delle trattative, e tanto grandemente se ne stupì quando così non fu, che il ministro francese Brienne si lagnò con l’ambasciatore veneto a Parigi, accusando il mediatore di favorire gli avversari. Ma Contarini serenamente rispose al collega di domandare pure a Brienne - quando fosse tornato sull’argomento - in che consistesse la sua parzialità, aggiungendo che né le lusinghe né le accuse degli altri lo avrebbero smosso da quell’atteggiamento che gli aveva guadagnata l’approvazione del Senato con il titolo di “uomo dabbene”.

Facevano parte della legazione veneta anche un segretario, Andrea Rosso, nominato nella lista di diplomatici compilata da Christoph Philippi, e tre aiutanti. Oltre a questi soggiornarono con lui quale per lungo, quale per breve periodo, anche dei giovani desiderosi di far pratica di diplomazia, che aiutavano Contarini nello scrivere e nel tradurre e che Contarini raccomandò poi all’ attenzione del Senato.

A Münster divideva con Venezia il compito della mediazione anche la S. Sede. Pertanto Contarini, nell’adempimento del suo compito, ebbe un collega che fu in un primo momento il legato Rossetti; ma questi non ottenne il gradimento della Francia e venne dal Papa Urbano VIII sostituito con la persona di Fabio Chigi.[182]

Chigi, più tardi cardinale e Papa, era di nobile famiglia senese; quando venne destinato a Münster non aveva svolto altre legazioni che a Malta e a Colonia, ove era stato Nunzio. Sulle prime fu giudicato con poca benevolenza da Contarini. La sua inesperienza in fatto di politica faceva temere al Veneto intralci e difficoltà.

In quel momento, poi, la Repubblica si trovava in discordia con la S. Sede a causa della guerra di Castro, o guerra dei Barberini, circostanza che aggiungeva un altro elemento disturbatore alla già ingarbugliata matassa degli affari europei. Sulle prime, perciò, i mediatori non ebbero nemmeno rapporti fra loro, e all’arrivo del Nunzio a Münster Contarini si rifiutò di mandargli incontro la propria carrozza[183].

Poco appresso, però, terminata la guerra dei Barberini con la mediazione (meglio si potrebbe dire l’intervento) della Francia, e avuto modo di avvicinare e di conoscere meglio il Chigi, Contarini modificò del tutto la propria opinione sul conto di lui. Infatti, non molto tempo dopo quando - con la morte di Urbano VII e la successione di Innocenzo X - si temette anche una sostituzione del Nunzio, egli interessò il Senato affinché interponesse i suoi buoni uffici a Roma per evitare che ciò accadesse. Così, per tutta la durata delle trattative, intercorsero tra i due mediatori dei rapporti di tale buona armonia e confidenza che nessuna delle parti poté mai farvi breccia, tanto che si disse vi fosse maggiore armonia fra i mediatori che non fra i plenipotenziari di una stessa nazione.

In effetti Chigi, oltre all’assoluto candore di vita e alla mancanza di ipocrisia, possedeva una sensibilità e una erudizione non comune; tutte doti che insieme alla simpatia di Contarini – cui si aggiunse anche, pare, quella degli stessi Protestanti - gli fecero conseguire in breve tempo una discreta abilità diplomatica che di anno in anno si andò sempre più raffinando.

Non di rado nella pazienza di Chigi, Contarini trovò il giusto correttivo della propria talora eccessiva animosità. Un esempio di ciò può essere il seguente episodio, riportato da Adam Adami: verso la fine del trattato, Servient inviò ai mediatori delle lettere colme di parole offensive sia per loro, sia per gli Spagnoli. Contarini, sdegnato, desiderava rispondere ancora più aspramente; il Nunzio, invece, lo convinse a desistere da tale proposito e a rispondere invece in questo senso: che gli insulti rivolti ai mediatori nelle lettere non li coglievano, affinché non sembrasse che da mediatori si divenisse avversari; gli altri - quelli che toccavano agli Spagnoli - non sarebbero stati riferiti, giacché compito dei mediatori era di procurare solo cose giovevoli alla pace e non alle risse[184].

Ma il raggio d’azione di Chigi era, a causa delle istruzioni di Roma, limitatissimo. Bisognava ch’egli fosse molto riservato nelle comunicazioni coi Protestanti, perché la S. Sede non manteneva alcuna relazione diplomatica coi principi non cattolici.

Chigi, quindi, doveva assolutamente evitare di negoziare con gli ambasciatori evangelici, e non firmare alcuno scritto ove fosse menzionato il loro nome; difatti non venne nominato nemmeno una volta nello stesso strumento di pace. Per salvaguardare gli interessi della S. Sede, secondo quelle che erano le sue commissioni si dovette esaurire in avvisi e proteste la cui inutilità non celava neppure a se stesso.

Il suo poco invidiabile incarico gli pesava duramente talché era solito paragonarsi a Pietro, comandato da Dio d’ingoiare violenze ed ingiurie.

 

V.3. – Le principali legazioni

 

Gerard ter Borch (ritrattista dell’ambasciatore olandese). Il momento della ratifica della paceSe in precedenza Contarini aveva trattato direttamente con chi aveva in mano le redini del potere, qui a Münster la sua azione si svolgeva, invece, tra gli ambasciatori delle diverse potenze interessate.        La lista che ne compilò Christoph Philippi ne conta ben centoquarantotto, di cui trentasette stranieri e centoundici tedeschi. Fra questi ultimi, dieci erano solo di Casa d’Austria, giacché Ferdinando III era rappresentato non soltanto quale Kaiser, ma altresì come re di Boemia e granduca d’Austria. Oltre a ciò erano presenti delegati in rappresentanza dell’ intera Casa d’Austria e dell’Arciduca Leopoldo quale Capo dell’Ordine Teutonico.

A Münster si trovavano tutti gli ambasciatori stranieri eccetto quelli svedesi e danesi, cosicché fu qui che tutte le fila si legarono l’una con l’altra. Contarini riferisce, nella sua relazione finale, che i Tedeschi usavano mandare al Reichstag due ambasciatori[185] dei quali il primo era il titolare ricco e rinomato di una signoria, che aveva la funzione di capo rappresentativo, e il secondo era un “dottore” di rango inferiore, che si occupava delle trattative orali e scritte. L’uso si mantenne anche al Congresso. L’ambasceria imperiale a Münster era formata dal Conte Johann Ludwing von Nassau, appartenente ad una delle più nobili famiglie della Germania e dal dottore Isaac Volmar, cancelliere del governo dell’Austria anteriore, cui la nascita umile non impedì di diventare uno degli uomini guida del Congresso.

A Osnbabrück erano presenti il principe di Auersperg – che aveva firmato ad Amburgo il Trattato preliminare e che in un secondo momento venne sostituito con il conte Lamberg – e il consigliere Johann Crane. Nel 1645 la direzione della legazione passò però interamente nelle mani del primo ministro conte di Trauttmansdorf, che rimase in Westfalia un anno e mezzo, e durante il suo soggiorno pose le basi di quello che sarebbe stato il documento finale.

Al contrario del suo predecessore, Trauttmansdorf era riuscito a farsi affidare dal Kaiser Ferdinando II, che pure non era molto propenso a lasciarsi guidare dai ministri, tutta la direzione degli affari imperiali, dimostrando in ogni sua azione di mirare ad un unico scopo: il bene dell’Impero e di Casa d’Austria. Grimani ce lo descrive come un uomo naturalmente giusto e sincero, da tutti stimato per la sua integrità senza uguale, molto ben disposto verso la Repubblica di Venezia, se pure non molto incline verso le altre Nazioni[186].

Trauttmansdorf e Contarini erano fatti per intendersi, entrambi erano aperti, spregiudicati, convinti che la strada migliore da seguire fosse quella di adattarsi alle circostanze per riprendere il ceduto in tempi migliori, che gli ideali astratti non facevano leva e che gli unici argomenti convincenti erano quelli dell’interesse particolare.

La Francia era rappresentata in modo eminente da due signori della nobiltà burocratica. Il primo, Claude de Mesmes conte d’Avaux, era stato ambasciatore a Venezia. In anni successivi aveva compiuto missioni diplomatiche in Svezia, Polonia e Germania; possedeva una vasta conoscenza di fatti e persone, parlava correntemente il Tedesco e cercava di accattivarsi le simpatie con la cortesia e la vivacità dei modi. Fedele figlio della Chiesa era un oppositore della politica di Mazarino, che aveva visto nel Congresso una buona occasione per tenerlo lontano dalla corte. Contarini lo definisce irresoluto, indeciso, sempre dubbioso d’errare, di testa debole.

Tutto l’opposto, a suo dire, era il collega, Abel Servient, conte de la Roche: duro, energico, meno malleabile e senza tanti riguardi delle forme. Questi due diplomatici erano appena giunti a Münster che subito entrarono in discordia fra di loro. Dispiaceva al D’Avaux che il collega, inferiore di rango, lo superasse nella confidenza di Mazarino; a Servient doleva il credito che d’Avaux s’era acquistato in Germania per aver condotto in porto il trattato preliminare. Con grande scandalo di tutto il Congresso, l’uno, per il piacere di poter accusare l’altro, non si faceva scrupolo di rendere pubblici i segreti più gravi delle trattative.

Alla fine i mediatori minacciarono, a nome della Sede Apostolica e della Repubblica di Venezia, il proprio ritiro e la revoca dell’ufficio di mediazione se i due diplomatici francesi non si fossero dedicati al trattato di pace con animi e voti più concordi[187].

Così, dopo averli più volte ripresi, la corte di Francia, per sedare le contese, inviò a Münster il duca di Longueville, che con la moglie bella e intelligente fece della propria casa il centro brillante di Münster. Senonché, anche il duca di Longueville in patria apparteneva all’ opposizione: anche lui Mazarino aveva inviato a Münster al fine di non esserne disturbato a corte, e chi alla fine poté godere di un sia pur tardo trionfo fu Servient il quale, dopo che furono richiamati in patria tanto il suo avversario che il duca, raccolse da solo i frutti del comune lavoro, firmando la pace per la Francia.

Simile a quella appena descritta – sebbene lontana da tali eccessi – era la situazione della legazione svedese. Qui la Svezia era rappresentata da Axel Oxenstierna – figlio dell’omonimo Cancelliere – e da Adler Salvius; quest’ultimo, molto più avanti dell’altro per età ed esperienza, e pur sapendo di essergli superiore per carattere e spirito, si vide dal collega sorpassato e costretto a giuocare più il ruolo di un servitore che non quello di un ambasciatore[188]: anche questi due diplomatici facevano politica l’uno contro l’altro anziché l’uno con l’altro.

Plenipotenziario spagnolo fu, in un primo momento, don Diego Saavedra; il quale, però, venne poi sostituito dal conte di Peñaranda e – a imitazione del costume tedesco – dal dottore Antonius Brun.

Peñaranda era un cavaliere dell’ordine di Calatrava. Terzogenito di una nobile famiglia si era dedicato in un primo momento agli studi delle lettere, ed era divenuto lettore pubblico a Salamanca. Morti poi i fratelli maggiori, aveva ereditato insieme col titolo e con le fortune della sua casa anche l’obbligo di maritarsi; cosa che aveva fatto con una dama nobilissima e di bellezza così notevole che – riferisce Contarini – si diceva che il Re lo avesse mandato a Münster più per tenerlo lontano che per le sue doti di diplomatico[189]. Per la verità a Peñaranda pesava assai la sua permanenza in Germania. Tutto gli era ingrato: le questioni, il Paese, gli uomini, e soprattutto il clima, così diverso da quello spagnolo, e così poco favorevole alla sua salute. Ma come diplomatico sapeva fare il suo mestiere: infatti, riuscì a concludere una pace separata coi Paesi Bassi, infliggendo un duro colpo al sistema francese di alleanze.

 

V.4. – Il cerimoniale

 

L’assunzione da parte di Venezia del ruolo di mediatrice fra le Potenze belligeranti non mancò di creare dei problemi. Che - a parte quello riguardante il dissidio con la S. Sede[190], d’altronde ben presto appianato - riguardavano soprattutto il cerimoniale. Questo, veramente, fu un campo sul quale si disputò per anni al congresso, e a scorrerne gli atti si ha quasi l’impressione che esso costituisce l’unico argomento di discordia.

Non bisogna tuttavia valutare tali questioni per meno di quello che erano, soprattutto parlando di un’epoca la quale riteneva che il trattamento riservato al suo ambasciatore ordinario riflettesse il rilievo internazionale della nazione. Sicché non deve stupire se le questioni relative al cerimoniale furono, nel congresso di Westfalia, così lungamente dibattute, se pure non c’è dubbio che tali problemi abbiano, quanto meno all’inizio, goduto di una attenzione esagerata; tanto che si può ben comprendere come il Nunzio se ne lagnasse asserendo che, per conto suo, non avrebbe avuto difficoltà a dare a tutti il titolo di “maestà”, se ciò avesse agevolato la pace.

Per vero tutte queste difficoltà non sorgevano solo dalla vanità dei diplomatici, come potrebbe sembrare: esse manifestavano piuttosto un momento nella evoluzione della ambasceria e del sistema europeo degli Stati. Questo sistema non era ancora completamente definito, tanto più che nell’ambito degli Stati sovrani volevano entrare sempre nuovi Stati ansiosi di riconoscimento; oltre a ciò faceva difetto, riguardo alle precedenze, un ordine consolidato. Ambedue le cose, l’aspirazione ad un riconoscimento e a un posto dignitoso nell’ordine delle precedenze, trovavano evidente espressione nel cerimoniale diplomatico, sicché tutte le questioni ad esso relative acquistano un senso e un significato oggettivi.

Era stata giusto Venezia per la prima, per tenere a bada la minacciosa potenza, turca, ad avere, nel XV secolo, “inventato” le missioni permanenti, cominciando col tenere un ambasciatore fisso a Costantinopoli. L’iniziativa aveva conseguito considerevole successo, ed era poi stata estesa a tutta l’Europa. Nel XVI secolo si era però fatta strada un distinzione fra gli ambasciatori permanenti[191], che si divisero in due classi la cui differenza, nonostante i confini incerti e la denominazione oscillante, si fece presto chiaramente avvertita. La classe più nobile era quella degli ambasciatori o legati. Solamente principi sovrani e libere repubbliche potevano servirsene: così aveva deciso in una lite Carlo V, respingendo per tutti i rappresentanti di Stati nascenti da titolo feudale, la qualifica di ambasciatori. Per questo l’Imperatore aveva, tra le Repubbliche, parificato alle Monarchie solo Venezia, ponendola al di sopra dei principi italiani e tedeschi: perché quella era libera e questi feudatari del Reich[192].

Gli ambasciatori di principi non sovrani formavano una categoria di rango particolare e venivano chiamati “Agenten” o “envoyè”.

Ma la denominazione non era così sicura: la stessa Venezia chiamava ambasciatori e gli uni e gli altri. La diversità delle due categorie trovava espressione più chiara nei rispettivi privilegi e nel cerimoniale. Solamente i primi godevano di una illimitata protezione di diritto internazionale. Rappresentandone la persona, all’ambasciatore spettavano quasi gli stessi onori che sarebbero stati resi al sovrano: egli faceva l’entrata più solenne nella città ove lo portava il suo incarico e gli venivano spedite incontro persone di alto rango in corteo solenne. Al suo arrivo riceveva, da tutti i diplomatici già presenti, la prima visita; mentre il rappresentante di un principe non sovrano doveva sempre renderla lui per primo agli ambasciatori. Ad un ambasciatore si tributavano onori militari, ma soprattutto gli spettava il titolo di eccellenza[193].

Naturalmente anche i principi sovrani e le libere repubbliche potevano servirsi di diplomatici di secondo rango, ma la facoltà di nominare in ogni tempo degli “ambasciatori” aventi diritto a tutti i privilegi propri della categoria, li poneva nettamente su un altro piano. La letteratura di diritto internazionale dell’epoca è d’accordo su questo punto: il diritto di ambasceria è una emanazione della indipendenza, cioè della sovranità[194]. Dalla pubblicistica viene messo in risalto che il diritto di ambasceria deve essere considerato come un diritto fondamentale degli Stati indipendenti, deducendosi dalla sua esistenza l’ indipendenza dello Stato che lo esercita.

Venezia, essendo l’unica repubblica equiparata alle teste coronate, facilmente si vedeva contestato il proprio privilegio, e poiché questo voleva dire decadere al livello di Stato inferiore, era logico che stesse ben attenta a difenderlo in ogni occasione. Ecco perché, quando l’ambasciatore spagnolo Oñate aveva apostrofato il Gritti con la frase «ho detto che non voglio trattar del pari con Vostra Signoria» Venezia s’era affrettata a richiamare il proprio ambasciatore[195].

Soprattutto coi principi elettori Venezia era in conflitto giacché, avendo Ferdinando II nelle sue capitolazioni elettorali stabilito che gli ambasciatori dei principi elettori dovessero avere la precedenza su quelli di tutti gli altri a eccezione dei Re, ora gli stessi non volevano più cedere di fronte all’ambasciatore veneto, e asserivano che quanto Ferdinando II aveva dichiarato alla Dieta di Regensburg – doversi concedere agli ambasciatori della Repubblica veneta trattamento regio – non aveva valore perché il decreto mancava del loro consenso[196], e che spettavano a loro i primi luoghi dopo le Corone. Venezia aveva ribattuto che l’Imperatore non le aveva riconosciuto altro posto se non quello che essa godeva da tempo immemorabile e Grimani s’era fatto obbligo di intervenire a tutte le cerimonie ufficiali, onde confermare il suo posto e non permettere che sorgessero nuovi dubbi.

Ma il problema si ripresentò al congresso, dopo che vi vennero convocati tutti i principi dell’Impero[197]. A Linz l’Imperatore aveva convenuto con il duca di Baviera che i suoi ambasciatori avrebbero trattato quelli elettorali come trattavano i rappresentanti delle altre Corone. Dal punto di vista dei principi elettori, questo voleva dire non solo essere autorizzati a trattare per sé stessi, ma essere riconosciuti come membri del consesso europeo. Così di nuovo a Münster sorse questione sulla precedenza che spettava all’ambasciatore veneto, cioè se egli dovesse venire prima o dopo i principi elettori[198].

Un approccio significativo al problema ci appare quello della regina Anna, la quale avvertì i propri ambasciatori di non contrastare le pretese dell’ambasciatore veneziano cui era commessa la mediazione:

 

«J’ay examiné la pretension de l’Ambassadeur vénitien, ses raisons et les vostres, et je passe condemnation à son proffict. Leur République a obtenu de la France tous les honneurs royaux qu’ils reçoivent; si au commencement cela se debvoit ou non, c’est ce qui n’est plus de question, la possession est le meilleur titre qu’on puisse allèguer pour cela. L’Empire et l’Espagne, aprés l’avoir longuement contesté ont suivy l’exemple, et présentement à Munster ils les en laissent en possession»[199].

 

Ma nello stesso giorno, Servient aveva inviato a Brienne un dispaccio così concepito:

 

«Mais certes, après avoir desjà par succession de temps obtenu tous les honneurs qu’on leur faict qui mettent la Républicque de Venize dans une esgalité desraisonnable avec la première Couronne de la Crestienté, Monsieur Contarini a mauvaise grâce de vouloir aujourd’huy forcer les Ambassadeurs de sa Majesté par la nécessité qu’il croid qu’on a de son entremise à lui accorder une nouveauté qu’il demande avec aultant de hauteur et de violence que sy on luy faisoit injustice en voulant vivre comme on a faict cy devant»[200].

 

Il Nunzio, si pronunciò espressamente – così fecero pure i Francesi e gli Spagnoli - a favore della precedenza della Repubblica, per la ragione che la Repubblica a Roma aveva diritto di Cappella, i principi elettori no.

Allora questi ultimi presero la risoluzione di dichiarare che la precedenza spettava a Venezia perché mediatrice: Contarini non volle disputare del perché, si contentò dell’effetto[201], che però badò bene a difendere in ogni occasione[202].

Anche con il duca di Savoia Venezia si trovava in un conflitto simile[203]. L’ambasciatore del duca di Savoia voleva essere considerato alla stessa stregua del Veneto, e avere diritto sia al titolo di eccellenza sia alla cerimonia di introduzione[204]: e alla fine del Congresso chiese espressamente al Governatore della città lo stesso servizio d’onore riservato a Contarini; anche a lui si rispose che quel servizio non era stato reso al Veneto in sé bensì al mediatore, e che sarebbe stato incongruo porgere al Sabaudo quanto non era stato concesso agli ambasciatori dei principi elettori né da questi richiesto[205].

Un altro incidente sorse pure coi Francesi. Costoro allorché nel 1664 trattarono all’Aja per un rinnovo dell’alleanza, si sentirono richiedere dai Paesi Bassi una parificazione dei loro ambasciatori con quelli Veneti. I francesi, sia pure molto a malincuore, consentirono a questa richiesta, perché avevano tutta la convenienza di tenere legati alla propria alleanza i Signori Stati (per venire a Münster con le due braccia armate-nota Contarini-che erano gli Svedesi il destro e gli Olandesi il sinistro). Escogitarono tuttavia un espediente per evitare la completa equiparazione dei Paesi Bassi alle Monarchie: quello di creare una differenza tra monarchie e repubbliche. Pertanto allorché D’Avaux ricevette la prima visita di Contarini gli andò incontro solamente per cinque gradini, e al suo congedarsi lo accompagnò solo fino ai piedi della scala, senza fare gli ultimi passi sino alla carrozza. Ciò manifestava la ben calcolata intenzione di riconoscere al Veneziano una posizione intermedia tra una ambasciatore e un”envoyé”. Contarini protestò, dichiarando di non potere ricevere dalla Francia trattamento dissimile da quello che gli riservavano gli ambasciatori dell’Imperatore e della Spagna, e poco dopo, sopraggiunto Servient, si astenne dal fargli visita finché non venne ordine dalla corte di Parigi di trattare il mediatore come facevano gli ambasciatori imperiali e spagnoli[206]. Ma la posizione di Venezia tra le Potenze europee, benché tradizionalmente riconosciuta, era così singolare che continuamente dava origine a contese, e in occasione del ricevimento del duca di Longueville la lite per la successione delle carrozze si accese tanto violenta che Contarini minacciò di andarsene.

La pace di Westfalia non portò a forme definitive del cerimoniale diplomatico. Alla Repubblica di Venezia continuò ad attribuirsi il rango di testa coronata, ma con la motivazione che ciò accadeva per avere essa nella pace di Westfalia sostenuto il ruolo di mediatrice: l’assenza di dipendenza dall’Impero aveva, ormai, perso significato.

 

V.5. – La Dieta dell’Impero dopo Westfalia: primo areopago d’Europa

 

Da Westfalia in poi, la costituzione del Sacro Romano Impero raggiunse la forma che essa doveva mantenere sino alla fine; una forma strana per la maggior parte dei giuristi del tempo, un ibrido dal momento che essi non sapevano se definire l’Impero una monarchia[207]ovvero una aristocrazia[208]: non si era ancora sfuggiti alle categorie aristoteliche, ma in compenso l’attenzione era catturata dalle nuove teorie sulla sovranità di Bodin e dei suoi seguaci. In quanto disegnavano un potere concepito come indivisibile, tali teorie portavano inevitabilmente alla distorsione del concetto di Impero[209]. Il quale viene travolto da quello dí Stato, mentre la figura sacra dell’ Imperatore, immagine del sovrano universale, si è laicizzata in quella di Capo dello Stato. Del resto l’unificazione della Germania nella forma di uno Stato moderno è ormai impedita proprio dalla Pace di Westfalia, la quale congela l’impero nel decentramento delle funzioni dell’ordinamento[210], soprattutto di decentramento di uso della forza proprio del suo retaggio medievale. D’altra parte, nemmeno il rafforzamento della signoria territoriale potrà dirsi vera e propria sovranità sintanto che l’Impero non sarà definitivamente sciolto.

