LA
MEDIAZIONE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA NELLA PACE DI WESTFALIA
LUISA BUSSI, Roma
già
professore di Storia del Diritto
nell’Università
di Sassari
INDICE
INTRODUZIONE. – I. LE CONDIZIONI POLITICHE DELL’EUROPA ALL’INIZIO
DEL XVII SECOLO. – I.1. Le cause della guerra. – I.2. Il periodo Boemo-Palatino.
– I.3. Il
periodo Danese e l'apogeo degli Asburgo. – I.4. – Il periodo Svedese. – I.5. L'entrata in guerra
della Francia. – II. LA POLITICA DI VENEZIA
NELLA GUERRA DEI TRENT’ANNI.
– II.1. Venezia
fra le potenze europee del XVII secolo. –
II.2. Lo
scoppio della guerra. La neutralità di Venezia. – II.3. La questione della Valtellina. – II.4. La successione al ducato di Mantova. – II.5. La mediazione di Venezia nella pace fra l'Inghilterra e la
Francia. I negoziati della Repubblica per favorire l'ingresso di Gustavo Adolfo
in guerra. – II.6. Venezia torna ad essere neutrale. – II.7. Le difficoltà di addivenire alla pace in Europa dopo
l'entrata in guerra della Francia. –
III. I MEZZI PACIFICI DI
SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI.
– III.1. Mediazione,
arbitrato, intervento. – III.2. Mediazione e buoni
uffici. – III.3. La mediazione e la storia
del diritto internazionale.
– III.4. La
mediazione dal punto di vista degli studiosi di diritto internazionale. – III.5. Offerte di mediazione sul
finire della guerra dei trent'anni. –
IV. GLI ANNI PREPARATORI
DEL CONGRESSO DI PACE. –
IV.1. I
progetti di pace e la politica di Urbano VIII. – IV.2. L'alleanza franco-svedese. – IV.3. L'offerta di mediazione della Repubblica di Venezia. – IV.4. Il problema della partecipazione dei Reichsstände al
congresso di pace. –
IV.5. Le
ambascerie di Correr e Grimani. – IV.6. Il trattato preliminare di Amburgo. – V. IL CONGRESSO DI PACE – V.1. La
sede. – V.2. L’ambasciatore
veneto e il Nunzio apostolico. – V.3. Le
principali legazioni. –
V.4. Il
cerimoniale. – V.5. La Dieta dell’Impero
dopo Westfalia: primo areopago d’Europa. – VI. LA MEDIAZIONE DELL’AMBASCIATORE VENETO AL CONGRESSO DI
PACE. – VI.1. Alcuni momenti di
particolare rilievo. –
VI.2. La forma
delle trattative. –
VII. I NEGOZIATI DEL
CONGRESSO DI PACE NELLA RELAZIONE PRESENTATA DA CONTARINI AL SENATO AL TERMINE
DELLA SUA AMBASCERIA. –
VII.1.
L’avvio del Congresso.
– VII.2. La
presentazione delle proposte per la pace. – VII.3. I negoziati sull’Alsazia. – VII.4. La soddisfazione dei Protestanti e l’accordo finale. – VII.5. Le trattative Franco-Spagnole. – APPENDICE.
– Storia
della storiografia dedicata alla Pace di Westfalia. – Abstract.
La
Pace di Westfalia pose termine alla più disastrosa e lunga guerra di
religione che l’Europa abbia conosciuto. Manca tuttavia, se si escludono
pochi, sporadici approcci, di cui si farà cenno più avanti, uno
studio che, avvalendosi degli ultimi strumenti di indagine messi a disposizione
degli studiosi, ponga attenzione allo straordinario fondo conservato
nell’Archivio di Stato di Venezia, contenente i dispacci che
l’ambasciatore ad hoc,
appuntato al congresso di pace dalla Repubblica, inviò metodicamente al
Senato per metterlo al corrente delle trattative e riceverne istruzioni[1]. Eppure, a partire dalla
seconda metà del 900, la pace di Westfalia ha richiamato studi che si
sono rivolti a studiare le istituzioni che ne derivarono, e che ad autorevoli
studiosi sono apparse assolutamente centrali nella storia del diritto d’Europa[2], anzi
una prefigurazione dell’Unione Europea. Dal 1648, infatti –
l’anno in cui la pace fu conclusa divenendo legge fondamentale del Sacro
Romano Impero – la Dieta Imperiale di Regensburg rappresentò il
primo vero areopago dell’Europa moderna[3], dal
momento che, come già notava Johann Jacob Schmauss:
«Fremde
Potenzen schicken auch fast bestaendig Gesandte zu den Reichstagen»[4].
Senza
dubbio il motivo primo della guerra è connesso con le conseguenze della
discordia religiosa che già nel 1517 aveva separato la Germania –
e non solo – fra Cattolici e Luterani, continuamente in contrasto fra
loro, mentre nelle regioni dell'Ovest prendeva piede, verso il 1570, la
predicazione di Calvino.
Queste
tre distinte confessioni religiose stabilirono sul suolo tedesco tre blocchi
ideali che si saldarono presto con gli interessi politici dei potentati europei
determinandone le alleanze. I rapporti fra le diverse confessioni religiose
furono subito conflittuali. Dopo che Carlo V aveva confermato la scomunica dei
luterani, nel 1531 essi strinsero un'alleanza militare, la Lega di Smalcalda.
Le due fazioni religiose, la cattolica e la protestante, avevano trovato con la
Pace di Augusta del 1555 un accordo teso a definirne la coesistenza. Il
principio sancito ad Augusta – cuius regio et eius religio – ,
prendendo atto della impossibilità di una coesistenza pacifica,
stabiliva che i prìncipi e le città libere avevano la
facoltà di introdurre la confessione riformata (lo jus reformandi) nel
loro territorio, pur godendo degli stessi diritti degli stati cattolici
all'interno dell'Impero. La popolazione di confessione diversa da quella del
principe, sia che fosse cattolica oppure protestante, doveva adattarsi alla
confessione del principe oppure emigrare[5].
Ad
aggravare ulteriormente la scissione politico-religiosa intervennero gli
effetti della Controriforma, condotta in Germania come in altri Paesi
dall'Ordine dei Gesuiti. Soprattutto i Gesuiti tedeschi furono un fattore di
frattura per tutto il corso della controriforma tedesca, spingendo verso una
soluzione armata della contesa religiosa, e prevalendo sui laici e sugli altri
religiosi che viceversa erano favorevoli ad un compromesso[6].
Le
espressioni usate ancora un secolo dopo dal Pütter[7] (forse il più
famoso pubblicista tedesco del '700 di religione riformata), suggeriscono
un'idea dell'avversione che i Gesuiti si guadagnarono e offrono, anche se solo
in parte, il quadro della situazione da loro creata. In effetti, fu in buona
parte per reagire alle loro violente pressioni che gli Stati protestanti
costituirono l'Unione di Hall, unione che comprendeva il Palatinato, il Baden,
il Wurtenberg, il Bandenburgo e il Palatinato-Neuburg, e che mirava alla difesa
degli interessi della Riforma[8].
Per
iniziativa di Massimiliano di Baviera, all'Unione di Hall, l'anno seguente si
contrappose a Monaco la contro-lega cattolica, cui aderirono subito gli
Elettori ecclesiastici, e che ottenne la sottoscrizione dell'Imperatore e
l'appoggio del Papa e del re di Spagna, come l'altra si era guadagnata il favore
della Olanda, dell'Inghilterra, di Enrico IV e del duca di Savoia. Così
su tutto il continente i due partiti avevano completato la loro formazione:
perché la lotta si attivasse mancava solo una scintilla.
Ma
non fu una scintilla a scatenare il conflitto, bensì un problema cui era
ineluttabile dare una soluzione: cioè se si dovesse costituire anche in
Germania, come stava avvenendo in Francia, un forte potere centrale. Questo
ambizioso progetto era divenuto il fine principale della politica degli Asburgo
d'Austria.
Qualora
però essi fossero riusciti nell'intento, non solo la Germania,
bensì l'Europa intera – a causa della stretta alleanza familiare
esistente fra gli Asburgo di Spagna e quelli d'Austria – si sarebbe
trovata soggetta alla loro egemonia; pertanto non solo i principi tedeschi, ma
pressoché tutte le potenze europee furono coinvolte nella lotta senza
quartiere che continuò fintantoché non risultò impensabile
la possibilità di dare al problema risposta positiva.
Così
nella prima metà del secolo XVII si patirono gli ultimi sussulti della
contesa tra due mondi antitetici: l’universalismo medievale e lo
statualismo dell’età moderna.
Noi
sappiamo che era destinato a prevalere quest'ultimo, e così era infatti
avvenuto chiaramente in Francia; grazie alla politica di Enrico IV e di
Richelieu, certo, ma anche grazie al fatto che in Francia il Re era realmente
il simbolo dei tempi nuovi.
Ciò
non era in Germania, ove i Reichsstände
avevano il governo del loro Land. Questo
potere di governo si era venuto svolgendo da un insieme di diritti pubblici,
che in ciascun Land avevano diversa
fonte e diverso ambito di applicazione, ma che generalmente si riconnettevano
al nesso feudale con il Reich. Per
vero, mentre la storiografia meno recente ammetteva un potere generale di
signoria anche nel Medio Evo[9], si tende ora a ritenere
che la signoria territoriale si sia
sviluppata gradualmente dalle regalie e dai privilegi che ciascuna casa
regnante vantava per sé e che solo più avanti essa abbia assunto
un significato univoco, cioè quando il signore territoriale
riuscì ad affermare tanto la sua indipendenza nei confronti dell'Impero,
quanto la sua supremazia nei confronti dei ceti del suo territorio. È a
questo punto che Moser scriverà che i poteri del Landesherr non sono esercitati in
des Röm. Kayser als des Reichs Oberhaupts Namens né per suo
conto, bensì aus eigener Gewalt,
in eigenem Namen e Schmauss preciserà che la Superioritas territorialis è il complesso dei diritti che
riguardano il governo del Paese e dei sudditi, e che sono posseduti dal Landesherr «aus eigener Gewalt», in via originaria, anche nei confronti
del Kaiser. A più riprese
l’Imperatore tentò di avere ragione del particolarismo
dell’Impero: ma invano. Questi princìpi dovevano
trovare la loro formulazione positiva proprio nella Pace di Westfalia, quando,
grazie all'articolo VIII dell' lnstrumentum
Pacis Osnabrugensis (IPO), i Landesherren sarebbero stati riconosciuti
nel possesso dello Jus armorun e
dello Jus legationis verso l'esterno, così come, verso l'interno, del
potere di coercizione sui loro sudditi. Pertanto, con la Pace di Westfalia la
signoria territoriale (la Landeshoheit) venne ad assumere la forma di un
diritto di sovranità, mentre corrispondentemente i diritti ancora in
possesso del Reich vennero sempre
più intesi come Reservatsrechte. Tuttavia,
in linea di principio, la Landeshoheit rimase
sino alla fine subordinata a quella del Reich
come doveva essere riconosciuto ancora nella Pace di Presburgo del 26
dicembre 1805 [10].
E'
forse per questa incertezza di posizioni che la guerra fu tanto lunga e aspra,
o forse perché l'idea di una monarchia universale si ripresentava a quel
tempo non più come l'Impero mistico quale era apparso nel suo primo
periodo – il Sacro Romano Impero – bensì come l'ideale
concreto della sovranità mondiale della casa degli Asburgo, che con
centro a Madrid, avrebbe dovuto fondarsi sul possesso effettivo di un
vastissimo territorio e sulla potenza del denaro che diventava elemento sempre
più preponderante[11].
Il
capo della casata, Filippo III, aveva in suo potere la Spagna, il Portogallo,
le provincie belghe dei Paesi Bassi, la Franca Contea, la Sicilia, Napoli e il
Milanese. Inoltre, quantunque si stessero già indebolendo, erano ancora
salve le colonie portoghesi nelle Indie; erano in suo potere le Filippine,
nonché tutta l'America del Sud, e, nell'America del Nord, il Messico e
la Florida.
Anche
se, per cause molteplici, la grande potenza spagnola mostrava già i
sintomi di un avanzato stato di sfacelo interiore[12], il re di Spagna,
circondato nell'enorme palazzo dell'Escurial da un fasto opprimente,
accompagnato da un cerimoniale quasi religioso, appariva come il più
temibile fra tutti i sovrani. Il ramo austriaco, dal canto suo, oltre alla
corona imperiale - che, pur se elettiva, aveva finito con l’essere de facto suo appannaggio - possedeva i
ducati patrimoniali d'Austria, Stiria e Carinzia, e i reami di Boemia e
d'Ungheria. Però solo i ducati formavano un vero e proprio patrimonio
dinastico: in Boemia e in Ungheria la corona era elettiva e la costituzione
cetuale, che sussisteva in tutti i territori ad essa soggetti, limitava
fortemente le sue risorse finanziarie e quindi militari[13].
Tuttavia,
in linea di diritto, la sovranità della Casa d'Austria si estendeva su
una ventina di milioni di persone: tutta la sua politica tendeva a fare di tale
condizione giuridica una realtà concreta.
Così
l'equilibrio europeo era disperatamente instabile e le prime avvisaglie della
guerra si ebbero per la successione della casa di Jullier-Clèves ove la
pretesa dei Ceti territoriali di essere governati da un principe che
professasse la loro religione, si intrecciava con la pretesa dei ceti
dell’Impero di migliorare a loro favore il rapporto con l’Impero[14]: la questione,
però, a causa della morte di Enrico IV, ricevette una composizione
temporanea.
Si
riteneva che la guerra sarebbe scoppiata di lì a poco, allo scadere
della tregua di dodici anni fra la Spagna e le Province Unite dell'Olanda,
cioè nel 1621. Invece la tempesta scoppiò in Boemia.
Come
si è detto, in Boemia la corona era elettiva e i Ceki erano riusciti a
far riconoscere da Rodolfo II la libertà di culto. Sicché quando
l'Imperatore Mattia, pensando che il miglior cammino verso l'egemonia dinastica
prendesse le mosse dall'affermazione dell’unità cattolica, dopo
avere ordinato la chiusura e la distruzione delle chiese evangeliche nelle
signorie ecclesiastiche, vietò di erigere due chiese che dovevano
servire al culto protestante, la nobiltà ceka si ribellò e gli
inviati imperiali furono da una finestra gettati giù nel fossato del
castello di Praga. I nobili boemi, che avevano dato così il segnale
della rivolta, formarono un governo autonomo che, come suo primo atto, espulse
i Gesuiti.
La
morte dell'Imperatore interruppe e insieme allargò il conflitto,
giacché, quando venne nominato suo erede Ferdinando di Stiria, di cui
era ben nota l'avversione per il Protestantesimo, le Province della Boemia
costituirono una confederazione, destituirono Ferdinando, e il 26 agosto proclamarono
re Federico V, il giovane principe elettore del Palatinato. La scelta dei Boemi
era stata calcolata appunto per indurre l’ Unione di Hall ad intervenire
e ancor più per guadagnare l'appoggio del re d'Inghilterra di cui
Federico era genero[15].
Federico
esitò a lungo, incerto se accettare o no la corona offertagli. I fatti
di Boemia fino allora non avevano oltrepassato i limiti di una rivolta, e
Federico si rendeva conto che, accettando, avrebbe gettato l'Impero nella
guerra. Spinto però dalle insistenti pressioni della ambiziosa Elettrice
sua moglie, si risolse ad accettare. Inutilmente, prevedendo le sciagure che
sarebbero seguite, il re d'Inghilterra suo suocero, gli Elettori protestanti e
perfino il duca di Baviera cercarono di fargli abbandonare tale decisione: Federico
andò in Boemia, ove fu incoronato il 25 ottobre 1618; quindi si
legò in alleanza con Bethlen Gabor, principe di Transilvania, al quale
l’indebolimento di Ferdinando II premeva assai, perché sperava in
tal caso di attirare a sé la turbolenta nobiltà ungherese.
Federico promise appoggio in tal senso, in cambio di aiuto militare.
Intanto
l'Unione protestante si riuniva in assemblea a Norimberga, e dietro influenza
dell'elettore Palatino e degli Olandesi si disponeva alla guerra: le
esortazioni contrarie dei messi imperiali, i quali assicuravano che a tutte le
lagnanze dei Protestanti sarebbe stato posto rimedio, non furono ascoltate.
Anche
la Lega cattolica si riunì in assemblea e stabilì di domandare
aiuto alla Spagna, al Papa e alla Francia in favore dell'Imperatore. A questi,
dal canto suo, Massimiliano di Baviera, il più potente dei principi
cattolici, assicurò illimitato appoggio, a condizione che fosse lasciata
a lui la direzione della Lega e gli fosse concessa la dignità elettorale[16].
Quanto
agli altri, la Spagna inviò subito soccorsi finanziari e militari, il
Papa Paolo V contribuì con importanti somme di denaro[17]; la Polonia, poi,
assicurò di essere pronta a invadere l'Ungheria se questa avesse aiutato
i ribelli.
Anche
la Francia in questo momento si schierò dalla parte dell'Imperatore.
Già quando si era trattato dell’elezione del successore di Mattia,
la Francia si era subito schierata dalla parte di Ferdinando, contro i suoi
molti oppositori, e sembra che proprio il suo atteggiamento in quella occasione
abbia permesso il permanere della corona imperiale nella famiglia Asburgo. Ora
essa convinse i capi della Unione e della Lega a riunirsi nella città di
Ulm, e qui il duca di Angoulême, mediatore delle conferenze, fece
promettere all’ Unione che non si sarebbe ingerita nei fatti di Boemia, e
alla Lega che non avrebbe attaccato il Palatino. Ciò significava la
rovina senza scampo di Federico V; ma Luigi XIII era ben felice di umiliare un
principe che era stato per lunghi anni il principale appoggio degli Ugonotti di
Francia.
Fu
così che nella celebre battaglia della Montagna Bianca, presso Praga,
l'8 novembre 1620 la Boemia poté essere annientata dalle armate
dell'Imperatore e dei suoi alleati. L’Imperatore spiegò che avendo
suscitato una guerra contro il loro sovrano, ed essendo stati partecipi della
ribellione di Federico V, i Boemi avevano perduto i loro privilegi,
sicché egli si riteneva svincolato dal giuramento prestato in occasione
dell'incoronazione. Egli infatti aveva riconquistato il regno con la spada e
perciò non era più legato al passato, bensì poteva
governare novo jure[18]. La patente del 10 maggio
1627 con cui venne rinnovato il diritto interno boemo, nota come Vernewerte Landesordnung, (nuovo
ordinamento territoriale), oltre a rendere espressamente ereditaria la corona
(nell'assumere la quale ora il Re giurava di voler conservare la religione
cattolica), stabiliva pure che fosse riservato al re lo jus legis ferendae e tutto ciò che esso comportava, inclusa
la concessione della cittadinanza. Particolarmente incisivo era l'art. 8, per
il quale tutto ciò che atteneva alle più alte funzioni di governo
era ormai nelle mani del sovrano, il quale oltre a quanto già detto, si
arrogava altresì il diritto di ordinare arruolamenti, elevare imposte e
tasse, costruire castelli e fortezze. I Ceti (Landstände) ormai, per tutto quanto concerneva lo Statum publicum, si riunivano solo su
convocazione del sovrano, e per le materie dal sovrano stesso definite nella Proposition (art. 4), tramite i Landtags-Commissarien che erano
anch'essi di nomina sovrana. Solo per quelle questioni che non toccavano la
persona del Re, la maestà della corona o le regalie, gli Stände potevano, su permesso del
sovrano o dei Landtags-Commissarien,
consultarsi e portare a ratifica regia le loro conclusioni[19]. Nella nuova Landesordnung[20], Ferdinando II spiegava come egli avesse, finché possibile,
conservati gli jura privatorum
secondo le consuetudini sin qui in uso, ma per il resto aveva corretto
l'ordinamento della Boemia, in parte, certo, secondo la costituzione propria di
quel regno, popolato da stirpi di lingua e costumi diversi, ma in parte anche
secondo i suggerimenti della religione, la natürliche
Billichkeit, nonché i principi vigenti nell'Impero e negli altri
regni e paesi da lui, Ferdinando, dominati.
Federico
V, il quale aveva accettata la corona offertagli dai Boemi, fu condannato al
bando dell'Impero. Tutta la Germania si indignò contro questa decisione
che l'Imperatore aveva preso di propria iniziativa, senza consultare gli
elettori, come invece lo obbligavano a fare le Capitolazioni Elettorali; si
rilevava che Federico V non era colpevole né verso Ferdinando II come
Imperatore, né verso l'Impero, ma solo contro l’Arciduca
d’Austria e appariva ingiusto che un contrasto particolare con Casa
d'Austria fosse punito con la pena del bando.
Ma al
momento Ferdinando aveva acquistato troppa superiorità con le sue
vittorie per poter venire arrestato. L'esecuzione del bando fu affidata al duca
di Baviera, cosicché il Palatinato rimase nelle mani di quest'ultimo. Il
Paese fu ricattolicizzato con la forza, mentre la ricca biblioteca palatina
dell'Università di Heidelberg veniva dal duca di Baviera donata al
Vaticano.
Con
il principe di Transilvania Bethlen Gabor l’Imperatore firmava la pace di
Niclausburg, per la quale il primo, sia pure dietro un alto compenso, e
cioè i ducati di Oppeln e Ratibor in Ungheria, una somma di denaro assai
cospicua e la qualità di principe dell'Impero, rinunciava però al
titolo di re di Ungheria.
Al
duca di Baviera e ai suoi successori l'Imperatore volle che fosse trasferita la
dignità elettorale sin qui appartenuta al Palatino[21].
In
effetti solo il collegio dei Principi Elettori poteva disporre della
dignità elettorale di uno dei suoi membri, così per questo
trasferimento venne fatta istanza ai tre elettori ecclesiastici che furono
subito d'accordo, mentre il Brandenburgo e la Sassonia – cui veniva a
ridursi in definitiva il partito protestante nell'ambito del collegio –
poco tempo dopo furono indotti anch'essi a dare il loro consenso[22]. In tal modo il
trasferimento dell'elettorato veniva portato a termine già nel febbraio
del 1623: era il trionfo dell'Imperatore e della Lega cattolica.
La
situazione non mutò di molto quando nel 1625 Cristiano IV di Danimarca
riaccese la guerra in favore dei Protestanti, i cui interessi, essendosi
intanto sciolta l'Unione di Hall, erano curati soprattutto dalla Sassonia e
difesi da tre comandanti mercenari: il conte Ernesto di Mansfeld, il principe
Christian von Brunnswick e il margravio di Baden-Darlach. Infatti le vittorie
di Wallenstein e di Tilly sottomisero all'Imperatore tutta la Germania
settentrionale, mentre a Lutter l'esercito danese subiva la rotta decisiva.
L'anno
1628 segnò così l'apogeo degli Asburgo. I loro vasti e ben
coordinati progetti, che si dispiegavano per tutta l'Europa, parevano ovunque
coronati dal successo.
Mentre gli Spagnoli si
impadronivano della Valtellina, chiave delle comunicazioni tra l'Austria e il
Milanese, e riprendevano la guerra contro le Provincie Unite olandesi,
trattandole come ribelli, Ferdinando dal canto suo metteva al bando i duchi di
Mecklenburgo, rei di aver partecipato alla guerra in qualità di suoi
nemici, e trasferiva i loro beni a Wallenstein, mentre un simile provvedimento
si progettava a favore di Tilly cui doveva andare una parte del
Braunschweig-Luneburg[23]. A Wallenstein Ferdinando
conferiva pure la carica di grande ammiraglio del Mar Baltico e del mare del
Nord: era così evidente la sua intenzione di assicurarsene il dominio e
rovinare il commercio degli Olandesi a vantaggio proprio e della Spagna. Una
prima flotta imperiale doveva porsi allo stretto fra il Sond (l’ Öresund )e la Danimarca, mentre
un’altra, congiunta a quella degli Spagnoli, avrebbe tenuto a bada la
marina olandese[24].
Al contempo, l'Imperatore inviava una armata considerevole al soccorso di
Sigismondo di Polonia, per metterlo in grado di riconquistare la Livonia e
riconquistare il trono di Svezia, che il troppo grande zelo per la religione
cattolica gli aveva fatto perdere.
Riunito
così tutto il Nord, nulla pareva più facile che spezzare la
potenza olandese e ridurre all'obbedienza i principi dell'Impero.
Ispirato
a questa politica fu, infatti, l'editto del 6 marzo 1629 sulla restituzione dei
beni ecclesiastici, dei quali i Protestanti si erano appropriati dopo il 1555.
Ferdinando lo impose puramente e semplicemente, senza fare distinzione tra
benefici sottomessi mediatamente o immediatamente all'Impero. Egli accordava al
contempo ai principi cattolici il permesso di espellere dalle loro terre i
protestanti che vi si fossero stabiliti. Tale ordine rigoroso fu accompagnato
dal bando contro tutti coloro che avessero osato opporsi alla sua esecuzione. E
già l'Imperatore progettava di rendere ereditaria anziché
elettiva la corona imperiale.
Apogeo,
si è detto, ma anche inizio della parabola discendente.
Da un
punto di vista militare, infatti, l'eccessiva dispersione delle truppe
indebolì talmente le armate imperiali che il Re di Danimarca non
faticò molto a riguadagnare terreno. L'Editto di Restituzione, d'altra
parte, aveva allarmato anche i principi della Lega cattolica, i quali
cominciavano a temere un eccessivo rafforzamento dell’Imperatore, tanto
che, riunitisi a Heidelberg, gli inviavano degli ambasciatori perché
rendesse la pace all'Impero.
In
Francia, intanto, le cose erano cambiate. Dal 1624 Richelieu dirigeva gli
affari dello Stato e il suo avvento al potere aveva segnato un netto mutamento
politico, giacché il cardinale non aveva alcun dubbio che alla politica
di Carlo V andasse opposta necessariamente quella di Francesco I, e il suo
orientamento aveva finito col prevalere sulle correnti contrarie
filo-asburgiche e filo-spagnole che facevano capo alla regina madre Maria de'
Medici.
Pertanto,
già nel 1624 la Francia si era alleata con l'Olanda, l'Inghilterra, la
Danimarca, il duca di Savoia e la Repubblica di Venezia contro la casa Asburgo.
Successivamente le continue assicurazioni di amicizia e di appoggio di
Richelieu avevano contributo non poco a far risolvere Cristiano IV alla guerra.
Ma la prima vera manifestazione aperta di questo mutamento d'indirizzo si ebbe
in occasione della questione della successione al ducato di Mantova, questione
che doveva risolversi nel primo insuccesso internazionale della coalizione
austro-spagnola, quantunque per meglio sostenere la guerra in Italia si fosse
affrettata la pace con la Danimarca. Tale pace venne conclusa con un trattato -
sottoscritto a Lubecca il 12 maggio 1629 - in virtù del quale il Re di
Danimarca si impegnava a non più intromettersi negli affari tedeschi.
Veniva esplicitamente escluso ogni riferimento ai fatti dell'elettore Palatino
e del duca di Mecklenburgo.
La
Francia, però, al momento, non poteva entrare in lizza direttamente,
perché troppo impegnata in lotte intestine; pertanto fu un vero successo
politico di Richelieu quello di attirare nella lotta contro gli Asburgo la
potenza svedese.
Intervenire
nella scena politica della Germania era stato un piano a lungo accarezzato dal
re Gustavo Adolfo, prima di tutto perché egli era un protestante
convinto, poi perché l'espansione della potenza asburgica minacciava il
suo progetto di fare del Mar Baltico un lago svedese.
Per
di più Gustavo Adolfo poteva addurre delle ottime ragioni per motivare
la propria entrata in guerra: Ferdinando si era sempre rifiutato di
riconoscerlo quale legittimo re della Svezia, sostenendo contro di lui le
pretese del re di Polonia, tanto che gli inviati svedesi al Congresso di
Lubecca erano stati rimandati indietro ingiuriosamente, ed i duchi di
Mecklenburgo suoi alleati erano stati colpiti dal bando mentre i loro domini
erano stati asegnati a Wallenstein.
La
Svezia, però, pur possedendo l'esercito più moderno d'Europa, era
un Paese povero e non poteva di conseguenza sostenere da sola l'onere di una
guerra contro Casa d'Austria. Perciò Gustavo Adolfo non intervenne in
Germania se non quando ebbe la certezza di essere sostenuto da aiuti finanziari
alleati. A tal fine oltre che in Francia venne inviato il conte Fahrensbach
anche in Inghilterra, Olanda, Mantova, Venezia e Transilvania per sondare
ovunque la possibilità di raccogliere appoggi.
L'alleanza
con la Francia, sottoscritta ad Amburgo nel 1631, fece seguito a lunghe e
laboriose trattative. Nel 1629 veniva conclusa una tregua tra la Svezia e la
Polonia. Nell'estate del 1630, mentre l'Imperatore nella Dieta convocata a
Ratisbona, al fine di ottenere che il figlio Ferdinando III venisse eletto re
dei Romani (titolo che lo avrebbe ufficialmente consacrato successore al trono
imperiale) concedeva agli elettori il licenziamento di Wallenstein, l'esercito
svedese invadeva la Pomerania.