Ecco perciò che all’indomani di Westfalia, prendono vita concezioni che svilupperanno l’analisi dei Sistemi di Stati[211] e più tardi la dottrina del Federalismo: l’Impero viene definito come Status mixtus[212] ovvero civitas composita[213]. La peculiarità della costituzione dell’Impero obbligherà Pütter a parlare di zusammengesetzten Staat, di respublica composita ex pluribus respublicis specialibus.

Nell’art. 8 del Trattato di Osnabrück, venne infatti riconosciuto non solo lo jus territoriale dei Ceti imperiali – i quali vedevano sancire con forza non solo il loro diritto di intervento in molte questioni di vitale importanza, ma anche quello di stipulare trattati, in particolare trattati di alleanza, anche con potenze straniere[214]. Frutto di trattative spinose[215], quest’ultimo diritto si radicava in realtà in una età in cui, non conoscendosi un potere sovrano complessivo, capace di imporsi sul territorio e sul popolo simile all’odierno potere statuale, un’alleanza compatibile con il mantenimento della fedeltà nei confronti del signore feudale, non solo non costituiva una violazione degli obblighi assunti verso quest’ultimo, ma era un elemento funzionale alla dinamica politica[216].

Ciononpertanto il Reich è caratterizzato ora dall’insieme delle norme sulla prevenzione della guerra fra i Reichsstaende, ai quali non è consentito ricorrere alla forza per la soluzione delle controversie intersoggettive. Essi dovranno scegliere i mezzi diplomatici, come la mediazione, i buoni uffici, ovvero ricorrere ai grandi tribunali dell’Impero, Reichskammergericht e Reichshofrat, e giustamente nei Vortraege di Carl Gottlieb Svarez il Reich viene definito «una confederazione di diversi Stati sotto un comune Capo Supremo, al fine di mantenere la pace e la sicurezza fra di loro, nonché di difendersi dai nemici esterni»[217].

Di più: pur trasformato in una confederazione di Stati, o forse proprio per questo, il Reich seguita pur sempre a rappresentare l'unità dell'Europa, e proprio per i suoi aspetti più risalenti, vale a dire grazie al permanere dei caratteri dello Stato patrimoniale: è infatti in funzione dei feudi posseduti all’interno dell’Impero che partecipano alla sua Dieta, cioè al Reichstag il re di Polonía, come elettore sassone, il re di Danimarca per via delle contee di Oldenburg e Delmenhorst, il re d’Inghilterra come elettore del Braunschweig-Lueneburg Hannover, il re di Svezia per via dei ducati di Bremen e dei principati di Pommem e di Vehrden, il re di Sardegna, come principe dell'Impero, quale duca di Savoia. Inoltre, anche altre potenze estere come la Francia, possono mandarvi i loro ambasciatori. Sul Reichstag dunque merita che ci si soffermi sia pur brevemente.

Il Reichstag è una assemblea, composta dal Kayser e da tutti i Reichsstande, che permette all'Imperatore di esercitare quegli jura maiestatica in ordine ai quali secondo le Leggi dell'Impero, ha bisogno del consenso degli Staende, in quella struttura bicefala della sovranità che è tipica degli Stati per ceti. Esso è regolato dalle Capitolazioni Elettorali oltreché da testi normativi molto risalenti come la Bolla d'Oro. Poiché vi erano stati imperatori, come ad esempio Federico III, i quali avevano adunato da due a tre Diete in uno stesso anno, e altri, come ad esempio Ferdinando III, che non ne avevano convocata nessuna, i principi elettori si erano riservato il pri­vilegio che l'Imperatore dovesse consigliarsi con loro circa la data di convocazione della Dieta, la quale doveva tenersi entro i confini del Reich. Era invece decaduta la consuetudine secondo la quale Norimberga dovesse essere la sede quanto meno della prima Dieta di ogni Imperatore.

Dai tempi della Riforma infatti s’era dovuta scegliere una città ove sia i Cattolici sia i Protestanti potessero liberamente e comodamente professare il loro culto e a tal fine le città di Regenspurg e di Augspurg furono quelle ove più di frequente si tennero le Diete, anche perché avevano buone comunicazioni con Vienna, ove risiedeva l'Imperatore, da che questi era di Casa d'Austria. Da questo punto di vista, se già nella Pace di Augusta era stato sancito il principio cuius regio et eius religio. Il 1648 lo istituzionalizzò definitivamente, modellando sulla pace religiosa il funzionamento della Dieta. L'Instrumentum Pacis Osnabrugense, infatti, all'art. V, § 52, diceva:

 

«In causis religionis, omnibusque aliis negotiis ubi Status tamquam unum Corpus considerari nequeunt, ut etiam Catholicis et Augustanae Confessionis Statibus in duas partes euntibus, sola amicabilis compositio lites dirimat, non attenta votorum pluralitate... etc. »

 

Il portato di questa norma sta nell’attento equilibrio che nella Dieta veniva mantenuto fra gli interessi religiosi coinvolti di tempo in tempo.

Il Reichstag apre di fatto le sue sedute con la solenne lettura della Proposition nel Rathaus, nella cui gran sala è eretto un trono ove siede l'Imperatore circondato dai suoi Ministri. A destra ed a sinistra stanno i Principi Elettori, mentre lungo i due lati della sala si trovano due lunghi banchi all'uno dei quali siedono i principi ecclesiastici, ed all'altro quelli laici. In fondo alla sala vi è un cancello avanti al quale si trovano i deputati delle città[218].

Mentre le stesse Capitolazioni elettorali impegnano l'Imperatore, per quanto sta in lui, a non frapporre ostacoli alle discussioni ed alle deliberazioni, ma più che sia possibile affrettarle, sollecitando la discussione sulle materie ricordate nella Proposìtion a non tardare la emissione dei convenienti decreti riguardanti le conclusioni della Dieta, gli Staende non sono obbligati a rispettare l’ordine delle materie proposte nella Proposition. Al Reichstag del 1663 venne pure sottoposto come primo oggetto della proposizione imperiale la resistenza contro i Turchi, ma gli Stati non vollero prenderlo ìn esame prima che fossero state esaminate le altre materie. Vanamente, Leopoldo I venne da Vienna a Regenspurg sperando che la sua presenza inducesse a diverso consiglio gli Stati, perché costoro – provocando come ricordano diversi giuspubblicisti, un notevole ritardo dei lavori – non accondiscesero se non a trattare contemporaneamente il punto riguardante l'ordine dei lavori unitamente al punto attinente all'aiuto contro i Turchi.

Due Uffici connessi al Direttorio e tanto importanti da venire ricordati nelle Capitolazioni Elettorali erano quelli della Dictatur o dettatura e quello della notificazione degli atti.

Qualsiasi oggetto da sottoporre all’Assemblea, venisse esso proposto dal Kayser stesso con un Hof-oder Commissionsdecret, ovvero da un qualsiasi Stand, ovvero anche da un privato, doveva esere inviato per iscritto al Reichsdirectorium il quale convocava i Legationscancellisten per la Dictatur, ovvero per il ritiro dei fogli stampati in cui era esposta la materia che si voleva discutere. Fatto ciò il Reichs-Directorialgesandte raccomandava ai presenti di chiedere istruzioni ai loro principi. Veniva preso un accordo sul termine da concedersi, trascorso il quale la cancelleria dell'elettore di Magonza preparava l'avviso di convocazione il quale consisteva in un biglietto ove era indicato l'elenco degli oggetti sottoposti alla discussione (Berathschlagung), che, chiuso e sigillato, veniva reca­pitato all'ufficio dell'arcimaresciallo e da questi rispedito all’ufficio del ­maresciallo ereditario il quale, in virtù dei suoi poteri e per via dei suoi compiti, doveva provvedere alla notificazione.

I due Cancellisten erano l'uno di confessione cattolica, l'altro di confessione riformata. Dopo averlo scritto tante volte quante erano le persone cui andava notificato, essi portavano l'avviso di comparizione ai rappresentanti degli Stati presenti alla Dieta e cioè rispettivamente il primo a quelli cattolici, il se­condo a quelli riformati, facendo in modo che pervenisse agli interes­sati il giorno antecedente la convocazione.

I lavori del Reichstag si compiono a questo punto mediante le consultazioni che avvengono fra ed entro i tre Collegi nei quali esso si divide.

I tre Collegi, ognuno dei quali ha a sua disposizione una sala del Rathaus di Regenspurg, sono i seguenti:

1) il collegio dei Principi Elettori presieduto dall'elettore di Magonza, il quale dirige un particolare direttorio;

2) il collegio dei Principi diretto alternativamente iuxta materias dal rappresentante di Casa d'Austria e da quello dell'arcivescovo di Salisburgo, e nel quale si alternano nel voto i Principi Ecclesiastici e quelli Laici ciascuno con un voto virile, nonchè i Prelati ed i Conti dell'Impero, rispettivamente con due e con quattro voti curiati

3) il collegio delle Città imperiali diretto dal rappresentante di quella città nella quale si tiene la Dieta[219].

Per quanto nessuna legge disponesse in via esplicita riguardo alle votazioni, si desumeva tuttavia dai vari Reichs-Abschiede che di regola fosse richiesta la maggioranza dei voti. Convenzionalmente si riteneva sufficiente la maggioranza relativa.

Diventa qui evidente quanto la spaccatura confessionale avesse assunto rilievo costituzionale, e come per la sua regolamentazione si fosse scelta una soluzione pragmatica, del tutto opposta a quella ideale delle costituzioni contemporanee[220]. Per l’art. V dell’Instrumentum pacis osnabrugensis era chiaro che non si dovesse procedere in base alla maggioranza, bensì in base ad una mediazione politica in tre casi e cioè:

1) in causis religionis;

2) in negotiis ubi Status tamquam unum corpus considerari nequeunt: evidentemente si tratta dei casi contrari a quelli nei quali essi tamquam unum corpus considerari debent, e cioè nelle negoziazioni di pace e di guerra, nonchè nelle ipotesi di cui all'art. VIII, § 2 (privilegi degli elettori);

3) ubi in duas partes eunt et ire possunt.

Da ciò si desumeva che al Reichstag Cattolici ed Evangelici si dividevano in due Corpora, dei quali quello cattolico aveva come Director l'elettore di Magonza, e quello evangelico l'elettore Sassone. Ognuno di essi teneva le sue Conferenzen riguardo agli affari religiosi in via separata dall'altro, al quale comunicava le sue conclusioni a mezzo del Director: la trattazione degli affari avveniva anche qui, cioè, de corpore ad corpus.

Se ne deduceva pure che sia i Cattolici sia i Protestanti avevano lo ius eundi in partes non solo negli affari religiosi, ma anche in tutti gli altri e che essi lo potevano esercitare persino entro ognuno dei tre Collegi. Ne conseguiva che le materie poste all'ordine del giorno non venivano in ognuno dei tre Collegi discusse secondo l'ordinaria procedura che si usava nelle votazioni in pleno collegio, cioè in Assemblea plenaria, ma nelle ordinarie conferenze di ogni parte. Quando ognuna di queste era pervenuta a formulare il suo Conclusum, si cercava di trovare un accordo tra i due Conclusa, per il che i Presidenti delle due parti (per esempio nel collegio dei principi: Salzburg e Magdeburg) dopo avere letto in Pleno collegio i rispettivi Conclusa e dopo averli fatti mettere ad protocollum iniziavano, le trattative fra di loro. Se l'accordo non si raggiungeva la questione rimaneva sospesa.

Ognuno dei tre Collegi, esaminata la questione, e dopo averla discussa, procedeva alla votazione: e qualora fosse raggiunta la unanimità o la maggioranza dei voti emetteva su di essa il suo Conclusum.

Dopo di ciò ognuno dei due primi Collegi – quello degli elettori e quello dei principi – rimetteva all'altro che sedeva nella sala vicina, il suo Conclusum perchè fosse oggetto di esame. Se i due Conclusa concordavano allora avevasi il Conclusum duorum; se erano diversi, allora ogni deliberato veniva ri­mandato al collegio che l'aveva emesso unicamente alle osservazioni dell'altro ed a furia di proporre, correggere ed emendare mediante i vani rinvii - il che tecnicamente dicevasi re-und co-rreferiren – si cercava di arrivare ad una comune deliberazione, che, non appena raggiunta, veniva trasmessa al collegio delle città imperiali.

Veramente, poiché anche queste ultime avevano ottenuto nella Pace di Westfalia un votum decisivum avrebbero dovuto partecipare alla Re-und Correlation, ma fondandosi sulla consuetudine ormai invalsa, gli elettori ed i principi si opposero sistematicamente a che ciò avvenisse, pur se poi di fatto tenevano conto del conclusum delle città.

I vota collegiorum non sono obbligatori per il Kayser, ma sono solamente vota consultativa, sicché egli può anche non approvarli.

Se il Kayser con un Ratificationscommissionsdecret conferma il parere dell'Impero, ovvero il Conclusum commune duorum collegiorum, allora si ha la Decisione dell'Impero o Reichsschluss, che viene inserito poi alla fine della Dieta nel Recesso dell'Impero o Reichsabschied. Se l'Imperatore non approva il parere dell'Impero od i Conclusa duorum collegiorum, può rimandare la questione di nuovo ai Collegi perchè la riesaminino.

Così come la Pace di Westfalia viene considerata alla stregua di una legge dell’Impero, anche le Reichsgesetze – per via del complesso procedimento che portava alla loro formazione, nonché per la sovranità territoriale raggiunta dagli Stände dell’Impero – possono essere riguardate come trattati multilaterali. Esse però avevano la caratteristica di essere obbligatorie anche per lo Stato non consenziente. Le procedure adottate per venire a capo dei singoli problemi, come quelle volte a superare lo scoglio dell’appartenenza a confessioni diverse o il calcolo e il peso relativo dei voti, proietta la Dieta dell’Impero verso i nostri giorni, ed i problemi che possono sorgere quante volte sul medesimo territorio si trovino a convivere posizioni irriducibili per differenza di etnia, di convinzioni politiche, o di fedi religiose, e suggerisce utili spunti di riflessione per soluzioni ancora attuali sia entro sia fuori l’Unione europea.

 

 

VI. – LA MEDIAZIONE DELL’AMBASCIATORE VENETO AL CONGRESSO DI PACE

VI.1. – Alcuni momenti di particolare rilievo

 

«Furono le mie commissioni di impiegarmi per la pace universale a misura delle istanze che ne facessero le parti, e così ho eseguito in ambedue i trattati. Nel primo, e fu quello d’Imperio, restò conclusa la pace sotto la mediazione della Repubblica»[221].

 

Alvise-Contarini-2Così Contarini riassume la propria attività di mediatore. Bisogna ricordare anzitutto che, come si è accenato, mentre nei congressi successivi si incontreranno a volte anche primi Ministri e sovrani o capi di stato, il congresso di Westfalia è stato uno dei più puri congressi di ambasciatori. Solo il conte di Trauttmansdorf aveva diretta influenza sulle decisioni del suo principe e ampi pieni poteri. Tutti gli altri dovevano, per ogni questione che veniva sollevata, attendere la risposta ai propri dispacci[222], al fine di seguire la politica dei rispettivi governi. Contarini, quindi, in estenuanti dibattiti, doveva cercare di comporre quanto dalle rispettive Capitali perveniva loro a mezzo di istruzioni spesso contraddittorie.

Tuttavia la sua azione ufficiale non si poteva svolgere altrimenti che presso gli ambasciatori accreditati a Münster. Un esempio di ciò può essere visto nel seguente episodio: verso la fine del congresso il Nunzio apostolico presso la corte di Parigi, Bagni, avvertì Chigi delle difficoltà in cui si dibatteva Mazarino, difficoltà per le quali si poteva credere che egli più facilmente si sarebbe convinto alla pace; Bagni pertanto incitava i mediatori a trarre profitto dalla situazione e presentare al governo francese un esposto con le ultime pretese degli Spagnoli; egli - il Bagni - sperava di poter fare qualche cosa al riguardo. Dopo essersi consultati sull’argomento, Chigi e Contarini risposero di non poter seguire questo consiglio: in primo luogo per non voler fare un torto a lui, Bagni, e all’ambasciatore veneto a Parigi, che avevano tanto maggior credito alla corte di quanto non ne avessero i mediatori; in secondo luogo per non entrare in un procedimento nuovo e inusitato, che del resto nulla avrebbe potuto aggiungere a quanto già si sapeva a Parigi circa i desideri degli Spagnoli; infine perché il chiedere senza avere prima accordate le parti poteva indisporle entrambe, giacché se la Francia avesse poi desiderato variare le sue condizioni, anche la Spagna avrebbe fatto altrettanto, e Mazarino aveva più volte avvertito i Mediatori che il troppo zelo non avesse a guastare. Insomma i mediatori riconfermavano che la loro condotta non si sarebbe discostata dalla rigida mediazione.

Cosa si intendesse per “rigida mediazione” è da chiarire.

In base a ciò che si può dedurre dalle frammentarie e disperse testimonianze che si riferiscono all’argomento, si direbbe che Contarini fosse ben conscio dei limiti entro i quali doveva svolgersi il proprio mandato, e che tenesse molto ad apparire come il disinteressato trasmettitore delle proposte delle parti in causa, desideroso unicamente di facilitarne l’accordo al qual fine egli era pronto a dare eventualmente dei suggerimenti, in relazione al mutamento parziale delle pretese, ma senza mai emettere, al riguardo, dei giudizi personali.

Quando nel 1644 i Francesi presentarono le prime proposte di pace, relative – secondo i piani di Richelieu – alla sicurezza del trattato e alle garanzie con cui assicurare la pace, tutto il congresso si scandalizzò giacché si era convenuto che si sarebbero fatte delle proposte formali, e quelle francesi non parevano affatto tali[223]. Gli Imperiali chiesero quindi ai mediatori che prendessero atto ufficialmente della mancanza francese e dichiarassero in maniera esplicita che la riprovavano.

Contarini, per la verità, era intimamente del loro parere, e nella sua relazione finale avrebbe giustificato lo scontento di tutti per il modo di procedere francese osservando che «la sicurezza dei trattati et la restituzione dei prigioni sono conditioni che devono seguire, non precorrere li trattati medesimi» e poco appresso, ricordando che anche i Francesi non erano rimasti ben impressionati dalle proposte imperiali e spagnole, avrebbe ancora notato: «ad ogni modo, quali queste si fossero erano proposte, ma non già quelle dei francesi, che instillarono negli animi del congresso alienatione formale della pace»; ma al congresso, egli si guardò bene dall’esprimere tali opinioni, ed alla richiesta degli ambasciatori imperiali risposte che egli non era un giudice, e che nessun accidente restava in lui più di quel che faccia il suono passando per l’aria [224], e certamente in tal modo sollevò da molti impicci la Repubblica, la quale trovandosi ormai in guerra con la Porta aveva interesse a non alienarsi le simpatie di nessuno.

A tenere ferma la propria posizione, poi, Contarini fu sempre ben attento, al contrario del Nunzio, il quale per non aver voluto i Francesi includere la clausola “salve le ragioni della Sede Apostolica” negli articoli che disponevano la cessione di Metz Toul e Verdun alla Francia, alla propria protesta sentì rispondere da Servient che lui era solo un mediatore. A ciò il Nunzio ribatté che mediatore, e quindi neutrale, era per le questioni politiche, ma in quelle che riguardavano la religione cattolica e in quelle ecclesiastiche si considerava parte, riportandosi sempre alle costituzioni apostoliche.

Non bisogna tuttavia pensare che quella dell’ambasciatore veneto a Münster, fosse una posizione priva di nerbo, né che egli si limitasse a fare da semplice relatore delle proposte delle parti – come diplomaticamente egli spesso amava affermare – giacché al contrario in più di una occasione egli esaminò criticamente le proposte stesse, facendo approvare delle modifiche, prima di inoltrarle all’altra parte, indicando delle soluzioni di accomodamento, ed inoltrando per questa via quei suggerimenti che potevano essere di vantaggio della Repubblica.

Così, osservando che le vicende militari influenzavano negativamente i negoziati, tanto che un qualunque incidente d’arme distruggeva in un momento i progetti e le fatiche di molti mesi, Contarini poté ancora apparire come un disinteressato amante della pace quando propose spontaneamente, vale a dire senza esserne stato richiesto da alcuna delle parti, una sospensione delle ostilità, cosa che gli era stata espressamente richiesta dal Senato di Venezia come la via più breve per sopire le discordie e il mezzo più adatto a soccorrere le necessità della Repubblica contro le mosse dei Turchi[225].

Ma il progetto della tregua non andò in porto, perché nessuno, tranne i Francesi, credeva di poterne essere avvantaggiato[226].

Fu allora che il cardinale Mazarino avanzò presso la Repubblica - la stessa cosa a Münster faceva Servient con Contarini - la richiesta di un aiuto nei confronti della Spagna, contro risarcimento delle perdite in Oriente ottenuto sulle spoglie spagnole. Ma il Senato di Venezia non si lasciò incantare da tale disegno, sebbene la guerra contro il Turco si fosse ormai accesa violentissima.

Maggior fortuna ebbe Contarini quando, seguendo quelli che erano gli interessi della Repubblica, riuscì a far stabilire la restituzione delle terre di Regiolo e Luzzara[227] possedute ancora dal duca di Guastalla in virtù del trattato di Ratisbona del 1632 - alla Casa di Mantova, e nella questione della convocazione al congresso del principe di Transilvania Ragokzy. Col Ragokzy Francia e Svezia si erano legate in alleanza ad Amburgo, e nelle prime proposte formali i Francesi aggiunsero l’istanza di convocare anche quel principe a congresso, concedendogli i passaporti necessari, ma Contarini, prevedendo che in tal modo i Turchi sarebbero potuti giungere sicuramente a conoscenza degli affari europei, si diede da fare perché ciò non avvenisse, obiettando che al Ragokzy non era possibile concedere passaporti in quanto non compreso nel trattato preliminare. In questa maniera la pratica continuò per qualche mese, sinché, poco appresso, il Ragokzy giunse ad una pace separata con l’Imperatore, e il pericolo della sua venuta al congresso svanì.

Ma l’occasione in cui maggiormente rifulsero le doti diplomatiche di Contarini furono certamente i negoziati sull’ Alsazia, negoziati ai quali, da un certo momento in poi, egli come mediatore prese parte da solo, giacché il Nunzio si rifiutò di parteciparvi, non avendo voluto i Francesi tenere conto degli interessi della S. Sede.

A causa della molteplicità degli interessi in giuoco e delle connessioni fra di essi, non si riusciva in alcun modo a trovare una via d’intesa; la difficoltà principale era che la Francia congiungeva le proprie pretese territoriali con quelle svedesi e protestanti, mentre il Kaiser pur essendosi convinto ad accondiscendere alle richieste territoriali francesi, non intendeva con ciò legarsi anche per quanto si riferiva ai problemi del Palatinato, dello Hessen e degli Svedesi. Era apparentemente una via senza uscita. Contarini propose allora di stendere un abbozzo di convenzione, oltre il quale le parti potevano fare le loro riserve in relazione ai punti ancora controversi. Lasciati da parte questi punti espressamente specificati, gli altri potevano essere definiti in modo da non tornare più a discuterne.

In tal modo il Veneto convinse le parti ad una sottoscrizione orale in forma solenne, sulla cui base ci si poté avviare finalmente ad una conclusione delle trattative che dovevano modificare per secoli il confine occidentale del Reich[228].

 

VI.2. – La forma delle trattative

 

Quanto alla lingua dei negoziati il Latino, ancora l’idioma più comunemente usato dalla diplomazia, proprio al Congresso di Münster cominciò a decadere. Esso era tuttora usato di regola nelle trattative scritte ufficiali del Reich con le nazioni straniere, ed a questa regola si pensava ci si sarebbe uniformati a Münster e Osnabrück; i Francesi, però, nonostante le proteste imperiali, presentavano le loro proposte sempre nella propria lingua, e si direbbe che l’uso delle lingue nazionali sia cominciato proprio allora a prevalere, soprattutto nell’uso scritto[229].

Una regola generale non v’era. Soprattutto non vi era nelle trattative orali. A Osnabrück pare dominasse il Tedesco, che anche gli Svedesi parlavano correntemente; a Münster ci si regolava in maniera diversa, e accanto al Latino, ch’era pur sempre la lingua veicolare, si cominciò presto a usarne anche altre, soprattutto il Francese e l’Italiano. Contarini in particolare si dice non si servisse mai del Latino[230]. Spesso perciò le istanze gli venivano presentate in lingua italiana.

Mentre a Osnabrück si negoziava oralmente, a Münster le trattative si svolgevano in forma scritta, sebbene Mazarino non nascondesse la sua preferenza per la forma orale in quanto meno impegnativa. Contarini riferisce nella sua relazione finale che ciò avvenne per l’amore che della scrittura avevano i giuristi tedeschi[231], ma in verità lui stesso più volte se ne era dovuto rallegrare come dell’unico modo per indurre le parti a pervenire a qualcosa di definitivo.

Bisogna perciò sempre distinguere tra proposte ufficiali e manifestazioni non vincolanti la volontà delle parti. Rispetto a quelle la controparte doveva prendere ufficialmente posizione, rispetto a queste non necessariamente. Entrambe, però, seguivano la strada della mediazione. Naturalmente, prima che venissero formulate le proposte ufficiali, si cercava di pervenire in anticipo ad una comune base di intesa. In tal modo i negoziati presero a Münster la forma di un processo – se così si può dire – nel quale le parti si comunicavano per iscritto le proposte e le repliche.

Le proposte venivano consegnate suggellate nelle mani del mediatore: talvolta del Nunzio, più volentieri di Contarini che poteva trattare anche coi Protestanti[232]. Il mediatore toglieva i sigilli e a sua volta trasmetteva le proposte stesse all’altra parte, dopo avere, se necessario, discusso con il mittente intorno alle modifiche da apportarvi. In tal modo, nonostante la spaventosa quantità delle questioni controverse si giunse, per tappe, sino alla fine: affari dell’Impero (amnistia, prerogative dei membri dell’Impero), compensazioni economiche e territoriali, garanzie per la pace.

Se si conseguiva l’accordo su di un punto veniva steso un progetto di trattato che veniva sottoscritto alla presenza del mediatore. L’accordo così raggiunto era stilato in modo da potere essere poi accolto nel trattato finale, restando però, ovviamente, inefficace fintantoché questo non fosse stato sottoscritto per intero. Pertanto il trattato di pace, come si presentò alla fine, si potrebbe definire come una raccolta di trattati, la maggior parte dei quali erano stati concordati e firmati molti mesi se non addirittura anni avanti.

Insomma i negoziati non seguirono il corso che sono soliti seguire i lavori di un congresso: non vi furono assemblee generali e neppure vi fu una seduta generale. Il congresso non venne né aperto né chiuso formalmente, a meno che non si voglia ravvisare la sua apertura ufficiale nella solenne Messa cantata con cui – dopo l’arrivo dei mediatori e dei plenipotenziari dell’Imperatore e delle Corone – si impetrò la divina assistenza sui prossimi lavori[233].

Il vero e proprio lavoro veniva effettuato nelle sedute che si tenevano nelle abitazioni dei diplomatici e dei mediatori, e soprattutto in quei colloqui che avevano carattere confidenziale e non vincolante. Contarini dovette avere più di ottocento conferenze singole. Poiché su ogni questione venivano consultati i Reichstände, in rappresentanza dell’Impero, l’intero congresso di Münster e Osnabrück si presentava anche come una Dieta, giacché i negoziati avvenivano secondo lo stile seguito alla Dieta Imperiale: lettura delle proposizioni a opera dell’ambasciatore imperiale o dell’elettore di Magonza, consultazione e conclusione nei tre collegi, accordo su di un comune votum, mediante relatio e correlatio, e se vi si riusciva, relazione di una conclusione dell’Impero o Reichsconclusum. Per questo motivo i trattati di pace furono anche considerati come legge fondamentale dell’Impero.

La funzione del mediatore nel congresso di Westfalia si potrebbe perciò paragonare a quella che al Reichstag esercitava normalmente il principe elettore di Magonza. Infatti tutti e ogni rappresentante in Münster si doveva legittimare presso i mediatori, come dovevano fare al Reichstag, con l’elettore di Magonza.

A Münster però il mediatore, nelle cui mani la parte depositava la propria legittimazione, doveva trasmetterla all’altra la quale ne accettava i termini[234]. Infatti una delle prime istanze che Contarini dice di avere presentato riguardava appunto lo scambio delle credenziali e l’accordo sui reciproci pieni poteri. Anche su questo punto non mancarono motivi di litigio, perché i Francesi non ammettevano che il Re di Spagna si desse il titolo di re del Portogallo e principe di Catalogna; gli Spagnoli non volevano che il Re di Francia si desse quello di re di Navarra. Alla fine ci si accordò, restando ognuno nella consuetudine dei propri titoli[235]. Un’altra somiglianza stava nel fatto che quanto si voleva proporre al Reichstag sia da parte dell’Imperatore, sia da parte degli Stände, doveva essere proposto a mezzo dell’elettore di Magonza, allo stesso modo che in Münster doveva passare per la via del mediatore.

Tuttavia, come si è chiarito, benché ufficialmente accettata e condotta, la mediazione di Venezia come pure quella della S. Sede, non era obbligatoria per le parti. Soprattutto nelle trattative tra Spagna e Francia – che non andarono in porto – risulta palese che più di una volta si tentarono altre strade.

Infatti in un primo tempo - esattamente nel marzo del 1646 - si cercò di concludere un compromesso volto ad attribuire alla regina madre di Francia, in quanto madre dell’uno e sorella dell’altro re, una specie di funzione arbitrale sulle questioni controverse. Anzi tale proposta venne fatta dagli Spagnoli ai Francesi proprio tramite i mediatori[236]. Rifiutata questa via di accomodamento dai Francesi per la ragione che impegnare la Regina in una dichiarazione che poi non fosse accettata sarebbe stato motivo di nuova guerra anziché di pace, delle trattative tra le due Nazioni si interessarono ancora gli Olandesi, sotto il nome di interpositori; mediatori non potevano essere perché loro stessi in guerra con la Spagna.

Questa “Interposizione” era stata ambita prudentemente dagli stessi Olandesi, per mettersi al riparo dall’una e dall’altra nazione, e meglio ricercare il proprio vantaggio; anzi, per essere completamente padroni dei negoziati, vollero che le parti si vincolassero con giuramento a non comunicare nulla ai mediatori; cosa che i Francesi concessero per non alienarsi il favore degli alleati, e che gli Spagnoli si guardarono bene dal negare, perché speravano di conseguire una pace separata, onde essere liberi di combattere meglio la Francia, come poi accade.

Quando in seguito gli Olandesi, sottoscritta a condizioni vantaggiose la tregua – poi seguita dalla pace – con la Spagna, si ritirarono, la mediazione tornò interamente in un primo tempo nelle sole mani di Contarini, e poi in quelle di entrambi i mediatori. Da principio infatti, il Nunzio si era mostrato contrario ad occuparsi di nuovo delle trattative, dopo essere stato messo da parte.

Con queste che corrispondono, in un certo senso, a delle attenuazioni dell’ambito della mediazione veneta, si accompagnarono dei tentativi di espansione della stessa.

Infatti, dopo che, essendo entrata in guerra con la Svezia, la Danimarca non poté più occuparsi della mediazione a Osnabrück, Contarini venne pregato di assumersene lui l’incarico. Non bisogna dimenticare che Francia e Svezia si erano solennemente impegnate ad avanzare nei negoziati entrambe nella stessa misura, sicché non potendo proseguire a Osnabrück le trattative per la mancanza del mediatore, nemmeno a Münster si poteva negoziare.

Contarini, dietro istruzione del Senato, mostrò di aderire immediatamente alla richiesta che gli veniva fatta e offrì la propria opera, ma essa non venne accolta dagli imperiali, i quali rifiutarono di accettare la mediazione della Repubblica di Venezia per le trattative con la Svezia, avanzando il pretesto che la Danimarca, essendo nominata nel Trattato preliminare, come mediatrice, non poteva essere sostituita da un’altra potenza[237].

In questa maniera il congresso rischiava evidentemente di naufragare, e così certamente sarebbe accaduto se infine Contarini non fosse riuscito a far accettare alle parti la soluzione che a Osnabrück si trattasse senza mediatore[238].

La proposta di occuparsi della mediazione a Osnabrück, venne di nuovo rivolta a Contarini quando i Francesi, concordati gli articoli della pace con l’Impero, andarono anch’essi a Osnabrück per vigilare sulle trattative che là erano ancora in corso. Per questa mediazione Contarini ci dice di essere stato sollecitato più volte. «Io sempre dimostrai prontezza – scrisse poi nella sua relazione finale – ma a condizione d’essere invitato da ambo le parti»: tali erano anche le istruzioni del Senato che – come si può ben notare – cercava di evitare in ogni modo il sospetto di un’intromissione forzosa.

Tuttavia il fatto di essere invitato, secondo le circostanze, ora dall’una ora dall’altra parte (per parti qui si intendono l’Impero e la Svezia) né mai di concerto da entrambe, vietò a Contarini – come egli stesso afferma – di assumere ufficialmente il ruolo di mediatore a Osnabrück, anche se, venuti gli Svedesi a Münster, più volte ci si servì dei suoi uffici, non tanto con il partito contrario quanto coi Francesi loro alleati[239].

Più tardi, sciolto il Congresso con la partenza di tutte le legazioni, i Francesi desideravano che Contarini proseguisse le trattative con la Spagna. Viceversa Peñaranda, da Bruxelles, dove si trovava, si informava sempre se se ne fossero andati da Münster i mediatori, «onde non potessero venire chiamati dai Francesi a testimonio dei 48 articoli da essi già accordati»[240].

Mazarino, allora, avendo per i torbidi interni necessità di concludere la pace, inviò a Contarini il proprio segretario personale Fabris, il quale portava al mediatore, insieme con l’invito di proseguire i negoziati, una istruzione contenente ampie alternative su tutti i punti contenziosi e per di più la facoltà di concludere e dar parola per la pace.

La cosa andò in fumo perché il Senato, informato, non seppe - secondo l’accusa dello stesso Contarini - mantenere la discrezione necessaria, sicché Peñananda fu avvertito che le mosse di Contarini partivano dalla Francia; e, vuoi perché lo ritenesse sospetto, vuoi perché dopo la pace particolare con l’Olanda, la Spagna era ben lungi dal desiderare quella con la Francia, ricusò di trattare[241].

In conclusione si può affermare che, sebbene ufficialmente riconosciuta, la mediazione non comportava alcun obbligo per le parti di servirsene e da ciò può desumersi quanto si fosse ormai distinta dall’arbitrato; e già si faceva avvertita una differenza sia pure lieve fra la mediazione ed i buoni uffici, vuoi per il fatto che la prima era riconosciuta e accettata dalle parti, vuoi perché ricevendo nelle proprie mani le proposte delle parti il mediatore se ne faceva testimone, cosa che non accadeva per i buoni uffici, dove l’opera pacificatrice che un terzo svolgeva presso una parte non impegnava in alcun modo questa nei confronti dell’altra.

Che l’assunzione delle funzioni di mediatore desse luogo a un trattamento particolare lo si può desumere dal fatto che la precedenza sugli elettori fu concessa a Contarini, come si è visto, in qualità di mediatore.

Tuttavia questo particolare va messo in relazione con la circostanza che la mediazione si svolgeva in un contesto specialissimo quale era appunto il congresso di Westfalia. In tale senso va intesa anche la funzione che ai mediatori in Münster competeva, di tutori della neutralità e dell’ordine interno della città.

Al costume dell’epoca vanno ascritti i doni che Contarini ricevette della parti, e che lui accettò sotto condizione del beneplacito della Repubblica: una cesta colma di argenteria da tavola regalata dall’Imperatore e un gioiello composto di molti brillanti offerto dalla Francia[242].

 

 

VII. – I NEGOZIATI DEL CONGRESSO DI PACE NELLA RELAZIONE PRESENTATA DA CONTARINI AL SENATO AL TERMINE DELLA SUA AMBASCERIA

VII.1. – L’avvio del Congresso

 

Dopo essersi trattenuto un mese a Colonia per studiare le intenzioni francesi, Contarini giunse a Münster nel novembre 1643 preceduto di pochi giorni dagli ambasciatori della Spagna e dell’Impero. Del ritardo dei Francesi in un primo momento il Veneto si rallegrò, perché in tal modo si eliminava la difficoltà delle precedenze nella prima visita. Infatti se gli ambasciatori imperiali avevano, senza discussione, precedenza sugli altri, la questione era tuttavia incerta tra Francesi e Spagnoli, non sapendosi ancora quale dei due dovesse precedere l’altro.

In un secondo momento, però, tardando gli ambasciatori francesi a giungere, Contarini, che per sì lunga dilazione era stato più volte in procinto di andarsene, comunicò loro cosa pensasse il partito contrario di siffatto ritardo, e le risposte che ne ebbe, ove era palese, tra l’altro, la grande confidenza che si aveva in lui, gli fornirono l’occasione di ristabilire visite ed incontri diplomatici che la guerra aveva interrotto per molti anni[243].

Ciò che aveva trattenuto i Francesi, in realtà era stato il lungo soggiorno di quattro mesi che i negoziati dell’Aja avevano richiesto: il primo dei quali, anche in ordine di importanza, si prefiggeva lo scopo di indurre le Province Unite a mandare i deputati a Münster e a trattare insieme con loro. A questo fine essi concordarono che nei negoziati nessuna delle parti facesse passo maggiore dell’altra, che si comunicassero a vicenda quanto si andava trattando, e in particolare che nessuna in alcun modo concludesse da sola. Il tutto perché temevano che gli Olandesi negoziassero da soli all’Aja dove l’ambasciatore spagnolo offriva carta bianca in nome del Re Cattolico, mentre a Münster speravano di tenerseli più uniti e di conseguire, in tal modo, grandi vantaggi. Gli Olandesi da principio sollevarono delle difficoltà: la prima – e ne abbiamo già parlato – consistente nella richiesta di avere trattamento diplomatico pari a Venezia, riguardava il loro riconoscimento internazionale. La seconda stava in ciò: che essi non erano ben sicuri donde avrebbero tratto maggior profitto, se dalla guerra o dalla pace. Il principe d’Orange avvertì i Francesi che non conveniva lasciare che le Province Unite pattuissero a Münster tramite sei o sette persone lontane dalle Province stesse, perché era ben probabile che sin dal primo incontro gli Spagnoli facilmente li corrompessero[244] talché era preferibile consentire che fossero gli Spagnoli a recarsi all’Aja, ove lo stesso tipo di governo, composto di diverse forme di religione, politica e sentimenti avrebbe reso molto arduo concludere un qualunque accordo. Il consiglio, giudicato poco spassionato, non fu seguito e i Francesi strinsero un secondo accordo con l’Olanda per il proseguimento della guerra, al fine di trattare una pace armata.

In seguito a questi negoziati anche i Francesi giunsero a Münster nel marzo del 1644 preceduti di poco dal Nunzio, il cui indugio a Colonia, contemporaneo all’assenza dei Francesi, era stato preso – a quanto dice Contarini – presso a poco per un insulto da Spagnoli ed Imperiali. Dopo che in Osnabrück il 10 aprile venne celebrata una solenne Messa cantata, la prima istanza dei mediatori fu per lo scambio reciproco delle plenipotenze le quali vennero consegnate alla fine di aprile e subito scambiate come convenuto. Poiché ciascuna delle parti trovò da ridire sulla forma dei pieni poteri dell’altra, si perse qualche tempo prima di giungere ad una intesa. I Francesi furono costretti ad eliminare il proemio delle proprie (là dove giustificavano la necessità della guerra col darne la colpa agli avversari), poiché gli Spagnoli ne avrebbero steso uno uguale qualora quello francese non fosse stato soppresso[245].

Mentre i mediatori attendevano alle credenziali, accaddero due incidenti che prolungarono di otto mesi i lavori. Del primo fu causa la guerra improvvisa che gli Svedesi mossero contro il re di Danimarca, originata vuoi da dubbi che essi nutrivano sulle imparzialità di Cristiano IV, vuoi dalle imposizioni sempre maggiori di cui questi gravava il Sond (Öresund), per dove necessariamente dovevano passare tutte le navi che trafficavano nel Baltico. Della nuova guerra, che indeboliva il loro partito in Germania, sia i Francesi sia gli Olandesi loro alleati restarono assai poco soddisfatti e si interposeroperchè cessassero al più presto.

Una ambasceria olandese non ebbe successo. Alla Francia invece toccò maggior fortuna, perché dopo qualche mese, cioè nell’agosto del 1645, con grande gloria essa riuscì a far concludere la pace fra le due Corone; le quali inviarono due ambascerie solenni per ringraziare la Regina e pregarla di firmare di propria mano il trattato[246]. Contemporaneamente la Francia e la Svezia invitarono a comparire al Congresso tutti gli Stati e città dell’Impero, anche quelli non compresi nel trattato preliminare di Amburgo[247]. Un uguale invito rivolsero alla Dieta che si trovava riunita nella città di Francoforte.

In un primo tempo l’Imperatore cercò di far valere la propria autorità per dissuadere gli Stände dell’accettare, ma non trovò rispondenza presso nessuno, perché ormai più che in lui si confidava nella prepotenza delle armi straniere. Sicché dopo un incontro col duca di Baviera a Linz l’Imperatore accondiscese alla richiesta. Tutti questi incidenti fecero sì che non si trovasse accordo sulle plenipotenze prima del dicembre 1644, quando venne concertato un abbozzo sulle stesse, con l’obbligo di farle tornare dalle rispettive corti corrette ad verbum in conformità del medesimo. Ne seguì un atto sottoscritto dalle parti che fu consegnato ai mediatori, con la clausola che nell’attesa proseguissero i negoziati; talché poco appresso – il 4 dicembre – i mediatori ricevettero le prime domande e le prime proposte di pace.

 

VII.2. – La presentazione delle proposte per la pace

 

Nelle loro proposte gli Imperiali chiedevano l’ esecuzione del trattato di Regensburg del 1632, gli Spagnoli la restituzione di tutto quanto era stato occupato in base ai trattati di Cambrais e di Verdun, e i Francesi la libertà dell’elettore di Treviri, nonché la presenza al congresso di tutti i membri dell’Impero, nella qual cosa affermavano che consistesse tutta la sicurezza della pace.

Siffatte richieste, che corrispondevano al piano di Richelieu in relazione alle garanzie della pace ed alla sicurezza internazionale, non furono comprese e valutate nella loro portata, e anzi suscitarono viva indignazione[248]; come si è visto, però, invitato a dichiararsi a favore degli Imperiali, Contarini si limitò[249] a suggerire che l’elettore di Treviri fosse trasferito e trattenuto a Ferrara sino alla conclusione della pace, come il Papa si era detto disposto a fare.

Il suggerimento non venne accolto e poco dopo l’elettore di Treviri fu liberato dagli Svedesi, che una vittoria aveva avvicinato a Vienna. Seguì quell’invito di Contarini – di cui si è già parlato – ad una tregua d’arme.

Le proposte formali della pace, consistenti in diciotto articoli sui quali si doveva negoziare per anni, furono esibite alla fine di giugno dell’anno 1645. In esse non si faceva cenno ancora della soddisfazione delle Corone, e non solo per la ragione che ciascuna Potenza voleva mostrare di posporre il proprio interesse a quello generale, ma anche e in particolar modo perché tutte confidavano nelle proprie armi.

Intanto erano sopraggiunti a Münster e a Osnabrück gli ambasciatori degli Elettori, dei Principi e delle Città. Non potendo più opporre alcun ostacolo l’Imperatore dichiarava che tutti quelli che avevano voto nelle Diete potevano conservarlo anche nel congresso sicché da questo momento il congresso stesso si trasformò in una Dieta formale, nella quale anche i contumaci furono riammessi nel luogo e nel voto di loro spettanza.

 

VII.3. – I negoziati sull’Alsazia

 

Le repliche dell’Imperatore alle proposte delle Corone furono presentate tanto a Münster quanto ad Osnabrück il 25 settembre; ed è così che ebbero inizio le vere e proprie trattative accompagnate dal cauto sondaggio della Francia e della Svezia circa le loro rispettive pretese territoriali[250].

Nel dicembre dello stesso anno giunse a Münster il conte Trautmansdorff, il quale – esibite le credenziali ai mediatori – cercò dapprima di accattivarsi gli Stände; non riuscitovi, sperò almeno, col dar maggior soddisfazione ai Protestanti, di guadagnarsi il favore della Svezia, separandola dalla Francia. Ma fallì anche in questa manovra. Trauttmansdorff trattava con molta franchezza – rileva Contarini – e nel secondo colloquio che ebbe coi mediatori offrì senza tante cerimonie Pinerolo e Moyenvic nonché il dominio dei tre vescovati di Metz, Toul e Verdun alla Francia, ed alla Svezia l’ esecuzione del trattato di Schönbeck del 1635. I Francesi si burlarono delle proposte di Trauttmansdorff, come se fossero state offerte loro cose che già possedevano tutte[251].

Trauttmansdorff adunò a consiglio i suoi collaboratori e con questi venne nella determinazione di promettere l’Alsazia meridionale. A ciò si opponevano gli Spagnoli dacché una cessione dell’Alsazia avrebbe pregiudicato le loro posizioni sul Reno superiore. Ma Contarini insistette: la guerra contro il Turco, di nuovo scoppiata, spingeva Venezia a desiderare che la pace si concludesse al più presto[252]. Pertanto Trauttmansdorff si risolse ad invitare i mediatori a indagare su come i Francesi la pensavano al riguardo[253]. Ma i Francesi rifiutarono anche questa offerta, assicurando che una divisione della Alsazia non si poteva fare senza ne nascesse un perpetuo litigio. Il Nunzio domandò – evidentemente contro la volontà di Contarini che lo voleva interrompere – che cosa i Francesi avrebbero ceduto al Kaiser se questi avesse concesso loro tutta quanta l’Alsazia. La domanda palesava l’impazienza con la quale l’inviato del Papa si aspettava l’accordo delle Potenze Cattoliche. Ma i Francesi, invece, attribuirono l’impazienza agli Imperiali, e alla proposta di Trautmannsdorff ne contrapposero un’altra, con la quale oltre alle cose offerte domandavano l’Alsazia, Sundgau e Breisgau e le due importanti piazze di Breisach e di Philippsburg. Tali pretese parvero eccessive a tutti, anche ai Protestanti e agli stessi Svedesi; i quali però, per non alienarsi la Francia, non si dichiararono contrari, e del resto convertirono poi la cosa a proprio vantaggio, perché quanto più chiedeva la Francia tanto più chiedevano anche loro.

Finalmente “col calore degli uffitij quasi violenti presso Cesare” il 14 aprile 1646 giunsero le risposte imperiali le quali appianavano ogni altra difficoltà che non fosse quella di Breisach: Contarini rilevò ironicamente che da secoli non si dava il caso che un ambasciatore francese fosse riuscito come allora a mandare al suo Re tre province in un dispaccio.