I
principi protestanti del Brandenburgo e della Sassonia, che fino allora si
erano tenuti appartati dalla lotta, si schierarono anch'essi dalla parte del re
Gustavo Adolfo, il quale a Leipzig e presso Lützen, con due vittorie
schiaccianti, fece tali progressi sulle armate imperiali che la preponderanza
dell'Imperatore, sin qui assoluta, sembrò cessata d'un colpo. Ma la
morte del re svedese nella battaglia di Lützen (6 nov. 1632) ed una
vittoria strappata dagli imperiali a Nördlingen, capovolsero di nuovo la
situazione.
Fu
così che l'elettore di Sassonia si adattò a trattare la pace con
l'Imperatore. Essa venne prima concordata a Pirna il 22 nov. 1634, e quindi
conclusa a Praga l'anno successivo, cioè il 12 giugno 1635. Per via di
tale pace la Sassonia rinunciava all’ alleanza con la Svezia; la
religione evangelica veniva assicurata per altri quarant'anni nello stato in
cui era nel 1627, mentre tutto il resto, grazie ad una amnistia, doveva tornare
allo status del 1630. Il principe
Augusto di Sassonia avrebbe mantenuto vita natural durante, l’
arcivescovato (Erzstift) di
Magdeburgo, vale a dire uno dei vescovati colpiti dall'editto di restituzione;
al contrario, Palatinato, Baden, Mecklemburgo e Würtenberg, insieme a
molti altri Stände espressamente
nominati, venivano esclusi dall'amnistia[25]. Un altro accordo
segreto, detto Prager Diplom,
riguardò l'esercizio della religione evangelica nei territori delle
quattro città di Nürnberg, Ulm, Strasburg e Frankfurt am Main. La
maggior parte del Reichstände
non cattolici, in conseguenza di una patente imperiale del 12 giugno 1635,
furono costretti ad accettare la pace di Praga, già prima della scadenza
dell'agosto 1635.
Il
trattato di Praga offriva - per la prima volta dall'inizio del conflitto -
quella che avrebbe potuto essere una base solida e relativamente equa per una
pacificazione generale. Anche la Svezia pareva ora disposta a trattare. In un
progetto andato poi sotto il nome di Trattato di Schönbeck, che il Cancelliere
svedese Axel Oxenstierna aveva fatto recapitare al duca Federico di
Mecklemburgo (18-22 nov. 1635), si facevano già moderate proposte di
pace.
Non
è certo quando si formò la decisione di Richelieu di entrare in
guerra e da che cosa questa prese immediata origine[26]. Sicuramente egli la
evitò quanto più fu possibile, preferendo ad una aperta
dichiarazione di ostilità l'abile giuoco delle alleanze; è anche
chiaro, però, che egli, dopo lunga ponderazione, si decise per tempo,
non lasciandosi sorprendere dagli avvenimenti.
All'inizio
del 1633 Charnacè si recò all'Aja al fine di impedire un temuto
armistizio ispano-olandese. In quel momento, sebbene avesse il consenso del re
all’eventuale conflitto, Richelieu preferì comprare i vantaggi di
una alleanza, ed evitare di entrare immediatamente in guerra; e ancora nel
giugno-luglio del 1634 egli si mostrò propenso, nelle nuove trattative
con i Paesi Bassi, a lasciare cadere l'alleanza piuttosto che assumersene l’impegno.
Si possiede
una lettera del Re di questi giorni[27] nella quale egli, su
desiderio di Richelieu, espone i motivi di una guerra aperta con la Spagna. Si
ha l'impressione che Richelieu, con questo documento, abbia voluto creare a
futura memoria la prova che la decisione di entrare in guerra era del re, e ad
ogni modo egli, ancora anni più tardi, vi si richiamò. Per adesso
il cardinale consentì ad una alleanza coi Paesi Bassi che conteneva il casus belli, lasciando impregiudicato il
se e il quando. Contemporaneamente, su urgente desiderio del Papa, egli faceva
però iniziare colloqui segreti a Vienna e a Madrid per sondare la
possibilità di un accordo universale di pace, almeno per tutte le
questioni pendenti fra gli Asburgo e la Francia. Ma il progetto di un congresso
generale da tenersi a Roma ovvero in un altro luogo neutrale naufragò,
perché Richelieu voleva che vi partecipassero le Potenze protestanti,
cosa che il Kaiser e la Spagna
rifiutavano assolutamente e che anche il Papa trovava inammissibile. Ma il
problema della partecipazione diretta alle trattative da parte dei Ceti del
Sacro Romano Impero costituiva uno degli argomenti del contendere,
perchè la Svezia e i potentati protestanti, cui ora si aggiungeva la
Francia, negavano che l’Imperatore avese la titolarità esclusiva
dello jus belli ac pacis per tutto
l’Impero[28].
Quando,
nell'agosto del 1634, la Svezia e i suoi collegati protestanti mostrarono
chiari segni di stanchezza, la Francia completò i suoi preparativi
militari. L'8 Febbraio dell’anno successivo essa stipulò con i
Paesi Bassi un'alleanza offensivo-difensiva con la quale si obbligava a
partecipare ad un attacco nei Paesi Bassi spagnoli.
Il 26
maggio gli Spagnoli compirono un colpo di mano imprigionando il principe
elettore di Treviri e diedero così alla Francia, sotto la cui protezione
l'elettore si era posto nel 1632, il desiderato motivo per intervenire,
sicché l'entrata in guerra della Francia seguì poco dopo, e venne
a saldare insieme le due guerre fra Spagna e Olanda, e tra Svezia e Impero.
L’atteggiamento
di Venezia durante tutto il corso degli avvenimenti, che sono stati descritti
nel capitolo precedente, fu di vigile osservatrice dei fatti e di attiva
negoziatrice fra le parti contendenti. Per
la sua posizione geografica, Venezia si trovava in condizioni equivalenti a
quelle della Francia, vale a dire stretta come in una morsa di qua dai domini
spagnoli, di là da quelli austriaci degli Asburgo; tuttavia a differenza
della Francia rivolgeva il suo interesse, più che all'Europa, al
Mediterraneo, dov'erano gran parte dei suoi possedimenti, e donde proveniva tutta
la sua ricchezza. Di conseguenza la sua politica consisteva nel non permettere
che si creassero sul continente delle condizioni sfavorevoli al pacifico
godimento dei suoi commerci e dei suoi beni.
Del
resto la sua stessa civiltà, per il lungo contatto con l'Oriente, aveva
subito uno sviluppo che la poneva ormai al di fuori del travaglio spirituale
delle altre Nazioni europee.
Per
la forma del governo, per la straordinaria disponibilità finanziaria che
le permetteva di evitare o risolvere con scioltezza problemi per altri paesi
assai spinosi, per la maturazione spirituale cui il continuo contatto con altre
civiltà l'aveva condotta, la Repubblica di Venezia già da tempo
aveva raggiunto un felice equilibrio, che oltre a meritarle in tutto il titolo
di "Serenissima", suscitava lo stupore e l'invidia degli altri paesi.
Un
esempio di quanto differente da quello degli altri paesi contemporanei fosse il
sentimento di giustizia che esisteva in Venezia nel XVII secolo lo si
può desumere dalla narrazione dell'assassinio di Vittoria Accoramboni
raccolta da Stendhal nelle "Cronache Italiane".
Del
resto è ben noto il conflitto giuridico-religioso fra Venezia e la S.
Sede, apertosi nel 1605, ove con somma energia di spirito la Repubblica si
difese dalle pretese giurisdizionalistiche propugnate a suo danno dalla Curia
romana. Tale conflitto era scaturito da due episodi apparentemente poco
importanti: vale a dire l'arresto da parte della Repubblica di due preti, rei
di delitti comuni, e la promulgazione di una legge che assoggettava al controllo
dello Stato la costruzione di nuove chiese.
Il
pontefice Paolo V Borghese mise sotto interdetto l'intera città; questa,
invece, sostenuta dal consiglio di Paolo Sarpi, obbligò tutti gli
ecclesiastici a continuare negli uffici religiosi.
Il
conflitto minacciava di prendere proporzioni assai gravi. Già il Papa
aveva chiesto l'aiuto della Spagna per ridurre all'obbedienza la città
ribelle, mentre Venezia a sua volta s'era accostata ai Protestanti, cercando
l'appoggio dell'Inghilterra e dell'Olanda.
La mediazione
di Enrico IV sopì la vertenza, dalla quale Venezia uscì assolta
dalle censure ecclesiastiche, pur mantenendo fermo il principio che qualunque
cittadino, sia pure membro del Clero, non poteva essere sottratto alla
magistratura ordinaria[29].
L'orientamento
politico mostrato da Venezia in quella circostanza non era stato, però,
occasionale. Una spiegazione chiara e obiettiva della posizione di Venezia
nella politica del tempo la troviamo nella relazione di J. Bapt. Lenk, il quale
fu inviato dal Marchese di Anhalt a Venezia nel 1609 per svolgere
attività favorevole all'Unione.
«Dacché
la potenza Veneta – egli dice – si trova a pochi passi dalla
potenza del Kaiser e da quella turca,
e le sue entrate sono ogni giorno di più diminuite dalla flotta
Spagnola, Olandese e Inglese, Venezia mira più a conservare il suo che a
procacciarsi del nuovo. Perciò essa cerca l'amicizia dei principi
italiani, ha da più di dodici anni rafforzato i rapporti con la Francia
e con la Svizzera, e con i Grigioni ha ancor più stretti legami. Nel
caso che queste amicizie non fossero sufficienti, essa guarda anche
all'Inghilterra, ma poiché questo Paese pare troppo lontano e la sua
armata più valorosa che costante, così è alla Francia che
si volge soprattutto, mostrando solo di desiderare l'accordo con essa»[30].
Con
l'Impero, Venezia aveva avuto frequenti contese, causate per lo più
dalla strenua difesa che la Repubblica faceva del suo monopolio: il commercio
sull'Adriatico.
E'
appena il caso di ricordare qui la lotta tra la Repubblica e Massimiliano
d'Asburgo e quella, assai più recente, con Ferdinando d'Asburgo, causata
dalla questione degli Uscocchi e chiusa con la Pace di Madrid il 26 sett. 1617,
proprio alla vigilia dello scoppio della guerra dei trent'anni.
Dopo
la pace di Madrid, che non aveva in nulla alterato le posizioni delle parti
contendenti (Venezia non aveva potuto spezzare ad Adria la potenza
asburgo-tedesca, e questa doveva sopportare che il Leone di S. Marco fosse
l'unico padrone del golfo) vi erano però cenni del ristabilimento di
rapporti amichevoli.
Ambo
le parti sapevano, è vero, che tale amicizia sarebbe durata solo
sintantoché una delle due non avesse bisogno di un cambiamento; tuttavia
per allora era impensabile la ripresa delle ostilità: Ferdinando non
poteva distrarre le proprie forze se voleva imporre all'Impero la sua
volontà; Venezia, a sua volta, si trovava nella imminenza di una guerra
con la Spagna.
La
Spagna, fino allora, si era limitata ad offrire e dare aiuti a Ferdinando
contro Venezia, ma ormai il Vicario di Milano e il Vicerè di Napoli -
cioè Don Pedro di Toledo e Pietro Giron, duca di Ossuna –
mostravano di voler approfondire le ostilità contro la Repubblica, e
passare all’azione diretta, incoraggiati in questa politica
dall'ambasciatore spagnolo a Venezia, il marchese di Bedmar, che se n'era fatto
convinto esponente. Essi ordirono, insieme a Jacques Pierre, un avventuriero
normanno, una congiura mediante la quale progettavano di impadronirsi della
città.
Il
Senato fu avvisato per tempo dell’ esistenza di questa congiura;
però, anche quando ne ebbe tutte le prove, emanò un decreto, e lo
fece pubblicare a suon di tromba, in tutti i luoghi del suo dominio, vietando
l'asserzione, per iscritto o per parole, che il re di Spagna, ovvero la Nazione
spagnola, vi avesse preso parte. Con ciò la Repubblica voleva evitare di
dover imputare al Re o alla nazione spagnola la congiura stessa. Tuttavia,
questo fatto influenzò profondamente la politica veneziana negli anni
successivi. Chi poteva sapere quali e quante altre insidie la Spagna avrebbe
tramato contro di lei? Chi poteva sapere se anche la pace con il Kaiser non era un giuoco diplomatico per
ingannarla? Così allo scoppio dei disordini in Boemia, Venezia si
guardò bene dal consentire il passaggio per il golfo di vascelli
spagnoli che avrebbero dovuto recare aiuto al Kaiser[31] e da questo atteggiamento
non si distaccò neanche quando seppe che il re di Spagna, fatto chiamare
l'ambasciatore veneto presso la sua corte, gli aveva parlato a denti stretti
aggiungendo gravi minacce[32].
Potrebbe
sorprendere tuttavia che nel '19, progettandosi una grande alleanza contro Casa
d'Austria Venezia non vi abbia aderito, e abbia risposto negativamente sia alla
richiesta di aiuti per i Boemi fattale dal Marchese di Ansbach e dal conte di
Mansfeld a mezzo di una ambasceria speciale, sia alla proposta di una lega con
l'Olanda, l'Inghilterra, i principi dell'Impero e il duca di Savoia per
ostacolare i disegni egemonici dell'Imperatore[33].
Il
comportamento di Venezia non rifletteva tanto una necessità, quanto il
risultato di una libera scelta fatta sul fondamento di una attenta
ponderazione. Il pericolo di una guerra con la Spagna non era imminente. Ma
Venezia era ricca, ancora nel fiore del suo benessere, e il pacifico godimento
di ciò che possedeva appariva alle grandi famiglie assai più
desiderabile dei pericoli e dei sacrifici che una politica aggressiva avrebbe
implicato.
Inoltre,
malgrado tutte le controversie con la curia romana, essa era uno Stato
cattolico. La Riforma non aveva trovato terreno favorevole né presso il
patriziato né presso il popolo.
Venezia,
infine, era uno Stato commerciale, nelle cui banche e aziende venivano svolte
le transazioni commerciali di tutte le Nazioni. Una neutralità pacifica
è un ottimo motivo per fare affari con amici e con nemici. D'altra parte
essa non nutriva molta fiducia verso i principati tedeschi che, al contrario
della Repubblica, avevano assai meno da perdere che da guadagnare. Ai signori
veneziani sembrò molto più prestigioso non impegolarsi nei
disordini tedeschi.
Pertanto
la posizione della Repubblica nei confronti dell'Imperatore non subì
cambiamenti; Venezia mantenne una stretta neutralità e osservò
una puntigliosa esecuzione dei trattati, sorvegliando però ogni
mutamento della politica austriaca, per la qual cosa, oltre che dei suoi
ambasciatori essa si servì di agenti segreti, inviati in Boemia,
Ungheria e ovunque ne vedesse la necessità[34]. Conservò
l'alleanza con il duca di Savoia, e un'altra alleanza puramente difensiva
stipulò con l'Olanda il 31 Dicembre del 1619. In virtù di tale
lega - che doveva avere la durata di quindici anni - ciascuna delle parti
s'impegnava a versare all'altra un contributo di cinquantamila fiorini al mese,
a partire dal mese successivo a quello in cui una parte ne avesse fatta istanza
all'ambasciatore dell'altra, e ciò sino alla fine della eventuale guerra[35].
Quali
che fossero le ragioni che convinsero Venezia alla neutralità certo si
è che proprio per la decisione di non aderire alla grande alleanza
contro il Kaiser l'influenza della
Repubblica di Venezia sugli avvenimenti del primo periodo della guerra dei
trent'anni fu assai rilevante. Se si pone mente al fatto che mai come al tempo
in cui gli eserciti erano costituiti da mercenari il denaro equivaleva a
potenza, se si riflette sulla situazione territoriale di Venezia in relazione
ai Paesi austriaci ci si può rendere conto facilmente di quel che
avrebbe significato la partecipazione di Venezia all'azione
Boemo-Palatino-Savoiarda, e si può concordare con lo Zwiedineck[36] che la Casa di Asburgo
dovette la sua salvezza allo spirito conservatore della Repubblica veneta,
giacché vi furono dei momenti in cui l'inimicizia di Venezia avrebbe
posto per sempre in forse l'esistenza di un legame tra i Paesi austriaci.
Così
fu, per esempio, nel 1620 dopo la conferenza di Ulm. Il piano di coalizione
europea contro Casa d'Asburgo, se non nel principio, nella pratica pareva
fallire. Il Re d'Inghilterra non intendeva più aiutare il genero, la
Francia non era prodiga che di parole, l'Olanda non poteva esporsi né
mandare, nonostante le migliori intenzioni, una armata in Boemia. Rimanevano solo
Bethlen Gabor e Venezia, e a loro si appuntavano le ultime speranze dei Boemi.
Bethlen
Gabor aveva ripreso le ostilità col Kaiser,
ma aveva bisogno di molto oro, oro che solo Venezia poteva fornirgli,
sicché mentre le sue truppe cominciavano a scontrarsi con quelle imperiali,
tre ambasciatori mossero alla volta di Venezia, che li ricevette il 28 Giugno
nel Collegio.
Gli
ambasciatori spiegarono i rapporti correnti tra Bethlen, il re di Boemia e il
Sultano, inneggiarono alla fastosa incoronazione di Bethlen a re d'Ungheria e
infine suggerirono l'opportunità di stringere con Venezia una lega che
si presentava come una vera e propria simbiosi: infatti l'Ungheria abbondava di
soldati, ma era esausta per le continue guerre contro il Turco; al contrario la
Repubblica era assai potente finanziariamente, mentre difettava di reclute, che
in occasione di guerre era costretta a procurarsi con spese ingentissime.
Dunque
nulla pareva più conveniente e naturale di una simile lega, per la quale
Bethlen si dichiarava prontissimo ad aumentare anche il traffico commerciale
con la Repubblica[37].
Questa
proposta non incontrò in Venezia il favore sperato. Già alla
nuova richiesta di aiuto dei Boemi essa aveva risposto con grande finezza
diplomatica di non poter credere che l'Unione sarebbe rimasta in disparte.
Dal
proprio segretario Antelmi la Repubblica era stata informata che la Lega e il Kaiser avevano messo insieme un esercito
formidabile, quale non s'era visto del tempo di Carlo V: Venezia non avrebbe
impiegato nemmeno un ducato per una causa persa!
Pertanto
la risposta alle proposte di Bethlen Gabor (cui comunque si evitava di dare il
titolo di Re di Ungheria) consisté in vivaci assicurazioni, unite alla
spiegazione che al Palatino si era già così spesso portato aiuto,
che le grosse spese della Repubblica per l'esercito e la flotta avevano reso
impossibile prestare ancora quello che veniva ora richiesto[38].
In
verità moriva proprio allora il Generale Bouquoi, sulla cui
abilità nella direzione degli eserciti il Kaiser aveva fondato tutta la propria forza militare, e il tempo di
Wallenstein non era ancora venuto: non è improbabile che un diverso
comportamento della Repubblica in questo momento avrebbe posto una seria
ipoteca sulla vittoria della coalizione cattolica. Ma a Venezia doveva sembrare
di assai dubbia opportunità lo scardinamento del potere imperiale a
favore di un ordine diverso, chissà mai se migliore o non peggiore; essa
era, piuttosto, fautrice convinta di una politica di equilibrio europeo,
condizione necessaria al felice svolgimento dei suoi commerci. Ciononpertanto
è lecito supporre che, al momento, gli uomini di Stato della
città lagunare non siano stati del tutto sicuri di avere adottato la
risoluzione giusta, giacché presto si trovarono a dover salvaguardare
interessi che per la Repubblica erano assolutamente vitali, proprio dalle mire
egemoniche di quella Casa Asburgo contro la quale avevano esitato ad assumere
posizione ostile. Così avvenne per la questione della Valtellina e per
quella della successione al ducato di Mantova.
La
questione della Valtellina si affacciò all'orizzonte nel 1620. L'alta
valle lombarda, confinante con la Svizzera, il Tirolo e le Provincie di Bergamo
e di Como, era stata concessa come feudo dell'Impero ai Vescovi di Coira, i
quali nel 1530 l’avevano ceduta a loro volta ai Grigioni, sicché
questi, di religione protestante, detenevano il dominio della valle che era
invece cattolica.
Nel
luglio del 1620 gli abitanti della regione insorsero contro l'oppressione
politico-religiosa svizzera, massacrarono i protestanti e aprirono le porte
alle truppe della Spagna che da lungo tempo aveva puntato le sue mire sulla
vallata.
In
effetti il motivo che aveva spinto l'imperatore Massimiliano I a concludere nel
1518 coi Vescovi di Coira "l'ereditario ed eterno contratto per sé
e per i suoi successori", risaliva all'aspirazione di creare un diaframma
neutrale fra i suoi territori ereditari e i quelli Francesi, inclini allora ad
aspirazioni ostili su Milano. Ma da quando il possesso di Milano rappresentava
buona parte del potere degli Asburgo, la Valtellina era solamente uno scomodo
impedimento nelle relazioni fra le due potenze.
In
nessun altro luogo si toccavano più ampi e così vicini complessi
territoriali delle due linee di Casa Asburgo come qui, fra l'Adda, l'Inn, e
l'Adige. In nessun altro luogo la Spagna avrebbe trovato un così breve
cammino per il Tirolo.
Così
la neutralità e l'indipendenza di confini della Valtellina divenne una
questione di importanza europea e di straordinario rilievo politico soprattutto
per la Repubblica veneta, la quale intendeva impedire con ogni mezzo che
l'accerchiamento ispano-austriaco nella terraferma si completasse da ogni
parte.
Non
appena il Senato aveva avuto sentore del fine cui miravano gli Spagnoli, s'era
affrettato a stringere vieppiù l'alleanza coi Grigioni, e quando le
truppe spagnole entrarono nella Valtellina, Venezia agì per via
diplomatica presso il Papa e presso le corti di Madrid e Vienna, sollecitando
nel contempo i Grigioni a promettere ai ribelli un ampio perdono del passato;
essa invitò all'unione Berna e Zurigo e le incitò a prendere le
armi, impegnandosi a sostenerle con i suoi sussidi.
Quando
i Grigioni, dopo essere stati sconfitti, mandarono a Venezia un ambasciatore a
chiedere consiglio ed aiuto, Venezia interpose la mediazione della Francia.
All'ambasciatore
straordinario di Venezia, Luigi XIII rispose che non avrebbe sopportato che i
Grigioni venissero oppressi, che avrebbe mandato a Madrid il maresciallo
Bassompierre per definire la questione e che, se questo non fosse bastato,
avrebbe unito le sue forze a quelle della Repubblica e del duca di Savoia per
sgombrare la Valtellina dagli Spagnoli.
Con
ciò i rapporti della Repubblica con la Spagna, già tesi,
peggiorarono ulteriormente. La Spagna richiamò il proprio ambasciatore a
Venezia e cercò di provocare nelle corti europee dei dissidi fra i
propri ambasciatori e quelli della Repubblica. Soprattutto alla corte di Vienna
- s ove dopo il matrimonio dell’Imperatore con Eleonora di Mantova era
aumentata l'influenza della corrente filo-spagnola, gli effetti della politica
spagnola si manifestarono in maniera clamorosa[39], tanto che Venezia
dové richiamare il proprio ambasciatore Gritti, lasciando al suo posto
solo un segretario «a testimonio della osservanza e della sincerissima
disposizione della Repubblica» nei confronti dell'Imperatore. Intanto gli
Spagnoli mascheravano come preoccupazione verso la religione cattolica i loro
reali interessi nella Valtellina, e già il Papa ne era commosso; ma
l'ambasciatore veneto gli fece considerare essere la religione solo un
pretesto; che della religione cattolica era protettrice la Repubblica, la quale
come sapeva di conservarla pura e intatta nei suoi domini, così
particolarmente si preoccupava perché non fosse lesa nei vicini; che il
vero scopo degli Spagnoli era di farsi padroni di uno Stato sul quale non
avevano alcun diritto.
Così
il Papa scrisse che assai male si voleva impiegare la religione a sostegno di
una ingiustizia. Ma quando Venezia mandò a Roma un gruppo di
ambasciatori per ossequiare il Papa, questi prese a parlare della riammissione
dei Gesuiti, un argomento per il quale gli ambasciatori non avevano istruzioni,
e che li lasciò pertanto quasi senza parole.
Lo
stesso faceva in Venezia il marchese di Coeuvres in nome di Luigi XIII. La
Repubblica, però, indovinando bene l'origine spagnola di queste
pressioni, non si lasciò minimamente smuovere[40].
Dopo
che una prima convenzione sulla sistemazione della Valtellina –
convenzione conclusa il 25 aprile 1621 – era rimasta praticamente
inosservata[41],
Venezia negoziò, insieme con il duca di Savoia, una lega con la Francia,
concertando di aiutare il conte di Mansfeld[42] con dei sussidi, in modo
che questi, sostenendo la guerra in Germania, richiamasse buona parte delle
truppe spagnole che premevano ai confini dello Stato di Milano. Dopo lunghe
trattative diplomatiche la lega arrivò finalmente alla sua formulazione
sul finire dell'anno 1623.
Già
il 7 gennaio giunse il primo progetto in Venezia e il 7 febbraio 1623 l'accordo
venne sottoscritto a Parigi. In questo accordo venivano anzitutto indicate le
conquiste della Spagna e dell'arciduca Leopoldo del Tirolo come la causa di
questa lega, il cui scopo era quello di procurare agli alleati il ritorno della
Valtellina e degli altri luoghi occupati nel pristino stato.
Di
fronte a questa lega la Spagna cercò subito un mezzo mediante il quale
la guerra potesse venire differita e fosse assicurato in Valtellina uno stato
di cose non molto dissimile da quello già esistente.
Il
trattato di alleanza fra Francia, Venezia e Savoia era stato appena
sottoscritto che già al Pontefice veniva sottoposto uno scritto
ufficiale ove il re di Spagna dichiarava di voler soddisfare il desiderio del
Papa, vale a dire che fosse garantito il mantenimento della tranquillità
in Italia, e che pertanto egli era pronto a trasferirgli la Valtellina in
deposito, col diritto di fare occupare la stessa da proprie truppe, sotto suoi
personali comandanti. La Repubblica sollecitò più volte il suo
ambasciatore a Parigi perché dissuadesse Luigi XIII dal cercare un
accomodamento con gli spagnoli e restasse aderente ai termini in cui era stata
conclusa la lega[43];
tutte le fatiche furono inutili: la Francia accolse l'intervento papale e
l'ambasciatore francese in Venezia comparve il 26 aprile nel collegio facendone
comunicazione ufficiale, colla introduzione abbastanza ironica che il suo
governo non aveva intrapreso nulla senza intendersi con l’ambasciatore veneziano
Pesaro.
L'avvento
di Richelieu al potere segnò un maggiore avvicinamento della politica di
Venezia a quella Francese, giacché il grande statista aveva già
delineato una propria linea politica, nettamente anti-asburgica e antispagnola,
ch'era bene in contrasto con quella cui cercavano di indirizzare il Re la madre
Maria dei Medici e il suo consigliere Bérulle.
Il
primo atto politico del cardinale fu quello di mandare un esercito al comando
del Marchese di Coeuvres per impadronirsi della Valtellina, dopo che il
marchese di Bethun, inviato a Roma, aveva dichiarato al Papa che il precedente
accordo sulla Valtellina – soprattutto per quanto riguarda il passaggio
delle truppe spagnole – era stato concesso dal predecessore di Richelieu
contro la volontà del Re, la cui intenzione era che nulla fosse cambiato
nelle condizioni stabilite coi Veneziani e con il duca di Savoia[44].
Purtuttavia
la decisione finale su tutta la questione venne raggiunta in un senso molto
diverso da quello che Venezia desiderava ed aspettava. La Francia mediante il
suo ambasciatore Fargis trattò a Madrid, direttamente e senza che i suoi
alleati potessero nemmeno supporlo. Col pretesto che Fargis avrebbe trasgredito
l'istruzione ricevuta, il 5 marzo 1626 venne stipulato il famigerato trattato
di Monzon, ratificato poi a Barcellona il 16 maggio, mediante il quale la
Francia sacrificò i vantaggi già conseguiti nella Valtellina e
offese in maniera gravissima i suoi alleati, rinunciando per il momento alla
sua posizione in Italia.
Non
è improbabile che all'accordo tra il Re Cattolico (lo spagnolo) e il
Cristianissimo (il francese) si fosse pervenuti alle spalle di Richelieu e che
esso fosse opera della fazione rigidamente cattolica la quale aveva tentato
vanamente d'impedire la pace con gli Ugonotti, e soprattutto non voleva
impegnarsi con la Spagna in una guerra che era contraria a tutte le sue idee e
simpatie[45].
Fu in
questa occasione che Venezia dimostrò tutta la sua saggezza politica. Il
comportamento della Francia aveva fortemente sdegnato i Veneziani, e già
si discuteva sulle misure da prendere. In Senato, però, si alzò a
parlare Girolamo Trevisan, il quale notò che non conveniva lagnarsi
troppo o protestare troppo duramente in via diplomatica, giacché l'amicizia
con uno più potente non sempre corrisponde alle speranze, e non
conveniva, esposti alle minacce degli Spagnoli, perdere pure l'appoggio della
Francia, anche perché l'adoperarsi di questa nazione per la Spagna era
chiaramente contro natura: una amicizia tra Spagna e Francia non poteva essere
che occasionale[46].
Queste argomentazioni convinsero il Senato, e nonostante l'ambiguo
comportamento della Francia, la Repubblica non mutò linea politica.
In
verità assai più della pace di Monzon (per la quale del resto
Luigi XIII si affrettò a inviare a Venezia uno speciale ambasciatore per
giustificare l’accaduto) doveva preoccupare gli uomini di Stato veneziani
il riacutizzarsi in Francia delle discordie con gli Ugonotti e la rottura che
ne poteva discendere con l’Inghilterra. In questo momento Venezia avrebbe
potuto anche trarsi fuori dal suo allineamento con la Francia: alla corte di
Vienna, Werdenberg - cancelliere dei Paesi ereditari - intratteneva il
residente della Repubblica in discorsi più che amichevoli. Venezia
rimase fredda. Come i Paesi Bassi essa sapeva che i propri interessi non erano
comuni a nessun'altra nazione più che alla Francia, come infatti si
dimostrò chiaramente in quello che – condotti appena a termine gli
affari della Valtellina – fu nuovo argomento di questione politica in
Italia, vale a dire la successione alla sovranità ducale di Mantova.
Il 26
dicembre 1627 moriva a Mantova privo di discendenza il duca Vincenzo II
Gonzaga. Con lui si estingueva la linea principale dei Gonzaga e si apriva
pertanto il problema della successione al ducato, ch'era feudo dell'Impero.
Non
v'era dubbio che erede legittimo dovesse essere considerato Carlo, duca di
Nevers e Rethel, senonché questi apparteneva ad un ramo francese della
famiglia Gonzaga, e l'eventualità ch'egli si insediasse in Mantova
riusciva assai sgradita alla corte di Madrid, dal momento che il ducato di
Mantova si estendeva lungo la linea delle comunicazioni fra la provincia
spagnola di Milano e il mare; pertanto gli Spagnoli, interessati che vi fosse
in Mantova un principe a loro devoto, già prima della morte di Vincenzo
II avevano progettato il matrimonio fra la nipote di Vincenzo, Maria Gonzaga, e
il duca Carlo di Guastalla affinché questi - ch'era d'un ramo più
lontano della famiglia Gonzaga - potesse diventare un pretendente alla
successione. Questo matrimonio venne però sventato in extremis da Richelieu, il quale, quando già ne era stato
concordato il capitolato, convinse il duca di Mantova a chiamare a sé e
nominare suo erede Carlo di Nevers; questi, poi, mentre Vincenzo era agli
estremi, sposò Maria e, spirato Vincenzo, assunse il titolo di duca.
Alla
successione era interessato pure il duca di Savoia Carlo Emanuele che domandava
il Monferrato, sul quale la sua casata aveva una antica pretesa e che, posto
sulla strada tra Torino e Alessandria, con la sua formidabile fortezza di
Casale, era un territorio di enorme importanza strategica. Venezia
immediatamente si adoperò, mediante trattative diplomatiche,
affinché sulle pretese del duca di Savoia si giungesse al più
presto ad un accordo, perché era evidente che ogni mossa da parte della
Savoia avrebbe fatto il giuoco degli Spagnoli[47]. A tal fine essa
raddoppiò i propri sforzi alla corte di Francia ove cercava di indurre
il Re alla pace con l'Inghilterra, insistendo sulla sua necessità non
solo per il corso degli eventi in Italia, ma anche per gli ampi progressi degli
eserciti imperiali in Germania, che minacciavano i confini dell'Olanda e della
stessa Francia.
Il
tentativo di Venezia di tener fuori il duca di Savoia dalla contesa
fallì. Al principio del 1628 Carlo Emanuele e l'ambasciatore di Filippo
IV a Torino firmavano un accordo con cui entrambi si impegnavano ad
intraprendere una azione militare contro il Monferrato. Contemporaneamente,
essendo il ducato di Mantova feudo dell'Impero, la causa della successione fu
portata davanti all'Imperatore, perché fosse da lui decisa.
Intanto,
vuoi per coprire i fini che già da molto tempo gli imperiali meditavano
– come scrive il Nani – vuoi perché si credesse davvero di
poter attirare la Repubblica in un diverso sistema di alleanza, il consigliere
aulico conte Werdenberg proponeva al residente veneziano presso la corte
imperiale Pietro Vico una lega che aveva tutte le caratteristiche per poter
entusiasmare Venezia. L'Imperatore – diceva il Werdenberg – aveva
avuto ragione dei suoi avversari e non desiderava ormai nulla più della
quiete. Pertanto la Repubblica non poteva augurarsi nulla di meglio che una
lega con lui, che l'avrebbe garantita in ogni occasione. Inoltre la
sottoscrizione di questa lega avrebbe fatto tornare a transitare per Venezia
tutto il commercio di droghe e mercanzie dirette verso la Germania,
rimettendosi così in auge un traffico che avrebbe portato milioni sia
alle entrate della Repubblica sia a quelle dell'Imperatore, mentre al momento
questi era legato agli Olandesi e agli Inglesi. Dalla Germania si sarebbero
pure banditi i panni inglesi a favore di quelli di Venezia e degli altri
potentati italiani. Inoltre, una volta incamminata la pratica della
confederazione, si sarebbe potuta concertare con il generale Wallenstein una
guerra comune contro il Turco, che rimaneva sempre il principale nemico di
tutta la Cristianità[48].
Questa
proposta aveva estremamente lusingato la Repubblica, tanto più che
l'affare di Mantova pareva avviarsi alla soluzione ed essa poteva credere che
la proposta corrispondesse alla effettiva intenzione dell'Imperatore, dal
momento che tra questi e le città anseatiche non correva buon sangue.
Infatti, il Senato era stato informato come di recente la città di
Amburgo avesse chiesto che i suoi bastimenti non venissero impiegati contro la
Danimarca, affinché non fossero danneggiati i propri rapporti
commerciali con quel Paese, l'Olanda, e l'Inghilterra. Era pertanto ragionevole
supporre che l'Imperatore desiderasse sinceramente rompere il traffico del Sond
(Öresund) per togliere alla
Danimarca le altissime entrate dei dazi. Si diceva perfino che Wallenstein
volesse a proprie spese tagliare un canale nel ducato di Mecklenburg,
cosicché le navi non sarebbero passate più per lo stretto e anche
le città anseatiche sarebbero state costrette ad accordarsi con
l'Imperatore[49].
Pertanto
Venezia diede istruzioni al suo segretario presso la corte di Vienna
affinché mostrasse la sua buona disposizione nei confronti della lega,
senza però mancare di essere vigile.
Su
Mantova non era stata presa ancora nessuna decisione, e tuttavia si pensava che
ormai essa avrebbe teso al mantenimento della quiete e che il duca di Nevers
avrebbe ricevuto l'investitura. Invece poco appresso il suo segretario in
Germania avvertiva la Repubblica che la decisione dell'Imperatore al riguardo
era stata affatto diversa. Fatto chiamare dal consigliere Trauttmansford
l'ambasciatore del duca, egli aveva detto che: «per i molti pretendenti
agli Stati di Mantova e del Monferrato, giudicava bene non concedere
l'investitura domandata dal duca, e per levare i rumori di guerra che parevano
imminenti, S.M. aveva pensato di prendere temperamento utile e giovevole a
tutti gli interessati, ed era di sequestrare il possesso degli Stati di Mantova
e del Monferrato e di mandare un commissario imperiale in Italia il quale
avesse cura di essi fintantoché fosse definita la lite»[50].
Quando
il duca di Nevers, dichiarò di essere succeduto legittimamente al
ducato, anche per esservi stato chiamato dal defunto duca Vincenzo, e si
rifiutò di abbandonarne il possesso, in attesa della decisione del
Consiglio Aulico, l'Imperatore lo mise al bando dell'Impero e una armata imperiale,
unitasi a truppe spagnole e piemontesi, lo spogliò di tutti i suoi Stati
con l'eccezione della sola fortezza di Casale, di dove il duca chiedeva
soccorso alla Francia e a Venezia.
Venezia
fu lesta a intuire quale doveva essere la sua linea politica. Il suo interesse
stava dalla parte del duca di Nevers. Perciò, pur continuando a
dimostrare segni di buona amicizia con l'Imperatore, lasciò però
cadere il progetto della lega: nessuna amicizia era possibile con l'Imperatore
finché questi era così strettamente legato con la Spagna, che
Venezia riteneva il proprio principale nemico. In Senato si discusse a lungo
sul da farsi; si temeva l'espansione della potenza spagnola proprio ai confini
dello stato veneziano. Al momento, la Francia era impegnata nell'assedio de La
Rochelle, centro della resistenza ugonotta organizzata da Enrico II di Rohan e
da suo fratello Beniamino di Rohan Soubise, sostenuti dall’Inghilterra.
Tuttavia era evidente che si stava avvicinando la resa della città, e
pertanto non conveniva esporsi direttamente, dato che non v'era dubbio che la
Francia avrebbe difeso il duca di Rethel[51].
Così
Venezia fortificò le sue piazze e mandò precise istruzioni al
proprio ambasciatore in Francia[52], incaricandolo di
appoggiare il partito favorevole ad un intervento in Italia, e offrire la
mediazione della Repubblica per una pacificazione tra le due corone di Francia
e d'Inghilterra.
Sfavorevole
all'intervento in guerra era il partito della Regina madre, favorevole
Richelieu, il quale invitò la Repubblica a difendere subito il duca di
Rethel, assicurando il proprio soccorso non appena ciò fosse stato
possibile. Ma il Senato, avvezzo a diffidare, non volle spingere le sue forze
fuori dai confini dello Stato fintantoché non lo avessero fatto i
Francesi.
Finché
la Rochelle resistette, Richelieu non poté fare nulla per venire in
soccorso di quell'avamposto francese che gli accidenti della successione
avevano così convenientemente stabilito al di là delle Alpi.
Quando però la resa degli Ugonotti lo lasciò libero di agire,
assieme al Re in persona egli mosse con un esercito di 35.000 uomini, sconfisse
a Susa il duca di Savoia e gli impose la pace. Quindi, insieme alle truppe dei
Veneziani, costrinse gli Spagnoli a levare l'assedio da Casale. I moti degli
Ugonotti in Provenza e in Linguadoca impedirono che il duca di Nevers venisse
immediatamente insediato, ma la città venne fortificata retandovi, in
compagnia di quella veneziana, una guarnigione francese agli ordini del
generale Thoiras.
Intanto
l'ambasciatore veneto in Francia Zorzi e quello in Inghilterra Alvise Contarini[53] cercavano con ogni mezzo
di portare queste due potenze ad un accordo, nonostante le molte e spinose
difficoltà. Si dimostrò anche qui come una grande perspicacia dei
Veneziani l'aver intuito che una pace tra Francia e Inghilterra era condizione
essenziale per la lotta contro la supremazia cattolico-asburgica in Europa, e
l'aver fatto sì che essa venisse portata a conclusione.
In
Susa, il 24 aprile, Luigi XIII sottoscrisse gli articoli che erano stati
proposti da Giorgio Zorzi e Alvise Contarini. Fu quella la prima vera occasione
di ampia portata nella quale Contarini[54],
l’uomo cui doveva essere affidata la mediazione nel primo grande
Congresso di pace europeo, potè dimostrare l'eminente talento
diplomatico di cui era dotato. Il suo contributo venne riconosciuto con
gratitudine dalle parti interessate, come manifestarono apertamente le lettere
che il Re e la Regina madre di Francia gli indirizzarono[55].
In
Inghilterra Contarini cercò di far valere il suo influsso perché
fosse riconosciuta la necessità di un convenevole appoggio ai
protestanti tedeschi, entrando nello stesso tempo in trattative con
l'ambasciatore di Gustavo Adolfo, il quale allora cominciava a progettare una
alleanza di tutte le potenze interessante contro Casa d'Austria[56].
Gustavo
Adolfo aveva da lungo tempo intuito che il momento per lui più
favorevole, al fine di portare a esecuzione il piano d'un intervento a favore
dei protestanti in Germania, sarebbe stato quello in cui l'Imperatore si
sarebbe deciso per una campagna in Italia.
Il
Colonnello Wolmar Fahrensbach che egli mandò in Transilvania per
stabilire un comune piano di operazioni con Bethlen Gabor, viaggiò
quindi per Mantova e Venezia, onde rafforzare i due Stati nella resistenza
contro la Spagna e l'Austria, mettendo in evidenza l'aiuto della Svezia, la
quale, mercé lo sbarco di 60.000 uomini sulle coste tedesche del mar del
Nord, avrebbe richiamato laggiù un considerevole numero di truppe
imperiali che erano destinate in Italia.
Gli
accenni di Fahrensbach, il quale ufficialmente chiedeva l'appoggio della
Repubblica solo per il suo viaggio verso la Transilvania, erano a dire il vero
di natura molto generica, ma furono senza dubbio capiti dal Senato anche nel
loro senso celato. A Fahrensbach venne posta a disposizione una galera per il
viaggio verso Zara; in più egli ricevette una catena d'oro del peso di
trecento ducati, e si rallegrò del trattamento pieno di attenzioni
riservatogli dai Veneziani.
Con
lui tuttavia non si andò più in là, ma ci si
contentò di insistere a Londra e all'Aja sui vantaggi che derivavano
alle potenze settentrionali dal fatto che la Repubblica avesse così
volentieri favorito l'invio dell'agente svedese alla corte di Bethlen Gabor.
Contarini,
però, grazie ai suoi rapporti con l'ambasciatore svedese a Londra Spens,
seppe farsi un’ idea precisa delle intenzioni di Gustavo Adolfo e
poté riferire in patria che lo stesso, qualora avesse iniziato la guerra
contro il Kaiser, contava su una
sovvenzione annua di 400.000 talleri. A questa sovvenzione Venezia doveva
contribuire con 80-100.000 talleri. Durante le trattative si chiarì,
tuttavia, che il Re poteva eseguire questa spedizione non nel corrente anno, ma
nella estate successiva[57]. Perciò la
Repubblica pensò bene di non obbligarsi subito in via definitiva.
Solamente
l'andamento della campagna in Italia la rese accorta che il piano di Gustavo
doveva essere per lei della più grande importanza e che per renderlo
possibile anche sacrifici notevoli non sarebbero stati cari.
La
guerra in Italia si riaccese nel 1630. Il 18 luglio Mantova veniva di nuovo
presa dagli Imperiali e per tre giorni spaventosamente devastata. Al saccheggio
si unì il contagio della peste che, nonostante ogni precauzione, si
estese anche alla città di Venezia[58].
La
caduta di Mantova, che essa aveva direttamente cercato di difendere, era per
Venezia una grande sciagura, e tuttavia non la trovava impreparata. L'11 luglio
Alvise Contarini, nel campo francese di S. Giovanni di Moriana in Savoia, aveva
sottoscritto l’ accordo in forza del quale la Francia e Venezia si
obbligavano a elargire al re di Svezia una sovvenzione annua sino a un milione
e duecentomila scudi affinché egli potesse muovere in Germania la
progettata guerra contro l'Imperatore[59].
I
piani e le idee prima solamente accennati si erano tramutati, con eccezionale
rapidità, in fatti concreti. Avevano contribuito a realizzarli non solo
la potente forza di volontà e la convincente eloquenza di Richelieu, ma
anche il genio politico e la rapida intuizione di Contarini.
Il
Senato di Venezia, questa volta, aveva preso la sua decisione in un tempo
eccezionalmente breve. L'11 giugno era arrivato il primo dispaccio di
Contarini, ed il 13 erano pronte le plenipotenze degli ambasciatori per
obbligarsi in nome della Repubblica. Il giorno successivo venne avvisato l'ambasciatore
all'Aja che il Senato era disposto ad appoggiare finanziariamente
l’intervento della Svezia e gli venne annunciato che gli sarebbero state
date quelle somme che secondo le istruzioni di Contarini egli avrebbe pagato
agli ambasciatori svedesi, accertandosi che da parte della Francia si facesse
altrettanto[60].
L'entrata
del re di Svezia in guerra produsse l’ effetto sperato. L' Imperatore fu
obbligato a ritirare le sue truppe dall'Italia e a consentire senza indugio
– il 13 di ottobre – al trattato di Ratisbona, in virtù del
quale il ducato di Mantova e del Monferrato rimaneva al duca di Nevers.
Le
città di Alba e Trino con un distretto che poteva produrre 15.000 scudi
d'oro toccarono al duca di Savoia, che però doveva cedere ai Francesi
l'importantissima fortezza di Pinerolo. Al duca di Guastalla toccò una
porzione del ducato pari ad una rendita di 6.000 scudi. Il trattato ricevette
la sua formazione definitiva a Cherasco, l'anno successivo, quando vennero
precisate anche alcune questioni rimaste controverse a Ratisbona, come
l'obbligo della Francia di non fare alleanza coi nemici della Casa d'Austria,
che Richelieu rifiutò di assumere.
In
Mantova, per ogni evenienza, rimaneva una guarnigione di veneziani.
Con
la definizione del problema di Mantova e sventato il pericolo di una eccessiva
espansione della potenza austro-spagnola in Italia, alle immediate vicinanze
dei suoi confini, comincia una nuova fase della politica veneziana. Da questo
momento in poi Venezia torna a rimanere sempre neutrale, sia perché non
si trattavano interessi che la toccavano direttamente, sia perché, senza
estraniarsi dal concerto europeo, ogni sua attenzione politica e militare si
volgeva ora al Mare Egeo e alla potenza turca, i cui appetiti sui possedimenti
veneziani in Candia, dopo la pace con la Persia, si facevano di anno in anno
più manifesti.
Così,
se Venezia era uscita dalla neutralità per la Valtellina e per Mantova,
cercando di indurre la Francia a una politica più decisa, quando ancora
essa pareva esitare, ora, mentre la Francia entrava in guerra per arrecare il
colpo di grazia alla potenza austro-spagnola, Venezia invece cominciava a
cercare seriamente di indurre le potenze europee ad un accomodamento. La
prosecuzione della interminabile guerra, nell’imminenza di una rottura
con Costantinopoli, era guardata dalla Repubblica con grande apprensione, come
una condizione quanto mai critica, che bisognava cercare di far cessare al
più presto possibile.
La
posizione politica di Venezia era ideale per tale scopo. Se i suoi ambasciatori
erano sempre stati tenuti in gran conto per la loro particolare abilità
diplomatica, ora in particolare essa si trovava a godere a un tempo sia della
amicizia delle potenze protestanti e della Francia, sia di quella del Kaiser il quale, pur non essendo
riuscito a legare la Repubblica alla propria politica, riteneva però
conveniente intrattenere con essa buoni rapporti. Dopo la partenza di Gritti
dalla corte imperiale – causata da un alterco con l'ambasciatore spagnolo
Oñate, per una questione di etichetta – per lungo tempo la
Repubblica non aveva lasciato a Vienna che dei segretari. Ora essa venne
nuovamente invitata a inviare un proprio ambasciatore ordinario, con
l'assicurazione che egli avrebbe ricevuto trattamento pari agli ambasciatori
delle teste coronate[61].
Compito
del nuovo ambasciatore era di cercare appoggio presso le potenze europee per
l'eventualità di una guerra con la Porta, eventualità divenuta
tanto più probabile dopo l'arresto del bailo della Repubblica Alvise
Contarini, mandato a Costantinopoli proprio per le sue eccezionali doti di
diplomatico.
Ma
Grimani riferisce in Patria che, sinché dura la guerra, non c'è
nulla da sperare, né in aiuti finanziari né in reclute[62].
Se a
ciò si aggiunge che, dopo aver dovuto sopprimere la propria linea
marittima per il Mar del Nord la Repubblica aveva visto, per gli effetti della
guerra, gravemente intralciata anche la via terrestre, al punto da doversi
servire, per inviare le proprie mercanzie in Inghilterra e nei paesi del Nord,
della rivale Livorno; che i suoi mercati più ricettivi erano quelli
tedeschi e che ormai il prolungarsi della guerra aveva condotto a un fortissimo
calo del volume stesso dei commerci, accompagnato dalla crisi delle costruzioni
navali, si può ben comprendere come tanto più stringente dovesse
apparire agli uomini di Stato veneti la necessità che in Europa si
giungesse finalmente alla pace.
Senonché,
le vie per venire ad un accordo erano divenute spaventosamente difficili, per i
molteplici contrasti esistenti tra le potenze che si combattevano. Tutte erano
per di più incatenate l'una con l'altra da alleanze che erano a un tempo
di sostegno ma anche di peso. Da quando poi anche la Francia era entrata in
guerra questi legami reciproci erano diventati pressoché indissolubili,
e ogni sovrano temeva di uscire dalla cerchia dei propri alleati e iniziare i
passi per una pace separata. Come sapere, infatti, se l'avversario trattava
onestamente o non lo sacrificava, invece, agli alleati traditi? Come sapere se
non lo si voleva isolare al fine di rivolgere ancora le armi contro di lui,
dopo la vittoria raggiunta? Non solo gli avversari, ma anche gli alleati
diffidavano l'uno dell'altro. Ciascuno temeva di venire piantato in asso e di
essere abbandonato, solo, alla coalizione nemica. Una atmosfera di avvelenato
sospetto dominava non solamente fra i nemici, ma anche fra gli amici, nonostante
i trattati di alleanza.
Così
il "se" e il "come" della pace si erano tramutati in
altrettanti problemi.
Era
la prima guerra paneuropea, con tutte le sue complicazioni e l'intrico di
interessi contrastanti che un coinvolgimento generale portava con sé.
Solamente una soluzione altrettanto generale appariva efficace, e del resto non
vi sarebbe stato alcun profitto ove uno solo fosse uscito dal conflitto:
unicamente una pace universale europea poteva ora porre termine alla guerra.
Eppure passò molto tempo prima che questo concetto si facesse strada e
divenisse una convinzione generale, prima che le trattative singole e i
colloqui segreti avessero termine e venisse stabilito un congresso generale.
La
disputa circa l'ambito dei partecipanti, circa l'organizzazione, il luogo e il
tempo del congresso durò più a lungo delle trattative stesse.
Tutto ciò, infatti, non costituiva solo questione di forma, ma era nello
stesso tempo decisione di sostanziale importanza.
L'invito
dei Reichstände in corpore alle trattative, ad esempio,
metteva in dubbio il potere costituzionale dell’ Imperatore e la
direzione che egli poteva avere della politica estera; se venivano ammessi al
congresso col diritto alla rappresentanza dei loro interessi particolari, essi
erano per ciò stesso riconosciuti come internazionalmente indipendenti.
Questo significava decidere preventivamente su punti essenziali, perseguiti
come scopo della guerra da Francesi e Svedesi, ancor prima che cominciassero le
vere e proprie trattative. Perciò questa questione fu una delle
più spinose e si trascinò fin oltre l'inizio del congresso, dopo
essere stata una delle prime ad essere dibattuta. Il problema era tanto grave
che l'ambasciatore veneto scrisse espressamente al Senato di non aver voluto
esporsi in proposito, preferendo indurre il Nunzio a insinuare all'Imperatore:
"ch'egli avrebbe potuto donare al bene pubblico anche la clausola nondum reconciliati", al che
l'Imperatore aveva dato in escandescenze, replicando che quando i Francesi, per
aver solo le prime aperture di pace con loro, già lo volevano portare a
tali inique condizioni, era meglio mettere la causa nelle mani di Dio, e
ciascuno avrebbe cercato la propria salute per la via delle armi[63].
L'ammissione
al Congresso della Lorena, dei Paesi Bassi spagnoli e dei Catalani e portoghesi
che si erano ribellati sollevava uguali problemi. Anche la forma del Congresso
e delle trattative era estremamente arduo stabilire, perché si trattava
del primo congresso europeo al quale ci si preparava senza avere alle spalle
alcun precedente salvo i Concili ecclesiastici.
Bisognava
chiarire questioni di cerimoniale, di titoli, di precedenze, tutte cose che
avevano un notevole rilievo internazionale, in un tempo che amava esprimere la
dignità delle monarchie simbolicamente, sin nelle più piccole
manifestazioni.
Non
si era formato ancora alcun ordine di rango; o per meglio dire, esso era
oggetto di discussione in misura direttamente proporzionale al mutare della Comunità
dei principi sovrani. Sulla forma dei passaporti, dei pieni poteri, sui titoli
e le allocuzioni si disputò per anni, e non solo per guadagnare tempo.
D'altra
parte ciò avveniva in una Europa dilaniata e divisa confessionalmente,
dove i mezzi di comunicazione erano cattivi, le strade tutte minacciate dalle
guerre e i rapporti fra le potenze particolarmente ardui. Se si considera tutto
ciò può parere quasi un miracolo che, sia pure dopo infinite
pene, si sia giunti ad un accordo su di un Congresso Generale di pace e che i
diplomatici di tutte le potenze europee si siano infine potuti trovare uniti
per trattare la pace.
Raggiungere
una conclusione di pace equivaleva anzitutto a trovare una soluzione il
più possibile definitiva al contrasto d'interessi delle parti in giuoco.
Per
quale via si potesse raggiungere tale soluzione era però un problema
sempre più intricato. Che le parti si intendessero direttamente era
pressoché impossibile. Le armi non ne avevano portato nessuna ad una
superiorità tale da poter imporre all'altra il proprio punto di vista, e
nell'equilibrio delle forze la guerra sembrava destinata a protrarsi
indefinitamente. Occorrevano dunque l'abilità e l'autorità di una
potenza neutrale volte a conciliare le opposte pretese e calmare i risentimenti
delle parti in conflitto.
In
una controversia fra soggetti di diritto internazionale, l'attività
posta in essere, fra le parti, da un soggetto a tale controversia estraneo,
indirizzata a provocarne la soluzione, può assumere varie forme. Essa si
può verificare vuoi perchè il terzo avvicina le posizioni
contrapposte e facilita l'accordo, vuoi perchè, dietro incarico di
queste, formula una sentenza munita di valore vincolante, vuoi perchè,
con la minaccia o con l'uso della forza, provoca autoritativamente una
soluzione imponendosi alla loro volontà. Tale attività,
cioè, si può configurare come arbitrato, come intervento, o come
una di quelle figure che si trovano talvolta separatamente indicate nella
prassi internazionale come mediazione o buoni uffici, senza che peraltro si
ravvisi sempre, fra di esse, una reale differenza qualitativa[64].
Le
parti di una controversia internazionale possono, infatti, pervenire alla
soluzione della controversia anzitutto mediante un accordo di accertamento del
diritto obiettivo preesistente o, se del caso, mediante un accordo costitutivo
di una nuova situazione giuridica, atta a comporre il conflitto di interessi
da cui la controversia è scaturita. Se, però, questa via è
inaccessibile o improduttiva, le parti possono avvalersi dell'opera di un
terzo. Questa, a sua volta, può concretarsi in una attività
arbitrale, nell'ipotesi in cui le parti attribuiscano al terzo il potere di
risolvere la controversia mediante una sua manifestazione di
volontà avente ad oggetto così l'accertamento del diritto
preesistente come, se del caso, la creazione di diritto nuovo; oppure la stessa
può restare al di qua dell'esercizio della funzione giurisdizionale e
concretarsi in una attività volta a facilitare il raggiungimento di un
accordo fra le parti, accordo che, in ipotesi, potrebbe essere tanto un accordo
risolutivo della controversia, quanto un accordo diretto a porre in essere
un procedimento risolutivo della medesima.
D'altro
canto, la soluzione di una determinata controversia in un senso o in un altro,
ovvero il mero fatto della sua sussistenza, può interessare un terzo
soggetto, il quale può autonomamente farsi avanti cercando di portare le
parti ad un avvicinamento, vuoi proponendo, vuoi addirittura imponendo una
soluzione determinata, configurandosi la sua attività, in quest'ultimo
caso, come un intervento.
Già
dal diritto romano, a caratterizzare l’arbitrato – astrazion fatta
per le norme materiali e formali su cui se ne fonda la procedura –
è la sua natura obbligatoria[65]. Fra mediazione e
arbitrato sussiste dunque una differenza fondamentale, che risiede
essenzialmente nella natura della funzione corrispettiva[66] dell'arbitro e del
mediatore. Il primo infatti, pur derivando i suoi poteri dal compromesso
intercorso fra le parti, è chiamato a rendere una sentenza obbligatoria,
mentre il secondo si incarica soltanto di portare le parti ad un accordo[67], e anche quando, in vista
di tale scopo, renda un parere sul merito della controversia, o proponga un
piano di soluzione, si intende che esso non è vincolante per le parti.
Caratteristica precipua della mediazione, infatti, è la sua
facoltatività, vuoi perchè i soggetti della Comunità
internazionale non sono obbligati a ricorrervi – dato, questo, che
accomuna peraltro la mediazione agli altri mezzi di soluzione delle
controversie internazionali – vuoi perchè gli stessi soggetti non
sono obbligati a conformarvisi. D’altro canto, i limiti che tale
facoltatività incontra in via di fatto segnano il confine rispettivo fra
la mediazione e l’intervento, cioè fra l’attività
conciliativa rivolta alle parti in controversia per facilitarne
l’accordo, e l’ingerenza autoritativa consistente
nell’intimazione ad accettare la soluzione indicata, dietro implicita o
esplicita minaccia dell’uso della forza[68].
Ma la
discriminante fra mediazione e intervento è, a volte, di non immediata
evidenza, e non è difficile osservare come spesso l’intervento si
attui sotto le spoglie di una mediazione. La discriminante fra mediazione e
intervento è, a volte, di non immediata evidenza, e non è
difficile osservare come spesso l'intervento si attui sotto le spoglie di
una mediazione[69].
Ciononpertanto, se la distinzione fra mediazione e intervento si colloca, per
il diritto internazionale generale, nella zona spesso indefinibile dei rapporti
di forza e dell’opportunità politica, quella fra la mediazione e
l’arbitrato, che si pone nell’ottica degli effetti giuridici della
decisione resa dall’arbitro, rispetto al piano proposto dal mediatore,
non manca per questo di zone d’ombra.