Breisach in effetti come punto strategico non aveva l’uguale, ad eccezione di Casale e della Valtellina. Pertanto gli Imperiali proposero prima di demolire la fortezza, poi di rilasciarla alla Francia finché rimanesse in vita l’Imperatore regnante, insistendo sempre sul fatto che il vero confine tra la Francia e l’Impero doveva essere il Reno. Ma i meno propensi ad una tale cessione erano gli Spagnoli i quali spiegarono ai mediatori che i Potentati italiani non avrebbero avuto più alcuna sicurezza qualora la Francia avesse messo piede oltre il Reno, controllando in tal modo le comunicazioni dell’Italia con l’Olanda.

Anche la Chiesa non poteva stare tranquilla vista l’amicizia esistente tra Svezia e Francia. Il Nunzio, infatti, disse che ci avrebbe pensato, ma Contarini ribatté che la pace doveva conseguirsi ad ogni costo. Alla fine l’Imperatore acconsentì a che Breisach rimanesse, incorporata con l’Alsazia, alla Corona di Francia, persuaso – con Breisach – di giungere alla conclusione del trattato, conformemente alla parola che i Francesi avevano dato ai mediatori.

Viceversa con grande disappunto di tutti, i Francesi si ostinarono nella pretesa di Philippsburg. Quando Contarini - il Nunzio non voleva pronunziarsi se i Francesi non accettavano la clausola “salvi gli interessi della Chiesa” - difese la posizione di Trauttmansdorff, i Francesi tennero duro, ed il Veneto dovette spiegare tutta la propria abilità e proporre una convenzione per cui ambo le parti potevano fare le proprie riserve: il Kaiser nei confronti della Spagna e della Lorena, il Cristianissimo in relazione alle pretese della Svezia e dello Hessen[254].

A queste trattative il Nunzio non volle prendere parte, ed anzi elevò una protesta per ciò che riguardava le cessioni ai Protestanti (Adam Adami riferisce che egli elevò non meno di cinque proteste in nome della Sede Apostolica).

Sulla base della proposta di Contarini ci si avviò alla conclusione delle trattative circa la questione dell’Alsazia, ed un accordo in tale senso venne stipulato e sottoscritto alla presenza del Veneto il 13 settembre 1646.

 

VII.4. – La soddisfazione dei Protestanti e l’accordo finale

 

Tutto questo era avvenuto nonostante le continue opposizioni della Spagna che, oltre a cercare di gettare il discredito su Trauttmansdorff alla corte di Vienna, si studiava anche di convincere i mediatori che al bene della Cristianità – e di Venezia in particolare – conveniva assai più che la pace fosse generale[255].

Alla Francia si cedeva ogni giurisdizione sui tre Vescovadi di Metz, Toul e Verdun, la sovranità su Pinerolo in Piemonte e su Moyenvic in Lorena, l’Alsazia e le fortezze di Breisach e di Philippsburg – quest’ultima però solo a titolo di protezione.

La Francia a sua volta doveva restituire tutti gli acquisti conseguiti in Germania con le armi, che erano molti e rilevanti.

Fu convenuto che questo accordo particolare fosse in seguito inserito ad verbum in quello generale, come difatti accadde. I Francesi, quindi, si recarono a Münster, dove poco appresso – nel febbraio del 1647 – si giunse ad una intesa circa la soddisfazione della Corona di Svezia, intesa consistente nella ritenzione di gran parte della Pomerania, dei Vescovadi di Bremen e Verden con l’uso del porto di Vismar.

Si tardò tuttavia ancora un anno e più prima di pervenire alla pace, in primo luogo a causa delle soddisfazioni da concedere ai Protestanti, sostenute puntigliosamente dalla Svezia, e poi anche per via della pretesa opposta dai Francesi che – qualora si fosse conseguita la pace in Germania senza quella tra Francia e Spagna – all’Imperatore non fosse consentito di assistere la Spagna.

Su questo punto Trauttmansdorff e gli Stati dell’Impero convennero che l’Imperatore come tale e come arciduca d’Austria non potesse soccorrere gli Spagnoli, ma che come re d’Ungheria gli fosse concesso di perseguire gli interessi tanto comuni alle due Case di Asburgo.

Non appagati i Francesi obiettarono che sotto l’appellativo di re di Ungheria l’Imperatore avrebbe aiutato gli Spagnoli con tutte le sue forze; e in tale divergenza di opinioni i mediatori colsero l’occasione per proporre le guerre contro il Turco, appoggiando soprattutto un articolo segreto per il quale i Francesi si impegnavano ad assistere l’Imperatore qualora una simile guerra si fosse intrapresa.

Ma al momento di stringere i Francesi si ritirarono giacché in realtà essi non desideravano affatto pregiudicare i commerci e l’amicizia con la Porta ed anche gl’Imperiali poco se ne curarono, essendo il Kaiser dopo sì lunga guerra, desideroso solo di quiete e del tutto alieno del muoverne un’altra[256]. I mediatori insinuarono che la guerra contro il Turco avrebbe reso in ogni caso impossibile che si porgessero aiuti agli Spagnoli; i Francesi e gli Stände al contrario asserirono che non bisognava in nessun modo che l’Imperatore restasse armato, perché le sue armi, sebbene destinate contro il Turco, sarebbero state rivolte contro di loro. Alla fine si concluse che l’Imperatore non dovesse né come Imperatore né come arciduca d’Austria e nemmeno come re di Ungheria assistere il re di Spagna.

Restavano ancora da stabilire le cessioni e i compensi per i Protestanti, le cui trattative passarono per le mani del solo Contarini. Poco appresso si sistemarono gli articoli concernenti il tanto discusso elettorato Palatino, il quale fu lasciato per sempre alla Baviera, mentre all’ex elettore Palatino veniva attribuito in compenso un ottavo elettorato, insieme col Basso Palatinato. Il Palatinato Superiore veniva conservato dal duca di Baviera che in cambio rilasciava al Kaiser l’ipoteca sull’Austria Superiore).

Nell’agosto del 1648 furono precisati gli articoli della soddisfazione della Svezia, la quale in virtù delle cessioni ricevute diventava oltre tutto uno Stato Immediato dell’Impero con voto e seggio alla Dieta.

Stabiliti questi punti tra gli Stände e la Svezia[257], tutto il congresso si trasferì a Münster, dove in una adunanza in casa di Oxenstierna – cui si volle che anche Contarini fosse presente – il 24 ottobre 1648 venne finalmente firmata la pace tra l’Impero e le Corone di Francia e di Svezia. Tale pace – nota Contarini – per quanto dannosa per l’autorità dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, era però vantaggiosa per la Casa d’Austria, che conseguiva la Corona di Boemia in via ereditaria, recuperava l’Austria Superiore sino allora impegnata alla Casa di Baviera, e preservava i suoi Stati patrimoniali dalla libertà di coscienza, concessa invece a tutti gli altri Stati[258].

 

VII.5. – Le trattative Franco-Spagnole

 

Per maggior chiarezza si sono tralasciate fin ora le trattative con la Spagna le quali, sebbene strettamente collegate con quelle dell’Impero, seguirono tutto un altro corso.

Al suo arrivo a Münster Peñaranda (di temperamento fervido e fraudolento – a detta di Contarini) – dichiarò di avere poteri amplissimi per fare pace, tregua e tutto quello che i Francesi avessero voluto, secondo le condizioni, però che la forma di ciascuno di questi trattati richiedeva; riserva, questa, che limitava di molto la sua precedente affermazione. Per prima cosa egli si adoperò per la venuta degli ambasciatori dei Paesi Bassi a Münster. Questi, infatti, giunsero nel gennaio del 1646, ricevendo trattamento regio, in ogni circostanza. Dopo lo scambio delle credenziali risolsero di trattare senza l’aiuto dei mediatori, ancorché qualche volta si servissero della persona di Contarini.

Nel marzo del 1646 gli Spagnoli presentarono le loro proposte agli Olandesi, e sia per liberarsi dal sospetto di voler fare un trattato separato, sia per escludere gli intralci che avrebbe cercato di frapporre la Francia, suggerirono che la Regina Madre di Francia trovasse una conciliazione per tutte le divergenze esistenti tra le due Corone di Francia e Spagna, con i riguardi ai quali l’obbligava la Francia e dentro la convenienza che poteva sperare la Spagna. Ma – come si è visto – il disegno non venne accolto; dopo di che gli Spagnoli presentarono ai Francesi le loro proposte, e queste e le risposte francesi passarono attraverso l’interposizione degli Olandesi. I quali intanto, nel giugno 1646, giunsero a concordare una tregua con la Spagna, tregua che essendo contraria ai precedenti accordi con la Francia, provocò una grande collera sia presso la corte francese sia presso i Plenipotenziari a Münster, che inutilmente tentarono di accusare di corruzione gli ambasciatori, giacché sebbene Servient si recasse all’Aja proprio con l’intento di intimorirli, gli Olandesi ugualmente non mutarono proposito.

Tuttavia Peñaranda, temendo che Servient riuscisse nell’intento, si recò dai mediatori, scusandosi di aver posto il negozio in mano agli Olandesi e giustificandosi col dire di aver così agito non già per diffidenza verso i mediatori bensì perché gli Olandesi gli avevano promesso di sottoscrivere una pace separata. Le trattative furono di nuovo affidate ai mediatori, dacché la tregua degli Olandesi con la Spagna del gennaio 1647 [259] conteneva una clausola che la rendeva inefficace qualora anche la Francia non fosse addivenuta ad un accordo con la Spagna. Pertanto nel febbraio del 1647 Longueville presentò ai mediatori un progetto di pace con la Spagna di sessantasei articoli, al quale gli Spagnoli fecero riscontro con un altro progetto in lingua spagnola di soli venticinque articoli e un proemio ove si accennava alla Repubblica di Venezia ed al Papa come mediatori.

Entro il 16 novembre 1647 i mediatori avevano concordato quarantotto articoli tra i plenipotenziari delle due Corone e questi si erano impegnati a non aggiungervi e a non togliervi più nulla. Ne erano rimasti indecisi sei, sui quali Servient propose agli Olandesi di fare da arbitri[260]. Gli Spagnoli approvarono per guadagnarsi maggiormente le simpatie delle Province Unite con le quali il 30 gennaio 1648 riuscirono a convertire la tregua in pace.

Pare che Longueville e d’Avaux volessero sottoscrivere il trattato, ma trovando opposizione in Servient chiesero istruzioni a corte; e quivi i pochi ministri che dissentivano dalla pace erano per autorità più forti della maggioranza che la voleva. Fu quindi domandata udienza alla Regina dal Nunzio e dall’ambasciatore di Venezia Nani[261] il quale cercò inutilmente di far prevalere i propri argomenti su quelli di Mazarino, contrario a firmare la pace.

Del resto, venuti a conoscenza della pace ispano-olandese, i Francesi se ne adontarono e le successive trattative palesarono che nessuna delle parti tendeva all’accordo. Peñaranda comunicando ai mediatori la notizia della pace firmata con gli Olandesi lo fece quasi in modo di prender congedo, ed infatti poco dopo partì. Fece seguito la pace dell’Impero e la partenza di tutte le legazioni. E sebbene i mediatori si trattenessero a Münster ancora sei mesi (il Senato aveva comunicato a Contarini che la sua partenza era subordinata a quella del Nunzio) rimase concordato soltanto il trattato con l’Impero. Per vero Mazarino, prima che Contarini partisse da Münster, gli chiese – per mezzo del suo segretario Fabris – di proseguire i negoziati. Ma il tentativo, lo abbiamo già visto, finì nel nulla[262].

La pace tra Francia e Spagna doveva concludersi molto tempo dopo.

Dal trattato dell’Impero, secondo Contarini, derivarono alla Repubblica di Venezia due grandi vantaggi[263]: il merito conseguito presso tutti i principi e città dell’Impero grazie alla mediazione portata a termine felicemente, se pure con poco profitto per ciò che concerneva la guerra contro il Turco (a proposito della quale la Repubblica venne da tutti commiserata ma da nessuno effettivamente assistita), e il beneficio di poter considerare, insieme con tutti i Potentati confinanti con l’Impero, motivo di sicurezza la diminuzione del potere imperiale e la sua subordinazione alle leggi dell’Impero.

In verità, come di siffatti sentimenti della Repubblica si convinse il Kaiser Ferdinando III (che anzi – sia pure non apertamente – accusò Venezia di essersi intesa coi suoi nemici, in vendetta delle cose di Mantova)[264] altrettanto fu chiaro a Venezia ch’essa non doveva aspettarsi aiuti contro il Turco dall’Imperatore[265].

L’ambasciatore veneto Giustiniani riferiva in seguito al Senato che l’Imperatore vedeva nella Repubblica il migliore bastione della sua frontiera contro il Turco e la propria maggior sicurezza nell’essere il Turco impegnato in guerra contro di essa[266].

L’avere Venezia svolto la sua mediazione nella pace di Westfalia resta comunque suggellato nelle parole che nel proemio del trattato ne rinnovano la memoria:

 

«Tandem Diuina Bonitate factum est, ut annitente Ser.ma Rep.ca veneta (cuius consilia difficillimis Christiani Orbis temporibus publicae saluti et quieti nunquam defuere) utrinque de Pace Universali suscepta sit cogitatio...».

 

e che, poco più oltre, fanno menzione dell’ «... Ill.mi Exc.mi legati Senatorisque Veneti Domini Aloisij Contareni Equitis, qui mediatoris munere procul a partium studio totos pene quinque anos impigre perfunctum est...».

 

 

 – APPENDICE

 Storia della storiografia dedicata alla pace di Westfalia

 

"Gott Lob! Num ist erschollen

Das edle Fried - und Freudens Wort

Dass nun mehr ruhen sollen

die Spiess und Schwester und ihr Mord"

 

Con queste parole Paul Gerhardt, il più grande poeta di Kirchenlieder successivo a Lutero, comincia il suo "Danklied für die Verkündigung des Friedens". La pace cui è dedicato il Lied dal poeta è la Pace di Westfalia, e ben si comprende il suo entusiasmo, pensando a ciò che la guerra dei trent'anni rappresentò per la Germania. Non solo, infatti, la popolazione venne quasi dimezzata, tanto che solamente all'inizio dell'Ottocento la Germania poté avere tanti abitanti quanti ne aveva prima della guerra; ma il paese venne desolato in modo da cadere in un imbarbarimento che si nota persino nell'arte della stampa.

Il giubilo per la riconquistata pace fu tale che nessuno allora ebbe coscienza di ciò che la Pace di Westfalia avrebbe rappresentato per la storia europea, così come nessuno ebbe a presentire che la molteplicità degli interessi in giuoco e delle parti contrastanti nell’arengo politico, avrebbe fatto sì che di lì a pochi decenni i due trattati di Münster e di Osnabrück sarebbero stati guardati sotto punti di vista spesso antitetici, ricevendone una diversa interpretazione, pur rimanendo fermo il punto che essi erano da lodare per aver posto fine a tanta carneficina.

Nella bibliografia che qui di seguito sarà richiamata sono, come si vedrà, frammiste fonti e letteratura, ma ciò corrisponde allo scopo della bibliografia stessa, la quale vuole distinguere per ogni punto del momento storico di cui ci si occupa, il materiale specifico che lo riguarda, in via sia di connessione logica, sia di connessione di argomento[267].

Va anzitutto menzionato il fatto che nell’Archivio di Stato di Venezia sono conservati, riguardo la Pace di Westfalia, undici faldoni che coprono il periodo che va dal 31 luglio 1643 al 22 febbraio 1650. I faldoni includono i dispacci inviati al Senato (alcuni cifrati) e la corrispondenza con gli altri ambasciatori di Alvose Contarini. Vedi ASVe, Senato, Dispacci Münster, 1-11, (1643-1649). I Registri contenenti le copie sono invece conservati nella Biblioteca Marciana di Venezia. Vedi Manoscritti italiani, VII, 1098-1104 (8148~8154), Registro di lettere al Ser.mo Senato di Venezia del Sig. Cavalier Alvise Contarini, Ambasciatore straordinario al Convento per la pace Universale di Cristianità in Munster, vol. 1-6. Era abitudine degli ambasciatori veneti redigere una relazione finale che veniva presentata al Senato veneto al termine dell’ambasceria. Una raccolta di tali relazioni fu pubblicata a Venezia, a partire dal 1856 da N. BAROZZI e G: BERCHET, Relazioni degli stati europei lette al senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo.

In Italia, tuttavia, la Pace di Westfalia non ha dato origine ad un particolare interesse scientifico, vuoi perché il nostro paese rimase ai margini della guerra, non venendo da essa che occasionalmente e indirettamente coinvolto, vuoi probabilmente per la sconfitta del Cattolicesimo che essa rappresentò. Dobbiamo guardare al Novecento per trovare studi che la riguardino. Dal momento che la pace di Westfalia divenne una legge fondamentale del Sacro Romano Impero, vanno citati anzitutto gli studi di E. BUSSI, in particolare i due volumi de Il Diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, vol. I Padova 1957; vol. II Milano 1959; ma anche IDEM, Esperienze e prospettive. Saggi di storia politica e giuridica, Modena, 1976. Dell'argomento si era occupato da altro punto di vista MARIO TOSCANO con il suo lavoro Sicurezza collettiva e garanzie internazionali nei Trattati di Westfalia, Milano 1939.

Lo scritto di LAURA SCHIAVI: "La Mediazione di Roma e Venezia nel Congresso di Münster", pur essendo basato su documenti originali di ambo gli archivi, tratta in effetti più dello spirito con cui si conducevano le trattative che non specificamente della mediazione (il volume risulta edito a Bologna nel 1923). Si occupa di un aspetto tangenziale della guerra dei trent’anni R. QUAZZA, La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato (1628-1631), 1926.

In tempi relativamente recenti sono stati pubblicati il saggio di S. ANDRETTA, La diplomazia veneziana e la pace di Westfalia, in Annuario dell’Istituto storico Italiano per l’età moderna, XXXVII-XXXVIII (1975-1976), 1-129, che utilizza prevalentemente la relazione finale di Alvise Contarini, e la voce Contarini in Dizionario biografico degli italiani, XXVIII, Roma, 1983, 82. Va detto che in lingua italiana è stato tradotto anche l’illuminante saggio di E.W. BÖCKENFÖRDE, La Pace di Westfalia e il diritto di alleanza dei ceti dell’Impero, in Lo Stato moderno (E. Rotelli- P.A. Schiera), Bologna, 1974, III.

In lingua inglese sono comparsi D. CROXTON, Westphalia: The Last Christian Peace, N.Y., 2013; L. BUSSI, The growth of international law and the mediation of the Republic of Venice in the peace of Westphalia, in Parliaments Estates and Representation, 19, 1999; C.V. WEDGWOOD, The Tirty Years’ War, it. tr. La guerra dei trent’anni, Milano 1991; e più risalente K. COLEGROVE, Diplomatic Procedure Preliminary to the Congress of Westphalia, in AJIL, vol. XIII, 1919.

Diversamente, come ben si comprende, vanno le cose per quanto riguarda quegli Stati che presero parte attiva alla lunga vicenda: particolarmente Francia Svezia e Germania. In quest'ultima, naturalmente, la Pace di Westfalia sin dal primo momento in cui essa fu conclusa, costituì oggetto non solo di esposizione sistematica e di commentari, ma anche di studi di diritto costituzionale, in dipendenza del fatto che essa non solo venne collocata fra le leggi fondamentali dell'Impero, ma altresì considerata legge formale dello stesso.

Bisogna però a questo proposito distinguere tra la letteratura più recente, e in genere moderna e la letteratura più antica. La letteratura dei tempi moderni prende in esame la pace di Westfalia soprattutto sotto il profilo politico, sia interno che internazionale: interno in quanto, come ricorda W. TREUE essa rappresenta la più grande catastrofe per la Germania prima del 1945; internazionale in quanto da questo "Epochemachend Datum" si fa iniziare, per lo più, l'ordinamento politico internazionale degli Stati Europei.

Degli atti del congresso venne fatta una prima raccolta a opera di, J. G. von MEIERN, Acta Pacis Westphalicae Publica Oder Westphälische Friedens-Handlungen und Geschichte. L’opera, pubblicata ad Hannover fra il 1734 e il 1736, consta di sei volumi in folio, ed è stata superata solo recentemente da quella iniziata con intenti onnicomprensivi da M. BRAUBACH E K. REPGEN (Münster 1962 -) di grande importanza ed incalcolabile utilità per gli studiosi. Viene qui citata come ACTA PACIS WESTPHALICAE (A.P.W.).

A riprova dell’’interesse che rivestono per gli studiosi le relazioni approntate dagli ambasciatori della Repubblica di Venezia, quelle riguardanti Germania e Austria compaiono anche nelle Fontes Rerum Austriacarum (II Abt. Diplomataria et Acta Vol. XXVI e XXVII), a cura di J. FIEDLER, Die Relationen der Botschafter Venedigs über Deutschland und Oesterreich in siebzehnten Iahrhundert, Wien 1867. Quest'opera in particolare è una fonte molto importante. Essa contiene, tra le altre, anche la relazione che, del congresso di pace, fece al Senato di Venezia l'ambasciatore Contarini. Questa relazione finale dà, senza mancare alcuna esagerazione, una tra le più precise esposizioni di tutti gli interessi contrapposti ed una sagace, concisa discussione dei problemi basilari di cui si chiedeva la soluzione al Congresso.

Comprendono infine anche una raccolta di documenti i due volumi di Cfr. H. von ZWIEDINECK - SÜDENHORST, Die Politik der Republik Venedig während des dreissigjährigen Krieges, Stuttgart 1882, che esaminano la politica tenuta dalla Repubblica nel corso della guerra dei trent’anni.

Corrisponde alla natura delle cose e alla logica dei fatti che la letteratura più importante sulla Pace di Westfalia sia quella in lingua tedesca, perché mentre le norme della Pace per quanto riguarda tutti gli altri Stati Europei erano norme che interessavano solamente in relazione ad un aspetto della loro attività internazionale, e ciò sempre meno, quanto più ci si avvicina ai giorni nostri, per la Germania invece, costituendo esse anche norme di Diritto Costituzionale, sono rimaste osservate e in vigore fino al 1806, cioè fino alla scomparsa del Sacro Romano Impero.

Anche entro la letteratura tedesca, però, è possibile vedere, riguardo alla Pace di Westfalia, una molteplicità di atteggiamenti i quali corrispondono alla diversa posizione spirituale nella quale si trova lo scrittore.

I Reichsjuristen o Reichsrechtslehrer, naturalmente, vedono – e a ragione – nella Pace di Westfalia la causa prima della impotenza politica e militare del Reich, ond'è che sono portati a esprimere su di essa un giudizio piuttosto negativo. I pubblicisti dei singoli Stati territoriali, al contrario, sono indotti a una valutazione diversa in quanto è proprio nella Pace di Westfalia che questi Stati vedono soddisfatte le loro tendenze autonomistiche.

Anche qui, naturalmente, vediamo riflesso il dramma storico della Germania che si dibatte a lungo tra unità e particolarismo, quel dramma, sconosciuto a Paesi come l'Inghilterra e la Francia che assai prima e per tempo hanno conquistato la loro unità politica e territoriale, e che invece ha tante somiglianze con la storia del nostro Paese.

A parte questo contrasto, che si svolge sul terreno politico-costituzionale, è anche possibile notare un diverso apprezzamento fatto dagli scrittori a seconda che essi siano cattolici o riformati, cosa questa che non va dimenticata giacché spesso taluni giudizi contrastanti dipendono dalla diversa confessione religiosa cui appartengono i loro autori.