Infatti
se, concettualmente, la mediazione è chiaramente distinta
dall'arbitrato, e lo è stata ancor prima che la scienza del diritto
internazionale intraprendesse l'analisi dei dati della vita di relazione, la
funzione comune ha fatto sì che si siano sempre, anche se
confusamente, mostrati in evidenza i dati di connessione. Essi si richiamano
essenzialmente a due ordini di fattori: il primo è di natura
sociologica, vale a dire che sussiste una interrelazione profonda fra i due
procedimenti, talchè la frequenza del primo influenza l'altra; il secondo
è di natura procedurale, e cioè è frequente, sebbene la
configurazione pratica oltrechè concettuale sia notevolmente
differenziata, che l'attività di mediazione o di conciliazione si
presenti come una procedura preliminare rispetto all'arbitrato, vuoi che,
rispetto a questo, sia semplicemente strumentale, e cioè sia volta a
portare le parti al compromesso; vuoi che si configuri come un obbligo o una
facoltà dell'arbitro di tentare anzitutto una conciliazione e, solo ove
questa fallisca, pronunciare una sentenza obbligatoria sulla base dello stretto
diritto. La clausola di conciliazione, inserita talvolta nel compromesso,
d'altra parte, presuppone l'impossibilità, per il giudice, di rendere
una decisione fondata sul diritto, ma concerne una funzione relativa al potere
di statuire ex aequo et bono in
quanto si realizza in una situazione che sta a cavallo fra le carenze e le
lacune del diritto[70].
Dalla
mediazione in senso stretto, si distinguono i buoni uffici, differenziatisi da
quella nella medesima maniera in cui la mediazione stessa si era differenziata
dall'arbitrato medioevale, e cioè come una forma più blanda di
interessamento di un terzo in relazione a un conflitto rispetto al quale sia
rimasto neutrale. Il termine "buoni uffici" si trova già nei
documenti diplomatici della guerra dei trent'anni, usato senza una precisa
distinzione da quello di "mediazione". Ancora oggi da taluni autori
si cerca di ammettere e delineare una differenza fra mediazione e buoni uffici,
da altri la si nega[71].
Per
chiarire questo punto va detto innanzitutto che entrambe le forme sono della
stessa natura: il fine che si propongono è il medesimo; sia l'una sia
l'altra hanno, rispetto all'arbitrato, la comune caratteristica di non voler
emettere alcuna sentenza, ma solamente facilitare l'intesa delle parti;
rispetto all'intervento quella di essere assolutamente esenti da minaccia. A
paragone della mediazione i buoni uffici rappresentano un minus, ma in che cosa consista questo minus è difficile stabilire. Chi esercita i buoni uffici non
è certamente solo un messo che s'incarica di far pervenire le proposte
dell'una all'altra parte, perché egli svolge, invece, anche
un'attività propria, intesa a ottenere la formulazione delle proposte
stesse, evitare il rifiuto puro e semplice dell'altra, ad avere quindi delle
risposte contrapposte e mantenere insomma in vita la possibilità di
trattative.
Anche
chi pratica i buoni uffici cerca di rendersi conto del limite cui una parte
è disposta a giungere nelle proprie concessioni: in che cosa dunque i
buoni uffici si distinguono dalla mediazione?
Salvioli
suggerisce che la diversità consista nella proposizione di un
"piano" di accordo che sarebbe caratteristica della mediazione e non
dei buoni uffici[72].
Ma poiché a nessuno Stato neutrale è negato di prestare il
proprio aiuto, anche se non espressamente richiesto, al fine di comporre un
conflitto, e siccome perché si abbia mediazione è necessario
invece un accordo in tal senso degli Stati contendenti fra loro e con il
mediatore, ecco che altri autori vedono giusto in questo punto la differenza
fra mediazione e buoni uffici. Arangio-Ruiz[73] scrive acutamente:
"Con molta approssimazione si potrebbe dire che i buoni uffici sono un
mezzo estraneo sia alla procedura, che resta il negoziato, sia all'oggetto di
essa che è la ricerca della soluzione o del mezzo ulteriore da esperire.
La mediazione investe invece il negoziato sia nella procedura, modificandone i
termini, che non sono più bilaterali, sia nella sostanza, grazie alla
partecipazione del terzo come suggeritore neutrale ed eventualmente autorevole
di soluzione o di mezzi di soluzione".
Si
tratta certamente di differenze sottili, forse più di forma e di
procedura che di sostanza, ma poiché l'oggetto stesso della attività
della mediazione e dei buoni uffici è estremamente delicato, non si
può negare a questa differenza una qualche influenza di ordine pratico[74].
Al
termine della guerra dei trent'anni, per la prima volta dal sorgere del nuovo
sistema di Stati, la diplomazia si trovava di fronte al compito di comporre i
contrastanti interessi delle potenze in conflitto, con riguardo per la loro
già molto accentuata pretesa di sovranità: risultò chiaro
ben presto che nessun'altra forma poteva portare al fine desiderato se non la
mediazione, e veste di mediatori cercarono di assumere quegli Stati che, pur
prendendo notevolissimo interesse all'esito della lite, volevano evitare che la
loro intromissione avesse l'apparenza di un intervento o della pretesa di
fungere da arbitri.
Quelle
che si sono appena delineate sono naturalmente distinzioni le cui linee di
confine derivano dall'astrazione dei dati necessari alla speculazione giuridica
derivanti da una realtà storica determinata, portatrice di un equibrio
fra individuo e Stato, diritto interno e diritto internazionale che non
è se non uno di quelli possibili.
In via specifica se, come è stato detto [75], il solo mezzo giuridico
di regolamento delle controversie, dal punto di vista dell'attuale diritto
internazionale finisce con l'essere lo stesso accordo con il quale gli Stati
compongono i loro conflitti, vuoi direttamente, ponendo norme di diritto
materiale, vuoi indirettamente, creando strumenti e strutture atte a comporre
una determinata controversia ovvero, in ipotesi, ogni possibile controversia,
è anche vero che la mancanza di norme generali, dotate di una reale
efficacia, che impongano un’organizzazione determinata e la esplicazione
di una attività concreta, dipende pur sempre dalla struttura decentrata
e paritaria attualmente propria della Comunità internazionale[76] così come
dall'attuale modo di essere della comunità statuale dipende l'esistenza
di una organizzazione e di norme di tal genere.
La storia del diritto internazionale fa risalire molto addietro
nel tempo l'uso di concludere la pace o di prevenire la guerra mediante l'opera
di un terzo. Più di molti istituti di diritto internazionale, anzi, la
mediazione mostra quanto lontane e complesse siano le radici di questo diritto,
il cui inizio è stato viceversa ritenuto a lungo una ricaduta della
guerra dei trent’anni[77].
L'antichità
sumera, in due stele a caratteri pre-cuneiformi, ci ha lasciato notizia della
funzione arbitrale riconosciuta ai sacerdoti del dio Enlil di Nippur.
Così un lungo conflitto di frontiera, fra gli Stati sumeri di Lagasca[78] e di Umma[79], fu terminato grazie alla
pronuncia di Mesilim, re di Kish. Degno di particolare rilievo è il
fatto che essa sarebbe stata resa in conformità alle indicazioni di
Kadi, dea della giustizia. Questa avrebbe rivelato al re di Kish in quali
termini le rispettive divinità delle due città fossero state a
loro volta riconciliate da Enlil, dio del Nippur[80]. Il caso è stato
variamente interpretato: come un arbitrato, pronunciato da un principe al quale
le parti avevano affidato la controversia con un apposito compromesso[81]; come un intervento di
Mesilim, che si sarebbe trincerato dietro la volontà del dio Enlil
"re della terra e padre degli dei"; ovvero come il giudizio di un superior[82]. Ma più
convincente pare l'interpretazione del Preiser il quale suggerisce si possa
esser trattato di una mediazione[83]. Certo è
interessante che, parallelamente e anteriormente ad un accordo
"internazionale" che si realizzava sulla terra, si ammetteva si
verificasse un accordo analogo in un mondo sovraordinato che ne costituiva
l'archetipo e ne garantiva l'equità. È qui evidente la stretta
connessione tra linguaggio giuridico e linguaggio religioso propria del mondo
antico[84] e la necessità di
non lasciarsi fuorviare dal diaframma mitico-religioso che ai nostri occhi vela
il modo in cui l’evo antico discorre di scienza e di
diritto.[85]
Conosciuta
come mezzo per la soluzione delle controversie fra dei ed eroi, la mediazione
appare frequentemente usata nelle relazioni fra le città
dell’antica Grecia[86]. Le fonti raccolte dal
Piccirilli[87]
mostrano come i casi di mediazioni o di arbitrati, numerosissimi, risalgano
fino al periodo eroico e mitico della Grecia. Dalla contesa di Poseidone e Atena
per il possesso dell'Attica[88], a quella fra Poseidone
ed Elio, per il possesso di Corinto[89], allo stesso arbitrato di
Paride nella contesa fra Era, Atena e Afrodite, dal quale doveva prendere
origine la guerra di Troia[90], la tendenza a risolvere
le controversie intersoggettive mediante il deferimento volontario del giudizio
ad un terzo soggetto si affaccia prepotentemente nella mitologia greca[91]. Ammessa come mezzo di
soluzione delle controversie di dei ed eroi, l'interposizione conciliativa
divenne assai per tempo una prassi consueta nella meccanica dei rapporti fra le
diverse poleis e all' interno di
ciascuna di esse.
Talvolta
la potenza mediatrice garantiva il rispetto del trattato con la propria forza
militare: un uso che Roma farà abilmente proprio[92]. Superato da più
recenti studi[93]
il quadro a suo tempo tratteggiato dal Mommsen[94], si ritiene ormai che
Roma si sia inserita nella comunità di potentati ellenistica, mutuandone
gli istituti. La tesi che Roma abbia usato largamente di mezzi diplomatici per
espandere la propria egemonia, intervenendo con le armi solo quando venivano
minacciati direttamente e pericolosamente i suoi interessi[95], si lega peraltro alla
concezione del bellum, che
intersecando la delicata connessione tra fas
e jus non poteva essere intrapreso
da Roma se non con estrema cautela religiosa e giuridica, dopo
l’esperimento dei rituali affidati ai fetiales
e in presenza di una justa causa[96].
In
altra sede si è visto come questa concezione sia riecheggiata
così nella dottrina civilistica come in quella canonistica della guerra
giusta[97]. L’eredità
romana viene raccolta e trasmessa anzitutto dalla Chiesa, il cui ruolo, anche
in questo campo, cresce già a partire dal tardo Impero: la funzione di
supremo garante della pace, viene subito rivendicata dal Pontefice[98] in quanto vicario di
Cristo, il mediatore fra Dio e gli uomini[99], grazie al quale pacificantur caelestia cum terrestribus et
terrestria cum caelestibus[100]. Anzi la ratio pacis fractae
configura un'autonoma fattispecie delittuosa che richiama direttamente la
competenza della Chiesa[101].
La
mediazione, tuttavia, non necessariamente era affidata agli esponenti della
Chiesa. Intesa come tentativo di componimento bonario intrapreso da terzi, essa
sin dall’alto medioevo si frammescola sovente ad un vero e proprio
arbitrato sicchè era frequente che le stesse persone sulla cui nomina si
era d'accordo, fossero chiamate anzitutto a guidare le parti ad un componimento
amichevole e solamente se questo tentativo non riusciva, a emettere una
sentenza obbligatoria[102].
A un
primo sguardo la stessa scelta delle persone che la porranno in essere,
differenzia la mediazione dai semplici buoni uffici. Il mediatore pone sul
piatto delle trattative tutto il peso della propria forza politica[103]. Dal momento che, come
si è detto, l’uso dei diversi possibili mezzi pacifici di
soluzione delle controversie internazionali è in relazione con la
struttura rilevabile nello stesso momento storico nella comunità
internazionale, sembra che il procedimento di mediazione, non portando ad una
decisione obbligatoria, sia apparso alle parti più conveniente di un
tribunale arbitrale a mano a mano che gli Stati andavano accentuando una
sovranità di tipo moderno[104]. Perciò
l’arbitrato, a partire dalla fine del Medioevo, perse sempre più
terreno. Al suo posto progrediva la mediazione come istituto autonomo, e gli
anni che servirono di preparazione al congresso di Westfalia, così come
il congresso stesso, servirono meglio a delinearla[105].
Non
per nulla Grozio, pur riferendo delle funzioni arbitrali espletate dal re di
Svezia Magnus fra il re di Danimarca e il re di Norvegia (1285), e ancora fra
il re di Norvegia e le città anseatiche, non nasconde di guardare con
qualche scetticismo all’arbitrato che, a suo avviso,
inter reges et
populos locum habere non potest. Nulla enim hic est potestas superior quae
promissi vinculum aut impediat aut solvat[106].
La
scienza giuridica fece seguito dopo qualche tempo alla pratica. Benchè
il termine mediator esistesse
già nella prassi diplomatica[107], nel De jure belli ac pacis[108], scritto proprio in questo torno di anni, Grozio gli preferisce
espressioni come conciliatio, arbitrium, ad reconciliandos o pacificationis
negotium, usati senza apparente distinzione tra loro[109].
Viceversa
nello Jus Gentium methodo scientifica
pertractatum del Wolff, al V Capitolo che porta il titolo De modo componendi controversias gentium
troviamo, accanto alla rinuncia unilaterale e alla transactio, anche la mediazione come possibilità autonoma
nominata accanto e prima dell'arbitrato, mentre vengono dall'autore rigettati
la sorte e il duello singolare.
Ma
già prima di lui Boguslav Chemnitz, la cui famosa storia dell'intervento
svedese in Germania fu pubblicata nel 1648, fece frequente uso del termine e
anzi già distingueva tra una accettata e una non accettata offerta di
uffici diplomatici da parte di un terzo Stato, a proposito della composizione
di una controversia internazionale. L'offerta non accettata veniva da lui
chiamata interposizione, mentre, se l'offerta veniva accolta, il procedimento
che ne seguiva prendeva il nome di mediazione[110]. Quindi, a partire dal
tempo di Luigi XIV e in genere dai giuristi del XVIII secolo, la mediazione
prende un posto definito fra i mezzi volti alla pacifica soluzione di
controversie internazionali.
Tuttavia,
a voler definire il contenuto della mediazione come istituto giuridico, anche
tenendo conto degli apporti della dottrina più recente, non si andrebbe
molto più in là di quanto già or sono due secoli scriveva
Vattel:
«La médiation, dans laquelle
un Ami commun interpose ses bons offices se trouve souvent efficace, pour
engager les parties contendantes à se rapprocher, à s'entendre,
à convenir, ou à transiger de leurs droits, et s'il s'agit
d'injurie, à offrir et à accepter une satisfaction raisonnable.
Cette fonction exige autant de droiture, que de prudence et de
dextérité. Le médiateur doit garder una exacte
impartilitè, il doit adoucir les reproches, calmer les ressentiments,
rapprocher les esprit. Son devoir est bien de favoriser le bon droit, de fair
rendre à chacun ce qui lui appartient: Mais il ne doit point insister
scrupuleusement sur une justice rigoureuse. Il est Conciliateur et non pas
Juge: sa vocation est de procurer la paix et il doit porter celui qui a le
droit de son côté à relacher quelque chose, s'il est
nécessaire, dans la vue d'un si grand bien. Le Mediateur n'est pas
Garant du Traité qu'il a ménagé, s'il n'en a pris
expressément la Garantie. C'est un engagement d'une trop grande
conséquence pour en charger quelqu'un sans son consentement clairement
manifesté. Aujourd'hui que les affaires des Souverains de l'Europe sont
si liées que chacun a l'Oeil sur ce qui se passe entre le splus
éloignés, la Médiation est un moyen de conciliation fort
usité. S'élève-t-il un différend? Les puissances
amies, celles qui craignent de voir allumer le feu de la Guerre, offrent leur
Médiation, font des ouvertures de paix et d'accommodement»[111].
Così
come Vattel non ne parla è assolutamente da escludere l'idea che esista
un dovere giuridico degli Stati neutrali di offrire la loro interposizione ogni
volta che essa possa servire al mantenimento della pace. Questa teoria, che fu
sostenuta da Bulmericq[112] e Kamarowsky[113], dava per lex lata quello che era solo una
necessità politica, la quale però, come tale, viene riconosciuta
da parecchi autori sino alle organizzazioni internazionali dei nostri giorni.
Ma anche nella comunità gerarchica medievale dipendeva dal buon volere
delle potenze neutrali offrire o no la loro mediazione, e dipendeva dalla loro
libera decisione assumere la mediazione loro richiesta. Anche i principi
belligeranti restano liberi di invocare o no l’intromissione di una terza
potenza o di accettarne l’offerta di mediazione, e questo principio
valeva anche per il caso che l’offerta di mediazione o di arbitrato
provenisse dal Papa.
Innocenzo III e Bonifacio VIII, all'inizio e alla fine del XIII
secolo, tentarono di rafforzare la posizione del capo della Cristianità,
nel senso di far ricomprendere nelle sue funzioni una vera e propria
giurisdizione ex officio in caso di
conflitto internazionale[114]. Sia Innocenzo III nella
contrapposizione a Federico II, sia più tardi Bonifacio VIII[115] in occasione della
contesa fra Edoardo I di Inghilterra e Filippo il Bello di Francia, tentarono
di spingere la teoria della potestà papale ratione peccati sino ad affermare che, in materia di trattati
internazionali confermati da giuramento, il Papa avesse il diritto di
intervenire per giudicarne anche al di là della volontà delle
parti.
Proprio le reazioni generate da queste prese di posizione[116], tuttavia, dimostrano
come i principi cristiani non accettassero, per la soluzione delle loro
controversie, una vera e propria giurisdizione del Papa. Si può dunque
affermare che, riguardo alla non obbligatorietà del procedimento della
mediazione, valeva sempre la massima giuridica precisata da Wolff:
«Si ad pacem faciendam adhibeantur mediatores uterque
belligerantium in eosdem consentire debent»[117].
Veri
e propri obblighi in proposito possono derivare solo da una clausola
compromissoria inserita preventivamente in un trattato, sebbene, per quanto
attiene alla comunità gerarchica medievale, la logica della dottrina del
bellum justum ci autorizza a
ipotizzare l’ obbligo di previo esperimento dei mezzi pacifici di
soluzione delle controversie intersoggettive[118]. Un vero e proprio
mutamento di indirizzo è rilevabile proprio col sorgere dello Stato
moderno, che percepisce come una violazione della sua sovranità financo
il riconoscimento di una obbligazione in tal senso.
Pufendorf
– il discepolo e critico di Grozio[119]
– i cercò di stabilire il principio secondo il quale uno Stato
belligerante sarebbe stato obbligato ad accettare un’offerta di
mediazione; anzi, che le potenze neutrali avrebbero avuto il diritto di
costringere i belligeranti ad un accordo nei termini da esse stesse definiti
unendo le forze contro lo Stato renitente[120].
Probabilmente Pufendorf aveva in mente i progetti di una mediazione armata che
avevano solleticato le ambizioni di Giacomo I d’Inghilterra e di suo
figlio Carlo nel corso di buona parte delle guerra[121].
Ma
già Textor la cui "Sinopsis
juris Gentium" veniva pubblicata[122] qualche anno dopo
l'opera di Pufendorf, precisava al contrario che nessuno Stato belligerante
può essere costretto ad accettare una offerta di mediazione se ha buone
ragioni per non farlo, e il rifiuto della mediazione offerta non doveva essere
considerato quale legittimo motivo per offendersi o per dichiarare una guerra. La
stessa posizione venne assunta da un altro discepolo di Grozio, Van
Bynkerschoek, che scrive:
Ut iniquum est principem invitum ad bellum cogere, ita et ad
pacem[123].
Dipende
perciò dal buon volere dei neutrali offrire o no la propria mediazione,
come pure dipende dalla loro libera decisione l'acconsentire o no alla
mediazione loro richiesta. Analogamente gli Stati in discordia sono liberi di
invocare o no l'intromissione di un terzo Stato, e ugualmente liberi sono di
accogliere o no l'offerta che un terzo Stato faccia della propria mediazione
per l'appianamento del conflitto[124]. Naturalmente un dovere
giuridico di ricorrere a questa intromissione o di chiederla per evitare un
conflitto armato o per mettervi fine può sorgere da speciali
disposizioni di trattati[125].
In
ogni caso il fondamento giuridico su cui l'istituto si fonda è l'accordo
mediante il quale le parti in controversia affidano al terzo neutrale il
compito di svolgere l'attività pacificatrice. Il concetto stesso di
mediazione presuppone un incontro di voleri fra il mediatore e le parti. Per
tale accordo valgono le norme giuridiche generali. Norme particolari della
mediazione non se ne possono dare, e questo è stato – secondo lo
Schücking – il motivo per cui la maggior parte delle opere di
diritto internazionale non hanno dedicato all'argomento che poche esposizioni,
limitate alla descrizione delle funzioni del mediatore.
Anche
Anzilotti sostiene che:
«Una determinazione esatta della figura giuridica del
mediatore non sembra possibile né utile al diritto internazionale stante
la mancanza di norme positive e l'estrema variabilità dei casi
concreti»[126].
Per
la stessa ragione da taluno è stato fatto il tentativo di eliminare la
mediazione dal sistema del diritto internazionale e di rimandarla alla politica[127].
Bisogna
tuttavia considerare che, sebbene in relazione alla mediazione non si possano
dare delle norme giuridiche generali, nemmeno si può negare alla stessa
qualsiasi rilevanza giuridica, in quanto l'accettazione della mediazione
– sia quella spontanea, sia quella che derivi da un obbligo
precedentemente assunto – dà luogo a rapporti giuridici che
interessano sia lo Stato mediatore sia ciascuna delle parti contendenti.
Stabilire quali siano in particolare questi rapporti dipende dalla
volontà delle parti nel caso concreto.
In
generale si può dire che lo Stato mediatore si assume l'obbligo di
adoperarsi per risolvere il conflitto, e gli Stati che hanno richiesto - o
accettato - la mediazione quello di consentirgli di esplicare una certa
attività a tale scopo[128].
Anche
dal mediatore si esige la rigorosa imparzialità del giudice, ma il suo
compito non consiste nel portare ad effetto il diritto, bensì nel
condurre le parti ad una intesa, riconciliandole[129]. Salvioli, anzi, va
più in là e sostiene che opera di mediazione è solamente
quella che non accolga integralmente la tesi dell'una o dell'altra parte in
conflitto, perché, in tal caso, si tratterebbe di attività di giudice
o di arbitro. Alla sua tesi, però, non si può aderire
completamente: in primo luogo perché, quand'anche l'accordo fra le parti
venisse raggiunto con l'integrale soddisfacimento di una di esse, rimane pur
vero che a ciò ha portato un'attività di mediazione non
un'attività decisoria; in secondo luogo perché in ogni caso le
parti non avevano attribuito al terzo se non funzione di mediatore, e di
conseguenza solo l’accordo fra di esse sarebbe produttivo della
estinzione della controversia.
Il
mediatore dirige le trattative, assiste agli incontri delle parti contendenti,
partecipa alle eventuali conferenze, le presiede. E' suo compito ricevere le
reciproche proposte; in tale occasione egli deve cercare di chiarire le tesi in
conflitto, e relativamente ai punti in discussione, domandare a ciascuna parte
se è disposta a modificare in qualche punto le sue pretese, suggerisce
qualche variazione studiandosi di avvicinare le due tesi; quindi, portando a
conoscenza di una parte le proposte di un'altra, chiede che questa si pronunci,
si sforza di evitare un rigetto puro e semplice, si adopera perché
vengano fatte ulteriori controproposte. Se poi, nonostante tutti questi sforzi,
non giunge alla composizione della vertenza, allora propone egli stesso un
"piano" come base di comune accordo[130].
Che
il mediatore con ciò non si renda garante del trattato che
successivamente fra le parti può venire stipulato, non è nemmeno
posto in discussione dalla dottrina più recente, mentre gli autori
più antichi hanno qualche volta ritenuto necessario specificarlo. Wolff
in proposito spiega che pur esortando le parti alla transazione il mediatore:
«... dum hoc facit minime promitit auxilium contra eum qui
conventa non servaverint; nec ad guarandam se obligat. Nec obstat si
instrumentum pacis subscripserit. Subscribit enim tanquam testis, non tanquam
guarandus...».
Poco
più oltre, Wolff aggiunge che al mediatore non compete nemmeno lo "Jus instrumentum pacis interpretandi"
giacché in tal caso gli si attribuirebbe un potere maggiore di quello che
le parti avevano voluto conferirgli.
«Si jus interpretandi instrumentum pacis mediatori
competere deberet - chiarisce lo stesso autore - consensus pacem facientium in
eum translatum esse deberet. Sed deficit consensus expressus, quia nihil de eo
dictum in Instrumentum Pacis; deficit etiam tacitus, quia id in Mediatione non
continetur»[131].
Insomma
l'opera del mediatore non deve mai superare: limiti di una intromissione
amichevole, non autoritativa né tanto meno accompagnata da minacce. Se
tacita o espressa chiaramente ci fosse anche la minaccia di ricorrere alla
forza per imporre una determinata soluzione della controversia non di
mediazione si tratterebbe, ma di intervento[132]. Viceversa essenziale
alla mediazione è che gli Stati contendenti restino sempre liberi di
accettare o no le proposte del mediatore, come pure di dare all'accordo che
chiuderà la contesa il contenuto che vogliono, e il mediatore non deve
darsi altro pensiero che di predisporre o di facilitare quell'intesa che, nelle
concrete circostanze del caso, reputa possibile e conveniente.
Non
fu certo per mancanza di offerte di mediazione o di buoni uffici da parte di
paesi neutrali che la guerra dei trent'anni venne tanto prolungata. Secondo il
Colegrove, in nessun'altra guerra dell’ età moderna si è
spiegata attività più intensa da parte di Stati non belligeranti
per offrire i loro uffici al fine di giungere ad una cessazione delle ostilità
e di intavolare i negoziati preliminari per la pace[133]. Oltre a Venezia e al
Papa si possono ricordare l'Inghilterra, la Danimarca e perfino la Francia,
giacché l’ intervento di Richelieu negli affari tedeschi,
già prima della entrata in guerra, pur non proponendosi se non di
dirigere a proprio vantaggio gli interessi delle parti in Germania,
conservò tuttavia le forme esterne della mediazione. Prima di
intromettersi, Richelieu volle essere "fortemente pregato" dai
principi tedeschi, e non si stancò mai di assicurare che Luigi XIII
pensava di farsi avanti non "en
qualité d'arbitre, mais de mediateur". Ora, a dir la
verità, la Francia non era propriamente una potenza neutrale, e in
nessun modo si poteva credere che tendesse solamente al ristabilimento della
pace, giacché molto le interessava anche il suo contenuto; perciò
essa era assai poco adatta a fare da mediatrice. Nessuno in Germania ebbe dubbi
in proposito. L'elettore sassone, ch'era parte in causa e fautore di una
mediazione danese, respinse quella francese e chiese a Féuquieres se la Francia
era disposta a una semplice interposition
d'autorité, vale a dire a una specie di buoni uffici, per il
congresso di pace ch'egli aveva progettato di riunire a Breslau e per il quale
era stata scelta come mediatrice la Danimarca. Naturalmente questo non bastava
a Richelieu, al quale solamente la posizione riconosciuta di mediatore poteva
permettere d'influire in maniera decisiva sulle condizioni di pace,
attribuendogli la funzione che più si avvicinava a quella di arbitro[134].
Similmente
a Richelieu, Cristiano IV di Danimarca, già nel 1629, mentre stava
trattando la pace con l'Imperatore, si offrì di condurre questi e
Gustavo Adolfo alla composizione delle loro dispute. Il motivo che lo spingeva
a ciò era il timore di vedere intraprendere da Gustavo Adolfo una azione
bellica che, ove fosse riuscita vittoriosa, avrebbe guadagnato alla Svezia il
dominio del Mar Baltico, compromettendo gli interessi della Danimarca. Come
risultato dei negoziati promossi da Cristiano IV, venne tenuta a Danzica, tra i
plenipotenziari imperiali e Gustavo Adolfo, una conferenza che però non
produsse il risultato sperato.
Nel
1633, dopo la morte del re svedese, Cristiano IV cercò ancora di ridar
vita a dei negoziati segreti con la corte imperiale, per escludere gli Svedesi
dagli affari tedeschi e convenire una pace particolare fra l'Imperatore e i
Protestanti. L’arcivescovado di Bremen e il vescovado di Verden dovevano
essere la ricompensa dei suoi sforzi, se questi fossero stati fecondi; ma
così come quello della Francia, anche l'interessamento della Danimarca
era troppo sospetto per essere efficace[135].
Altre
offerte infruttuose vennero, dopo la pace di Praga, da parte dell'elettore
Sassone e di quello del Brandenburgo, nonché dal duca di Lüneburg.
Nel 1636 il duca di Arundel fu inviato a Vienna dal re d'Inghilterra con
l'incarico di «interporre la mediazione e il credito nostro presso tutti
i principi e Stati di nostra professione religiosa nell'ambito dell'Impero, al
fine di persuaderli a sottomettersi all'Imperatore e fare la pace»[136].
Richelieu
e Cristiano IV parlavano di mediazione e pensavano ad una autorità
arbitrale, cioè davano al concetto un significato più ampio di
quel che ad esso competeva. Viceversa il Papa Urbano VIII, la cui mediazione
venne invocata alcuni anni più tardi, si impose tali e tanti limiti che
l'attività dei suoi legati si potrebbe certo meglio definire dal punto
di vista del diritto internazionale col concetto dei buoni uffici. Infatti
proponendosi di avere riguardo per la sensibilità delle potenze
belligeranti e di non pregiudicare con la propria opera i tentativi di pace,
egli rinunciò a qualsiasi azione che avesse la sia pur lontana apparenza
di voler influire sulle parti. Nell’ istruzione che il cardinal Ginetti
nel 1636 ricevette per il Congresso di Colonia, veniva a lui sottratta
espressamente una delle più importanti facoltà di un mediatore,
vale a dire quella di fare delle proposte proprie, per la definizione della
lite.
Il
Papa temeva che si potesse dubitare della sua imparzialità se il suo
legato esprimeva il punto di vista personale sulle questioni in discussione: i
suoi primi tentativi di mediazione in Italia erano stati per lui –
così egli diceva – una spiacevole esperienza.
La
funzione che Venezia esercitò nel corso delle trattative si potrebbe invece
proporre come un esempio accademico, poiché essa rivestì sia i
caratteri dei buoni uffici, prima del congresso, sia quelli di una vera e
propria mediazione, in senso formale e sostanziale, durante il congresso.
La
Repubblica offrì i propri uffici e venne appoggiata dalla Francia che
vedeva ancora in lei quella sostenitrice e quella alleata ch'essa era stata
nella prima parte della guerra dei trent'anni, e in un certo senso tale doveva
essere ancora, come si vedrà, in tutto quel periodo che servì di
preparazione al Congresso vero e proprio. Ma ciò avvenne solo in quanto
Venezia si rendeva conto che il cedimento dell'Imperatore su determinati punti
era indispensabile al conseguimento di risultati concreti.
In
effetti quello che premeva alla Repubblica era soprattutto la fine della
guerra.
Per
la pace universale era necessario un congresso universale. Questo concetto si
era cominciato a diffondere un poco ovunque, già prima della entrata in
guerra della Francia, verso il 1632; fino ad allora si era sempre pensato a
trattative bilaterali da governo a governo. Tuttavia il progetto stesso
incontrava delle difficoltà quasi insormontabili. La più ardua
consisteva nel fatto che la Francia voleva trattare solo a patto che fossero
presenti i suoi alleati protestanti, mentre il Papa, il Kaiser e la Spagna pretendevano di estromettere proprio questi
alleati, per cercare una soluzione tra le sole potenze cattoliche. Dal punto di
vista della Chiesa, i Protestanti erano nell’errore, e con l’errore
non si poteva venire a patti. Dal punto di vista dell’Imperatore, quanti
si erano alleati con Federico V avevano partecipato ad una ingiustificabile
ribellione contro il legittimo signore, quindi potevano chiedere mercé,
non trattare da pari a pari.
In
questo modo non si poteva evidentemente arrivare ad alcun risultato
sicché si pensò bene, nei negoziati preparatori, di dividere il
congresso secondo le confessioni, o meglio, di convocare due distinti
congressi.
Questo
pensiero fu concepito contemporaneamente sia dalla parte cattolica sia da
quella evangelica, ma venne per la prima volta espresso dal consigliere (ed
eminenza grigia) di Richelieu, il cappuccino Padre Giuseppe. Questi nel
febbraio del 1634 aveva formulato il progetto di conciliare innanzitutto le
vertenze tra Impero e Francia, e di cercare poi di perseguire un componimento
generale, che lui intendeva, però, come una separazione
spazio-temporale, non come una separazione oggettiva[137].
Il
Papa raccolse il progetto e lo svolse nel senso di due congressi indipendenti
l'uno dall'altro: in Roma per i cattolici, in Trento o altrove per i
protestanti.
Era
l'idea del futuro, e tuttavia nella formulazione del Papa essa conteneva una
condizione che la rendeva inaccettabile: il desiderio che fra i due congressi
non vi fosse alcun rapporto, e che il trattato fra le potenze cattoliche non
dovesse dipendere dal successo delle trattative di pace con i protestanti.
Anche
i protestanti facevano progetti simili: essi proponevano un congresso
tripartito, ma compreso in un confine più ristretto: in Erfurt per gli
evangelici, in Mühlhausen per i cattolici, in Langensalza per i mediatori.
Ma fintantoché le corti di Vienna e di Madrid rimanevano aderenti alla
posizione intransigente del Papa il problema pareva irresolubile.
In
realtà la politica del Papato non era adeguata ai bisogni dell'Europa
durante un conflitto così vasto quale la guerra dei trent'anni. La
Chiesa romana non aveva ancora accettato la Riforma come un fatto compiuto, e
l'unità del mondo cristiano che essa propugnava si restringeva
all'ambito delle potenze cattoliche. Era entro questo confine che il Papa
cercava la pace; ciò che accadeva al di là di esso non lo
riguardava, e indirettamente soltanto, solo in quanto l'ambito delle nazioni
cattoliche potesse venirne minacciato, egli se ne interessava.
Un
Innocenzo III aveva potuto dichiarare che il Capo della Chiesa era il
"mediatore supremo di tutti i paesi della terra". Ma nel passato il
Papa era il mediatore naturale di un ideale Corpus
Christi[138].
Secondo la dottrina canonistica, era lecito sguainare la spada solo per
difendere sè stessi o per combattere contro chi poteva essere definite
nemico[139]. I
civilisti avevano tratto dal Digesto il concetto di nemico, hostis[140]. Secondo la Magna Glossa non ogni avversario poteva
essere qualificato come hostis e non
ogni bellum era licitum, ma solo quello dichiarato perchè reso necessario
per recuperare beni sottratti da altri popoli ovvero per chiedere riparazione
ad offese arrecate al Popolo Romano. In
questa ottica, la Guerra medievale si presentava come una executio juris[141]. L’ Ostiense aveva poi
identificato il Popolo Romano con la Christianitas
e di conseguenza il bellum licitum con
la lotta inter fideles et infideles[142]. Un tale bellum era non solo justum,
ma anche necessarium quia ab illo nulla
die abstinendum est[143].
Ora
l'autorità di cui la Chiesa aveva goduto nelle questioni politiche per
tutto il Medio Evo era decaduta. Il Rinascimento prima e la Riforma poi avevano
avviato una laicizzazione dello Stato e della politica che era già
evidente non solamente nei rapporti fra Stato e Chiesa, ma anche nelle
relazioni degli Stati fra loro, nel diritto e nella prassi internazionale. La
Chiesa proibiva alle potenze cattoliche di avere commercio con gli infedeli; ma
come sarebbe stato possibile obbedirle quando ormai venivano conclusi - da
parte di Venezia, della Francia, della Spagna - trattati e alleanze perfino con
la Porta? Meno che mai, quindi, poteva trovare soddisfazione la pretesa del
Papa che si rifiutasse riconoscimento agli Stati eretici e che si evitassero i
contatti con essi. Ostinarsi in questa pretesa equivaleva a rifiutare la
realtà e rinunciare ad ogni influenza sui rapporti del mondo cattolico
con i Protestanti[144].
Quando,
all'inizio del 1635, cominciò a prendere forma concreta l'idea di un
congresso generale di pace, e già si discuteva della sede (si parlava
delle città di Costanza, Spira, Augusta o Trento), Urbano VIII, vuoi che
avesse seriamente a cuore il problema della pace, vuoi che desiderasse non
essere da meno del re Cristiano IV che non cessava di prodigarsi allo stesso
scopo, offrì la propria mediazione di Vicario di Cristo per persuadere i
principi cattolici ad un accomodamento, e per pungolare le potenze cattoliche
ad affrettare le cose, incaricò il cardinale Ginetti di sostenere l'ufficio
di mediatore, nominandolo "legatus a
latere".
La
nomina di Ginetti spinse effettivamente le potenze belligeranti a fissare un
luogo per il congresso. Venne scelta Colonia perché nel Sud della
Germania infuriava la peste, e così il 26 ottobre 1636 Ginetti si mise
in viaggio alla volta di quella città. Ma quivi egli trovò solo i
plenipotenziari del Kaiser e della
Spagna: la Francia era rimasta ferma insieme con la Svezia, l'Olanda e tutte le
altre Potenze protestanti.
Il
fatto è che l'offerta papale di mediazione era stata trasmessa ai
principi cattolici attraverso i Nunzi che si trovavano nelle capitali europee.
Ma sebbene la regina di Svezia avesse un ambasciatore a Parigi, nessun invito
era stato ricevuto da questo dignitario. La posizione della Svezia non era
più quella che era stata al tempo della pace di Praga quando con la
proposizione del trattato di Schönbeck essa s'era mostrata disposta a
rinunciare ai piani ambiziosi di Gustavo Adolfo; la brillante campagna condotta
nel 1636 da Beners, culminata nella vittoria sulla Sassonia elettorale presso
Vittstock, aveva convinto il cancelliere Axel Oxenstierna a proseguire
decisamente la guerra e a concludere la pace solamente a condizioni favorevoli.
L'atteggiamento del Papa forniva perciò un buon pretesto per non
partecipare al congresso di Colonia[145].
La
Francia, dal canto suo, era ben lungi dal desiderare di mettere a repentaglio
il suo delicato sistema di alleanze aderendo alle posizioni estremiste di
Urbano VIII. Nel '35 Richelieu era riuscito a persuadere Oxenstierna a firmare
a Compiègne un trattato secondo il quale Francia e Svezia non avrebbero
negoziato con l'Imperatore se non insieme e di comune accordo. Ma ormai
Oxenstierna non era più tanto convinto che un allineamento con la Francia
potesse giovare alla Svezia e alle Potenze protestanti in Germania di
più che non concludere, invece, una pace separata con l'Imperatore;
sicché il trattato di Compiègne non era stato ratificato, e
all'ambasciatore francese inviato da Richelieu in Svezia era stata fatta solo
una ristretta promessa che gli Svedesi avrebbero fiancheggiato la Francia al
congresso di Colonia, e questa promessa era stata inclusa nel trattato di
Wismar del 20 Marzo 1636[146].
Richelieu
si trovava perciò nella necessità di conseguire di nuovo un
avvicinamento con la Svezia, anche per evitare che quella nazione assumesse in
Germania la posizione di preponderanza che egli preparava, invece, per la
Francia.
L'attitudine
del Papato era d'inciampo anche per la realizzazione del grande progetto di
forzare l'invito al Congresso dei principi protestanti, giacché nella
politica del cardinale il problema della pace non era soltanto quello di un
accordo fra le potenze europee su singoli argomenti in controversia, ma anche e
soprattutto quello di tramutare in un sistema durevole le già esistenti
alleanze coi Reichstände
tedeschi, e quindi di modificare la costituzione interna del Reich per ciò che concerneva la
libertà di agire dei singoli Stände
in materia di politica estera. Perciò a Wesel, nell'Ottobre del 1636, la
Francia aveva assicurato il langravio dello Hessen-Kassel che non avrebbe
trattato se non insieme ai suoi confederati, cioè non prima che gli
ambasciatori dello Hessen e degli altri principi dell'Impero fossero stati ammessi
a congresso nello stesso tempo e luogo in cui la Francia con la mediazione del
Papa si sarebbe incontrata con le altre potenze[147].
Si
può quindi comprendere quanto poco fosse gradito a Richelieu
l'atteggiamento della S. Sede. Non bastava che il Papa, come eccezionale
concessione - assicurasse che il suo legato avrebbe tollerato la presenza di
plenipotenziari protestanti al Congresso; perché il Congresso non si
tramutasse in una utopia, occorreva l'intromissione di un'altra potenza non
compromessa dalla guerra, che potesse apparire abbastanza disinteressata per
riuscire gradita alle parti in causa, e sufficientemente autorevole per poter
sostenere il peso dei negoziati. La scelta non era facile, giacché non
tutti quelli che si offrivano come mediatori erano adatti a tale delicata
funzione o perché di scarso rilievo politico, o perché troppo
deboli e volubili di governo, o perché troppo interessati all'oggetto
delle trattative.
Politicamente
inadeguato al compito, date le proporzioni degli interessi in giuoco era il
duca di Parma, il quale offrì la propria mediazione nel 1637: una
proposta che Richelieu declinò con fredde e cortesi parole[148].
Troppo
instabile l'Inghilterra, la cui disordinata politica durante tutta la guerra
dei trent'anni si era attirata molto biasimo sul continente. Del resto Carlo I
Stuart non poteva nemmeno essere considerato veramente neutrale dati i suoi
rapporti di parentela con il principe elettore palatino: in effetti quando, nel
1638, tentò di giocare ancora la parte di mediatore, insistendo perché
fosse fissata una conferenza a Bruxelles, si adoperava innanzitutto
perché l'Imperatore assicurasse la posizione del Palatino[149].
Troppo
interessata era anche la Danimarca, il cui re Cristiano IV aveva presentato una
nuova offerta di mediazione, quasi contemporanea a quella del Papa. La sua
intromissione era assai poco gradita alla Svezia, che la giudicava, non a
torto, più ansiosa di far fallire le pretese svedesi sul Mar Baltico che
non di procurare la pace. Per motivi analoghi era sospetta la Polonia che si
era fatta innanzi per lo stesso ufficio.
La
scelta, quindi, cadde quasi naturalmente sul Leone di San Marco, e il 21
febbraio 1637 Richelieu diede istruzioni all'ambasciatore francese a Venezia
perché chiedesse alla Repubblica di offrire la sua mediazione alla
Svezia, per la pacificazione con l'Impero.
La
preferenza di Richelieu era determinata in parte anche dalle ambizioni che egli
nutriva verso l'Italia, ambizioni per la cui realizzazione egli sperava di
avere Venezia dalla sua parte e, al seguito di Venezia, anche gli altri
principi italiani[150].
E'
quasi superfluo notare che l'invito di Richelieu costituiva per la Repubblica a
un tempo l'onore più grande ch'essa potesse desiderare e l'occasione
migliore di controllare a proprio vantaggio la sistemazione politica del
continente: essa acquistava così per via diplomatica la posizione che
altri avevano cercato di raggiungere con le armi.
Secondo
il suggerimento di Richelieu, il 21 marzo 1637 Venezia scrisse al governo
svedese una lettera con la quale offriva i propri uffici diplomatici con la
proposta che le Potenze protestanti accettassero la mediazione del suo
ambasciatore a Colonia.
In
Svezia era ancor vivo il ricordo dei negoziati così felicemente portati
a termine assieme a Contarini, e in ogni caso non si sospettava Venezia di
aspirare ad altro se non alla propria sicurezza[151].
Perciò
l'eventualità che la Repubblica assumesse la mediazione era assai ben
vista dal cancelliere svedese Oxenstierna, anche in considerazione della
possibilità di non restare sempre legato alla Francia.
Nelle
istruzioni per l'ambasciatore svedese Adler Salvius, che portano la data del
settembre 1637, si legge a proposito:
(Art. 16): «Per ciò che riguarda il luogo il meglio
è che tra i cattolici e il Kaiser in Colonia e tra S.M. Reale e
l'Imperatore si tratti in Amburgo. Per ciò che riguarda il termine
bisogna accordarsi perché esso venga stabilito nello stesso momento. Ci
sono due mediatori che si sono offerti a noi per favorire le trattative di
pace: il Re di Danimarca in particolare e Venezia in generale. Per quanto
riguarda la Danimarca null'altro si può stabilire se non che essa debba
venire accettata se ancora offerta e mantenuta. Veramente per il caso che essa
in seguito venga rivolta ancora alle due Corone di Svezia e di Francia,
dovranno seguire delle precisazioni. Venezia offre cortesemente i suoi uffici
con un suggerimento e un'offerta, e viene proposta dal Re di Francia. E dal
momento che fra i Re non c'è nessuno che si interessi della cosa
più del Re di Danimarca, la cosa migliore è che si ringrazino
ambedue e si accolgano le offerte. Per via di ciò S.M. Reale ha fatto
comporre un dispaccio per la Repubblica di Venezia, come dimostra la qui
aggiunta copia, ed ha inviato le lettere al Signor Salvio affinché egli
le consegni a mani al Signor Grozio, ambasciatore di S.M. nonché
all'ambasciatore di Venezia colà residente»[152].
La
lettera, che fu consegnata da Grozio al Corrèr, ambasciatore veneto
presso la corte di Francia, era ispirata ai sentimenti della maggiore stima e
fiducia. Essa diceva che le espressioni con le quali la Serenissima metteva a
disposizione la propria opera per promuovere la pace universale erano state
accolte con animo grato; che quanto dalla Svezia si voleva amichevolmente
ricordare alla Repubblica, sarebbe stato comunicato a voce dall'ambasciatore
svedese Grozio al Corrèr; che si era certi del fatto che per udire tali
comunicazioni e riportarle fedelmente al Senato Veneto, Corrèr possedesse
tutto l'intuito e la finezza diplomatica necessaria. Si assicurava infine alla
Repubblica l'amicizia e l'ossequio della nazione svedese[153].
Nella
lettera si accennava anche all’ indugio con il quale la Svezia aveva
risposto. Difatti la lettera porta la data del 30 dicembre del 1637. Sembra che
tanto ritardo fosse dipeso da un piccolo incidente nato a proposito del titolo
che doveva essere attribuito alla regina Cristina, alla quale, nell'offrire la
mediazione della Repubblica, gli uomini di stato di S. Marco si erano rivolti
coll'attributo di "Serenissima
Regina Sueciae" anziché con quello di "Serenissima ac Potentissima Regina Sueciae". La Svezia
era molto suscettibile in materia di cerimoniale e nella discussione per la
riforma del titolo era trascorso quasi un anno. Perciò Bougeant, il
famoso storico dei negoziati di Westfalia, fa addirittura ricadere su Venezia e
sulla Svezia gran parte della responsabilità del fallimento del
congresso di Colonia[154].
In
realtà si può credere a buon diritto che, se il Congresso di
Colonia rimase infruttuoso, non fu solo per questo motivo. Come già
abbiamo detto altrove, la guerra dei trent’ anni era stata condotta
soprattutto contro una soluzione monarchica del problema tedesco, quale s'era
prospettata in particolare nel primo periodo Boemo-Palatino, ma anche
successivamente, al tempo della pace di Praga. Ecco dunque che, al fine di
influire sulle questioni interne del Reich,
diventava di importanza essenziale la partecipazione al Congresso dei Reichstände. A tal proposito si
può notare che la Svezia, ancora nel 1636, era disposta a trattare
direttamente con il Kaiser e
concludere la pace con lui, contentandosi della sua conferma da parte dei Reichstände in un prossimo Reichstag o Churfürstentag, e fu solo cinque anni più tardi,
nell'ottobre 1641, che il plenipotenziario venne incaricato di invitare gli Stände evangelici a partecipare
alle trattative.
Viceversa
Richelieu nemmeno per un momento riconobbe la competenza del Kaiser alla rappresentanza
internazionale degli Stände dell’Impero[155]. Dalla relazione
presentata dal Grimani al Senato di Venezia sappiamo che fin dai primi abbozzi
del congresso di Colonia:
«haveva il Re Cristianissimo richiesti all'Imperatore i
passaporti per gli Olandesi, Svedesi e principi protestanti d'Allemagna
confederati con la Francia. I primi due, come di principi liberi et
indipendenti dall'Impero così facilmente conceduti, quanto costantemente
negati poi gli altri, come di sudditi vassalli a punto caduti, per quella loro
confederazione con principe estero e nemico, stante le costituzioni
dell'Imperio nel crimine di Maestà lesa»[156].
Dunque
era questo lo scoglio sul quale si infrangevano i tentativi di addivenire ad un
accordo anche solo preliminare, perché la semplice ammissione dei Reichstände al Congresso,
indipendentemente dalle decisioni di quest'ultimo, avrebbe costituito il
raggiungimento dello scopo. Infatti il mezzo con cui gli Stände riuscivano ad acquistare il maggior numero di diritti
era proprio quello di conseguirne il possesso almeno per una volta; se un
determinato modo di agire veniva non contraddetto o anche tollerato in
silenzio, ciò bastava agli Stände
per dire che una "consuetudine" (Herkommen)
si era già formata, talché si meravigliavano se essa veniva poi
contraddetta[157]
L'Imperatore
sperava ancora di averla vinta su questo punto e ad Amburgo, ove sotto la
mediazione danese s'era riunita una conferenza di pace protestante, cercava di
raggiungere una pace separata con la Svezia.
L'Imperatore
sperava molto in questa mediazione danese, giacché poteva ben credere di
essersi assicurato il favore di re Cristiano IV con la promessa di territori e
altri vantaggi; viceversa il governo svedese guardava con molto sospetto alle
iniziative danesi e, nonostante ogni attestazione di riconoscenza, evitava che
i negoziati vertessero sugli argomenti principali, e portava invece la
discussione sulle norme che avrebbero dovuto dirigere i negoziati e sulla
formula dei passaporti.
A
questo proposito, intanto, Venezia interponeva con profitto i suoi uffici
presso le corti di Vienna e di Parigi.
A
Parigi l'ambasciatore veneto Correr si era guadagnato molto credito, e
Richelieu nutriva per lui tanta stima che spesso se ne serviva come di una
persona di fiducia nelle congiunture più difficili[158].
Fu in
gran parte dovuto alla sua abilità se i negoziati circa i passaporti
giunsero infine a conclusione: il cardinal Ginetti scrisse al Correr una
lettera in cui lo lodava per le sue molte cure al riguardo, e lo stesso Urbano
VIII gliene mandò un'altra in cui magnificava i suoi meriti per la pace
universale.
A
Vienna, già prima dell'arrivo di Grimani, il ministro di Venezia quivi
residente, Ballarino, era stato più volte pregato dal Nunzio pontificio
Baglioni di cercare di ottenere qualcosa dall'Imperatore riguardo ai
salvacondotti. L'Imperatore tuttavia aveva opposto la più viva
resistenza. Non solo, come ci fa sapere Grimani, per la riluttanza dei ministri
che tutti indistintamente ve lo sconsigliavano, trattandosi di approvare una
ribellione di sudditi che si erano alleati con aperti nemici dell'Impero, con
pessimo esempio per l'avvenire, ma anche e assai più per l'assoluta
avversione che a dare il suo consenso provava lo stesso Imperatore, il quale a
questi discorsi era stato visto turbarsi e impallidire, mentre le sue risposte
erano sempre mordaci. Egli diceva, infatti, che gli si chiedeva a bella posta
ciò che certo non poteva dare, al fine di far cadere su di lui la colpa
di non volere la pace e aggiungeva che il permettere eccessi di tal natura,
cioè che i suoi sudditi andassero a un libero congresso, invece di
venire ai suoi piedi a rendergli l'omaggio della loro devozione, non l'avrebbe
tollerato mai.
Un
simile atteggiamento e siffatte parole mostravano la più viva e ferma
risoluzione di non voler nemmeno sentir parlare dell'argomento, ed erano tali
da scoraggiare chiunque dal tentare di nuovo di accennarvi; e infatti Grimani
confessa d'essersi sentito assai in angustia quando, dietro pressione della
Francia, il Senato lo aveva incaricato di rivolgere i suoi uffici a tal fine,
insistendo presso lo stesso Imperatore e presso i suoi ministri con tutti i
mezzi possibili.
Tanto
più difficile era questo compito in quanto l'ambasciatore spagnolo
Castañeda cercava in tutti i modi di gettare il discredito
sull'ambasciatore veneto, sostenendo in ogni sua udienza presso l'Imperatore
che anche col solo prestare orecchio a simili richieste dei Francesi, egli
veniva a rimetterci troppo della sua reputazione imperiale. E aggiungeva che,
se l'ambasciatore di Venezia le sosteneva, non gli si poteva giammai prestare
fede, poiché la Repubblica era sempre stata interessata e piena di
gelosia e di timore della Casa d'Austria, e non si poteva credere che il Senato
veneziano, dopo aver tanto brigato e aver speso tanto oro per metterla in
guerra con la Francia, negoziasse ora sinceramente per riunirle e accordarle;
che se poi avesse mutato veramente partito e si fosse messo a disfare il suo
stesso operato, bisognava egualmente ridere di questa mediazione dei Veneziani,
giacché la Repubblica dava segni evidenti d'essere ormai giunta al
declino e di avviarsi verso la fine della sua potenza[159].
Grimani
tuttavia adempì egualmente le proprie commissioni. Secondo quanto egli
stesso ci fa sapere, adducendo le ragioni più forti che gli riusciva di
trovare, misurando le parole, cogliendo le occasioni, ora pazientando e ora
insistendo, lasciando cadere il discorso senza più parlarne anche per
dei mesi interi e riprendendolo poi or con l'uno or con l'altro, con fervore
più o meno accentuato a seconda delle occasioni e finalmente mettendo
sempre bene in chiaro che il proprio interessamento non derivava dal desiderio
di compiacere la Francia, bensì da quello di facilitare la quiete e la
pace, Grimani riuscì per prima cosa a imprimere bene negli animi di
tutta la corte la convinzione della sincerità e del disinteresse del
Senato Veneto e della sua mediazione, e quindi ad ottenere non solo i
passaporti particolari per il langravio dello Hessen e il duca Bernardo di
Weimar, ma anche quello generale per tutti i principi protestanti tedeschi
nominati nello stesso passaporto con il titolo - tanto aborrito dall'Imperatore
quanto a tutti i costi bramato da Richelieu - di alleati della Francia.
I
passaporti furono inviati speditamente in Francia e quivi tramite gli uffici di
Correr approvati dal Re e da Richelieu. Era logico aspettarsi che secondo
quanto era stato promesso - i plenipotenziari francesi facessero la loro
apparizione a Colonia. Ma così non fu e per questo motivo Grimani si
ebbe le rimostranze dell'Imperatore e di tutta la corte.
Il
fatto è che la Francia non solo non intendeva adempiere la promessa,
grazie alla quale aveva ottenuto la partecipazione al congresso sia di quelli
che restavano tuttavia contumaci con l'Imperatore, sia anche di tutti gli altri
che avevano già per la pace di Praga ricevuto il perdono con il recupero
dei beni e degli stati, ma aveva fatto nuovamente ricorso al Senato di Venezia
per la concessione di un altro passaporto particolare ai principi Palatini, dei
quali non s'era parlato mai in precedenza, in quanto esclusi dalla
Capitolazione di Praga.
Che
un principe dell'Impero, reo di ribellione e pertanto messo al bando
dell'Impero, potesse comparire non già ai piedi dell'Imperatore suo
sovrano come supplice, ma a un libero congresso insieme con gli altri a
produrre le sue ragioni, per il recupero sia dei suoi beni - attualmente in
possesso degli Spagnoli e della Baviera - sia del suo voto elettorale -
trasferito dall'Imperatore al duca di Baviera - era cosa tanto inusitata ed
enorme che nessuno credeva che Grimani sarebbe riuscito nel suo intento.
Si
diceva anche, a Vienna, che il Palatino perseverasse nella sua ribellione
all'Imperatore e che già avesse tracciato a Bruxelles un trattato di
alleanza offensiva con il re d'Inghilterra.
In
effetti vi erano altre ragioni assai più gravi, per cui era assurdo
pensare che l'Imperatore potesse ammettere la sua presenza al Congresso di
Colonia: in primo luogo il riguardo per gli Spagnoli che si erano insediati nel
Palatinato inferiore; o ancor più il fatto che il duca di Baviera,
cognato dell'Imperatore, era stato fatto padrone del voto e possessore degli Stati
del principe palatino a disimpegno dell'Austria superiore (feudo patrimoniale
degli Asburgo) a lui ipotecata per le grandi spese precedenti e successive alla
guerra. Perciò non era pensabile che l'Imperatore volesse rimettere in
discussione una questione tanto importante.
Invece,
contro ogni aspettativa, Grimani riuscì a conseguire anche questo
risultato. Nel frattempo i Francesi, per mezzo del generale Bernhard von Saxen
Weimar (legato a loro dal trattato di S. Germano), avevano riportato una serie
di vittorie in Lorena e sulla parte alta del Reno, culminanti nella presa di
Rheinfelden, di Friburgo e della fortezza chiave di Breisach. In particolare
quest’ ultima conquista rompeva d'ora in poi e decisamente la stretta
degli Asburgo sulla Francia; cosicché Grimani aveva avuto buon gioco nel
far riflettere che le cose non erano a un punto tale che gli Austriaci
potessero permettersi di dettare legge alla Francia escludendo dal Congresso i
suoi confidenti ed includendovi i propri amici e fautori, e che del resto senza
la soluzione della vertenza relativa all’elettore Palatino non era
ragionevole sperare che si instaurasse in Germania una pace durevole e sicura:
le insistenze con cui si richiedeva la partecipazione di quel principe al
congresso ne erano una prova.
Insomma
l'Imperatore concesse il passaporto per il principe Palatino, e per di
più dette a Grimani la facoltà di poterlo regolare e farvi le
aggiunte ch'egli considerava convenienti[160]. Concessione e favore
così straordinari - ci fa sapere Grimani - da suscitare viva sorpresa
ovunque. Grimani si ebbe le congratulazioni e i ringraziamenti di quegli stessi
che lo avevano scoraggiato dicendogli che aveva intrapreso un affare disperato.