Non ci si deve, oltre a ciò, nascondere il fatto che molto spesso vi è identità di vedute tra i giuristi o i pubblicisti di confessione riformata e gli scrittori che appartengono agli Stati territoriali, perché se èvero che la guerra dei trent’ anni è stata una guerra di religione, è anche vero che in più vi è stata quella coincidenza tra tendenze autonomistiche dei principi territoriali e tendenza alla libertà religiosa, che ovviamente si faceva più stretta per quanto riguarda gli Stati a religione riformata.

Di recente per la Pace di Westfalia e per l'ordinamento giuridico che essa ha lasciato in eredità, si è nuovamente risvegliato nella scienza storica uno straordinario interesse, causato – come giustamente nota il Dickmann – dalla somiglianza dei problemi del nostro tempo, dopo le due grandi guerre mondiali, con quelli di allora. Tale interesse si è manifestato nella maniera più evidente nella pubblicazione degli Atti del Congresso, iniziata in modo veramente grandioso a cura di Max Braubach e Konrad Repgen.

Di KONRAD REPGEN, a cura di -F. Bosbach e C. Kampmann è recentemente stato pubblicato Dreißigjähriger Krieg und Westfälischer Friede, Studien und Quellen, München 2015, una raccolta di scritti riguardanti la guerra dei trent’anni e la pace di Westfalia, mentre ad anni più addietro risale K. REPGEN, Die Römische Kurie in der Westfälische Friede, I: 1521-1644, Tübingen 1965 .

Vanno anche ricordati:

G. CHRIST, Der Exzellenz-Titel für die Kurfürstlichen Gesandten auf dem Westfälischen Friedenkngress, in Parliaments Estates and Representation, 19, 1999.

H. DURCHHARDT (hrg), Der Westfälische Friede: Diplomatie - politische Zäsur - kulturelles Umfeld – Rezeptionsgeschichte, in Historische Zeitschrift, 26, 1998.

M. SCHNETTER, Der Reichsdeputationstag 1655-1663, Aschendorf, 1996.

S.KREMER, Herkunft und Werdegang geistlicher Führungsschichten in den Reichsbistümern zwischen Westfälischem Frieden und Säkularisation, Herder 1992.

L. BELY, Les relations internationales en Europe. XVIIe - XVIIIe siècles, Paris, 1992.

H. GALEN, Der Westfälische Frieden. Krieg und Frieden. (Ausstellungskatalog Stadtmuseum Münster März/Oktober 1988).

K. ABMEIER, Der Trierer Kurfürst Philipp Christoph von Sötern und der Westfälische Friede, Aschendorf 1986.

F. BOSBACH, Die Kosten des Westfälischen Friedenkongresses, Aschendorf, 1984.

 W. BECKER, Der Kurfürstenrat. Grundzüge seiner Entwicklung in der Reichsverfassung und seine Stellung auf dem Westfälischen Friedenskongress, Münster 1973.

Un accurato quadro d’insieme in F. DICKMANN, Der westfälische Frieden, Münster 1959.

Riunisce le Vorträge bei dem Colloquium Französischer und Deutscher Historiker vom 28 April- 30 April in Münster il volume collettaneo Forschungen und Studien zur Geschichte des Westfälische Friede, Münster 1965, contenente gli studi segnati con(x) :

 (x) JEAN MEUVRET, La situation économique et financiére de la France durant les dernière années du règne de Louis XIII et pendant la Régence jusqu'en 1648.

(x) FRITZ DICKMANN, Der Westfälische Friede und die Reichsverfassung.

(x) ROLAND MOUSNIER, Les mouvements populaire en France avant les traités de Westfalie et leur i cidence sur ces traités.

(x) ALPHONSE DUPRONT, De la Chrétienté à l'Europe. La passion westfalienne du nonce Fabio Chigi.

(x) HERMANN WEBER, Friede un Gewissen.

(x) KURT VON RAUMER, 1648/1815: Zum Problem internationaler Friedesordnung im älteren Europa.

La letteratura meno recente conta le seguenti opere:

I.I. POELHEKKE, De Vrede van Münster, Gravenhage 1948.

V. KYBAL e G. INCISA DELLA ROCCHETTA, La nunziatura di Fabio Chigi, I, I.2 in Miscellanea della R. Deputazione Romana di storia patria, Roma 1943-1946.

H. HAUSER, La prépondérance espagnole (1559-1660), Parigi 1933.

L. PASTOR, Storia dei Papi XIII, XIV, ed. ital. - Roma 1932.

W. PLATZHOFF, Geschichte des europäischen Staatensystem 1559-1660, Monaco, Berlino 1928.

K. KASER, Das Zeitalter der Reformation und Gegenreformation, Gotha 1922.

F. ISRAEL, Adam Adami und seine Arcana Pacis Westfalicae, Berlino 1910.

L. STEINBERGER, Die Jesuiten und die Friedensfrage 1635-1650, Friburgo in B 1906.

H. RICHTER, Die Verhandlungen über die Aufnahme der Reformierten in den Religionsfrieden aus dem Friedenskongress zu Osnabrück 1645-1648, Berlino 1906.

A. OVERMANN, Die Abtretung des Elsass an Frankreich im westfälischen Frieden, Karlsruhe 1905.

F. TORTUAL, Zur Geschichte des westfälischen Friedens, Monaco 1879.

C.T. ODHNER, Die Politk Schwedens im westfälischen Friedenskongress, Gotha 1877.

 

Non sufficientemente considerata dagli storici moderni è stata la letteratura per così dire contemporanea alla conclusione della Pace di Westfalia perché apparsa negli anni immediatamente successivi alla stessa, ovvero quella che si venne formando alla fine del 17° e durante il 18° secolo. Questa letteratura, viceversa, è di fondamentale interesse, perché ci testimonia il giudizio dei contemporanei, ovvero il modo come la pace venne considerata lungo il decorrere del tempo, via via che si raffreddavano le ceneri del grande conflitto. Lo studio di questa letteratura, nonché la ricerca del pensiero degli uomini che vissero in quel tempo, è l'unica maniera per entrare nel mondo spirituale di allora e per poterlo comprendere. L'immedesimarsi con le passioni degli uomini di quell'epoca è una esigenza che già venne sentita alla fine del 18° secolo perché J. St. PUETTER espressamente nel suo "Manuale completo della storia tedesca del Reich" sosteneva che per comprendere le trattative di pace bisogna conoscere i sentimenti delle parti in causa, al qual fine egli ricorda espressamente le opere di:

ERASMI IRENICI, "Biblioteca Gallo-Suevica, sive syllabos operum selectorum quibus Gallorum Suecorumque hac tempestate belli proferendi, pacis evertendae studia publico exhibentur, Utopiae apud Udonem, hoc anno (1642), 4 vol. Sotto il nome di Erasmo Ireneo si nasconde, pare, una gesuita di Magonza, secondo altri, invece, l'ambasciatore austriaco Isaac Volmars.

ANONYMI (Johann. Stellae), Monarchia Gallica quae contra calumnias in libello, cui titulus: Bibliotheca Gallo-Suecica, intestatus asseritur, Europae salutaris futura ostenditur, 1649.

 

Bisogna distinguere, poi, la letteratura che si occupa solo dell'aspetto politico della Pace di Westfalia da quella che riguarda invece solamente al lato giuridico della stessa.

Quella che si occupa solo dell'aspetto politico si può dividere, poi, a seconda che esponga la storia delle trattative di pace, ovvero la conclusione della stessa.

Al primo indirizzo appartengono le seguenti opere:

Praeliminaria pacis imperii, das ist des Kaisers, der Krone FrankReich, Spanien und Schweden, und der Stände zwischen den plenipotentiariis verübte acta et tractata, 1648.

Cph. FORSTNERI, Epistolae negotium pacis Osnabrugo - Monasteriensis concernentes, Mumpelgard 1656. Il Forstner era consigliere dei principi di Hohenlohe. Puetter, op. cit. pag. 656/181, dà di lui le seguenti notizie: Christoph Forstner (n. 1598 - m. 1667) fu autore di Hypomnemata politica, scritti nel 1617 quando aveva appena 19 anni. Viaggiò in Italia e in Francia; divenne consigliere dei principi di Hohenlohe, quindi cancelliere di Mömpelgard, e partecipò alle trattative della pace di Westfalia. Particolare menzione, oltre a quello citato, merita il suo scritto De comitiis electoralibus, del 1631. Un elenco di tutte le lettere stampate di questo influente uomo politico è contenuto nella IV parte del Lehretisches magazin. Si veda anche JO. HEN, BOECLER Elogium Chph. Forstneri, Argentorati 1669.

CLAUDE DE MESME CONTE D'AVAUX, Memoires touchants les negociations du traité de la paix fait à Munster en 1648, Cologne (Grenoble) 1674). Il d'Avaux era ambasciatore francese ai negoziati; morì nel 1656.

(Anonimo) - Historia pacis Germano-Gallo-Suecicae Monasterii atque Osnabrugae tractatae, a. 1648 perfectae, Irenopoli 1679. Si tratta di Tobias Pfanner, nato il 1641; fu segretario della cancelleria di Gotha ed informatore dei principi di Gotha, quindi Hofrath al servizio dei duchi di Sassonia. Più tardi di questo libro fu fatta un'altra edizione con premesso il nome dell'autore, edizione che fu stampata a Gotha il 1697. Lo Pfanner morì il 1716.

ACTES ET MEMOIRES de la negociation de la paix de Münster, (4 volumi), Amsterdam 1640.

H. GROTIUS, Epistolae quotquot reperiri potuerunt, Amstel 1689: Grozio fu ambasciatore svedese alla corte di Francia.

S. PUFENDORF, Commentariorum de rebus suecicis libri XXVI ab expeditione Gustavi Adolphi Regis in Germaniam ad abdicaitonem usque Christinae, Ultrajecti 1786.

ADAM ADAMI, Arcana Pacis Westphalicae, Francofurti 1648. Più tardi l'opera venne ristampata come ADAM ADAMI, Relatio historica de pacificatione Osnabrugo-Monasteriensi, Francofurti 1707; l'opera venne nuovamente curata e ripubblicata da J.G. von Meiern a Leipzig nel 1637; trovasi ora riprodotta negli "Acta Pacis Westphalicae", S, III D, vol. I, pagg. 281-342. Adam Adami (n. 1610 - m. 1663) dal 1628 è monaco benedettino; dal 1637 priore; dal 1643 fece parte degli ambasciatori dei prelati del Würtenberg e dell'abate di Corvey alle trattative di pace; dal 1650 è vescovo di Hierapolis e suffraganeo nel capitolo di Hildesheim.

J.H. BOEHMER, Dissertatio controversiae selectae in tractatibus pacis Westfalicae motae, Halae 1720.

C.G. HOFFMANN, Series rerum per Germaniam et in comitiis a transactione Passau ad an. 1720 gestarum ad illustrandas pacis Westphalicae tabulas, Franofurti et Lipsiis 1720.

GUILLAUME HJACINTHE BOUGEANT (gesuita), Histoire des guerres et des negociations qui precederent le traité de Westfalie, sous le regne de Louis XIII et le ministère du cardinal de Richelieu et du cardinal Mazarin composée sur les memoires du Comte d'Avaux, Paris 1727.

IDEM, Histoire du traitè de paix de Westfalie, Paris 1744. Queste due opere vennero tradotte insieme in Tedesco sotto il titolo: Wlilh. Hyac. Bougeant, Historie des dreissigjährigen Krieges und des darauf erfolgten Westphälischen Friedens mit Anmerkungen und Vorrede, von Fried. Eb. Rambach, Halle, tomi I-II 1758, tomo III 1759, tomo IV 1760.

A. BRUNI, Hispaniarum regis ad tractatus P.W. legati relatio de pacificatione Monasteriensi (da un manoscritto che si trovava nella Biblioteca del Consiglio di Governo del Wurttenberg in Stuttgart) si trova in J.J. Moser, Miscellanea juridico historica, Francofurti und Leipzeig, I 1729, II 1730.

D.C.W. GAERTNER, Westphälische Friedens-Canzley darin die von A. 1643 bis 1648 bei den Münster und Osnabrückischen Friedens-Tractaten gefürte geheime Correspondence ertheilte Instructiones erstattete Relationes und andere besondere Nachrichten enthalten (dai manoscritti dell'ambasciatore imperiale von Crane), in 9 parti (dal 1641 al 31 maggio 1646) Leipzig 1731-1737. Dal 1727 il Gaertner è professore a Lipsia, dal 1732 Appellations- Rath a Dresda e poi Consigliere del Reichshofrath. Nella Vorrede di questa raccolta egli scrive che la fortuna gli ha portato tra le mani una collezione quasi completa di atti ( la quale per la maggior parte è composta dalla corrispondenza tenuta dall'allora ambasciatore imperiale mandato a Münster e Osnabrück ) che contiene le istruzioni segrete agli ambasciatori, le relazioni degli stessi, le loro note e molte particolari notizie quel tempo non ancora edite. In realtà si tratta di una raccolta che venne compilata dal Reichshofrath Johann Crane come ambasciatore imperiale al congresso di pace di Westfalia. Questa raccolta comincia nel 1641 e, nella edizione del Gärtner, finisce col 31 maggio 1646 perché, come ci fa sapere J. St. Puetter (op. cit., I, p. 432) i manoscritti del Crane andarono distrutti in un incendio a Dresda.

MEMOIRES ET NEGOTIATIONS SECRETES de la Cour de France touchant la paix de Münster (par Jean Aymond), Amsterdam 1710.

ISAAC VOLMAR L.B. VON RIEDEN, Diarium seu protocollum actorum publicorum I.P.W., Francofurti 1718. Questo lavoro si trova anche in A. CORTREYUS, Corpus juris publici S.R.I.G., Francofurti tomo I, II 1707, tomo III 1709; tomo IV 1710. Dal Cortreyus si comprende che il von Rieden era ambasciatore dell'Imperatore. Il diario va dal 1643 al 1648).

NEGOTIATIONS SECRETES touchant la paix de Münster et Osnabrück, à la Haye 1725, in 4 tomi.

J.G. von LEIERN (n. 1692 - m. 1745). Fu Hof-und Canzlei-Rath, in seguito anche archivista e Geheim Justiz-Rath di Hannover.

Acta Pacis Westfalicae publica oder Westphaelische Friedens Handlungen und Geschichte, vom Jahr 1643 bis 1648, in sei parti, Hannover und Göttingen 1734-1736, a questa opera J. Ludolph Walther (che fu Segretario d'Archivio in Hannover) ha aggiunto un Universal Register ed una Lebensgeschichte der Westphälischen Friedens Gesandten, editi a Goettingen nel1740.

ACTES ET MEMOIRES de la negociation de la paix de Münster, Amsterdam 1680 (in 4 parti).

 

Al secondo indirizzo (opere relative alla conclusione della pace) si possono ascrivere:

 

J. C. LOBKOWITZ, Pax S.R.I. licita demonstrata, Vienna 1649.

J. HORNBECK, Examen bullae papalis qua Papa Innocentius X abrogare nititur pacem Germaniae, Ultrai 1652.

L. DE MONTESPERATO (Herm. Conring), Vndiciae pacis Osnabrugensis contra Innocentii X bullam, London 1653. Questo libro venne tradotto anche in tedesco come Rettung des Osnabrückischen und Münsterischen Friedens wider Innocenz des X Nullitätserklärung.

W.I. SCHUTZ, Manuale pacificum sive quaestiones XX ex I.P. religionem eiusque exercitium concernentes, Francofurti 1654 (et cum notis H.B. Picerunti i.c. Hier Brückneri, Spirae 1683).

T. OELHAFEN VON SCHOELLENBACH, Templum pacis etc. seu de pace Germaniae restaurata eiusque conservandae mediis, Francofurti 1657.

P.A. BURGOLDENSIS (cioè Oldenburger), Discursus ad I.P.O.M. Genève 1668, nuova edizione aumentata 1669.

J. DECKHERR, De pace civili et religionis in I.P.W. data, Spirae 1680.

J. OTTONIS, Adnotationes ad instrumentum pacis Westphalicae et Noviomagensis, Francofurti 1697.

U. OBRECHT, Brevis et succincta expositio pacis caes. Suecicae, Argentorati 1701.

Anonimo (H. HENNIGER), Meditationes ad I.P. Caes. Suecicae, (in X parti 1706-1712).

C.O. RECHENBERG, Dissertatio de pacis Onsabrugensis obligatione universali, Lipsiae 1720-1727 (la sez. II di questa opera, stampata a Berlino, è più rara).

J.G. ESTOR, Programma de quibusdam subsidiis ad explicandum I.P.W. necessariis, Giessen 1726.         (Questo lavoro si trova anche in J.G. ESTOR, Auserlesene Kleine teutsche Schriften, 12 parti in 3 vol., Giessen 1732-1739).

C.G. HOFFMANN, Analysis Pacis Westphalicae, Francofurti ad Viadrum 1732.

E. RAUSCH, Dissertatio de usu et Praesentia actorum pacis Westphalicae, Helmstadt, 1736.

N.H. GUNDLING, Discursus über den Westphälischen Frieden aus richtigen und unverfälschten MSCtis aus Licht gestellet, (nebst Joh. Chr. Feustel. Erzählung der vornehmsten Ursachen des dreissigjäahrigen Krieges von der Zeit der Reformation bis auf den Westphälischen Frieden, Frankfurt und Leipzig 1736).

MEIERI EMBLEMATA, seu loca quaedam ex Ad. Adami Historia de Pace Westphalica a Jo. Gottfr. de Meiern interpolata, inversa vel omissa, Ratisbonae 1739.

          (In risposta a questo scritto vedi J. G. VON MEIERN, Beleuchtung der in Regensburg herausgekommenen so genannten emblematum wodurch sowohl die neue Edition des Adami etc. als die Acta Pacis Westphalicae haben verdächtig gemacht werden wollen, Hannover 1739.

J.E. ZSCHACKWITZ, Geschichtsmässige und in der Reichspraxi gegründete Erleuterung des Westphälischen Friedens, Halle 1741.

H.H. ENGELBRECHT, Gründsätze einer Enleitung zu Vorlesungen über den Westphälischen Frieden, Greifswald 1743.

E.M. CHLADENII, Oratio pacem Westphalicam plane inter exempla haberi, Vindobonae 1748.

GESCHICHTE des dreissigjährigen Krieges und Westphälischen Friedens zum Beruf der gegenwärtigen Staatsbegebenheiten, Frankfurt un Leipzig 1748 e 1760.

F.J. KORTHOLT, De expunctis in Pace Westphalica, Giessen 1751.

P.W. SCHMID, Dissertatio controversias quasdam circa recessum executionis a 1649 Norimbergae conclusum exponens, eiusque convenientiam cum ipso I.P.W. vindicans, Jeane 1758.

Jo. Ad. L.B. VON ICKSTADT, Dissertatio de iusta et efficaci summi pontificis protestatione adversus pacem religiosam et Westphalicam, obligationem tamen eiusdem intrinsecam et pactitiam iter compaciscentes haud infringente, Ingolstadt 1759. Questo lavoro si trova (dello stesso autore) anche negli Opuscula Juridica varii argumenti, Ingolstadt, tomo I 1748, tomo II 1759.

F.J.L. SCHRODT, Disputatio polemica ad illustrandum art. V pacis Westphalicae, Pragae 1762.

C.H. GEISLER, De interpretatione Pacis Westphalicae, I Erlangen 1771, II Marburg 1775, III 1776.

A. SCHMIDT, Vindiciae pro sententia L.B. de Ickstadt de parte pontificis protestatione etc. adversus nuperam Schotti censuram, Heidelberg 1772.

Joh. Iac. MOSER, Erläuterung des Westphälischen Friedens aus Reichshofräthlichen Handlungen, p. I Erlangen 1775; p. II Frankfurt und Leipzig 1776.

 

Fra le opere le quali invece si occupano prevalentemente degli aspetti giuridici della pace, possiamo far rientrare i commentari della Pace di Westfalia, come ad esempio:

J.C.F. VON ARETIN, Historisch-liberalische Abhandlung über die erste gedruckte Sammlung der Westphälischen Friedens-Acten mit urkundlichen Beylagen, München 1802.

J.N.F. BRAUER, Abhandlungen zu Erläuterung des westphälischen Friedens, Offenbach 1782-1785, in 3 parti.

P.A. BURGOLDENSIS (propriamente Phil. Andr. OLDENBURGER, m. 1678), Notitia rerum illustrium imperii R.G. sive discursus I.P.O.M. Freistadt 1668; 2a ed. aumentata, Freistadt 1673 (Vi è anche un Supplement di questa opera dello stesso autore, collo pseudonimo di Franci Irenici, Collegium Juris Publici, 1670).

Godofr. Ferd. VON BUCKISCH UND LOWENFELS (nativo della Slesia, primo evangelico, poi Cattolico, andò a Vienna al servizio dell'Imperatore). Observationes historico-politicae in I.P., Vienna 1694.

Ulr. OBRECHT (n. 1646, dal 1673 professore a Strasburgo, dal 1685 Cattolico, m. 1701), Brevis atque succinta expositio I.P. Caes. olim argentorati pro collegio privato cum auditoribus communicata, Francofurti 1702.

ANONIMO (cioè Henr. Hennig, professore a Frankfurt am der Oder, poi ambasciatore del Brandemburgo Elettorale a Regensburg, nonché ambasciatore anche alla elezione di Carlo VI, m. 1711) Meditationes ad I.P. Caes. Suec. Specimen I-10, Halae 1706-1712.

 

Naturalmente dell'aspetto giuridico della Pace di Westfalia si preoccupano tutti i trattati del Reichsrecht - cioè del diritto imperiale - e la cosa si comprende perché con la Pace di Westfalia non solo si determinava la reciproca posizione di potenza fra Kaiser e Stände, ma anche si dava all'Impero quell’ordinamento che lo conduceva ormai sulla via di diventare una confederazione di Stati. Per il qual motivo i trattati di diritto imperiale sono perciò stesso, entro certi limiti, anche trattati di diritto internazionale. Va detto anzi, in proposito, che molto spesso la valutazione politica più acuta, anche riguardo all'importanza internazionale del trattato di Westfalia, la si trova proprio nei trattati di diritto imperiale, poichè a questi non sfugge il grave pregiudizio derivato da quel trattato all’ unità politica del popolo tedesco.

I punti di contatto o di frizione tra il diritto interno dell'Impero e quello internazionale vengono messi in luce in quelle opere le quali si interessano delle garanzie imposte da potenze straniere e della determinazione dei diritti dei garanti.

S. NIGUARDI, Dispositio jurium et obligationum quae circa pacem Westphalicam in Imperio R.G. competunt regi ac regno Galliarum, Lugduni Batavorum 1750.

J.C.W. VON STECK, Von den Rechten und Pflichten der hohen Garants des Wesphälischen Friedens, in Abhandlungen aus dem teutschen Staat-und Lehnrechte zur Erläuterung einiger neuen Reichsungelegenheiten, 1757.

J.J. MOSER, Von der Garantie des Westphälischen Friedens nach dem Buchstaben und Sinn derselbige (di 65 pp.) 1767.

 

La giusta posizione politica degli Stati tedeschi dopo la Pace di Westfalia è presa in esame dalle seguenti opere che trattano problemi particolari:

J. von ROTH, Die zwei wichtigsten Reichsgrundgesetze I) Kaiserliche Wahlcapitulation; 2) Osnabrückischer Friede, nach originalien des Reichsarchivs zu akademische Vorlesungen bestimmte, Mainz 1788.

J.S. PUETTER, Geist der Westphälischen Friedens nach dem innern Gehalt und Wahren Zusammenhange der darin verhandelten Gegenstände historisch und systematistch dargestellt, Goettingen 1795.