Grimani
si occupò anche della intitolazione da usare per i salvacondotti degli
Olandesi e della Savoia, e di sua spontanea iniziativa - vale a dire senza che
il Senato gli avesse affidato alcuna commissione in proposito - visto che il
Nunzio proponeva una tregua d'armi, se ne fece anche lui fautore
"affinché non si credesse che Venezia si interessava meno di
chicchessia della quiete pubblica".
Da un
punto di vista definitorio, le funzioni di Grimani a Vienna, così come
quelle del Correr alla corte di Francia, mostrano chiaramente, rispetto ai
negoziati per la pacificazione dell'Europa, quanto labili si presentino i
confini fra mediazione e buoni uffici. Difatti, benché suggerita
caldamente dalla Francia e accettata con entusiasmo dalla Svezia, mancava
ancora alla intromissione veneta l'accoglimento del Kaiser, il quale, per motivi ormai noti, preferiva la mediazione
danese.
D’altra
parte, i negoziati degli ambasciatori veneti in questo periodo non si
discostano dai limiti della persuasione, né investono così
intimamente i negoziati fra gli Stati contendenti, da fare loro perdere il
carattere di negoziati diretti, anche se molte concessioni vennero fatte e su
molti punti si raggiunse l'intesa proprio grazie all'incessante opera della
diplomazia veneta.
L'ambasceria
di Correr a Parigi non terminò che nel '41, perché quando
già la Repubblica lo avrebbe richiamato, Richelieu mostrò
così vivo disappunto che Correr dovette restare e fermarsi ancora oltre
l'arrivo del suo successore Giustiniani, che venne da lui presentato a corte.
Il richiamo in patria di Grimani coincise con il momento in cui l'Imperatore,
convocata una Dieta a Regensburg col proposito di compiere un ultimo tentativo
di riguadagnare a sé gli Stände,
partiva alla volta di quella città.
A
questo punto delle trattative, la
corte imperiale aveva cercato di rendere definitiva la scelta della
città di Colonia per i negoziati con la Francia, e della città di
Amburgo per quelli con la Svezia. Ambedue le corone non ritennero opportuno,
però, di lasciarsi separare l'una dall'altra da tanta distanza. Avevano,
anzi, nuovamente rinnovato ad Amburgo la loro alleanza[161], impegnandosi a
proseguire la guerra e trattare la pace di comune accordo.
Ad
Amburgo, tuttavia, si approntarono finalmente i preliminari del congresso;
veniva stabilito che le trattative di pace sarebbero state condotte con la
Francia a Münster e con la Svezia a Osnabrück: due città della
Westfalia non più distanti d'una giornata l'una dall'altra. Il trattato
constava di due accordi: il trattato svevo-imperiale, concluso fra l'ambasciatore
imperiale Konrad von Lützow e quello svedese Johann Salvius, e la lettera
dello stesso ambasciatore imperiale diretta all'ambasciatore francese Claude de
Mesmes conte D'Avaux, unita alla risposta di quest'ultimo al re di Danimarca
che fungeva da mediatore.
Una
forma tanto complessa dimostra quanto intricata fosse la situazione. Di due
monarchi che decidevano di iniziare trattative di pace l'uno non riconosceva lo
stato giuridico dell'altro e tutt'e due, quindi, si trovavano nella condizione
di non poter essere parti di un accordo, dal che derivavano confusioni di vario
genere e parecchie riserve[162].
Veniva
comunque stabilito che i due documenti suddetti dovessero valere come un unico
trattato; nello stesso modo anche le due assemblee di Münster e
Onsabrück sarebbero state considerate come un unico congresso. Ognuna
delle parti interessate doveva avere piena libertà e sicurezza di
viaggiare da un luogo all'altro ovvero di potere comunicare vicendevolmente con
un luogo posto a metà strada tra le due suddette località.
Tenere
le trattative in due luoghi differenti ma non molto lontani fra loro era infine
apparsa la soluzione più pratica, non solo, come si sa, per superare lo
scoglio dell'atteggiamento del Papa, ma altresì per evitare grossi
problemi relativi al cerimoniale e alle precedenze. Soprattutto gli Svedesi si
rifiutarono puntualmente di cedere la precedenza ad alcun'altra Corona che non
fosse quella dell'Imperatore.
Münster
era guardata allora dal presidio imperiale mentre Osnabrück era tenuta
dagli Svedesi: ma questi furono allontanati dalla città e per
salvaguardare la libertà del Congresso il paese fu dichiarato neutrale
per molte miglia tutt'intorno.
La
funzione di potenze mediatrici sarebbe stata affidata tra Francia e Impero,
come pure tra Francia e Spagna, alla Repubblica di Venezia e al Papa; tra la
Svezia e l'Impero alla Danimarca, che aveva promosso il trattato preliminare di
Amburgo. Alla fine, però, la Danimarca dovette ritirarsi a causa della
guerra che all'improvviso le mosse contro la Svezia; quanto alla mediazione
della Sede apostolica, anche il Nunzio alla fine si ritirò, aborrendo il
Trattato di pace sino al punto da non volerlo sottoscrivere né volervi
essere nemmeno nominato. Contro di esso, anzi, elevò una vibrata
protesta per avere esso mancato di tenere conto degli interessi della religione
cattolica.
La
guerra ardeva ancora in ogni provincia, in ogni isola e angolo d’Europa.
Descrivere a quale fondo di abbrutimento e di miseria avessero portato cinque
lustri di continui passaggi di armate non è compito di questo studio.
Basterà qui accennare al fatto che, soprattutto in Germania, la
civiltà pareva tornata indietro di secoli. Più ancora delle armi,
la peste e le carestie avevano decimato la popolazione che la fame spingeva a
gesti estremi.
«La desolazione della Germania dopo trent’anni di
guerra è spaventosa – scrive l’ambasciatore veneto inviato
come mediatore al congresso, in uno dei suoi primi dispacci –
città distrutte, campagne abbandonate, mortalità grande, miseria,
fame; non basteranno cento anni a rimettere questa provincia nello stato nel
quale io stesso l’ho veduta in altri tempi»[163].
In
questa cornice va inserito quello che fu il primo grande congresso
internazionale della storia europea. Come è stato, infatti,
ripetutamente notato, si trattava della prima applicazione ad una regolazione
generale degli affari internazionali di un procedimento destinato a fare scuola
e ad essere seguito ripetutamente sino ai nostri giorni. Fino allora, infatti,
solo i concili ecclesiastici avevano avuto tale carattere ecumenico: essi,
però, anche quando avevano degli scopi politici, erano formalmente
riuniti esclusivamente per definire problemi di natura religiosa. La
novità fu rilevata dagli stessi contemporanei:
«Le historie dei secoli andati, né forse quelle dei
venturi produrranno un generale Congresso come quello che per la Pace
universale abbiamo ai nostri tempi venduto. Si può chiamare una delle
meraviglie del mondo che in un sol luogo habbino tanti diversamente
acconsentito che si trattino li proprj con gl’affari di tutta la
Cristianità»[164].
Così
si legge nella relazione finale che Contarini presentò al Senato al
termine della sua missione.
Come
s’è detto, quali sedi del Congresso, a preferenza di altre
città più grandi come Francoforte, Colonia, o Amburgo,
ch’erano state proposte in un primo tempo e poi subito scartate, si erano
scelte due piccole città della Westfalia che non contavano più di
diecimila abitanti ciascuna[165]. Münster con le sue
case nobiliari e borghesi, le sue undici chiese e il suo bel mercato
principale, era molto graziosa: i Francesi le fecero l’onore di
paragonarla ad Orleans. Osnabrück era più povera e duramente
provata dalla guerra. Entrambe conservavano i caratteri di cittadine di
campagna: molte case borghesi avevano lo stesso aspetto delle case contadine
della Westfalia, con il caratteristico traliccio di quercia, l’aia e la
stalla. Il bestiame circolava di giorno e di sera per le strade; accadeva
sovente di incontrare per le vie cittadine dei carri agricoli e più di
una volta gli ambasciatori si lagnarono della sporcizia e del disordine delle
due città. Chi veniva dal Sud, però, era soprattutto colpito
dalla durezza del clima nordico che contribuì a rendere più pesante
l’annosa sosta nella terra inospitale.
Presto
ci si dovè occupare di trovare un alloggio per ognuno dei moltissimi
ambasciatori colà convenuti. Tale compito spettò al consigliere
imperiale Crane, il quale lo poté assolvere, sembra senza
difficoltà. Osnabrück accolse solo gli Svedesi e parte dei Reichstände: alcune canoniche e le
più grandi case patrizie bastarono alla bisogna. A Münster, ove
l’intera Europa s’era data appuntamento, c’erano, secondo la
relazione di Crane, migliori abitazioni che a Colonia, dove egli aveva
acquisito una certa esperienza in preparativi di quartieri per il Congresso. A
Münster si spiegò così, dopo l’arrivo degli
ambasciatori, una elegante vita di società. Le case nobiliari offrivano
un ambiente acconcio al lusso degli ambasciatori. Anche alcune case borghesi
servirono come quartieri d’ambasciata[166] .
Per
l’ambasceria veneziana venne proposto, in un primo momento,
l’affitto della ‘Casa dei commercianti’. Tuttavia non fu qui
che andò ad abitare l’ambasciatore veneto, bensì in un
edificio del Capitolo nella Piazza del Duomo. Su questa piazza si affacciavano
anche le abitazioni degli ambasciatori di più alto rango. La bella
‘Casa dei commercianti’, che è sopravvissuta alla
distruzione della città nella II guerra mondiale, servì di
abitazione agli Olandesi[167].
All’inizio,
le trattative ebbero luogo ora in questo, ora in quel quartiere degli
ambasciatori, sicché non ci fu bisogno di alcuna vera e propria aula di
sessioni. Poi, per i negoziati dei Reichstände
si scelse a Münster la casa episcopale del Duomo, in Osnabrück il
nuovo municipio.
Il
trattato di Amburgo aveva stabilito che entrambe le città dovessero
essere dichiarate neutrali. Anche questo compito spettò a Crane[168], il quale nell’
estate del 1643 proclamò, a Münster come ad Osnabrück,
l’editto imperiale che scioglieva i cittadini dai loro giuramenti e
doveri nei confronti del Kaiser e del
loro Landesherr. Entrambe le
città furono così sovrane.
Allontanate
quelle delle potenze belligeranti, a protezione di Münster rimase una
speciale truppa di 1200 uomini, che, secondo la necessità, poteva venire
rinforzata da cittadini armati.
Entro
le mura della città, a Münster la giurisdizione veniva esercitata
dal Consiglio cittadino, che giudicava anche sul basso personale
d’ambasciata, in questi casi spogliato dei suoi caratteri diplomatici. La
responsabilità della sicurezza del Congresso venne assunta dai
magistrati della città, i quali dell’adempimento di questo compito
erano responsabili verso i mediatori[169].
Pertanto
ai mediatori spettò anche la funzione di vegliare sulla libertà
dei commerci e la conservazione della neutralità nella regione
circostante le due cittadine, nonché di prendere le disposizioni
necessarie per il mantenimento della quiete interna. Pertanto ad essi si fece
ricorso per ottenere una mitigazione dei dazi imposti dallo Hessen e degli
Svedesi[170];
all’ambasciatore veneziano si rivolsero i Francesi per esporre i loro
dubbi circa l’osservanza della neutralità di Münster[171]; e da una lettera
indirizzata a Chigi, nella quale il Consiglio cittadino si difendeva
dall’accusa, noi possiamo dedurre con quanta prontezza Contarini avesse
assolto il suo mandato[172].
Nel
luglio del 1646 la città di Münster chiese l’aiuto del
Veneziano affinché i soldati dello Hessen restituissero dei cavalli
rubati o requisiti nottetempo in contravvenzione alla neutralità della
regione disposta dal trattato preliminare. Nello stesso tempo si sollecitava
l’ambasciatore veneto perché interponendo la propria opera di
mediatore presso i plenipotenziari svedesi e francesi evitasse che
l’esercito di Turenne e quello svedese comandato da Wrangel, unendosi,
prendessero quartiere nelle vicinanze[173].
L’intervento
dell’ambasciatore veneto venne altresì richiesto per convincere le
parti a disporre d’accordo una specie di coprifuoco per il servitorame,
affinché esso non circolasse più per le strade dopo il suono
serale delle campane[174].
Ad
Osnabrück la protezione del congresso, mancando una potenza mediatrice
colà accreditata, fu più difficile. A quanto si sa, vi
provvedé la stessa cittadinanza. Nel complesso le due cittadine
godettero, durante gli anni delle trattative, di una serena quiete, ma subito
oltre le loro mura era il caos: non di rado gli stessi corrieri diplomatici
venivano aggrediti. Delle missive intercettate si faceva poi un uso disinvolto.
L’uomo
cui il Senato di Venezia commise l’incarico di mediatore al congresso di
Münster, quegli cui solo spettò l’onore di venire
gloriosamente riconosciuto come tale nello strumento di pace, fu lo stesso che
aveva già mostrato di essere il miglior diplomatico di cui la Repubblica
potesse vantarsi: Alvise Contarini[175]. Di lui Wicquefort
avrebbe scritto che era talmente fatto per negoziare che tutta la sua vita non
doveva essere altro che una continua ambasceria.
Già
molti membri della sua nobile famiglia avevano servito la Repubblica nelle
cariche più alte. Quanto a lui, com’è noto, era stato
dapprima corriere nei servizi diplomatici, poi ambasciatore a Londra, Parigi,
Roma e Costantinopoli; ovunque aveva riportato successo, dispiegando una rara
abilità diplomatica. L’incisione che di lui si possiede ce ne
dà il ritratto fisico; quello morale è più difficile da
tracciare. Nelle testimonianze che parlano di lui, noi possiamo, comunque,
intravedere l’uomo di grande fermezza, cui la lucidità
dell’ingegno, non disgiunta da personali doti di spirito, aveva
guadagnato il favore delle corti europee. Indiscusse ne erano l’abilità,
l’esperienza e la dirittura morale, sicché la sua presenza al
congresso fu vista con piacere, quantunque si sapesse che non era uomo da
piegarsi facilmente ai piani altrui[176].
La
chiarezza con cui discerneva gli elementi essenziali di un problema - e di
ciò è una prova il suo stesso stile, quale appare dai dispacci e
dalla lunga relazione presentata al Senato al termine dell’ambasceria,
stile che, per risalire al Seicento, è di una insolita modernità
– così come lo portava ad aborrire l’ impreparazione e la
mancanza di razionalità, gli conferiva altresì quella franchezza,
più volte e da molti rimarcata, che era insieme la sua qualità
precipua e il difetto di cui veniva spesso accusato.
Così
ad esempio rilevano i plenipotenziari francesi:
Nous sommes mesmes obbligez de vous dire
pour ne rien desguiser que monsieur Contarini particulièrement en divers
endroitz de la conférence a faict paroistre une chaleur
accompagnée quelquefois d’un peu d’aigreur: que nous voulons
plustost imputer à sa franchise et au zèle qui il a pour
l’avancement des affaires qu’a aucune autre cause[177].
La
risposta della corte francese sembra voler scivolare sul problema:
«L’esprit de monsieur Contarini
paroist plain de chaleur, et pour estre né dans une ville libre il
devroit se souvenir de la prudence et de la lenteur avec laquel les affaires y
sont traitctées»[178].
Ma
nel memorandum inviato ai
plenipotenziari nello stesso giorno, gli accenti erano invece assai duri:
«...on ne juge pas expédient
de se laisser mettre le pied sur la gorge ny de supporter davantage le proceder
du Contarini s’il continuoit à parler avec la hauteur et la
véhémence qu’il a commencé. Il faut
considérer que les Vénitiens sont fort avantageux en leur
manière de négotier quand on les souffre et que parmy eux peut
estre n’y en a-t-il pas un qui n’emportast que monsieur Contarini
si on le laisse faire.... le Roy et son conseil n’avoient pas
truvé fort bon tant de chaleur qu’a tesmoignée monsieur
Contarini ...S’il allègue d’estre libre, il faut qu’il
uze de ses libertez dans sa patrie, non pas avec des ministres du Roy qui ne
sont pas obligez de souffrir ce qu’on luy pourroit souffrir à
Venize»[179].
Certe
sue frasi di tanto in tanto, ci appaiono davvero un poco troppo pungenti per
essere quelle di un diplomatico. Come quando - ad esempio - lo sentiamo
accusare esplicitamente l’ambasciatore francese Servient di essere la
causa di ogni difficoltà, oppure altrove quando quasi lo udiamo
rispondere ironicamente all’ insinuazione che cedendo in qualcosa avrebbe
potuto con più facilità ottenere alla Repubblica degli aiuti
contro il Turco, che la Repubblica farebbe bene a cedere qualcosa alla Turchia,
affinché questa, conclusa la pace con Venezia, volgesse le sue armi
contro gli altri Stati.
La
sua libertà, poi, non si mostrava soltanto nel linguaggio: anche nello
scrivere egli non si faceva scrupolo di usare le espressioni più
caustiche per stigmatizzare meglio fatti e comportamenti.
Così,
lamentando l’apatia del Pontefice, egli scrive al Senato:
«Sarebbe anche necessario qualche gagliardo urto al
Pontefice per distaccarlo dal sonno profondissimo nel quale al presente si
trova, a segno che possa con qualche fondamento affermare che egli né
veda né forse capisca l’importanza di che si tratta, lasciando che
la natura operi senza alcun aiuto, non avendo fatta ancora dichiarazione alcuna
straordinaria per mostrare il desiderio della Pace»[180].
Per
vero il Nunzio – che in buon accordo divise con Contarini le fatiche
della mediazione – temeva un poco lo spregiudicato linguaggio del
collega, da lui ritenuto eccessivo e imprudente. Ma il Veneziano vedeva con
esattezza e sapeva far vedere anche agli altri le ragioni dei fatti; in questo
era la sua forza; e del resto non abbiamo notizia che si sia mai lasciato
sopraffare dalle circostanze.
Che
come mediatore abbia curato gli interessi della sua patria, si comprende da
sé. Ma quegli interessi si accordavano pienamente col suo compito, al
contrario di quanto accadeva per quelli della Curia. Lo sguardo di Venezia,
come si è accennato, si volgeva al Mediterraneo, cioè si appuntava
al minaccioso pericolo musulmano; e alla città importava solo che i
contrasti delle Potenze si componessero, perché queste potessero unire
le proprie forze contro il nemico ereditario della Cristianità.
A
ciò Contarini mirò intelligentemente ed energicamente. Egli
cercò di apparire assolutamente imparziale, non accettò alcun
dono, non pranzò mai con alcun ambasciatore e non invitò mai
nessuno alla sua tavola. Si concesse solo di avere quei pochi, scelti ospiti
che non gli procurassero il sospetto di parzialità[181].
Data
la lunga alleanza di Venezia con la Francia, questa si aspettava di essere in
qualche modo favorita nel corso delle trattative, e tanto grandemente se ne
stupì quando così non fu, che il ministro francese Brienne si
lagnò con l’ambasciatore veneto a Parigi, accusando il mediatore
di favorire gli avversari. Ma Contarini serenamente rispose al collega di
domandare pure a Brienne - quando fosse tornato sull’argomento - in che
consistesse la sua parzialità, aggiungendo che né le lusinghe
né le accuse degli altri lo avrebbero smosso da
quell’atteggiamento che gli aveva guadagnata l’approvazione del
Senato con il titolo di “uomo dabbene”.
Facevano
parte della legazione veneta anche un segretario, Andrea Rosso, nominato nella
lista di diplomatici compilata da Christoph Philippi, e tre aiutanti. Oltre a
questi soggiornarono con lui quale per lungo, quale per breve periodo, anche
dei giovani desiderosi di far pratica di diplomazia, che aiutavano Contarini
nello scrivere e nel tradurre e che Contarini raccomandò poi all’
attenzione del Senato.
A
Münster divideva con Venezia il compito della mediazione anche la S. Sede.
Pertanto Contarini, nell’adempimento del suo compito, ebbe un collega che
fu in un primo momento il legato Rossetti; ma questi non ottenne il gradimento
della Francia e venne dal Papa Urbano VIII sostituito con la persona di Fabio
Chigi.[182]
Chigi,
più tardi cardinale e Papa, era di nobile famiglia senese; quando venne
destinato a Münster non aveva svolto altre legazioni che a Malta e a
Colonia, ove era stato Nunzio. Sulle prime fu giudicato con poca benevolenza da
Contarini. La sua inesperienza in fatto di politica faceva temere al Veneto
intralci e difficoltà.
In
quel momento, poi, la Repubblica si trovava in discordia con la S. Sede a causa
della guerra di Castro, o guerra dei Barberini, circostanza che aggiungeva un
altro elemento disturbatore alla già ingarbugliata matassa degli affari
europei. Sulle prime, perciò, i mediatori non ebbero nemmeno rapporti
fra loro, e all’arrivo del Nunzio a Münster Contarini si
rifiutò di mandargli incontro la propria carrozza[183].
Poco
appresso, però, terminata la guerra dei Barberini con la mediazione
(meglio si potrebbe dire l’intervento) della Francia, e avuto modo di
avvicinare e di conoscere meglio il Chigi, Contarini modificò del tutto
la propria opinione sul conto di lui. Infatti, non molto tempo dopo quando -
con la morte di Urbano VII e la successione di Innocenzo X - si temette anche
una sostituzione del Nunzio, egli interessò il Senato affinché
interponesse i suoi buoni uffici a Roma per evitare che ciò accadesse.
Così, per tutta la durata delle trattative, intercorsero tra i due
mediatori dei rapporti di tale buona armonia e confidenza che nessuna delle
parti poté mai farvi breccia, tanto che si disse vi fosse maggiore
armonia fra i mediatori che non fra i plenipotenziari di una stessa nazione.
In
effetti Chigi, oltre all’assoluto candore di vita e alla mancanza di
ipocrisia, possedeva una sensibilità e una erudizione non comune; tutte
doti che insieme alla simpatia di Contarini – cui si aggiunse anche,
pare, quella degli stessi Protestanti - gli fecero conseguire in breve tempo
una discreta abilità diplomatica che di anno in anno si andò
sempre più raffinando.
Non
di rado nella pazienza di Chigi, Contarini trovò il giusto correttivo
della propria talora eccessiva animosità. Un esempio di ciò
può essere il seguente episodio, riportato da Adam Adami: verso la fine
del trattato, Servient inviò ai mediatori delle lettere colme di parole
offensive sia per loro, sia per gli Spagnoli. Contarini, sdegnato, desiderava
rispondere ancora più aspramente; il Nunzio, invece, lo convinse a
desistere da tale proposito e a rispondere invece in questo senso: che gli
insulti rivolti ai mediatori nelle lettere non li coglievano, affinché
non sembrasse che da mediatori si divenisse avversari; gli altri - quelli che
toccavano agli Spagnoli - non sarebbero stati riferiti, giacché compito
dei mediatori era di procurare solo cose giovevoli alla pace e non alle risse[184].
Ma il
raggio d’azione di Chigi era, a causa delle istruzioni di Roma,
limitatissimo. Bisognava ch’egli fosse molto riservato nelle
comunicazioni coi Protestanti, perché la S. Sede non manteneva alcuna
relazione diplomatica coi principi non cattolici.
Chigi,
quindi, doveva assolutamente evitare di negoziare con gli ambasciatori
evangelici, e non firmare alcuno scritto ove fosse menzionato il loro nome;
difatti non venne nominato nemmeno una volta nello stesso strumento di pace.
Per salvaguardare gli interessi della S. Sede, secondo quelle che erano le sue
commissioni si dovette esaurire in avvisi e proteste la cui inutilità
non celava neppure a se stesso.
Il
suo poco invidiabile incarico gli pesava duramente talché era solito
paragonarsi a Pietro, comandato da Dio d’ingoiare violenze ed ingiurie.
Se in precedenza Contarini aveva trattato
direttamente con chi aveva in mano le redini del potere, qui a Münster la
sua azione si svolgeva, invece, tra gli ambasciatori delle diverse potenze
interessate. La
lista che ne compilò Christoph Philippi ne conta ben centoquarantotto, di
cui trentasette stranieri e centoundici tedeschi. Fra questi ultimi, dieci
erano solo di Casa d’Austria, giacché Ferdinando III era
rappresentato non soltanto quale Kaiser,
ma altresì come re di Boemia e granduca d’Austria. Oltre a
ciò erano presenti delegati in rappresentanza dell’ intera Casa
d’Austria e dell’Arciduca Leopoldo quale Capo dell’Ordine
Teutonico.
A
Münster si trovavano tutti gli ambasciatori stranieri eccetto quelli
svedesi e danesi, cosicché fu qui che tutte le fila si legarono
l’una con l’altra. Contarini riferisce, nella sua relazione finale,
che i Tedeschi usavano mandare al Reichstag
due ambasciatori[185] dei quali il primo era
il titolare ricco e rinomato di una signoria, che aveva la funzione di capo
rappresentativo, e il secondo era un “dottore” di rango inferiore,
che si occupava delle trattative orali e scritte. L’uso si mantenne anche
al Congresso. L’ambasceria imperiale a Münster era formata dal Conte
Johann Ludwing von Nassau, appartenente ad una delle più nobili famiglie
della Germania e dal dottore Isaac Volmar, cancelliere del governo
dell’Austria anteriore, cui la nascita umile non impedì di
diventare uno degli uomini guida del Congresso.
A
Osnbabrück erano presenti il principe di Auersperg – che aveva
firmato ad Amburgo il Trattato preliminare e che in un secondo momento venne
sostituito con il conte Lamberg – e il consigliere Johann Crane. Nel 1645
la direzione della legazione passò però interamente nelle mani
del primo ministro conte di Trauttmansdorf, che rimase in Westfalia un anno e
mezzo, e durante il suo soggiorno pose le basi di quello che sarebbe stato il
documento finale.
Al
contrario del suo predecessore, Trauttmansdorf era riuscito a farsi affidare
dal Kaiser Ferdinando II, che pure
non era molto propenso a lasciarsi guidare dai ministri, tutta la direzione
degli affari imperiali, dimostrando in ogni sua azione di mirare ad un unico
scopo: il bene dell’Impero e di Casa d’Austria. Grimani ce lo
descrive come un uomo naturalmente giusto e sincero, da tutti stimato per la sua
integrità senza uguale, molto ben disposto verso la Repubblica di
Venezia, se pure non molto incline verso le altre Nazioni[186].
Trauttmansdorf
e Contarini erano fatti per intendersi, entrambi erano aperti, spregiudicati,
convinti che la strada migliore da seguire fosse quella di adattarsi alle
circostanze per riprendere il ceduto in tempi migliori, che gli ideali astratti
non facevano leva e che gli unici argomenti convincenti erano quelli
dell’interesse particolare.
La
Francia era rappresentata in modo eminente da due signori della nobiltà
burocratica. Il primo, Claude de Mesmes conte d’Avaux, era stato
ambasciatore a Venezia. In anni successivi aveva compiuto missioni diplomatiche
in Svezia, Polonia e Germania; possedeva una vasta conoscenza di fatti e persone,
parlava correntemente il Tedesco e cercava di accattivarsi le simpatie con la
cortesia e la vivacità dei modi. Fedele figlio della Chiesa era un
oppositore della politica di Mazarino, che aveva visto nel Congresso una buona
occasione per tenerlo lontano dalla corte. Contarini lo definisce irresoluto,
indeciso, sempre dubbioso d’errare, di testa debole.
Tutto
l’opposto, a suo dire, era il collega, Abel Servient, conte de la Roche:
duro, energico, meno malleabile e senza tanti riguardi delle forme. Questi due
diplomatici erano appena giunti a Münster che subito entrarono in
discordia fra di loro. Dispiaceva al D’Avaux che il collega, inferiore di
rango, lo superasse nella confidenza di Mazarino; a Servient doleva il credito
che d’Avaux s’era acquistato in Germania per aver condotto in porto
il trattato preliminare. Con grande scandalo di tutto il Congresso,
l’uno, per il piacere di poter accusare l’altro, non si faceva
scrupolo di rendere pubblici i segreti più gravi delle trattative.
Alla
fine i mediatori minacciarono, a nome della Sede Apostolica e della Repubblica
di Venezia, il proprio ritiro e la revoca dell’ufficio di mediazione se i
due diplomatici francesi non si fossero dedicati al trattato di pace con animi
e voti più concordi[187].
Così,
dopo averli più volte ripresi, la corte di Francia, per sedare le
contese, inviò a Münster il duca di Longueville, che con la moglie
bella e intelligente fece della propria casa il centro brillante di
Münster. Senonché, anche il duca di Longueville in patria apparteneva
all’ opposizione: anche lui Mazarino aveva inviato a Münster al fine
di non esserne disturbato a corte, e chi alla fine poté godere di un sia
pur tardo trionfo fu Servient il quale, dopo che furono richiamati in patria
tanto il suo avversario che il duca, raccolse da solo i frutti del comune
lavoro, firmando la pace per la Francia.
Simile
a quella appena descritta – sebbene lontana da tali eccessi – era
la situazione della legazione svedese. Qui la Svezia era rappresentata da Axel
Oxenstierna – figlio dell’omonimo Cancelliere – e da Adler
Salvius; quest’ultimo, molto più avanti dell’altro per
età ed esperienza, e pur sapendo di essergli superiore per carattere e
spirito, si vide dal collega sorpassato e costretto a giuocare più il
ruolo di un servitore che non quello di un ambasciatore[188]: anche questi due
diplomatici facevano politica l’uno contro l’altro anziché
l’uno con l’altro.
Plenipotenziario
spagnolo fu, in un primo momento, don Diego Saavedra; il quale, però,
venne poi sostituito dal conte di Peñaranda e – a imitazione del
costume tedesco – dal dottore Antonius Brun.
Peñaranda
era un cavaliere dell’ordine di Calatrava. Terzogenito di una nobile
famiglia si era dedicato in un primo momento agli studi delle lettere, ed era
divenuto lettore pubblico a Salamanca. Morti poi i fratelli maggiori, aveva
ereditato insieme col titolo e con le fortune della sua casa anche
l’obbligo di maritarsi; cosa che aveva fatto con una dama nobilissima e
di bellezza così notevole che – riferisce Contarini – si
diceva che il Re lo avesse mandato a Münster più per tenerlo
lontano che per le sue doti di diplomatico[189]. Per la verità a
Peñaranda pesava assai la sua permanenza in Germania. Tutto gli era
ingrato: le questioni, il Paese, gli uomini, e soprattutto il clima,
così diverso da quello spagnolo, e così poco favorevole alla sua
salute. Ma come diplomatico sapeva fare il suo mestiere: infatti, riuscì
a concludere una pace separata coi Paesi Bassi, infliggendo un duro colpo al
sistema francese di alleanze.
L’assunzione
da parte di Venezia del ruolo di mediatrice fra le Potenze belligeranti non
mancò di creare dei problemi. Che - a parte quello riguardante il
dissidio con la S. Sede[190], d’altronde ben
presto appianato - riguardavano soprattutto il cerimoniale. Questo, veramente,
fu un campo sul quale si disputò per anni al congresso, e a scorrerne
gli atti si ha quasi l’impressione che esso costituisce l’unico
argomento di discordia.
Non
bisogna tuttavia valutare tali questioni per meno di quello che erano,
soprattutto parlando di un’epoca la quale riteneva che il trattamento
riservato al suo ambasciatore ordinario riflettesse il rilievo internazionale
della nazione. Sicché non deve stupire se le questioni relative al
cerimoniale furono, nel congresso di Westfalia, così lungamente
dibattute, se pure non c’è dubbio che tali problemi abbiano,
quanto meno all’inizio, goduto di una attenzione esagerata; tanto che si
può ben comprendere come il Nunzio se ne lagnasse asserendo che, per
conto suo, non avrebbe avuto difficoltà a dare a tutti il titolo di
“maestà”, se ciò avesse agevolato la pace.
Per
vero tutte queste difficoltà non sorgevano solo dalla vanità dei
diplomatici, come potrebbe sembrare: esse manifestavano piuttosto un momento
nella evoluzione della ambasceria e del sistema europeo degli Stati. Questo
sistema non era ancora completamente definito, tanto più che
nell’ambito degli Stati sovrani volevano entrare sempre nuovi Stati
ansiosi di riconoscimento; oltre a ciò faceva difetto, riguardo alle precedenze,
un ordine consolidato. Ambedue le cose, l’aspirazione ad un
riconoscimento e a un posto dignitoso nell’ordine delle precedenze,
trovavano evidente espressione nel cerimoniale diplomatico, sicché tutte
le questioni ad esso relative acquistano un senso e un significato oggettivi.
Era
stata giusto Venezia per la prima, per tenere a bada la minacciosa potenza,
turca, ad avere, nel XV secolo, “inventato” le missioni permanenti,
cominciando col tenere un ambasciatore fisso a Costantinopoli.
L’iniziativa aveva conseguito considerevole successo, ed era poi stata
estesa a tutta l’Europa. Nel XVI secolo si era però fatta strada
un distinzione fra gli ambasciatori permanenti[191], che si divisero in due
classi la cui differenza, nonostante i confini incerti e la denominazione
oscillante, si fece presto chiaramente avvertita. La classe più nobile
era quella degli ambasciatori o legati. Solamente principi sovrani e libere
repubbliche potevano servirsene: così aveva deciso in una lite Carlo V,
respingendo per tutti i rappresentanti di Stati nascenti da titolo feudale, la
qualifica di ambasciatori. Per questo l’Imperatore aveva, tra le
Repubbliche, parificato alle Monarchie solo Venezia, ponendola al di sopra dei
principi italiani e tedeschi: perché quella era libera e questi
feudatari del Reich[192].
Gli
ambasciatori di principi non sovrani formavano una categoria di rango
particolare e venivano chiamati “Agenten”
o “envoyè”.
Ma la
denominazione non era così sicura: la stessa Venezia chiamava
ambasciatori e gli uni e gli altri. La diversità delle due categorie
trovava espressione più chiara nei rispettivi privilegi e nel
cerimoniale. Solamente i primi godevano di una illimitata protezione di diritto
internazionale. Rappresentandone la persona, all’ambasciatore spettavano
quasi gli stessi onori che sarebbero stati resi al sovrano: egli faceva
l’entrata più solenne nella città ove lo portava il suo
incarico e gli venivano spedite incontro persone di alto rango in corteo
solenne. Al suo arrivo riceveva, da tutti i diplomatici già presenti, la
prima visita; mentre il rappresentante di un principe non sovrano doveva sempre
renderla lui per primo agli ambasciatori. Ad un ambasciatore si tributavano
onori militari, ma soprattutto gli spettava il titolo di eccellenza[193].
Naturalmente
anche i principi sovrani e le libere repubbliche potevano servirsi di
diplomatici di secondo rango, ma la facoltà di nominare in ogni tempo
degli “ambasciatori” aventi diritto a tutti i privilegi propri
della categoria, li poneva nettamente su un altro piano. La letteratura di
diritto internazionale dell’epoca è d’accordo su questo
punto: il diritto di ambasceria è una emanazione della indipendenza,
cioè della sovranità[194]. Dalla pubblicistica
viene messo in risalto che il diritto di ambasceria deve essere considerato
come un diritto fondamentale degli Stati indipendenti, deducendosi dalla sua
esistenza l’ indipendenza dello Stato che lo esercita.
Venezia,
essendo l’unica repubblica equiparata alle teste coronate, facilmente si
vedeva contestato il proprio privilegio, e poiché questo voleva dire
decadere al livello di Stato inferiore, era logico che stesse ben attenta a
difenderlo in ogni occasione. Ecco perché, quando l’ambasciatore
spagnolo Oñate aveva apostrofato il Gritti con la frase «ho detto
che non voglio trattar del pari con Vostra Signoria» Venezia s’era
affrettata a richiamare il proprio ambasciatore[195].
Soprattutto
coi principi elettori Venezia era in conflitto giacché, avendo
Ferdinando II nelle sue capitolazioni elettorali stabilito che gli ambasciatori
dei principi elettori dovessero avere la precedenza su quelli di tutti gli
altri a eccezione dei Re, ora gli stessi non volevano più cedere di
fronte all’ambasciatore veneto, e asserivano che quanto Ferdinando II
aveva dichiarato alla Dieta di Regensburg – doversi concedere agli
ambasciatori della Repubblica veneta trattamento regio – non aveva valore
perché il decreto mancava del loro consenso[196], e che spettavano a loro
i primi luoghi dopo le Corone. Venezia aveva ribattuto che l’Imperatore
non le aveva riconosciuto altro posto se non quello che essa godeva da tempo
immemorabile e Grimani s’era fatto obbligo di intervenire a tutte le
cerimonie ufficiali, onde confermare il suo posto e non permettere che
sorgessero nuovi dubbi.
Ma il
problema si ripresentò al congresso, dopo che vi vennero convocati tutti
i principi dell’Impero[197]. A Linz
l’Imperatore aveva convenuto con il duca di Baviera che i suoi
ambasciatori avrebbero trattato quelli elettorali come trattavano i
rappresentanti delle altre Corone. Dal punto di vista dei principi elettori,
questo voleva dire non solo essere autorizzati a trattare per sé stessi,
ma essere riconosciuti come membri del consesso europeo. Così di nuovo a
Münster sorse questione sulla precedenza che spettava
all’ambasciatore veneto, cioè se egli dovesse venire prima o dopo
i principi elettori[198].
Un
approccio significativo al problema ci appare quello della regina Anna, la
quale avvertì i propri ambasciatori di non contrastare le pretese
dell’ambasciatore veneziano cui era commessa la mediazione:
«J’ay examiné la
pretension de l’Ambassadeur vénitien, ses raisons et les vostres,
et je passe condemnation à son proffict. Leur République a obtenu
de la France tous les honneurs royaux qu’ils reçoivent; si au
commencement cela se debvoit ou non, c’est ce qui n’est plus de
question, la possession est le meilleur titre qu’on puisse
allèguer pour cela. L’Empire et l’Espagne, aprés
l’avoir longuement contesté ont suivy l’exemple, et
présentement à Munster ils les en laissent en possession»[199].
Ma
nello stesso giorno, Servient aveva inviato a Brienne un dispaccio così
concepito:
«Mais certes, après avoir
desjà par succession de temps obtenu tous les honneurs qu’on leur
faict qui mettent la Républicque de Venize dans une esgalité
desraisonnable avec la première Couronne de la Crestienté,
Monsieur Contarini a mauvaise grâce de vouloir aujourd’huy forcer
les Ambassadeurs de sa Majesté par la nécessité
qu’il croid qu’on a de son entremise à lui accorder une
nouveauté qu’il demande avec aultant de hauteur et de violence que
sy on luy faisoit injustice en voulant vivre comme on a faict cy devant»[200].
Il
Nunzio, si pronunciò espressamente – così fecero pure i
Francesi e gli Spagnoli - a favore della precedenza della Repubblica, per la
ragione che la Repubblica a Roma aveva diritto di Cappella, i principi elettori
no.
Allora
questi ultimi presero la risoluzione di dichiarare che la precedenza spettava a
Venezia perché mediatrice: Contarini non volle disputare del
perché, si contentò dell’effetto[201], che però
badò bene a difendere in ogni occasione[202].
Anche
con il duca di Savoia Venezia si trovava in un conflitto simile[203]. L’ambasciatore
del duca di Savoia voleva essere considerato alla stessa stregua del Veneto, e
avere diritto sia al titolo di eccellenza sia alla cerimonia di introduzione[204]: e alla fine del
Congresso chiese espressamente al Governatore della città lo stesso
servizio d’onore riservato a Contarini; anche a lui si rispose che quel
servizio non era stato reso al Veneto in sé bensì al mediatore, e
che sarebbe stato incongruo porgere al Sabaudo quanto non era stato concesso
agli ambasciatori dei principi elettori né da questi richiesto[205].
Un
altro incidente sorse pure coi Francesi. Costoro allorché nel 1664
trattarono all’Aja per un rinnovo dell’alleanza, si sentirono
richiedere dai Paesi Bassi una parificazione dei loro ambasciatori con quelli
Veneti. I francesi, sia pure molto a malincuore, consentirono a questa
richiesta, perché avevano tutta la convenienza di tenere legati alla
propria alleanza i Signori Stati (per venire a Münster con le due braccia
armate-nota Contarini-che erano gli Svedesi il destro e gli Olandesi il
sinistro). Escogitarono tuttavia un espediente per evitare la completa
equiparazione dei Paesi Bassi alle Monarchie: quello di creare una differenza
tra monarchie e repubbliche. Pertanto allorché D’Avaux ricevette
la prima visita di Contarini gli andò incontro solamente per cinque
gradini, e al suo congedarsi lo accompagnò solo fino ai piedi della
scala, senza fare gli ultimi passi sino alla carrozza. Ciò manifestava
la ben calcolata intenzione di riconoscere al Veneziano una posizione
intermedia tra una ambasciatore e un”envoyé”. Contarini
protestò, dichiarando di non potere ricevere dalla Francia trattamento
dissimile da quello che gli riservavano gli ambasciatori dell’Imperatore
e della Spagna, e poco dopo, sopraggiunto Servient, si astenne dal fargli
visita finché non venne ordine dalla corte di Parigi di trattare il
mediatore come facevano gli ambasciatori imperiali e spagnoli[206]. Ma la posizione di
Venezia tra le Potenze europee, benché tradizionalmente riconosciuta,
era così singolare che continuamente dava origine a contese, e in
occasione del ricevimento del duca di Longueville la lite per la successione
delle carrozze si accese tanto violenta che Contarini minacciò di
andarsene.
La
pace di Westfalia non portò a forme definitive del cerimoniale
diplomatico. Alla Repubblica di Venezia continuò ad attribuirsi il rango
di testa coronata, ma con la motivazione che ciò accadeva per avere essa
nella pace di Westfalia sostenuto il ruolo di mediatrice: l’assenza di
dipendenza dall’Impero aveva, ormai, perso significato.
Da
Westfalia in poi, la costituzione del Sacro Romano Impero raggiunse la forma
che essa doveva mantenere sino alla fine; una forma strana per la maggior parte
dei giuristi del tempo, un ibrido dal momento che essi non sapevano se definire
l’Impero una monarchia[207]ovvero una aristocrazia[208]: non si era ancora
sfuggiti alle categorie aristoteliche, ma in compenso l’attenzione era
catturata dalle nuove teorie sulla sovranità di Bodin e dei suoi
seguaci. In quanto disegnavano un potere concepito come indivisibile, tali
teorie portavano inevitabilmente alla distorsione del concetto di Impero[209]. Il quale viene travolto
da quello dí Stato, mentre la figura sacra dell’ Imperatore,
immagine del sovrano universale, si
è laicizzata in quella di Capo dello Stato. Del resto
l’unificazione della Germania nella forma di uno Stato moderno è
ormai impedita proprio dalla Pace di Westfalia, la quale congela l’impero
nel decentramento delle funzioni dell’ordinamento[210], soprattutto di
decentramento di uso della forza proprio del suo retaggio medievale.
D’altra parte, nemmeno il rafforzamento della signoria territoriale
potrà dirsi vera e propria sovranità sintanto che l’Impero
non sarà definitivamente sciolto.
Ecco
perciò che all’indomani di Westfalia, prendono vita concezioni che svilupperanno l’analisi dei
Sistemi di Stati[211] e più tardi la
dottrina del Federalismo: l’Impero viene definito come Status mixtus[212] ovvero civitas composita[213]. La peculiarità
della costituzione dell’Impero obbligherà Pütter a parlare di
zusammengesetzten Staat, di respublica composita ex pluribus
respublicis specialibus.
Nell’art.
8 del Trattato di Osnabrück, venne infatti riconosciuto non solo lo jus territoriale dei Ceti imperiali
– i quali vedevano sancire con forza non solo il loro diritto di
intervento in molte questioni di vitale importanza, ma anche quello di
stipulare trattati, in particolare trattati di alleanza, anche con potenze
straniere[214].
Frutto di trattative spinose[215], quest’ultimo
diritto si radicava in realtà in una età in cui, non conoscendosi
un potere sovrano complessivo, capace di imporsi sul territorio e sul popolo
simile all’odierno potere statuale, un’alleanza compatibile con il
mantenimento della fedeltà nei confronti del signore feudale, non solo
non costituiva una violazione degli obblighi assunti verso quest’ultimo,
ma era un elemento funzionale alla dinamica politica[216].
Ciononpertanto il Reich è caratterizzato ora
dall’insieme delle norme sulla prevenzione della guerra fra i Reichsstaende, ai quali non è
consentito ricorrere alla forza per la soluzione delle controversie
intersoggettive. Essi dovranno scegliere i mezzi diplomatici, come la
mediazione, i buoni uffici, ovvero ricorrere ai grandi tribunali
dell’Impero, Reichskammergericht e
Reichshofrat, e giustamente nei Vortraege
di Carl Gottlieb Svarez il Reich viene
definito «una confederazione di diversi Stati sotto un comune Capo
Supremo, al fine di mantenere la pace e la sicurezza fra di loro, nonché
di difendersi dai nemici esterni»[217].
Di più: pur trasformato in una confederazione di Stati, o
forse proprio per questo, il Reich seguita
pur sempre a rappresentare l'unità dell'Europa, e proprio per i suoi
aspetti più risalenti, vale a dire grazie al permanere dei caratteri
dello Stato patrimoniale: è infatti in funzione dei feudi posseduti all’interno
dell’Impero che partecipano alla sua Dieta, cioè al Reichstag il re di Polonía, come
elettore sassone, il re di Danimarca per via delle contee di Oldenburg e
Delmenhorst, il re d’Inghilterra come elettore del Braunschweig-Lueneburg
Hannover, il re di Svezia per via dei ducati di Bremen e dei principati di
Pommem e di Vehrden, il re di Sardegna, come principe dell'Impero, quale duca
di Savoia. Inoltre, anche altre potenze estere come la Francia, possono
mandarvi i loro ambasciatori. Sul Reichstag dunque merita che ci si soffermi
sia pur brevemente.
Il Reichstag è
una assemblea, composta dal Kayser e
da tutti i Reichsstande, che permette
all'Imperatore di esercitare quegli jura
maiestatica in ordine ai quali secondo le Leggi dell'Impero, ha bisogno del
consenso degli Staende, in quella
struttura bicefala della sovranità che è tipica degli Stati per
ceti. Esso è regolato dalle Capitolazioni Elettorali oltreché da
testi normativi molto risalenti come la Bolla d'Oro. Poiché vi erano
stati imperatori, come ad esempio Federico III, i quali avevano adunato da due
a tre Diete in uno stesso anno, e altri, come ad esempio Ferdinando III, che
non ne avevano convocata nessuna, i principi elettori si erano riservato il privilegio
che l'Imperatore dovesse consigliarsi con loro circa la data di convocazione
della Dieta, la quale doveva tenersi entro i confini del Reich. Era invece decaduta la consuetudine secondo la quale
Norimberga dovesse essere la sede quanto meno della prima Dieta di ogni
Imperatore.
Dai
tempi della Riforma infatti s’era dovuta scegliere una città ove
sia i Cattolici sia i Protestanti potessero liberamente e comodamente
professare il loro culto e a tal fine le città di Regenspurg e di
Augspurg furono quelle ove più di frequente si tennero le Diete, anche
perché avevano buone comunicazioni con Vienna, ove risiedeva
l'Imperatore, da che questi era di Casa d'Austria. Da questo punto di vista, se
già nella Pace di Augusta era stato sancito il principio cuius regio et eius religio. Il 1648 lo
istituzionalizzò definitivamente, modellando sulla pace religiosa il
funzionamento della Dieta. L'Instrumentum
Pacis Osnabrugense, infatti, all'art. V, § 52, diceva:
«In causis religionis, omnibusque aliis negotiis ubi
Status tamquam unum Corpus considerari nequeunt, ut etiam Catholicis et
Augustanae Confessionis Statibus in duas partes euntibus, sola amicabilis
compositio lites dirimat, non attenta votorum pluralitate... etc. »
Il portato di questa
norma sta nell’attento equilibrio che nella Dieta veniva mantenuto fra
gli interessi religiosi coinvolti di tempo in tempo.
Il Reichstag apre di
fatto le sue sedute con la solenne lettura della Proposition nel Rathaus,
nella cui gran sala è eretto un trono ove siede l'Imperatore circondato
dai suoi Ministri. A destra ed a sinistra stanno i Principi Elettori, mentre
lungo i due lati della sala si trovano due lunghi banchi all'uno dei quali
siedono i principi ecclesiastici, ed all'altro quelli laici. In fondo alla sala
vi è un cancello avanti al quale si trovano i deputati delle
città[218].
Mentre le stesse Capitolazioni elettorali impegnano
l'Imperatore, per quanto sta in lui, a non frapporre ostacoli alle discussioni
ed alle deliberazioni, ma più che sia possibile affrettarle,
sollecitando la discussione sulle materie ricordate nella Proposìtion a non tardare la emissione dei convenienti
decreti riguardanti le conclusioni della Dieta, gli Staende non sono obbligati a rispettare l’ordine delle
materie proposte nella Proposition. Al
Reichstag del 1663 venne pure
sottoposto come primo oggetto della proposizione imperiale la resistenza contro
i Turchi, ma gli Stati non vollero prenderlo ìn esame prima che fossero
state esaminate le altre materie. Vanamente, Leopoldo I venne da Vienna a
Regenspurg sperando che la sua presenza inducesse a diverso consiglio gli
Stati, perché costoro – provocando come ricordano diversi
giuspubblicisti, un notevole ritardo dei lavori – non accondiscesero se
non a trattare contemporaneamente il punto riguardante l'ordine dei lavori
unitamente al punto attinente all'aiuto contro i Turchi.
Due Uffici connessi al Direttorio e tanto importanti da venire
ricordati nelle Capitolazioni Elettorali erano quelli della Dictatur o dettatura e quello della
notificazione degli atti.
Qualsiasi oggetto da sottoporre all’Assemblea, venisse
esso proposto dal Kayser stesso con
un Hof-oder Commissionsdecret, ovvero
da un qualsiasi Stand, ovvero anche
da un privato, doveva esere inviato per iscritto al Reichsdirectorium il quale convocava i Legationscancellisten per la Dictatur,
ovvero per il ritiro dei fogli stampati in cui era esposta la materia che si
voleva discutere. Fatto ciò il Reichs-Directorialgesandte
raccomandava ai presenti di chiedere istruzioni ai loro principi. Veniva
preso un accordo sul termine da concedersi, trascorso il quale la cancelleria
dell'elettore di Magonza preparava l'avviso di convocazione il quale consisteva
in un biglietto ove era indicato l'elenco degli oggetti sottoposti alla
discussione (Berathschlagung), che,
chiuso e sigillato, veniva recapitato all'ufficio dell'arcimaresciallo e
da questi rispedito all’ufficio del maresciallo ereditario il quale,
in virtù dei suoi poteri e per via dei suoi compiti, doveva provvedere
alla notificazione.
I due Cancellisten erano l'uno di confessione cattolica, l'altro
di confessione riformata. Dopo averlo scritto tante volte quante erano le
persone cui andava notificato, essi portavano l'avviso di comparizione ai
rappresentanti degli Stati presenti alla Dieta e cioè rispettivamente il
primo a quelli cattolici, il secondo a quelli riformati, facendo in modo
che pervenisse agli interessati il giorno antecedente la convocazione.
I lavori del Reichstag si
compiono a questo punto mediante le consultazioni che avvengono fra ed entro i tre Collegi nei quali esso si
divide.
I tre Collegi, ognuno dei quali ha a sua disposizione una sala
del Rathaus di Regenspurg, sono i
seguenti:
1) il collegio dei Principi Elettori presieduto dall'elettore di
Magonza, il quale dirige un particolare direttorio;
2) il collegio dei Principi diretto alternativamente iuxta materias dal rappresentante di
Casa d'Austria e da quello dell'arcivescovo di Salisburgo, e nel quale si
alternano nel voto i Principi Ecclesiastici e quelli Laici ciascuno con un voto
virile, nonchè i Prelati ed i Conti dell'Impero, rispettivamente con due
e con quattro voti curiati
3) il
collegio delle Città imperiali diretto dal rappresentante di quella
città nella quale si tiene la Dieta[219].
Per quanto nessuna legge disponesse in via esplicita riguardo
alle votazioni, si desumeva tuttavia dai vari Reichs-Abschiede che di regola fosse richiesta la maggioranza dei
voti. Convenzionalmente si riteneva sufficiente la maggioranza relativa.
Diventa qui evidente quanto la spaccatura confessionale avesse
assunto rilievo costituzionale, e come per la sua regolamentazione si fosse
scelta una soluzione pragmatica, del tutto opposta a quella ideale delle
costituzioni contemporanee[220]. Per l’art. V
dell’Instrumentum pacis
osnabrugensis era chiaro che non si dovesse procedere in base alla
maggioranza, bensì in base ad una mediazione politica in tre casi e
cioè:
1) in causis religionis;
2) in negotiis ubi Status
tamquam unum corpus considerari nequeunt: evidentemente si tratta dei casi
contrari a quelli nei quali essi tamquam
unum corpus considerari debent, e cioè nelle negoziazioni di pace
e di guerra, nonchè nelle ipotesi di cui all'art. VIII, § 2
(privilegi degli elettori);
3) ubi in duas partes eunt et ire possunt.
Da
ciò si desumeva che al Reichstag Cattolici
ed Evangelici si dividevano in due Corpora,
dei quali quello cattolico aveva come Director
l'elettore di Magonza, e quello evangelico l'elettore Sassone. Ognuno di
essi teneva le sue Conferenzen riguardo
agli affari religiosi in via separata dall'altro, al quale comunicava le sue
conclusioni a mezzo del Director: la
trattazione degli affari avveniva anche qui, cioè, de corpore ad corpus.
Se ne deduceva pure che sia i Cattolici sia i Protestanti
avevano lo ius eundi in partes non solo negli affari religiosi,
ma anche in tutti gli altri e che essi lo potevano esercitare persino entro
ognuno dei tre Collegi. Ne conseguiva che le materie poste all'ordine del
giorno non venivano in ognuno dei tre Collegi discusse secondo l'ordinaria
procedura che si usava nelle votazioni in pleno
collegio, cioè in Assemblea plenaria, ma nelle ordinarie conferenze
di ogni parte. Quando ognuna di queste era pervenuta a formulare il suo Conclusum, si cercava di trovare un
accordo tra i due Conclusa, per il
che i Presidenti delle due parti (per esempio nel collegio dei principi:
Salzburg e Magdeburg) dopo avere letto in Pleno
collegio i rispettivi Conclusa e
dopo averli fatti mettere ad protocollum iniziavano,
le trattative fra di loro. Se l'accordo non si raggiungeva la questione
rimaneva sospesa.
Ognuno
dei tre Collegi, esaminata la questione, e dopo averla discussa, procedeva alla
votazione: e qualora fosse raggiunta la unanimità o la maggioranza dei
voti emetteva su di essa il suo Conclusum.
Dopo di ciò ognuno dei due primi Collegi – quello
degli elettori e quello dei principi – rimetteva all'altro che sedeva
nella sala vicina, il suo Conclusum
perchè fosse oggetto di esame. Se i due Conclusa concordavano allora avevasi il Conclusum duorum; se erano diversi, allora ogni deliberato veniva
rimandato al collegio che l'aveva emesso unicamente alle osservazioni
dell'altro ed a furia di proporre, correggere ed emendare mediante i vani
rinvii - il che tecnicamente dicevasi re-und
co-rreferiren – si cercava di arrivare ad una comune deliberazione,
che, non appena raggiunta, veniva trasmessa al collegio delle città
imperiali.
Veramente, poiché anche queste ultime avevano ottenuto
nella Pace di Westfalia un votum
decisivum avrebbero dovuto partecipare alla Re-und Correlation, ma fondandosi sulla consuetudine ormai invalsa,
gli elettori ed i principi si opposero sistematicamente a che ciò
avvenisse, pur se poi di fatto tenevano conto del conclusum delle città.
I vota collegiorum non
sono obbligatori per il Kayser, ma
sono solamente vota consultativa,
sicché egli può anche non approvarli.
Se il
Kayser con un Ratificationscommissionsdecret conferma il parere dell'Impero,
ovvero il Conclusum commune duorum collegiorum, allora si ha la
Decisione dell'Impero o Reichsschluss, che
viene inserito poi alla fine della Dieta nel Recesso dell'Impero o Reichsabschied. Se l'Imperatore non
approva il parere dell'Impero od i Conclusa
duorum collegiorum, può rimandare la questione di
nuovo ai Collegi perchè la riesaminino.
Così
come la Pace di Westfalia viene considerata alla stregua di una legge
dell’Impero, anche le Reichsgesetze
– per via del complesso procedimento che portava alla loro formazione,
nonché per la sovranità territoriale raggiunta dagli Stände dell’Impero –
possono essere riguardate come trattati multilaterali. Esse però avevano
la caratteristica di essere obbligatorie anche per lo Stato non consenziente.
Le procedure adottate per venire a capo dei singoli problemi, come quelle volte
a superare lo scoglio dell’appartenenza a confessioni diverse o il
calcolo e il peso relativo dei voti, proietta la Dieta dell’Impero verso
i nostri giorni, ed i problemi che possono sorgere quante volte sul medesimo territorio
si trovino a convivere posizioni irriducibili per differenza di etnia, di
convinzioni politiche, o di fedi religiose, e suggerisce utili spunti di
riflessione per soluzioni ancora attuali sia entro sia fuori l’Unione
europea.
«Furono le mie commissioni di impiegarmi per la pace
universale a misura delle istanze che ne facessero le parti, e così ho
eseguito in ambedue i trattati. Nel primo, e fu quello d’Imperio,
restò conclusa la pace sotto la mediazione della Repubblica»[221].
Così
Contarini riassume la propria attività di mediatore. Bisogna ricordare
anzitutto che, come si è accenato, mentre nei congressi successivi si
incontreranno a volte anche primi Ministri e sovrani o capi di stato, il
congresso di Westfalia è stato uno dei più puri congressi di
ambasciatori. Solo il conte di Trauttmansdorf aveva diretta influenza sulle
decisioni del suo principe e ampi pieni poteri. Tutti gli altri dovevano, per
ogni questione che veniva sollevata, attendere la risposta ai propri dispacci[222], al fine di seguire la
politica dei rispettivi governi. Contarini, quindi, in estenuanti dibattiti,
doveva cercare di comporre quanto dalle rispettive Capitali perveniva loro a
mezzo di istruzioni spesso contraddittorie.