N. Th. GONNER, Ueber Verhänderüngen der Religionsübung gegen den Zustand des Normaljahrs ein commentar über §§ 30 und 31 Art. V des Onsabrückischen Friedensistrumentum, Landshut 1802.

J.N. HERT, Tractatus juris publici statuum imperii R.G. iure reformandi juxta temporum seriem compositionis sc. Passavinae et pacis Guestphaliae, cur. J.Cp. Koch, Giessen 1770.

 

E' interessante notare come la Pace di Westfalia abbia dato origine anche a questioni di metodo, nel senso che non è mancato chi si è preoccupato di mostrare come talune norme della pace, in verità solo norme particolarissime, dovessero venire commentate e spiegate. Per questo genere di letteratura, a titolo puramente esemplificativo, ricorderemo i seguenti scritti:

E.M. CHLADEIUS, De abusu bullae Brabantinae ad illustrandum Pacis ex art. 9 § I, Viterbonae 1748 (di 44 pp.). L'art. 9 § I della Pace di Osnabrück dice tra l'altro: abusus bullae Brabantinae penitus bollantur. Questa disposizione viene qui illustrata a dimostrazione del modo onde singole particolari norme della Pace di Westfalia possono venire studiate.

F.J. KORTHOLT, Commentatio de expunctis in Pace Westphalica ad illustrandum art. 4 setc. II.P.O., Giessen 1751 (di 48 pp.). Nella Pace di Osnabrück art. 4 § I è disposto: «... ut, qui expresse non nominati vel expuncti sunt, propterea pro amissis vel exclusis non habeantur» - Henning pensava doversi leggere: non expuncti, ovvero così intendere. In questo scritto, invece, sulla base delle trattative, viene a ragione affermato il contrario.

 

Un problema specificamente tedesco che diventa di diritto internazionale solo di riflesso, è quello della pacificazione religiosa. Diciamo di riflesso perché la violazione di una delle norme della Pace di Westfalia riguardante la pacificazione religiosa avrebbe sempre dato modo alla Francia o alla Svezia - come garanti del trattato - di intervenire nelle questioni interne tedesche. Alla pacificazione religiosa in sé e per sé sono dedicate, beninteso, ampie parti o quanto meno notevoli cenni in quasi tutte le opere sopra ricordate, ma in via specifica si occupano di questo problema gli scritti seguenti:

J.C. BARTEL, Historia et generalia pacificationum imperii circa religionem, Würzburg 1736.

J.P. BANNIZZA, Subsidia interpretationis doctrinalis pacis religiosae et Westphalicae, Würzburg 1741.

          E' quasi un secolo che la pace è conclusa quando queste opere vengono stampate ma non bisogna pensare che esse abbiano solo un valore esegetico o scientifico in quanto non va dimenticato che se la questione religiosa non tornò a divampare in Germania, ciò fu dovuto alla circostanza che di fatto la Dieta Imperiale non ebbe più a sospendere i lavori, pur se, di diritto, essa si scioglieva alla morte di un Imperatore e si riconvocava all’incoronazione del successivo.

 

Degli Autori che si sono occupati della Pace di Westfalia dal punto di vista del diritto internazionale, si possono inoltre citare:

A. RAPISARDI MIRABELLI, Le Congrès de Westfalie, se negociations et ses resultats au point de vue de l'histoire du droit des gens, Lugduni Batavorum 1929.

A. RANDELZHOFER, Völkerrechtliche Aspekte des Heiligen Römischen Reiches nach 1648, Berlin 1967.

W. PREISER, Volkerrechtsgeschichte, in Strupp-Schlochauer, Wörterbuch des Völkerrechts, Bd. III, Berlin 1962.

R. TURRETINI, La signification des traités de Westphalie dans le domaine du droit des gens, Genève 1949.

 

Sull'argomento della mediazione, come già è stato osservato, non si possono citare molte opere giacché, per lo più, gli autori di diritto internazionale se ne sono occupati solo di sfuggita. Tra questi si possono qui ricordare:

C. FOURCHAULT, De la Médiation, Paris 1900.

F. FUNCK-BRENTANO, Le caractère religieux de la diplomatie du Moyen Age, in Revue d'histoire diplomatique, I, (1887).

W. SCHÜCKING, Das völkerrechtliche Institut der Vermittlung, Publication de l'Institut Nobel Norvégien, 1923.

DE LA BARRA, La médiation et la conciliation internationale, in Recueil des cours de l'Académie du Droit International 1923, Tome I.

D. ANZILOTTI, Corso di Diritto Internazionale, Vol. III, Roma 1912-1914.

G. ARANGIO-RUIZ, Controversie internazionali, in Enciclopedia del Diritto, X, Milano 1962.

G. SALVIOLI, Tutela dei diritti e interessi internazionali, Padova 1941.

 

Anche in questa ottica può essere di grande interesse consultare le opere degli studiosi di diritto internazionale più antichi, come:

H. GROTIUS, De Jure belli ac pacis libri tres, Hagae 1680.

S. PUFENDORF, De Jure naturae et gentium, 1672.

J. TEXTOR, Synopsis juris gentium, Basel 1680.

A. de WICQUEFORT, L'Ambassadeur et ses fonction, La Haye 1681.

C. WOLF, Jus gentium methodo scientifica pertractatum, Francoforte 1746. (nuova ed., con traduzione inglese, Oxford 1934).

E. de VATTEL, Le Droit des Gens, ou Principes de la loi naturelle appliqués à la conduite et aux affaires des nations et des souverains, Leiden 1758 (nuova ed. Neuchatel 1777).

 

Per quanto riguarda il nostro paese e limitatamente a Venezia che fu direttamente interessata non solo alle vicende belliche, ma anche alla conclusione del trattato, in quanto il suo ambasciatore straordinario svolse azione di mediatore, la letteratura è naturalmente molto vasta. Vedi per tutti:

R. SABBADINI, L’acquisto della tradizione: tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia (sec. XVII-XVIII), Udine 1995.

A. ZORZI, La Repubblica del Leone. Storia di Venezia, Milano 1979.

A. LODOLINI, Le repubbliche del mare (Biblioteca di storia patria), Roma 1967.

F. CHABOD, La politica di Paolo Sarpi, in Scritti sul rinascimento, Torino 1967.

G. CAPPELLETTI, Storia della Repubblica di Venezia, Venezia 1855, Tomo X.

S. ROMANIN, Storia documentata della Repubblica di Venezia, Venezia 1842-78.

 

 

 

 

Abstract

 

The article, that studies the Westphalia congress following the thirty year’s war, concentrates on the mediation role of the Republic of Venice on which the eventual settlement depended. It is shown how the process of mediation in international disputes was firmly grounded in the history of International Law, and which way the venetian mediator intended as his aim.

Particular attention is paid also to the constitutional order of the Holy Roman Empire as an outcome of the peace, in particular concerning the religious problems.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Lo studio che segue prende le mosse dalla relazione finale presentata al Meeting of the International Commission for the History of Representative and Parliamentary Institutions, in occasione del 350th anniversario della Pace di Westfalia (Vedila in Parliaments, Estates and Representation 19, 1999, 73 e ss.) e vuol essere l’anticipazione e l’annuncio di una ricerca più ampia

[2] Vedi E. BUSSI, Lo studio del Sacro Romano Impero della Nazione tedesca come Europäische Forschungsaufgabe, in Esperienze e prospettive, saggi di storia politica e giuridica, Modena 1976 (399-423). Lo studio, che rappresenta il testamento scientifico dello studioso, riproduce la lezione finale tenuta nella Università di Modena, dove l’a. ha insegnato sino al 1974. Compare anche come Das Recht des Heiligen Römischen Reiches Deutscher Nation als Forschungsvorhaben der modernen Geschichtswissenschaft, in Der Staat, Zeitschrift fuer Staatslehre oeffentliches Recht und Verfassungsgeschichte Band 16, Heft 4, 1977. Al Sacro Romano Impero come ‘modello’ di organizzazione fa riferimento S. CASSESE, Che tipo di potere pubblico è l’Unione Europea?, in Quaderni fiorentini XXXI, 2002, 141.

[3] R. FREIIN von OER, Der Immerwährende Reichstag und die höchsten Reichsgerichte, in Parliaments, Estates & Representation,17, 1997, 75.

[4] J.J. SCHMAUSS, Akademishe Reden und Vorlesungen, Lemgo, 1766, 211. E. BUSSI, Esperienze, cit., 420. Vedi anche J.J. MOSER, Teutsches Staats Recht (Teil 46), Frankfurt und Leipzig, 1751, 1; G.S. TREUER, Dissertatio de jure Statuum Imperii circa legatos exteros in comitiis, Helmstadt 1728 (e 1736).

[5] Vedi A. TENENTI, L’età moderna. La civiltà europea nella storia mondiale, II, Bologna 1997, 137 e ss.

[6] R. BIRELEY, The Jesuits and the Thirty Year War: Kings, Courts and confessors, Cambridge, 2003. Le conclusioni dell’a. si basano sulla comparazione della corrispondenza fra i superiori generali Muzio Vitelleschi e Vincenzo Carafa e i confessori delle corti di Austria, Baviera, Francia e Spagna, coincidendo sostanzialmente col giudizio negativo che della loro influenza sugli eventi del tempo avrebbe scritto il Pütter.

[7] J.S. PUETTER, Geist der Westphälischen Friedens, Göttingen 1795, 7 e ss.

[8] Già nel 1603 a Heidelberg i Protestanti avevano costituito una lega di mutua difesa, convenendo, fra l'altro, di rivolgere le armi contro quel principe fra loro che si fosse riconvertito al Cattolicesimo. Tuttavia fu nel 1610 che, dietro incoraggiamento di Enrico IV, a seguito di una assemblea tenuta a Hall in Svevia, si costituì la famosa Unione. La sua direzione fu affidata all'elettore palatino, e il comando delle truppe al principe di Anhalt. Su questo punto cfr. C.F. VON PFEFFEL, Abrégé de l'Histoire et du Droit Public d'Allemagne, Paris 1754, 469.

[9] Vedi M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, 367 e ss.

[10]Cfr. W. SELLERT, voce Landeshoheit, in Handbuch zur Deutsche Rechtsgeschichte, 14, pag. 1388‑1394.

[11] Una interessante interpretazione di questo momento storico viene fornita da Oswald Spengler, il quale vi vuole riconoscere, in coerenza con la sua particolare teoria della Storia, il verificarsi di un fenomeno - comune a suo modo di vedere a tutte le Civiltà - e cioè l'inizio del "periodo tardo", che vede, in campo spirituale, la formulazione di una visione puramente filosofica del mondo, nell'arte la maturità del Barocco e in politica il trapasso definitivo dalle strutture feudali al concetto di Nazione. Cfr. O. SPENGLER, Il tramonto dell'Occidente, Milano 1957, 1254 e ss.

[12] Vi fu chiaramente un nesso di interdipendenza fra l'economia e la politica, ma sembra che la perdita del vigore economico sia stata in maggior misura causa anziché effetto della decadenza politica. Cfr. J. PIRENNE, Les grands courants de l'histoire universelle, Neuchatel 1944, II, 561.

[13] Su ciò L. BUSSI, Fra unione personale e Stato sovranazionale. Contributo alla storia costituzionale dell’Impero d’Austria, Milano 2003.

[14] Sulla questione della successione di Jullier-Clèves, vedi la chiara esposizione di PFEFFEL, Abregè de l'Histoire et du Droit Public de Allemagne, Paris 1754, 467-468.

[15] Gli Stati boemi avevano indugiato a lungo fra il duca di Savoia e l'elettore sassone prima di fermarsi su Federico.

[16] Della quale fu investito segretamente il 28 agosto 1621. Vedi L. BÈLY, Les relations internationales en Europe XVIIe-XVIIIe siècles, Paris 1992, 73.

[17] Così scriveva al Kaiser il 27 luglio il Residente imperiale in Roma: «Il Papa offerrisce dar per aiuto alla Maestà Cesarea ne i presenti rumori di Boemia sessantamila fiorini da pagarsi diecimila ogni mese pro rata, con l'infrascritte e condizioni. Prima, che l'imperatore e il Re Ferdinando faccino guerra attuale  e formata, contro i Ribelli heretici di Boemia. Secondo, che concorrino a detta guerra con le forze loro proporzionalmente. Terzo che il Re Cattolico e i principi dell'Imperio concorrino ancor essi ad aiutar Sua M.tà in questo bisogno, acciò gl'aiuti di Sua Beat., ne non sian inutili. Quarto, che in evento, che li tumulti si accomodino avanti il fine di sei mesi, Sua Beat. ne non sia tenuta a sborsar maggior quantità, che la rata di dieci mila fiorini, ogni mese, che dureranno li romori».

Cfr. H. von ZWIEDINECK - SÜDENHORST, Die Politik der Republik Venedig während des dreissigjährigen Krieges, Stuttgart 1882, I, 274.

[18] L. BUSSI, Fra unione, cit., 285. Il G. TURBA, Die Grundlagen der pragmatischen Sanktion, I, Ungarn, Leipzig – Wien 1911, pag. 1, vi vede l'influenza delle teorie del diritto naturale e del principio groziano che il vincitore non fosse tenuto necessariamente a restituire al paese conquistato la condizione giuridica precedente, nè fosse più questa la base della legittimazione del suo governo.

[19]Vedi Der Röm. Kays. auch zu Hungarn und Böheim, u. Königl. Majestaet Ferdinandi des Andern, u. Verneverte Landes-Ordnung Deroselben Erb- Königreich Boheim. Das Jus publicum betreffend, in Historische Aktenstuecke über das Ständewesen in Österreich, Leipzig 1847, II, 8 e ss. ; Cfr. su ciò U. FLOSSMANN, Landrechte als Verfassung, Wien-New York 1976, pag. 196 e ss.; F. WALTER, Österreichische Verfassungs- und Verwaltungsgeschichte von 1500-1955, Wiwn, Köln –Graz 1972, 61.

[20] Vedila in Historische Aktenstücke, cit., pagg. 3-5; in argomento si veda pure quanto osservato da O.HINTZE, Der österreichische und der preussische Beamtenstaat im 17. Und 18. Jahrhundert, in Staat und Verfassung. Gesammelte Abhandlungen zur allegemeine Verfassungsgeschichte (a cura di G. Oestreich), Göttingen 1970, I, 327; cfr. HASSINGER, Ständische Vertretungen in den althabsburgischen Ländern und in Salzburg, nel volume collettaneo a cura di D. Gerhard, Ständische Vertretungen in Europa im 17. und 18. Jahrhundert, Goettingen 1969, 249.

[21] A Massimiliano di Baviera l'imperatore aveva impegnato l'Austria superiore a garanzia delle somme da lui ottenute per fare la guerra a Federico.

[22] Ciò avvenne con la Dieta di Ratisbona. Tale Dieta non fu generale; l'imperatore si era accontentato di chiamare gli elettori e qualche principe assolutamente devoto alla sua volontà. Ferdinando comunicò la sua decisione riguardo al trasferimento dell'elettorato. Le opposizioni degli elettori del Brandeburgo e della Sassonia come pretendenti più prossimi del Palatinato, non furono ascoltate: gli elettori ecclesiastici e i principi cattolici avevano dato il loro consenso al trasferimento. Federico si pronunciò a favore della maggioranza delle voci e investì solennemente il duca di Baviera del quinto elettorato. Cfr. PFEFFEL, op. cit., 493.

[23] Cfr. J. St. PUETTER, op. cit., 17.

[24] Cfr. PFEFFEL, op. cit., 499.

[25] Cfr. J. St. PUETTER, op. cit., 21.

[26] Cfr. DICKMANN, Der Westfälische Frieden, Münster, 1965, 77 e 530.

[27] Vedila in ACTA PACIS WESTPHALICAE, a cura di M. Braubach e K. Repgen, Münster 1962, Serie I: Istruzioni, vol. I, 18.

[28] Salvius a Langerman, Minden, 16 September 1643, in APW, Die schwedischen Korrespondenzen, I, 1643-1645, pubbl. E. M. Wermter, Münster, 1965, 40; J.G. von MEIERN, Acta Pacis Westphalicae publica, Hannover 1784, I, 337. A.Böckenförde, Die Westfälische Frieden, 354.

[29] Sull'argomento cfr. F. CHABOD, La politica di Paolo Sarpi, in Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, 459-588.

[30] Joh. Bapt. Lenk all'elettore Palatino e al Marchese di Anhalt, in ZWIEDINECK SUDENHORST, op. cit., 18.

[31] Cfr. Lettera all'Ambasciatore in Corte Cesarea, 1 sett. 1618 in ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 276.

[32] Lettera 15 sett. 1618 di L. Ridolfi al Kaiser Mattia, in ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 276.

[33] Venezia, Archivio di Stato, Esposizione principi, 3 aprile 1619, cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 281.

[34] Venezia, Archivio di Stato, Senato Secreta 4 dic. 1620, Savii del Consiglio dei Savii di T.F., cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 294.

[35] I capitoli di questa lega si trovano in Venezia, Archivio di Stato, Commemoriale, XXVII, c. 186-188, cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 284 e segg.

[36] Cfr. H. von ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 67.

[37] Venezia, Archivio di Stato, Esposizione principi, Conferenza di Agenzia in collegio 30 giugno 1621, cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 301.

[38] Vedi ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 173.

[39] «Andato io dunque – riferisce Gritti al Senato – la sera del giorno di S. Silvestro a palazzo, nell'uscire che fece l'imperatore dalle sue stanze, incontrammo l'ambasciatore il quale si pose alla destra del Nunzio essendo io alla sinistra. Gionti poi alla Cappella si trattenne egli per buon spazio nel gabinetto con S. Mtà. Venne poi al luogo ordinario degli Ambasciatori ed essendomi io con gli altri levato per salutarlo, come mi fu apresso, mi disse, parlando in Lingua Spagnola, bacio le mani di VS, aì che io risposi: Sermo Sig.re; Replicò l'Amb.re io ho detto, che no voglio trattare del pari con V.S. et io soggionsi faccia dunque ogniuno li fatti suoi, e nel trà lui e me, l'istesso fece l'Ambr. di Toscana, spingendo me dall'altra parte. Venne poi il Sr. di Echemberghe e si trattenne per buon spatio con l'Ambasciator di Spagna e si fermò poi anche con me. Nella Capella sedevimo con ordine confuso, doppo arrivò l'Ambr. di Spagna, perché stimano bene che il detto Ambr. non sedesse appresso di me, stassimo però tutti nella fila medesima». Vedi ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 264.

[40] Cfr. G. CAPPELLETTI, Storia della Repubblica di Venezia, Venezia 1855, Tomo X, 118.

[41] Per tale convenzione gli Spagnoli sarebbero usciti dalla provincia, sarebbe stata tutelata  la religione cattolica; si prevedeva, comunque, un congresso da tenersi in Lucerna al quale avrebbero dovuto partecipare Roma, la Francia e la Spagna; si ribadiva inoltre l'inviolabilità delle antiche capitolazioni tra i Grigioni e l'Austria. Ma l'Arciduca Leopoldo del Tirolo obiettò che tale convenzione era stata stipulata senza di lui e forzò i confini della Valtellina. Cfr. G. CAPPELLETTI, op. cit., Tomo X, 119.

[42] La cosa era stata suggerita a Venezia dal suo Segretario in Zurigo Lionello. Cfr. Lettera al Sec.rio Lionello a Zurich, 1621/20. 30 gennaio, in ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 200.

[43] Vedi la lettera all'ambasciatore in Francia (Giovanni Pesaro) dell'11 Marzo 1623, in ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., II vol., 215.

[44] Cfr. G. CAPPELLETTI, op. cit., tomo X, 145.

[45] Su tutto l'argomento cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 57.

[46] Il discorso è riportato in G. CAPPELLETTI, op. cit., vol. X, 155.

[47] Cfr. la lettera del 18.1.1628, all'ambasciatore in Francia, in ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 201.

[48] Vedi la relazione di Pietro Vico sull'incontro con Werdenberg dell'8 marzo 1628, Venezia, Archivio di Stato, Dispacci Germania; cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., II, 234.

[49] Su questo punto cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 237.

[50] Venezia, Archivio di Stato, Dispacci Germania, Relazione del Segretario Veneto in Germania al Senato, 22.3.1628; il decreto imperiale cui si accenna è riportato interamente in H. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 243.

[51] Nella discussione in Senato la tesi riportata fu sostenuta da Simone Contarini, vedi G. CAPPELLETTI, op. cit., Vol. X, 158.

[52] “Ponderate a Sua M.tà, come con forme nuove si miri all'arbitraggio di tutte le successioni di Stati d'Italia, ed al possesso, per questa via sicuro, di quelli sovra quale vi cadesse alcuna contesa..." - Venezia, Archivio di Stato, Senato Secreta, Lettera all’ ambasciatore in Francia, 31 marzo 1628.

[53] Per la corrispondenza Zorzi - Contarini vedi Venezia, Biblioteca di S. Marco, Legato di Girolamo Contarini, 1843, LXXXIV F. 5 Classe VII Cod. Raccolta di lettere scritte da diversi.

[54]See G. BENZONI, Contarini, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma, 1983, 82; S. ANDRETTA, La diplomazia veneziana e la pace di , in Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, XXXVII -XXVIII (1975-1976), 1-129.

[55] Vedile in ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 264.

[56] ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 122.

[57] Vedi ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 131.

[58] E’ la peste descritta da Manzoni ne “I promessi sposi”.

[59] Vedi ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 173.

[60]"A voi si invieranno lettere di credito perché abbiate modo di esborsare a codesto Amb.re di Svezia quella somma di denaro che sarà stabilita in Francia dall'Amb.re nostro Contarini, procurando ancor voi, se possibile sarà di esser certi che la somma spettando alla Francia che dovrà essere duplicata della nostra, venga all'istesso Rè di Svezia effettivamente sborsata" - Lettera all'Am.re a L’Aja. 14.6.1630; Venezia, Archivio di Stato, Senato Secreta.

[61] L'ambasciatore che la Repubblica inviò, Giovanni Grimani, ricevette infatti una accoglienza solenne. L'imperatore in persona si mosse ad accoglierlo alle porte della città, con un corteo di più di sessanta carrozze; alla prima udienza si levò il cappello tre volte, concedendogli poi, nelle udienze successive, quelle particolari prerogative che, nella etichetta diplomatica del tempo, erano segno di grande considerazione e onoreCfr. "Relatione de S. Giovanni Grimani Cau. ritornato dalla Amb.ria di Germania. Letta nell'Ecc.mo Senato a 13 marzo 1641". In J. FIEDLER, Die Relationen der Botschafter Venedigs über Deutschland und Österreich im 17. Jahrhundert, Bd I (= Fontes Rerum Austriacarum, Abt  II, XXVI) Wien 1866, 238.

[62] «Onde Ecc.mi SSri finalmente concludo che essendo Alemanni di buona mente (per ciò che riguarda il presente affare dei Turchi) sperano bene di noi, bene di loro stessi: e quando non segua la Pace, che in questo caso farebbero certo de miracoli; io dico sicuramente alle SSrie. Vre. Illme. et Eccell.me che poco capitale si debba fare de loro aiuti, perché non ne vedo il modo ne meno la disposizione, mentre anch'essi ne conoscono l'impossibilità». Cfr. Relatione dell'Amb. Grimani delle cose presenti di Germania sotto il 22 gennaio 1638, in J. FIEDLER, op. cit., I, 221.

[63] Cfr. Relazione dell'Amb. Grimani delle cose presenti di Germania sotto il 22 genn. 1638, in J. FIEDLER, op. cit., 223.

[64]Cfr., sul punto, G. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale, Padova7, 1967, 376; Vedi anche  la definizione che trovasi nel Wörterbuch des Völkerrecht und der Diplomatie, Berlin, 1925, ove alla voce Vermittlung, si legge: "Die Bemühungen eines oder mehrere Staaten in einer gespannten Situation in der sich andere befinden, das friedliche Verhältniss zwischen diesen aufrecht zu erhalten und dadurch einem Kriege vorzubeuchen,nennt man Gute Dienste (bons Offices). Bestehen diese Bemühungen darin, auf Ersuchen der Streitteile oder doch mit deren Zustimmung Vorschlage zur Beilegung des Konfliktes zu machen, so spricht man von Mediation oder Vermittlung". Da ultimo cfr. B. CONFORTI, Diritto interna­zionale, Napoli, 1987, 396 e 407. La differenza è stata legata (vedi C. FOURCHAULT, De la médiation, Paris, 1900, 55) al fatto che "Les bons offices ne sont pas, comme la média­tion, l'apanage exclusif des états. On concevrait fort bien qu'un ministre public interpo­sait ses bons offices, non pas au nom de son gouvernement, mais de sa propre initiative et au son nom personnel". Era in questa ottica che, anche quando si negava alla Chiesa catto­lica la personalità di diritto internazionale alla pari degli altri Stati, non si discono­sceva al Papa il diritto di offrire i suoi buoni uffici per impedire  una guerra o favori­re la pace. UBERTAZZI, Contributo alla teoria della conciliazione delle controversie interna­zionali davanti al CdS, Milano, 1958, 4, rilevò una tendenza alla svalutazione delle peculiarità dei diversi procedimenti. Tale osservazione, e la deduzione che mediazione e buoni uffici siano equipollenti, non è condivisa dal R. QUADRI, Diritto internazionale pubblico, cit., 241. Tuttavia è stato rilevato come la necessità di non alterare l'equilibrio fra i due grandi blocchi che si sono contrapposti fino a ieri, e il persistente attaccamento ad una concezione troppo rigida della propria sovranità abbiano portato, a preferenza dei procedimenti suaccennati, alla crescita delle diverse tecniche della conciliazione: su ciò U. VILLANI, La conciliazione nelle controversie internazionali, Napoli, 1979, 6.

[65] Stari autem debet sententiae arbitri quam dixerit sive aequa sit sive iniqua. D.IV, 8, 27, 2.

[66]Una netta chiarificazione di tale differenza trovasi in G. MORELLI, La sentenza interna­zionale, Padova, 1931, 14 e ss.

[67]Per la Convenzione dell'Aja per il regolamento pacifico delle controversie del 29 luglio 1899 e 18 ottobre 1907, il ruolo del mediatore sarebbe volto «...à concilier les prétensions opposèes et à appaiser les ressentements qui peuvent s'être produit entre les Etats en conflit». La convenzione  stabilì alcuni punti fermi: a) che gli Stati estranei ad una controversia avevano il diritto di offrire i propri buoni uffici o la loro mediazione, e che l'esercizio di questo diritto non doveva essere riguardato come un atto ostile; b) che buoni uffici e mediazione hanno esclusivamente il carattere di un consiglio, e non possono avere mai valore vincolante; c) che l'accettazione di una  mediazione non comportava di per sè l'interruzione delle operazioni militari, quando la guerra fosse esplosa prima della accettazione della mediazione stessa, a meno di un apposito accordo in tal senso. Cfr. E. BOREL, L'acte général de Genève, in Recueil des Cours de l'Académie de droit international, 1929, II, 504 e ss.; F. SCHUMAN, International Politic, N.Y., 1953 (5a), 149; U. VILLANI, op. cit., 15 e ss.

[68] E’ stato notato (L. DELBEZ, Les principes généraux du droit international public, droit de la paix, droit préventif de la guerre, droit de guerre, Paris 1964, 485, 16) come proprio buoni uffici e mediazione lascino affiorare con particolare evidenza quanto la pretesa eguaglianza degli Stati – sancita dall’art. 2 della carta dell’ONU – sia contraddetta dall’ineguaglianza dei mezzi e delle risorse.

[69] La preoccupazione, espressa specialmente dagli Stati meno potenti nei confronti della mediazione, deriva proprio dal fatto che tale istituto, con lo scopo apparente di fornire una soluzione delle controversie, si presta in realtà ad abusi da parte delle potenze maggiori, come dimostra l'esperienza del XIX secoloVedi su ciò L. BUSSI, Mediazioni e arbitrati fra Medioevo ed Età Moderna, in Diritto@storia, n.4, 2005 < http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Bussi-Mediazione-e-arbitrati.htm >.

[70] Cfr. C. DE VISSCHER, Justice et médiation, in Rev. de droit int. et de lég. comp., 1933, 414-420. Se nell'ipotesi di una carenza del diritto si deve vedere una vera lacuna, questa si presenterà, in questo caso, come l'assenza di una norma convenzionale o consuetudinaria applicabile alla fattispecie nell'insieme delle norme giuridiche in vigore. Ma spesso le parti desiderano che a regolare la controversia sia un diritto nuovo e migliore dell'esistente, e di conseguenza domandano all'organo giudiziario scelto sia la modificazione della regolamentazione giuridica, se si tratta di una controversia politica, sia il suo superamento in sede di decisione arbitrale, se si tratta di un giudizio equitativo in una controversia giuridica. La modifica della normativa  esistente nella quale sfocia la soluzione di una controversia politica, può consistere sia nella aggiunta di norme nuove alle antiche, sia nella sostituzione di queste con quelle, cioè nella produzione di diritto nuovo. In questo caso, a rigore, non si dovrebbe parlare di lacune del diritto. Cfr. L. SIORAT, Le problème des lacunes en droit international, Paris 1958, 99 e ss. 

[71] Cfr. SCHÜCKING, op. cit., pag. 13; RANDELZHOFER, op. cit., 224; ARANGIO-RUIZ, op. cit., 398.

[72] Cfr. G. SALVIOLI, op. cit., 9, nota 2.

[73] ARANGIO-RUIZ, op. cit., 398.

[74] Per mediazione e buoni uffici come categoria di diritto processuale internazionale vedi SCHÜCKING, op. cit., 23 e ss.; cfr. anche ARANGIO-RUIZ, op. cit., 396.

[75]Così V. ARANGIO-RUIZ, voce Controversie internazionali, in Enciclopedia del diritto, X, 1962, 384.

[76]In tal senso A. MIGLIAZZA, Il fenomeno della organizzazione e la Comunità internazionale, Milano, 1958, 129. Non a caso, in quelle comunità parziali che sono caratterizzate da un più stretto vincolo sociale, l'obbligo del previo esperimento di mezzi pacifici di solu­zione delle controversie è una delle manifestazioni più rilevanti di tale vincolo. Così nel Patto della Società delle Nazioni, che non solo rendeva obbligatorio l'esperimento dell'arbitrato per le controversie eventualmente sorgenti fra le Potenze firmatarie, ma stabiliva anche che, ove l'arbitrato non fosse stato accettato, allora diveniva obbligatoria la mediazione, intesa come mediazione del Consiglio, e riguardata come il mezzo elettivo per la soluzione delle controversie politiche. Va notato che, mentre la prima Convenzione dell'Aja stabiliva che si dovesse ricorrere alla mediazione "en tant que le circonstance le permettront", i termini dell'art. 12 del Patto della Società delle Nazioni erano assai più vincolanti: "les membres de la societè conviennent" ovvero "ils se soumettront". Vedi L. CAVARÉ, Le droit international public positif, II, Paris 1962, 188 e ss. Anche la Carta dell'ONU, dichiarando che scopo dell'Organizzazione è quello di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, obbliga gli Stati firmatari ad esperire anzitutto mezzi di soluzione pacifica per i loro conflitti, e addita la mediazione fra essi, soprattutto per le controversie non giuridiche. L'ONU stesso, come organizzazione, può svolgere il ruolo di mediatore, tramite i suoi organi principali, Consiglio di Sicurezza e Assemblea generale, che avrebbero il compito di promuovere la soluzione di quelle controversie "la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale". Si è parlato addirittura di un "dovere" dell'ONU di svolgere opera mediatrice. Anzi, l'art. 2, par. 4 della Carta non proteggerebbe solo gli Stati membri, ma anche i non-membri. A tale "dovere" corrisponderebbe un correlativo diritto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale: la Carta conferirebbe ad ogni Stato-membro, così come al Segretario Generale, il diritto di invocare la mediazione collettiva delle Nazioni Unite, portando all'attenzione del Segretario Generale o dell'Assemblea ogni controversia o ogni situazione suscettibile di creare una frizione o dar luogo ad una controversia (art. 34 e 35). Sul punto vedi OPPENHEIM, International Law, cit, 11; sulla tendenza ad attribuire alle organizzazioni internazionali non solo il compito di promuovere la stipulazione di convenzioni collettive, ma anche quella della sorveglianza della loro esecuzione vedi R. AGO, Considerazioni su alcuni sviluppi dell'organizzazione internazionale, in La Comunità internazionale, VII, 1952, 24 (dell'estr.).

[77] Vedi L. BUSSI, I trattati e la guerra: la lunga traccia della consuetudine internazionale. L’antico testamento, in Diritto @ Storia, 13, 2015 < www.dirittoestoria.it/13/memorie/Bussi-Trattati-guerra-antico-testamento.htm >.

.

[78] Nel 3000 a.C., i Sumeri avevano sviluppato quella che è ritenuta la prima civiltà della Mesopotamia. Essa ci appare sviluppata in città- Stato, in costante conflitto per il controllo delle acque. Gli scavi delle rovine di Lagash portarono alla luce circa 30.000 tavolette d’argilla, le cui iscrizioni rivelano con straordinaria minuzia l’amministrazione di un antico tempio babilonese, che era a un tempo centro industriale, commerciale e agricolo. Si è così venuti a conoscenza del fatto che il re di Kish, Mesilim, è stato arbitro di una controversia che opponeva due città del meridione babilonese, Lagash e Umma. Il trattato di delimitazione concluso in tale occasione, di cui si possiede il testo  iscritto su una tavoletta recentemente scoperta, ricorda che dietro comando del dio Enlil, “re delle nazioni”, Ningirsu, divinità principale di Shirpula, e il dio di Gishku, decisero di tirare una linea di demarcazione fra i loro rispettivi territori, e che Mesilim, re di Kish, guidato dalla sua propria divinità, Kadi, segnò il confine e innalzò una stele fra i due territori a memoria della definizione della frontiera. La politica di definire la frontiera con un arbitrato sembra abbia avuto successo e assicurato la pace fra i due territori per qualche generazione. g Cfr. J. PIRENNE, La paix, cit.

[79] Umma (la moderna Tell Jokha), durante l’invasione dell’Iraq del 2003 fu danneggiata dai bombardamenti. Il sito archeologico è stato distrutto, con grave danno della ricerca scientifica. 

[80]Dalla controversia sarebbero stati coinvolti tre principi di Lagasca: Eanatum, Enannatum I, fratello e successore di Eannatum e infine Entemenas, figlio e successore di Enannatum I. Per ulteriori approfondimenti, vedi A. POEBEL, Der Konflikt zwischen Lagash und Umma zur Zeit Enannatums I. und Entemenas, in Oriental Studies, Paul Haupt Anniversary Volume, Baltimore-Leipzig, 1926, 220-266. Vedi l'analisi approfondita che viene fatta dei documenti concernenti la composizione del conflitto da W.PREISER, Zum Völkerrecht der vorklassischen Antike, in Archiv des Völkerrechts,4 Bd., 3 H., 1954, 260 e ss.; L. DELAPORTE, op. cit., 78.

[81] In tal senso M.N. TOD, International Arbitration among the Greeks, Oxford, 1913, 171; J. PIRENNE, La paix, cit., 201.

[82] A. POEBEL, op. cit, 222.

[83] W. PREISER, Zum Völkerrecht, cit., 268.

[84] Ad essa rinvia P. CATALANO, Linee del sistema sovranazionale romano, I, Torino 1965, 12-43. Più chiaramente F. SINI, Religione e sistema giuridico in Roma repubblicana, in Diritto @ Storia, 3, 2004 < www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Sini-Religione-e-sistema-giuridico.htm >. Al fattore religioso Jacques Pirenne riconosce, nel processo di fusione delle varie entità politiche minori – tanto nell'antico Egitto, come in Mesopotamia – una funzione  catalizzatrice verso un potere regale unico cui la sanzione religiosa avrebbe fornito carattere di legittimità: J.PIRENNE, La paix, cit., 206.

[85] L. BUSSI, I trattati e la guerra, cit.

[86]Cfr. DE LA BARRA, La Médiation et la conciliation internationale in Recueil des cours de l'Academie du droit Internationale, 1923, I, 561. V. BÉRARD, De arbitris inter liberas Graecorum Civitates, Lutetiae Parisio­rum, 1894; C. PHILLIPSON, The international Law and Custom of Ancient Geece and Rome, London, 1911; A. RAEDER, L'arbitrage international chez les Hellènes, Christiania, 1912; M.N. TOD,  International Arbitration among the Greeks, Oxford, 1913; M. DE TAUBE, Les Origines de l'arbitrage international. Antiquité et Moyen Age in Recueil des Cours de l'Académie de droit internatio­nal,1932, IV, 18; F. ADCOCK - D.J. MOSLEY, Diplomacy in Ancient Greece, London 1975, 186; V. ILARI, Guerra e diritto nel mondo antico, I, Guerra e diritto nel mondo greco-ellenistico fino al III secolo, Milano 1980, 39.

[87] L. PICCIRILLI (a cura di-), Gli arbitrati interstatali greci, I dalle origini al 338 a.C., Pisa 1973; II Dal 337 al 196 a.C., Pisa 1997.

[88] Secondo Igino arbitrata da Giove, secondo Varrone risolta da una sorta di referendum fra tutti gli abitanti della regione. Il mito reca fra l'altro traccia del passaggio da una società senza prevalenza di sesso, ad una società patriarcale. L. PICCIRILLI, Gli arbitrati, I, cit., 233 e ss.

[89] La controversia, secondo Pausania, sarebbe stata risolta grazie a Briareo,il quale, fungendo da mediatore (diallaktes) propose che si attribuisse a Poseidone l'istmo e i suoi dintorni e ad Elios le alture dominanti la città. Vedi L. PICCIRILLI, Gli arbitrati, I, cit., 242.

[90] Le molte fonti che ne parlano in L. PICCIRILLI, Gli arbitrati, I, cit., 277.

[91] Del mortale Eaco che per la sua imparzialità viene scelto a fare da arbitro anche nelle contese degli dei parla Pindaro, Isthmia 8.21-24. Cfr. L. PICCIRILLI, Gli arbitrati, I, cit., 245.

[92] E. DE RUGGIERO, L’arbitrato pubblico in relazione al privato presso i Romani, Roma 1893; M.R. CIMMA, Reges socii et amici populi romani, Milano 1976; E. TAÜBLER, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reichs. I:Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Leipzig 1913; A. HEUSS, Die völkerrechtliche Grundlagen der römischen  Aussenpolitik in republikanischer Zeit, (Leipzig 1933), 2nd ed., Aalen 1968.

[93] La tesi è sostenuta validamente da M.R. CIMMA, Reges socii et amici, cit., 336.; cfr. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, Napoli 1973, II, 11-63; 37 e ss., 44 e ss.; B. PARADISI, L'amitié internationale. Les phases critiques de son  ancienne histoire, in Rec. des Cours, 1951, 329 e ss.

[94]Per il quale Roma non avrebbe mai riconosciuto altri Stati come pari a sè: i socii fuori d'Italia stavano con Roma in condizione di soggezione, analogamente ai  foederati latini e italici. T.MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, Lipsia, 1887, rist. Graz 1952, v.III, pp.645-650. Ripercorre l’evoluzione della critica F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico“, Sassari 1991, 34 e ss.

[95] M.R.CIMMA, op. cit., 132 e ss.

[96] F. SINI, op. ult.cit., 92 e ss.; M.R. CIMMA, I Feziali e il diritto internazionale antico, in Ius Antiquum-Drevnee pravo. 1(6), 2000, 24 ss.

[97] L. BUSSI, Echi dello jus belli romano nella dottrina canonistica della guerra giusta, in Ius antiquum, 1 (13) 2004, 130 e ss.; IDEM, Il problema della Guerra nella prima civilistica, in A Ennio Cortese, Roma 2001, I.

[98] «Si officii nostri est omnibus sua jura defendere ac inter eos componere pacem, ac stabilire concordiam multo magis ratio exigit atque usus utilitatis exponit, ut sancimus charitatem inter maiores, quorum pax aut odium redundat in plurimos». Vedi S. Gregorii papae operum, p. I, reg., l.II, ep. LXX, in MIGNE, P.L., CXLVIII, col. 421.

[99] A partire da S. Paolo (Ebrei, 9.15; I Timoteo II.5) al concetto di mediazione soprannaturale si richiama sempre più spesso il pensiero cristiano.

[100] L'idea viene avanzata al Concilio di Parigi del 825, vedi M.G.H., Concilia, II, 2, 549, e richiamata successivamente a più riprese. Vedi la dichiarazione di Callisto II al Concilio di Reims nel 1119 in MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 1776, XXI, 240.

[101] P. BELLINI, Il gladio bellico. Il tema della guerra nella riflessione canonistica dell’età classica, Torino 1989, 57 e ss.

[102] Cfr. SCHÜCKING, Das völkerrechtliche Institut der Vermittlung, Publication de l'Institute Nobel Norvégien, 5, 1923, 2.

[103] Il Kamp attribuisce a questa circostanza il fatto che venisse attribuita loro – e non al loro mandante – il merito della pace. Vedi H. KAMP, Vermittler in den Konflikten des hohen Mittelalter, in La giustizia nell’alto Medioevo (Secoli IX-XI), II, Spoleto 1997, 677. Essi venivano chiamati concordiae et pacis ordinatores ovvero pacis intercessores o anche mediatores pacis.

[104] L. BUSSI, Mediazioni e arbitrati fra medioevo ed età moderna, cit.

[105] Cfr. RANDELZHÖFER, Völkerrechtliche Aspekte des heiligen Römisches Reiches nach 1648, Berlin 1967, 224.

[106] H. GROTIUS, De jure belli ac pacis libri tres, III, XX, § XLVI (ed. a cura di B.J.A. De Kanter – van Hettinga Tromp, con note di Feenstra e C.E. Persenaire), Aalen 1993 = Lugduni Batavorum 1939, 843.

[107] COLEGROVE, op. cit., 451.

[108] U. GROTIUS,  De jure belli ac pacis XXIII, 6.

[109] K. COLEGROVE, Diplomatic Procedure preliminary to the Congress of Westphalia, in Am. Journ. of Intern. Law, 13 (1919), 45.

[110]BOGUSLAV v. CHEMNITZ (Hippolitus a Lapide): Königlicher Swedischer in Teutschland gefürter Kriegs, Stettin 1648.

[111] E. VATTEL, Le droit des gens, Leiden 1758, I, 518-519.

[112] BULMERINCQ in (Holtzendorff) Handbuch des Voelkerrechts, IV, 17.

[113] Cfr. SCHÜCKING, op. cit., 15, ANZILOTTI, op. cit., 33.

[114] Tale fu quella che il Papa si arrogò - e che gli venne riconosciuta - nel caso della disputa per la corona imperiale fra Ottone di Sassonia e Filippo di Svevia. Sulla potestà del Papa in caso di vacanza della carica imperiale, cfr. W. ULLMANN, Principi di governo e politica nel Medioevo, tr. it., Bologna 1972, 109. In questa ottica, il Papa riteneva di essere arbitro ex officio nelle questioni temporali. Quando Filippo Augusto  si oppose a tale concezione, il Papa riaffermò il diritto contestato, in virtù dell'idea che la pace è un dovere per i Cristiani e che al capo della Chiesa aveva il diritto di imporla loro. Vedi MIGNE, P.L. CCXIV, Reg. de negotio imperii, Epistola CLXXXV.

[115] Circa l’arbitrato di Bonifacio VIII, vedi DUMONT, Corps Universel Diplomatique, I, I, 299.

[116] T. SCHMIDT, Der Bonifaz-Prozess. Verfahren der Papstanklage in der Zeit Bonifaz' VIII. und Clemens V., Wien 1989. La lettera di Federico II in M.G.H., LL, II, p. 355. Contra P. BELLINI, L'obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico, Milano 1964, 426, il quale cita tale lettera come prova dell'avvenuta trasformazione della giurisdizione disciplinare ecclesistica generale propter crimen in una giurisdizione ecclesiastica generale in temporalibus rebus.

[117] WOLFF, Jus Gentium methodo scientifica pertractatum, Francoforte 1764, VIII (De Pace pactione pacis), 1036.

[118] Vedi in merito L. BUSSI, Il problema della guerra nella prima civilistica, in A Ennio Cortese, Roma 2001, I, 149.

[119]Per la critica di Pufendorf a Grozio vedi M. PANEBIANCO, Ugo Grozio e la tradizione storica del diritto internzionale, Napoli, 1974, 105-110; M. BAZZOLI, La concezione pufendorfiana della politica internazionale, in V. Fiorillo (a cura di- ) Samuel Pufendorf filosofo del diritto e della politica , Atti del convegno internazionale Milano, 11-12 novembre 1994, Napoli, 1996, 48.

[120]S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium libri octo, Amsterdam 1672, V, XIII, 7. (CIL, 5, Oxford, 1934)

[121] Cfr. C.V. WEDGWOOD, The TirtyYears’ War, it. tr. La guerra dei trent’anni, Milano 1991, 110.

[122] J. W.TEXTOR, Synopsis Juris Gentium, Basel 1680, XX, 50-61.

[123] CORNELIUS VAN BYNKERSHOEK, Quaestiones Juris Publici libri duo, I, 25, n. 10. Nello stesso senso A. DE WICQUEFORT, L'Ambassadeur et ses fonction, La Haye 1681.

[124] Cfr. G. ARANGO-RUIZ, voce Controversie internazionali, in Enciclopedia del Diritto, vol. X, Milano 1962, 398-399. Cfr. anche SCHÜCKING, op. cit., 18. Anche nella Convenzione dell'Aja del 18 Ottobre 1907, art. 2, il ricorso alla mediazione è lasciato ad un apprezzamento discrezionale en tant que les circonstances le permettront.

[125] ANZILOTTI, op. cit., 33: «in questo caso il dovere degli Stati firmatari è quello di provocare, chiedere la mediazione. Ma può consistere anche semplicemente nel tollerare che l'intromisisone si eserciti se e in quanto lo Stato o gli Stati che dovrebbero esercitarla lo reputino conveniente. Al dovere di chiedere e consentire la mediazione può corrispondere tanto una semplice facoltà quanto un vero e proprio dovere di intervenire». Il ricorso ai Buoni uffici e alla mediazione è previsto dallo Statuto delle Nazioni Unite che a) li annovera fra i mezzi politici che le parti dovrebbero tentare prima di portare la controversia innanzi al Consiglio (art. 33, I), b) li annovera implicitamente tra i mezzi dei quali il Consiglio può comunque suggerire l'esperimento. c) li include implicitamente fra i metodi di azione degli stessi, organi delle Nazioni Unite.

[126] Cfr. ANZILOTTI, op. cit., 36.

[127] Cfr. SCHÜCKING, op. cit., 20.

[128] Cfr. ANZILOTTI, op. cit., 35.

[129] Cfr. SALVIOLI, Tutela dei diritti e interessi internazionali, Padova 1941, 8-9. Cfr. ANZILOTTI, op. cit., 36.

[130] WOLFF, op. cit., par. 1037; cfr. SCHÜCKING, op. cit., 18.

[131] WOLFF, op. cit., par. 1036.

[132] ANZILOTTI, op. cit., 28 e 134, cfr. anche SCHÜCKING, op. cit., 18.

[133] K. COLEGROVE, op. cit., 453.

[134] Cfr. F. DICKMANN, Der Westfälische Frieden, Munster 1965, 82.

[135] C.F. VON PFEFFEL, Abrégé de l'Histoire et du Droit Public d'Allemagne, Paris 1754, 502-508.

[136] K. COLEGROVE, op. cit., 454.

[137] Cfr. DICKMANN, op. cit., 83.

[138] In tema vedi W. ULLMAN, Principles of Government and Politics in the Middle Ages, London 1966, tr. it: Principi di governo e politica nel Medio Evo, Bologna 1972, 43.

[139] Attualmente: «Occorre che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo». Vedi Catechismo della Chiesa cattolica, Roma 1992, 2309, 566.

[140] Hostes hi sunt, qui nobis, aut quibus nos publice  bellum decrevimus, vel qui populo Romano decreverunt. Ceteri latrones, aut praedones sunt, D. 50.16.118. In tema vedi F. SINI, Bellum nefandum, 187 e ss.; H. HAUSMANNINGER, Bellum justum und justa causa belli im älteren römischen Recht, in Oesterreichische Zeitschrift für öffentliches Recht, XI, 1961, 335 e ss.; P. BONFANTE, La morale politica dei Romani, in Scritti giuridici vari, IV, Roma, 1925, 503.

[141] In tema vedi P. BELLINI, Il gladio, cit., 85 e ss.

[142] Hoc autem voco romanum quia Roma est caput fidei nostre et mater, HEINRICUS DE SEGUSIO, Summa aurea, I, rubr. De tregua et pace, Venetiis 1674, 359.

[143] Ibidem, 360. Circa la visione di Grotio in tema di Guerra giusta, e le radici medievali della sua dottrina vedi P. HAGGENMACHER, Grotius et la doctrine de la guerre juste, Paris 1983.

[144] Sulla politica di Urbano VIII, vedi L. PASTOR, Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters, Freiburg 1928, XIII, 462 e ss.

[145] Cfr. E.M. WERMTER, Die schwedische Instruktionen, Einleitung. in ACTA PACIS WESTPHALICAE, S.I., vol. I, 197.

[146] Cfr. K. COLEGROVE, op. cit., 458.

[147] Cfr. F. DICKMANN, op. cit., 87.

[148] Cfr. K. COLEGROVE, op. cit., 454.

[149] Cfr. K. COLEGROVE, op. cit., 463.

[150] N. BAROZZI e G. BERCHET, Relazioni degli stati Europei lette al Senato dagli Ambasciatori Veneti, Serie II, Francia, vol. II, 351.

[151] Vedi Istruzioni svedesi, ottobre 1641/23; in ACTA PACES WESTPHALICAE, I, vol. I S. I, 242.

[152] Vedi Istruzioni svedesi, settembre 1637, n. 16 in ACTA PACIS WESTPHALICAE, S. I, vol. I, 223.

[153] «Nos Christina Dei Gratia Svecorum Gothorum Wandalorumque designata Regina et Princeps haereditaria, magna Princeps FInlandiae Dux Estoniae et Coreliae Ingriaeque Domina etc. Illustris nobis sincere dilecte. Quam benevolo affectu et grato animo literas Serenissimae Reipublicae Vestrae, obltamque in promovenda pace universali operam acceptaverimus, quibus de causis moram in responso hactenus dando interponere necessum fuerit, quae desuper amice admonenda apud Rempublicam Vestram habeamus Dom. V.S. intelectura est a Consiliario et legato nostro, nobili et magnifico Nobis D. Hugone Grotio. Non dubitavimus quin ad haec audienda, et ad suos principales fideliter referenda operamque in promovendis publicis rationibus interponenda sit paratissima.

Ceterum rogamus etiam benigne ut de nostro in Rempublicam Vestram prono animo ac flagranti studio eandem certiorem reddere, et ipsa a nobis sibi faventissima quaevis polliceri velit.

Quam de caeero Divinae protectioni diligenter commendamus.

Dabantur in Regia nostra Stocholmensis die 30 decembris anno 1637». Vedila in N. BAROZZI e G. BERCHET, op. cit., 316.

[154] Vedi K. COLEGROVE, op. cit., 462.

[155] Vedi F. DICKMANN, Westphälische Friede und Reichsverfassung, in Forschungen und Studien zur Geschichte des Westfälischen Friedens, Munster 1965, 20 e ss.

[156] Relazione dell'Amb. Grimani delle cose presenti di Germania sotto il 22 Gennaio 1638, in FIEDLER, op. cit., 222 e ss.

[157] Cfr. E. BUSSI, Il diritto Pubblico nel Sacro Romano Impero, Padova, 1957, 148.

[158] A Correr Richelieu affidò la conciliazione delle Case di Guisa e Soisson, affare delicatissimo per il quale non si era voluto nemmeno l'aiuto del Pontefice. Cfr. BAROZZI e BERCHET, op. cit., II, II, 316.

[159] Cfr. Relazione di Grimani tornato dalla Ambasceria di Germania, in FIEDLER, op. cit., 274.

[160] Cfr. Relazione di Grimani tornato dalla Ambasceria di Germania, in FIEDLER, op. cit., 276.

[161] Una prima volta il 4 Marzo 1639 e una seconda volta nel 1640.

[162] Cfr. F. DICKMANN, Der Westfälische Frieden, Munster 1965, 104.

[163] Vedi Relatione di Alvise Contarini ritornato dall’Ambasceria di Münster, in FIEDLER, op. cit., 293.

[164] Ibidem.

[165] Vedi Observationes Adam Adami (Agosto 1641): «Cum esse visum foederatis Galliae et Sueciae pro Colonia et Lubera deligere Monasterium placuit hoc ipsum quoque Caesari et statibus imperii Ratisbonae congregatis, et mox transribuntur salviconductus», in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie III, D, vol. I, 282.

[166] DICKMANN, Der westfälische Frieden, Münster 1965, 191.

[167] Vedi Kommissionsbeschluss des Rates der Stadt Münster, 3 giugno 1643, in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie III, D, vol. I, 34. Cfr. anche Protokoll des Rates der Stadt Münster, 17 ag. 1643, ibidem, 52.

[168] Observationse Adam Adami, 27 maggio 1643, in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie III, D, vol. I, 284 n. 5.

[169] DICKMANN, op. cit., 191.

[170] Die Stadt Münster an die Friedensvermittler, Münster 1644, in ACTA P.W., Serie III, D, vol. I, 77; cfr. Die Stadt Münster and die Friedensvermittler, Münster (16 dic. 1644), ibidem, 93.

[171] Protokoll des Rates der Stadt Münster, Münster II febb. 1644, in ACTA P.W., Serie III D, vol. I, 66.

[172] Die Stadt Münster an Chigi, Münster (25 ag. 1644), in ACTA P.W. Serie III, D, vol. I, 86.

[173] Die Stadt Münster an Contarini (15 luglio 1646), in ACTA P.W. Serie III, D, vol. I, 158.

[174] Protokoll des Rates der Stadt Münster (Münster 23 nov. 1646), in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie III, D, vol. I, 179.

[175] Alvise Contarini, figlio di Tommaso Contarini (da non confondere con l’omonimo e contemporaneo Alvise Contarini di Niccolò, anche lui diplomatico) era nato a Venezia, nella contrada di S.Maria dell’Orto nell’aprile del 1597. Dopo aver ricoperto varie cariche in patria, seguendo l’esempio del padre era entrato giovanissimo nella diplomazia. La sua prima ambasceria era stata nei Paesi Bassi olandesi, nel 1623; di qui era passato in Inghilterra (ove aveva negoziato la pace fra quella corona e la Francia) e in Francia, ove si era adoperato per la questione di Mantova; in tutta la Corte egli era stimato come uno dei più qualificati ministri che la Repubblica avesse mai avuto. Dopo il ‘32 era stato ambasciatore a Roma ove aveva appianato un contrasto fra la Repubblica e la S. Sede, quindi a Costantinopoli, ove era stato imprigionato, e quindi successivamente liberato, grazie ad una momentanea riconciliazione della Repubblica con il Sultano. Doveva morire poco dopo essere tornato dalla ambasceria di Münster, cioè l’11 marzo 1651. Fu sepolto nella Chiesa di S. Maria dell’Orto; cfr. Barozzi e Berchet, op. cit., II, II, 253.

[176] Molto spesso i colleghi di Contarini parlano della sua abilità. Vedi per esempio il Memorandum of D’Avaux and Servien to Brienne (Muenster 23 April 1644) in APW, II, B, Die franzoesischen Korrespondenzen, I, 128: «Don Diego Sahavedra a eu peur que nostre petit différent avec Contarini ne l’esloignast de la médiation et n’a sceu le dissimuler en parlant à nous ces jours passéz y ayant mesme adjousté ces mots: qu’on ne pouvoit pas nier que Monsieur le Nunce ne soit bien honneste homme, mais que l’autre est un grand sujet et qu’il ne seroit pas possible que la négotiation peust estre faicte sans son entremise». Vedi anche il dispaccio di Mazarino a Longueville (29 Luglio 1645), in APW, II, B, Die franzoesischen Korrespondenzen, II, 549.

[177] APW, II B, Die Franzoesische Korrespondenzen, II, 30.

[178] Brienne a d’Avaux e Servient, Parigi 21 January 1645, in APW, Serie II, Abt. B, Die Franzoesischen Korrespondenzen, 1645, 69.

[179] Memorandum di Luigi XIV (Mazarino?) per D’Avaux e Servient, 21 gennaio 1645,  Ibidem, 74.

[180] Papa Innocenzo X, salito al trono di S. Pietro nel 1644 dopo la morte di Urbano VIII.

[181] Observationes Adam Adami, in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie III, vol. I, 316, n. 51.

[182] Relazione di Alvise Contarini ritornato dalla Ambasceria di Münster, in J. FIEDLER, op. cit., 398.

[183] Observationes Adam Adami, in A.P.W. Serie III, D, vol. I, 286, n. 7.

[184] Observationes A. Adami, in A.P.W., Serie III, D, vol. I, 341.

[185] Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 296.

[186] Vedi Relazione dell’Amb. Grimani tornato di Germania, in J. FIEDLER, op. cit., 280.

[187] Observationes Adam Adami, in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie III, D, vol. I, pg. 318, n. 55.

[188] F. DICKMANN; Der Westfälische Frieden, Münster 1965, 197.

[189] Relazione di Alvise Contarini ritornato dalla Ambasceria di Münster, in FIEDLER, op. cit., 334.

[190] Nelle Istruzioni imperiali si fa cenno a questa discordia fra Venezia e la S. Sede e si raccomanda agli ambasciatori di fare in modo che essa non abbia a pesare sui negoziati. Cfr. Kaiserliche Instruktionen (23 settembre 1643) in ACTA PACIS WESTHPLICAE, Serie I, vol. I, 417.

[191] Su ciò L. BELY, op. cit., 340 e ss.

[192] F. DICKMANN Der Westfälische Frieden, Münster 1965, 207.

[193] E. BUSSI: Il diritto pubblico nel Sacro Romano Impero, Padova 1957, 170. Cfr. F. DICKMANN, op. cit., 208.

[194] A. RANDELZHOFER; op. cit., 205 e ss.

[195] Vedi supra

[196] Vedi Relazione dell’Amb. Grimani tornato di Germania, in FIEDLER, op. cit., 252.

[197] Tale difficoltà è prospettata anche nelle Istruzioni imperiali, del 1643. Vedi ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie I, vol. I, 418.

[198] G. CHRIST, Der Exzellenz-Titel für die Kurfürstlichen Gesandten auf dem Westfälischen Friedenkngress, in Parliaments Estates and Representation, 19, 1999, 92 ss.

[199]La regina Anna a D’Avaux e Servient, Parigi 9 Aprile 1644, in APW, II, B, Die Französische Korrespondenzen, I, 54.

[200] Servient a Brienne, Münster, 9 Aprile, 1644, in APW, II, B, Die Französische Korrespondenzen, I, 69.

[201] Cfr. Relazione di Alvise Contarini ritornato dalla Ambasceria di Münster, in FIEDLER, op. cit., 307.

[202] Nella processione solenne del 12 Febbraio 1645 l’ordine di precedenza era tale che i paggi del Veneto venivano, assieme a quelli francesi subito prima del S. Sacramento mentre, subito dopo, venivano gli ambasciatori francesi e Contarini. Cfr. Observationes Adam Adami, in A.P.W., S. III, D, vol. I, 293.

[203] Su questo punto cfr. Observationes Adam Adami, in A.P.W., S. III D, vol. I, 294. Del dissidio parlano anche le Istruzioni francesi, sia quella del 1637 (vedi A.P.W., S. I, p. 38) sia quella del 1643 (cfr. ibidem 65).

[204] Vedi Observationes Adam Adami, in A.P.W., S. III D, vol. I, 324.

[205] Vedi Observationes Adam Adami, in A.P.W., S.III D, vol. I, 314.

[206] Sembra che, nonostante le ripetute proteste di Contarini, D’Avaux si rifiutò di dargli soddisfazione e la Corte gli diede ragione (cfr. DICKMANN op. cit. 211). Ma Contarini nella sua Relazione finale rende una versione diversa: vedi FIEDLER op. cit. 299.

[207] Era stata l’ idea di D. REINKINGK, Tractatus de regimine saeculare et ecclesiastico, Gissae 1619, II, I; e di D. ARUMAEUS, Discursus academici de jure publico, I,I,7.

[208] B.P. von Chemnitz (HIPPOLITUS A LAPIDE), Dissertatio de ratione status in Imperio nostro Romano-Germanico, Freistadii 1647. Il libro ebbe grande influenza sulle posizioni svedese e francese, dacchè fu conosciuto sin dal 1640.

[209] Vedi E. BUSSI, Scienza giuridica tedesca e italiana nel XVII secolo, in Esperienze e prospettive. Saggi di storia politica e giuridica, cit,, 224.

[210] Per i concetti di accentramento – decentramento si rinvia a H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., Milano 1959, 330 e ss.

[211] L. HUGO, De Statu regionum Germaniae, Gissae, 1689.

[212] J. LIMNEUS, Dissertatio apologetica de statu imperii Romano-Germanici, Onolsbaci, 1643.

[213] J. ALTHUSIUS, Politica, Herborn 1614, reprint Aalen 1641.

[214] E. W. Böckenförde,  Die Westfälische Frieden und das Bündnisrecht des Reichsstände in Der Staat VIII (1969) 449-478, trad. it. La pace di  Westfalia e il diritto di alleanza dei ceti dell’Impero in Lo Stato moderno, (E. Rotelli / P.A. Schiera), Bologna 1974, II, 338-339.

[215] L. BUSSI, Fra unione personale, cit., p. 270 e ss..

[216] Sulla componente religiosa di questo problema vedi O. BRUNNER, Land und Herrschaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Oesterreichs in Mittelalter, 5a ed., Wien 1965, tr. it. 1983, 150.

[217] E. BUSSI, Lo studio del Sacro Romano Impero della Nazione tedesca come Europäische Forschungsaufgabe,in Esperienze e prospettive, saggi di storia politica e giuridica, cit., 399-423.

[218] La durata del Reichstag venne nel tempo aumentando, anche per l'incalzare degli avvenimenti: il continuo stato di guerra coi Turchi; l’ostilità della Francia; la necessaria creazione di un esercito permanente, i disordini religiosi: sicché il Reichstag di Regenspurg, convocato da Leopoldo I nel 1662 allo scopo di domandare agli Stände sussidi finanziari ed aiuti militari contro i Turchi, non venne più sciolto e, per quanto giuridicamente prendesse termine tante volte quante volte un imperatore veniva  meno (per via del principio che non si poteva definire Reichstag una riunione priva dell'imperatore, di fatto continuò le sue sedute ininterrottamente sino alla fine dell'ImperoSulla composizione e il funzionamento del Reichstag vedi E BUSSI, Il Diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, II, Milano 1959, 3 e ss.

 

[219] E. BUSSI, Il Diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, II, Milano 1959, 22.

[220] Vedi ad esempio l’art. 3, 1 della Costituzione italiana: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»,

[221] Vedi Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 294.

[222] I dispacci impiegavano 15 giorni per giungere da Münster a Vienna, 10 per giungere a Parigi, 16 per giungere a Stoccolma, quattro settimane per Madrid. Non bisogna poi dimenticare che il reciproco giuoco delle mosse militari creava sempre nuove situazioni e nuovi problemi.

[223] Veniva sollevato per la prima volta il problema della sicurezza collettiva dell’Europa, il cui concetto si trova per la prima volta nella Istruzione principale compilata da Richelieu per il Congresso di Colonia (cfr. A.P.W., S. I, vol. I, 71).

[224] Relazione di Alvise Contarini, in FIELDER, op. cit., 308.

[225] Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 311; cfr. MEIERN, Acta Pacis Westphälische. Friedenshandlungen und Geschiehte, Hannover 1734, vol. I, 68.

[226] COLEGROVE, op. cit., 474.

[227] Relazione di Contarini al Senato, in FIEDLER, op. cit., 332.

[228] DICKMANN, Der Westälische Frieden, Münster 1965, 292.

[229]  DICKMANN, op. cit., 214.

[230] MEIERN, op. cit., vol. I, 215.

[231] Relazione di Contarini al Senato, in FIEDLER, op. cit., 317.

[232] DICKMANN, op. cit., 213.

[233] Contarini dice testualmente: «Stabilito per così dire il Congresso con l’arrivo dei Mediatori e dei plenipotenziari dell’imperatore e delle Corone tanto a Münster che a Osnabück, fu il 10 aprile del ‘44 cantata la Messa dello Spirito Santo per implorare la divina assistenza al maneggio di tanto negozio». Cfr. Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 301.

[234] Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 301.

[235] Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 302.

[236] Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 337.

[237] MEIERN, op. cit., I, 83.

[238] MEIERN, op. cit., I, 211.

[239] Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 324.

[240]  Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 353.

[241] Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 354.

[242] Cfr. Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 366.

[243] La lettera di Contarini agli Ambasciatori francesi li invitava a rispondere su cinque punti:

«Primo: V.V. E.E. si compiaceranno farmi sapere il giorno, ed il tempo preciso, nel quale haveran resoluto di far il loro Ingresso pubblico in questa città.

Secondo: Avvertiti col mio mezzo gli Ambasciatori Cesarei & Cattolici, di quanto è predetto, manderanno le loro Carozze & Gentiluomini ad incontrarle ed a complimentarle.

Terzo: Soddisfatto al Complimento, subito dopo la Carrozza di V.V.E.E. seguirà, senza far posizione d’altre, quella dell’ambasciatore Cesareo & poi degli altri Ambasciatori.

Quarto: Arrivate V.V.E.E. alla loro habitatione, manderanno la sera medema overò la mattina appresso, a ringratiar’ dell’incontro gl’Ambasciatori suddetti Cesarei & Cattolici.

Quinto: Gl’Ambasciatori suddetti verranno a visitar V.V.E.E. in cui non meno, che nella restituzione della visita, la quale doverà in loro nome esserle da me promessa, si useranno i titoli reciprochi d’Excellenza. Dal resto si osserveranno poche forme, che se pratticavano avanti la guerra tanto con gli Ministri dell’imperatore, quanto tra quellli delle due Corone respettivamente. Cose tutte, che se ben non possano haver difficoltà, perchè niente deviano dall’usagia prima della guerra pratticatosi. Ad ogni modo supplico V.V.E.E. assicurarmi colle sue lettere sopra ognuno dei punti predetti distinctamente e del loro contento e ch’io non abbia preso errore nel supporre la loro convenienza». MEIERN, op. cit., pg. 71. Rispondendo a Contarini, gli ambasciatori francesi scrivevano: «...nous avons une si particulière cognoissance de la prudence de Vostre Excell., que nous n’avons qu’à approuver, pour ce qui nous regarde, tout ce qu’il luy a leu resoudre». Cfr. MEIERN, cit., 177.

[244] Vedi Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER op. cit., 299.

[245] Sui pieni poteri francesi vedi MEIERN, op. cit., vol. I, 202; per la risposta spagnola cfr. ibidem, 204.

[246] Vedi Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, in op. cit., 303.

[247] Venivano, cioè, invitati tutti indistintamente gli Stände, nonché i principi italiani. Vedi Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 304.

[248] La risposta imperiale, consegnata ai mediatori era del seguente tono: «Haviamo pensato diligente sopra la Propositione degli Plenipotenziari di Francia, e la troviamo riempita di parole bellissime, però del resto molto lontana da gli mezzi proportionati al negotio principale, si che n’havessimo havuto ragione assai potente, di ributtarla come troppo impertinente e stravagante...». Cfr. MEIERN, op. cit., 368.

[249] Su questo punto vedi capitolo precedente.

[250] Vedi Relazione di Alvise Contarini, in FIEDLER, op. cit., 317.

[251] Vedi Relazione di Contarini, in FIEDLER op. cit., 319.

[252] Vedi F. DICKMANN, Der Westfälische Frieden Münster 1965, 267.

[253] Vedi F. DICKMANN, op. cit., 268.

[254] Dell’argomento si è parlato anche nel capitolo precedente. Cfr. anche F. DICKMANN, op. cit., 292.

[255] Cfr. Relazione di Contarini, in FIEDLER op. cit., 321.

[256] Cfr. Relazione di Contarini, in FIEDLER, op. cit., 73.

[257] Cfr. Relazione di Contarini, in FIEDLER, op. cit., 332.

[258] Cfr. Relazione di Contarini, in FIEDLER, op. cit., 329.

[259] Cfr. Relazione di Contarini, in FIEDLER, op. cit., 344.

[260] Cfr. Relazione di Contarini, in FIEDLER, op. cit., 347; Vedi anche Relatione fatta nell’Ecc.mo Senato Veneto della Pace di Münster del 1658 (sic) Da Nob. H. Am. r della Ser.ma Rep.ca”, ibidem, 367.

[261] Cfr. Relatione fatta nell’Ecc.mo Senato etc. in FIEDLER, op. cit., 368.

[262] Cfr. Relazione di Contarini, in FIEDLER, op. cit., 354.

[263] Cfr. Relazione di Contarini, in FIEDLER, op. cit., 333.

[264] Cfr. Relazione di S. Girolamo Giustiniani (25, Febbraio 1654), in FIEDLER, op. cit., 389.

[265] Ciò non toglie che Casa d’Austria vantasse il proprio ruolo di antemuralis nei confronti del pericolo turco. Vedi L. BUSSI, Fra unione personale, cit., 226.

[266] Cr. Relazione di Giustiniani, in FIEDLER, op. cit., 386. In realtà, durante tutta la guerra dei trent'anni, la nobilità magiara, sostenuta dalla Francia, non darà tregua agli Asburgo, mentre la Transilvania, impegnandosi con George Rakoczy in una politica internazionale di largo respiro, si legava in alleanza con la Francia e la Svezia. Quanto alla Turchia, a capo delle sue truppe c’era uno dei più potenti Visir che la sua storia abbia avuto, Achmet Koprülü. Grazie a lui, i Turchi sommersero con le proprie armi l’intera Ungheria austriaca, fino alla vittoria di Raimondo Montecuccoli presso il San Gottardo e il recupero, con la pace di Vasvar (1664), di tre dei sette comitati che l'impero ottomano si era annesso nel XVI secolo.Vedi L. BUSSI, Fra unione personale, cit., 104 e ss.

[267] Esiste, a cura di E ORTLIEB e M. SCHNETTGER una Bibliographie zum Westfälischen Frieden, Taschenbuch 1996.