Tuttavia
la sua azione ufficiale non si poteva svolgere altrimenti che presso gli
ambasciatori accreditati a Münster. Un esempio di ciò può
essere visto nel seguente episodio: verso la fine del congresso il Nunzio
apostolico presso la corte di Parigi, Bagni, avvertì Chigi delle
difficoltà in cui si dibatteva Mazarino, difficoltà per le quali
si poteva credere che egli più facilmente si sarebbe convinto alla pace;
Bagni pertanto incitava i mediatori a trarre profitto dalla situazione e
presentare al governo francese un esposto con le ultime pretese degli Spagnoli;
egli - il Bagni - sperava di poter fare qualche cosa al riguardo. Dopo essersi
consultati sull’argomento, Chigi e Contarini risposero di non poter
seguire questo consiglio: in primo luogo per non voler fare un torto a lui,
Bagni, e all’ambasciatore veneto a Parigi, che avevano tanto maggior
credito alla corte di quanto non ne avessero i mediatori; in secondo luogo per
non entrare in un procedimento nuovo e inusitato, che del resto nulla avrebbe
potuto aggiungere a quanto già si sapeva a Parigi circa i desideri degli
Spagnoli; infine perché il chiedere senza avere prima accordate le parti
poteva indisporle entrambe, giacché se la Francia avesse poi desiderato
variare le sue condizioni, anche la Spagna avrebbe fatto altrettanto, e
Mazarino aveva più volte avvertito i Mediatori che il troppo zelo non
avesse a guastare. Insomma i mediatori riconfermavano che la loro condotta non
si sarebbe discostata dalla rigida mediazione.
Cosa
si intendesse per “rigida mediazione” è da chiarire.
In
base a ciò che si può dedurre dalle frammentarie e disperse
testimonianze che si riferiscono all’argomento, si direbbe che Contarini
fosse ben conscio dei limiti entro i quali doveva svolgersi il proprio mandato,
e che tenesse molto ad apparire come il disinteressato trasmettitore delle
proposte delle parti in causa, desideroso unicamente di facilitarne
l’accordo al qual fine egli era pronto a dare eventualmente dei suggerimenti,
in relazione al mutamento parziale delle pretese, ma senza mai emettere, al
riguardo, dei giudizi personali.
Quando
nel 1644 i Francesi presentarono le prime proposte di pace, relative –
secondo i piani di Richelieu – alla sicurezza del trattato e alle
garanzie con cui assicurare la pace, tutto il congresso si scandalizzò
giacché si era convenuto che si sarebbero fatte delle proposte formali,
e quelle francesi non parevano affatto tali[223]. Gli Imperiali chiesero
quindi ai mediatori che prendessero atto ufficialmente della mancanza francese
e dichiarassero in maniera esplicita che la riprovavano.
Contarini,
per la verità, era intimamente del loro parere, e nella sua relazione
finale avrebbe giustificato lo scontento di tutti per il modo di procedere
francese osservando che «la sicurezza dei trattati et la restituzione dei
prigioni sono conditioni che devono seguire, non precorrere li trattati
medesimi» e poco appresso, ricordando che anche i Francesi non erano
rimasti ben impressionati dalle proposte imperiali e spagnole, avrebbe ancora
notato: «ad ogni modo, quali queste si fossero erano proposte, ma non
già quelle dei francesi, che instillarono negli animi del congresso
alienatione formale della pace»; ma al congresso, egli si guardò
bene dall’esprimere tali opinioni, ed alla richiesta degli ambasciatori
imperiali risposte che egli non era un giudice, e che nessun accidente restava
in lui più di quel che faccia il suono passando per l’aria [224], e certamente in tal modo sollevò da molti impicci la Repubblica,
la quale trovandosi ormai in guerra con la Porta aveva interesse a non
alienarsi le simpatie di nessuno.
A
tenere ferma la propria posizione, poi, Contarini fu sempre ben attento, al
contrario del Nunzio, il quale per non aver voluto i Francesi includere la
clausola “salve le ragioni della Sede Apostolica” negli articoli
che disponevano la cessione di Metz Toul e Verdun alla Francia, alla propria
protesta sentì rispondere da Servient che lui era solo un mediatore. A
ciò il Nunzio ribatté che mediatore, e quindi neutrale, era per
le questioni politiche, ma in quelle che riguardavano la religione cattolica e
in quelle ecclesiastiche si considerava parte, riportandosi sempre alle
costituzioni apostoliche.
Non
bisogna tuttavia pensare che quella dell’ambasciatore veneto a
Münster, fosse una posizione priva di nerbo, né che egli si
limitasse a fare da semplice relatore delle proposte delle parti – come
diplomaticamente egli spesso amava affermare – giacché al
contrario in più di una occasione egli esaminò criticamente le
proposte stesse, facendo approvare delle modifiche, prima di inoltrarle
all’altra parte, indicando delle soluzioni di accomodamento, ed
inoltrando per questa via quei suggerimenti che potevano essere di vantaggio
della Repubblica.
Così,
osservando che le vicende militari influenzavano negativamente i negoziati,
tanto che un qualunque incidente d’arme distruggeva in un momento i
progetti e le fatiche di molti mesi, Contarini poté ancora apparire come
un disinteressato amante della pace quando propose spontaneamente, vale a dire
senza esserne stato richiesto da alcuna delle parti, una sospensione delle
ostilità, cosa che gli era stata espressamente richiesta dal Senato di
Venezia come la via più breve per sopire le discordie e il mezzo
più adatto a soccorrere le necessità della Repubblica contro le
mosse dei Turchi[225].
Ma il
progetto della tregua non andò in porto, perché nessuno, tranne i
Francesi, credeva di poterne essere avvantaggiato[226].
Fu
allora che il cardinale Mazarino avanzò presso la Repubblica - la stessa
cosa a Münster faceva Servient con Contarini - la richiesta di un aiuto
nei confronti della Spagna, contro risarcimento delle perdite in Oriente
ottenuto sulle spoglie spagnole. Ma il Senato di Venezia non si lasciò
incantare da tale disegno, sebbene la guerra contro il Turco si fosse ormai
accesa violentissima.
Maggior
fortuna ebbe Contarini quando, seguendo quelli che erano gli interessi della
Repubblica, riuscì a far stabilire la restituzione delle terre di
Regiolo e Luzzara[227] possedute ancora dal
duca di Guastalla in virtù del trattato di Ratisbona del 1632 - alla
Casa di Mantova, e nella questione della convocazione al congresso del principe
di Transilvania Ragokzy. Col Ragokzy Francia e Svezia si erano legate in alleanza
ad Amburgo, e nelle prime proposte formali i Francesi aggiunsero
l’istanza di convocare anche quel principe a congresso, concedendogli i
passaporti necessari, ma Contarini, prevedendo che in tal modo i Turchi
sarebbero potuti giungere sicuramente a conoscenza degli affari europei, si
diede da fare perché ciò non avvenisse, obiettando che al Ragokzy
non era possibile concedere passaporti in quanto non compreso nel trattato
preliminare. In questa maniera la pratica continuò per qualche mese,
sinché, poco appresso, il Ragokzy giunse ad una pace separata con
l’Imperatore, e il pericolo della sua venuta al congresso svanì.
Ma
l’occasione in cui maggiormente rifulsero le doti diplomatiche di
Contarini furono certamente i negoziati sull’ Alsazia, negoziati ai
quali, da un certo momento in poi, egli come mediatore prese parte da solo,
giacché il Nunzio si rifiutò di parteciparvi, non avendo voluto i
Francesi tenere conto degli interessi della S. Sede.
A
causa della molteplicità degli interessi in giuoco e delle connessioni
fra di essi, non si riusciva in alcun modo a trovare una via d’intesa; la
difficoltà principale era che la Francia congiungeva le proprie pretese
territoriali con quelle svedesi e protestanti, mentre il Kaiser pur essendosi convinto ad accondiscendere alle richieste
territoriali francesi, non intendeva con ciò legarsi anche per quanto si
riferiva ai problemi del Palatinato, dello Hessen e degli Svedesi. Era
apparentemente una via senza uscita. Contarini propose allora di stendere un
abbozzo di convenzione, oltre il quale le parti potevano fare le loro riserve
in relazione ai punti ancora controversi. Lasciati da parte questi punti
espressamente specificati, gli altri potevano essere definiti in modo da non
tornare più a discuterne.
In
tal modo il Veneto convinse le parti ad una sottoscrizione orale in forma
solenne, sulla cui base ci si poté avviare finalmente ad una conclusione
delle trattative che dovevano modificare per secoli il confine occidentale del Reich[228].
Quanto
alla lingua dei negoziati il Latino, ancora l’idioma più
comunemente usato dalla diplomazia, proprio al Congresso di Münster
cominciò a decadere. Esso era tuttora usato di regola nelle trattative
scritte ufficiali del Reich con le
nazioni straniere, ed a questa regola si pensava ci si sarebbe uniformati a
Münster e Osnabrück; i Francesi, però, nonostante le proteste
imperiali, presentavano le loro proposte sempre nella propria lingua, e si
direbbe che l’uso delle lingue nazionali sia cominciato proprio allora a
prevalere, soprattutto nell’uso scritto[229].
Una
regola generale non v’era. Soprattutto non vi era nelle trattative orali.
A Osnabrück pare dominasse il Tedesco, che anche gli Svedesi parlavano
correntemente; a Münster ci si regolava in maniera diversa, e accanto al
Latino, ch’era pur sempre la lingua veicolare, si cominciò presto
a usarne anche altre, soprattutto il Francese e l’Italiano. Contarini in
particolare si dice non si servisse mai del Latino[230]. Spesso perciò le
istanze gli venivano presentate in lingua italiana.
Mentre
a Osnabrück si negoziava oralmente, a Münster le trattative si
svolgevano in forma scritta, sebbene Mazarino non nascondesse la sua preferenza
per la forma orale in quanto meno impegnativa. Contarini riferisce nella sua relazione
finale che ciò avvenne per l’amore che della scrittura avevano i
giuristi tedeschi[231], ma in verità lui
stesso più volte se ne era dovuto rallegrare come dell’unico modo
per indurre le parti a pervenire a qualcosa di definitivo.
Bisogna
perciò sempre distinguere tra proposte ufficiali e manifestazioni non
vincolanti la volontà delle parti. Rispetto a quelle la controparte
doveva prendere ufficialmente posizione, rispetto a queste non necessariamente.
Entrambe, però, seguivano la strada della mediazione. Naturalmente,
prima che venissero formulate le proposte ufficiali, si cercava di pervenire in
anticipo ad una comune base di intesa. In tal modo i negoziati presero a
Münster la forma di un processo – se così si può dire –
nel quale le parti si comunicavano per iscritto le proposte e le repliche.
Le
proposte venivano consegnate suggellate nelle mani del mediatore: talvolta del
Nunzio, più volentieri di Contarini che poteva trattare anche coi
Protestanti[232].
Il mediatore toglieva i sigilli e a sua volta trasmetteva le proposte stesse
all’altra parte, dopo avere, se necessario, discusso con il mittente
intorno alle modifiche da apportarvi. In tal modo, nonostante la spaventosa
quantità delle questioni controverse si giunse, per tappe, sino alla
fine: affari dell’Impero (amnistia, prerogative dei membri
dell’Impero), compensazioni economiche e territoriali, garanzie per la
pace.
Se si
conseguiva l’accordo su di un punto veniva steso un progetto di trattato
che veniva sottoscritto alla presenza del mediatore. L’accordo
così raggiunto era stilato in modo da potere essere poi accolto nel
trattato finale, restando però, ovviamente, inefficace
fintantoché questo non fosse stato sottoscritto per intero. Pertanto il
trattato di pace, come si presentò alla fine, si potrebbe definire come
una raccolta di trattati, la maggior parte dei quali erano stati concordati e
firmati molti mesi se non addirittura anni avanti.
Insomma
i negoziati non seguirono il corso che sono soliti seguire i lavori di un
congresso: non vi furono assemblee generali e neppure vi fu una seduta
generale. Il congresso non venne né aperto né chiuso formalmente,
a meno che non si voglia ravvisare la sua apertura ufficiale nella solenne
Messa cantata con cui – dopo l’arrivo dei mediatori e dei
plenipotenziari dell’Imperatore e delle Corone – si impetrò
la divina assistenza sui prossimi lavori[233].
Il
vero e proprio lavoro veniva effettuato nelle sedute che si tenevano nelle
abitazioni dei diplomatici e dei mediatori, e soprattutto in quei colloqui che
avevano carattere confidenziale e non vincolante. Contarini dovette avere
più di ottocento conferenze singole. Poiché su ogni questione
venivano consultati i Reichstände,
in rappresentanza dell’Impero, l’intero congresso di Münster e
Osnabrück si presentava anche come una Dieta, giacché i negoziati
avvenivano secondo lo stile seguito alla Dieta Imperiale: lettura delle
proposizioni a opera dell’ambasciatore imperiale o dell’elettore di
Magonza, consultazione e conclusione nei tre collegi, accordo su di un comune votum, mediante relatio e correlatio, e
se vi si riusciva, relazione di una conclusione dell’Impero o Reichsconclusum. Per questo motivo i
trattati di pace furono anche considerati come legge fondamentale
dell’Impero.
La
funzione del mediatore nel congresso di Westfalia si potrebbe perciò
paragonare a quella che al Reichstag
esercitava normalmente il principe elettore di Magonza. Infatti tutti e ogni
rappresentante in Münster si doveva legittimare presso i mediatori, come
dovevano fare al Reichstag, con
l’elettore di Magonza.
A
Münster però il mediatore, nelle cui mani la parte depositava la
propria legittimazione, doveva trasmetterla all’altra la quale ne
accettava i termini[234]. Infatti una delle prime
istanze che Contarini dice di avere presentato riguardava appunto lo scambio
delle credenziali e l’accordo sui reciproci pieni poteri. Anche su questo
punto non mancarono motivi di litigio, perché i Francesi non ammettevano
che il Re di Spagna si desse il titolo di re del Portogallo e principe di Catalogna;
gli Spagnoli non volevano che il Re di Francia si desse quello di re di
Navarra. Alla fine ci si accordò, restando ognuno nella consuetudine dei
propri titoli[235].
Un’altra somiglianza stava nel fatto che quanto si voleva proporre al Reichstag sia da parte dell’Imperatore, sia da parte degli Stände, doveva essere proposto a
mezzo dell’elettore di Magonza, allo stesso modo che in Münster
doveva passare per la via del mediatore.
Tuttavia,
come si è chiarito, benché ufficialmente accettata e condotta, la
mediazione di Venezia come pure quella della S. Sede, non era obbligatoria per
le parti. Soprattutto nelle trattative tra Spagna e Francia – che non
andarono in porto – risulta palese che più di una volta si
tentarono altre strade.
Infatti
in un primo tempo - esattamente nel marzo del 1646 - si cercò di
concludere un compromesso volto ad attribuire alla regina madre di Francia, in
quanto madre dell’uno e sorella dell’altro re, una specie di
funzione arbitrale sulle questioni controverse. Anzi tale proposta venne fatta
dagli Spagnoli ai Francesi proprio tramite i mediatori[236]. Rifiutata questa via di
accomodamento dai Francesi per la ragione che impegnare la Regina in una
dichiarazione che poi non fosse accettata sarebbe stato motivo di nuova guerra
anziché di pace, delle trattative tra le due Nazioni si interessarono
ancora gli Olandesi, sotto il nome di interpositori; mediatori non potevano
essere perché loro stessi in guerra con la Spagna.
Questa
“Interposizione” era stata ambita prudentemente dagli stessi
Olandesi, per mettersi al riparo dall’una e dall’altra nazione, e
meglio ricercare il proprio vantaggio; anzi, per essere completamente padroni
dei negoziati, vollero che le parti si vincolassero con giuramento a non
comunicare nulla ai mediatori; cosa che i Francesi concessero per non alienarsi
il favore degli alleati, e che gli Spagnoli si guardarono bene dal negare,
perché speravano di conseguire una pace separata, onde essere liberi di
combattere meglio la Francia, come poi accade.
Quando
in seguito gli Olandesi, sottoscritta a condizioni vantaggiose la tregua
– poi seguita dalla pace – con la Spagna, si ritirarono, la
mediazione tornò interamente in un primo tempo nelle sole mani di
Contarini, e poi in quelle di entrambi i mediatori. Da principio infatti, il
Nunzio si era mostrato contrario ad occuparsi di nuovo delle trattative, dopo
essere stato messo da parte.
Con
queste che corrispondono, in un certo senso, a delle attenuazioni
dell’ambito della mediazione veneta, si accompagnarono dei tentativi di
espansione della stessa.
Infatti,
dopo che, essendo entrata in guerra con la Svezia, la Danimarca non poté
più occuparsi della mediazione a Osnabrück, Contarini venne pregato
di assumersene lui l’incarico. Non bisogna dimenticare che Francia e
Svezia si erano solennemente impegnate ad avanzare nei negoziati entrambe nella
stessa misura, sicché non potendo proseguire a Osnabrück le
trattative per la mancanza del mediatore, nemmeno a Münster si poteva
negoziare.
Contarini,
dietro istruzione del Senato, mostrò di aderire immediatamente alla
richiesta che gli veniva fatta e offrì la propria opera, ma essa non
venne accolta dagli imperiali, i quali rifiutarono di accettare la mediazione
della Repubblica di Venezia per le trattative con la Svezia, avanzando il
pretesto che la Danimarca, essendo nominata nel Trattato preliminare, come
mediatrice, non poteva essere sostituita da un’altra potenza[237].
In
questa maniera il congresso rischiava evidentemente di naufragare, e
così certamente sarebbe accaduto se infine Contarini non fosse riuscito
a far accettare alle parti la soluzione che a Osnabrück si trattasse senza
mediatore[238].
La
proposta di occuparsi della mediazione a Osnabrück, venne di nuovo rivolta
a Contarini quando i Francesi, concordati gli articoli della pace con
l’Impero, andarono anch’essi a Osnabrück per vigilare sulle
trattative che là erano ancora in corso. Per questa mediazione Contarini
ci dice di essere stato sollecitato più volte. «Io sempre
dimostrai prontezza – scrisse poi nella sua relazione finale – ma a
condizione d’essere invitato da ambo le parti»: tali erano anche le
istruzioni del Senato che – come si può ben notare – cercava
di evitare in ogni modo il sospetto di un’intromissione forzosa.
Tuttavia
il fatto di essere invitato, secondo le circostanze, ora dall’una ora
dall’altra parte (per parti qui si intendono l’Impero e la Svezia)
né mai di concerto da entrambe, vietò a Contarini – come
egli stesso afferma – di assumere ufficialmente il ruolo di mediatore a
Osnabrück, anche se, venuti gli Svedesi a Münster, più volte
ci si servì dei suoi uffici, non tanto con il partito contrario quanto
coi Francesi loro alleati[239].
Più
tardi, sciolto il Congresso con la partenza di tutte le legazioni, i Francesi
desideravano che Contarini proseguisse le trattative con la Spagna. Viceversa
Peñaranda, da Bruxelles, dove si trovava, si informava sempre se se ne
fossero andati da Münster i mediatori, «onde non potessero venire
chiamati dai Francesi a testimonio dei 48 articoli da essi già
accordati»[240].
Mazarino,
allora, avendo per i torbidi interni necessità di concludere la pace,
inviò a Contarini il proprio segretario personale Fabris, il quale
portava al mediatore, insieme con l’invito di proseguire i negoziati, una
istruzione contenente ampie alternative su tutti i punti contenziosi e per di
più la facoltà di concludere e dar parola per la pace.
La
cosa andò in fumo perché il Senato, informato, non seppe -
secondo l’accusa dello stesso Contarini - mantenere la discrezione
necessaria, sicché Peñananda fu avvertito che le mosse di Contarini
partivano dalla Francia; e, vuoi perché lo ritenesse sospetto, vuoi
perché dopo la pace particolare con l’Olanda, la Spagna era ben
lungi dal desiderare quella con la Francia, ricusò di trattare[241].
In
conclusione si può affermare che, sebbene ufficialmente riconosciuta, la
mediazione non comportava alcun obbligo per le parti di servirsene e da
ciò può desumersi quanto si fosse ormai distinta
dall’arbitrato; e già si faceva avvertita una differenza sia pure
lieve fra la mediazione ed i buoni uffici, vuoi per il fatto che la prima era
riconosciuta e accettata dalle parti, vuoi perché ricevendo nelle
proprie mani le proposte delle parti il mediatore se ne faceva testimone, cosa
che non accadeva per i buoni uffici, dove l’opera pacificatrice che un terzo
svolgeva presso una parte non impegnava in alcun modo questa nei confronti
dell’altra.
Che
l’assunzione delle funzioni di mediatore desse luogo a un trattamento
particolare lo si può desumere dal fatto che la precedenza sugli
elettori fu concessa a Contarini, come si è visto, in qualità di
mediatore.
Tuttavia
questo particolare va messo in relazione con la circostanza che la mediazione
si svolgeva in un contesto specialissimo quale era appunto il congresso di
Westfalia. In tale senso va intesa anche la funzione che ai mediatori in
Münster competeva, di tutori della neutralità e dell’ordine
interno della città.
Al
costume dell’epoca vanno ascritti i doni che Contarini ricevette della
parti, e che lui accettò sotto condizione del beneplacito della Repubblica:
una cesta colma di argenteria da tavola regalata dall’Imperatore e un
gioiello composto di molti brillanti offerto dalla Francia[242].
Dopo
essersi trattenuto un mese a Colonia per studiare le intenzioni francesi,
Contarini giunse a Münster nel novembre 1643 preceduto di pochi giorni
dagli ambasciatori della Spagna e dell’Impero. Del ritardo dei Francesi
in un primo momento il Veneto si rallegrò, perché in tal modo si
eliminava la difficoltà delle precedenze nella prima visita. Infatti se
gli ambasciatori imperiali avevano, senza discussione, precedenza sugli altri,
la questione era tuttavia incerta tra Francesi e Spagnoli, non sapendosi ancora
quale dei due dovesse precedere l’altro.
In un
secondo momento, però, tardando gli ambasciatori francesi a giungere,
Contarini, che per sì lunga dilazione era stato più volte in
procinto di andarsene, comunicò loro cosa pensasse il partito contrario
di siffatto ritardo, e le risposte che ne ebbe, ove era palese, tra
l’altro, la grande confidenza che si aveva in lui, gli fornirono
l’occasione di ristabilire visite ed incontri diplomatici che la guerra
aveva interrotto per molti anni[243].
Ciò
che aveva trattenuto i Francesi, in realtà era stato il lungo soggiorno
di quattro mesi che i negoziati dell’Aja avevano richiesto: il primo dei
quali, anche in ordine di importanza, si prefiggeva lo scopo di indurre le
Province Unite a mandare i deputati a Münster e a trattare insieme con
loro. A questo fine essi concordarono che nei negoziati nessuna delle parti
facesse passo maggiore dell’altra, che si comunicassero a vicenda quanto
si andava trattando, e in particolare che nessuna in alcun modo concludesse da
sola. Il tutto perché temevano che gli Olandesi negoziassero da soli
all’Aja dove l’ambasciatore spagnolo offriva carta bianca in nome
del Re Cattolico, mentre a Münster speravano di tenerseli più uniti
e di conseguire, in tal modo, grandi vantaggi. Gli Olandesi da principio
sollevarono delle difficoltà: la prima – e ne abbiamo già
parlato – consistente nella richiesta di avere trattamento diplomatico
pari a Venezia, riguardava il loro riconoscimento internazionale. La seconda
stava in ciò: che essi non erano ben sicuri donde avrebbero tratto
maggior profitto, se dalla guerra o dalla pace. Il principe d’Orange
avvertì i Francesi che non conveniva lasciare che le Province Unite
pattuissero a Münster tramite sei o sette persone lontane dalle Province
stesse, perché era ben probabile che sin dal primo incontro gli Spagnoli
facilmente li corrompessero[244] talché era
preferibile consentire che fossero gli Spagnoli a recarsi all’Aja, ove lo
stesso tipo di governo, composto di diverse forme di religione, politica e
sentimenti avrebbe reso molto arduo concludere un qualunque accordo. Il
consiglio, giudicato poco spassionato, non fu seguito e i Francesi strinsero un
secondo accordo con l’Olanda per il proseguimento della guerra, al fine
di trattare una pace armata.
In
seguito a questi negoziati anche i Francesi giunsero a Münster nel marzo
del 1644 preceduti di poco dal Nunzio, il cui indugio a Colonia, contemporaneo
all’assenza dei Francesi, era stato preso – a quanto dice Contarini
– presso a poco per un insulto da Spagnoli ed Imperiali. Dopo che in
Osnabrück il 10 aprile venne celebrata una solenne Messa cantata, la prima
istanza dei mediatori fu per lo scambio reciproco delle plenipotenze le quali
vennero consegnate alla fine di aprile e subito scambiate come convenuto.
Poiché ciascuna delle parti trovò da ridire sulla forma dei pieni
poteri dell’altra, si perse qualche tempo prima di giungere ad una
intesa. I Francesi furono costretti ad eliminare il proemio delle proprie
(là dove giustificavano la necessità della guerra col darne la
colpa agli avversari), poiché gli Spagnoli ne avrebbero steso uno uguale
qualora quello francese non fosse stato soppresso[245].
Mentre
i mediatori attendevano alle credenziali, accaddero due incidenti che prolungarono
di otto mesi i lavori. Del primo fu causa la guerra improvvisa che gli Svedesi
mossero contro il re di Danimarca, originata vuoi da dubbi che essi nutrivano
sulle imparzialità di Cristiano IV, vuoi dalle imposizioni sempre
maggiori di cui questi gravava il Sond (Öresund),
per dove necessariamente dovevano passare tutte le navi che trafficavano nel
Baltico. Della nuova guerra, che indeboliva il loro partito in Germania, sia i
Francesi sia gli Olandesi loro alleati restarono assai poco soddisfatti e si
interposeroperchè cessassero al più presto.
Una
ambasceria olandese non ebbe successo. Alla Francia invece toccò maggior
fortuna, perché dopo qualche mese, cioè nell’agosto del
1645, con grande gloria essa riuscì a far concludere la pace fra le due
Corone; le quali inviarono due ambascerie solenni per ringraziare la Regina e
pregarla di firmare di propria mano il trattato[246]. Contemporaneamente la
Francia e la Svezia invitarono a comparire al Congresso tutti gli Stati e
città dell’Impero, anche quelli non compresi nel trattato
preliminare di Amburgo[247]. Un uguale invito
rivolsero alla Dieta che si trovava riunita nella città di Francoforte.
In un
primo tempo l’Imperatore cercò di far valere la propria
autorità per dissuadere gli Stände
dell’accettare, ma non trovò rispondenza presso nessuno,
perché ormai più che in lui si confidava nella prepotenza delle
armi straniere. Sicché dopo un incontro col duca di Baviera a Linz
l’Imperatore accondiscese alla richiesta. Tutti questi incidenti fecero
sì che non si trovasse accordo sulle plenipotenze prima del dicembre
1644, quando venne concertato un abbozzo sulle stesse, con l’obbligo di
farle tornare dalle rispettive corti corrette ad verbum in conformità del medesimo. Ne seguì un
atto sottoscritto dalle parti che fu consegnato ai mediatori, con la clausola
che nell’attesa proseguissero i negoziati; talché poco appresso
– il 4 dicembre – i mediatori ricevettero le prime domande e le
prime proposte di pace.
Nelle
loro proposte gli Imperiali chiedevano l’ esecuzione del trattato di
Regensburg del 1632, gli Spagnoli la restituzione di tutto quanto era stato
occupato in base ai trattati di Cambrais e di Verdun, e i Francesi la
libertà dell’elettore di Treviri, nonché la presenza al
congresso di tutti i membri dell’Impero, nella qual cosa affermavano che
consistesse tutta la sicurezza della pace.
Siffatte
richieste, che corrispondevano al piano di Richelieu in relazione alle garanzie
della pace ed alla sicurezza internazionale, non furono comprese e valutate
nella loro portata, e anzi suscitarono viva indignazione[248]; come si è visto,
però, invitato a dichiararsi a favore degli Imperiali, Contarini si
limitò[249]
a suggerire che l’elettore di Treviri fosse trasferito e trattenuto a
Ferrara sino alla conclusione della pace, come il Papa si era detto disposto a
fare.
Il
suggerimento non venne accolto e poco dopo l’elettore di Treviri fu
liberato dagli Svedesi, che una vittoria aveva avvicinato a Vienna.
Seguì quell’invito di Contarini – di cui si è
già parlato – ad una tregua d’arme.
Le
proposte formali della pace, consistenti in diciotto articoli sui quali si
doveva negoziare per anni, furono esibite alla fine di giugno dell’anno
1645. In esse non si faceva cenno ancora della soddisfazione delle Corone, e
non solo per la ragione che ciascuna Potenza voleva mostrare di posporre il
proprio interesse a quello generale, ma anche e in particolar modo
perché tutte confidavano nelle proprie armi.
Intanto
erano sopraggiunti a Münster e a Osnabrück gli ambasciatori degli
Elettori, dei Principi e delle Città. Non potendo più opporre
alcun ostacolo l’Imperatore dichiarava che tutti quelli che avevano voto
nelle Diete potevano conservarlo anche nel congresso sicché da questo
momento il congresso stesso si trasformò in una Dieta formale, nella
quale anche i contumaci furono riammessi nel luogo e nel voto di loro
spettanza.
Le
repliche dell’Imperatore alle proposte delle Corone furono presentate
tanto a Münster quanto ad Osnabrück il 25 settembre; ed è
così che ebbero inizio le vere e proprie trattative accompagnate dal
cauto sondaggio della Francia e della Svezia circa le loro rispettive pretese
territoriali[250].
Nel
dicembre dello stesso anno giunse a Münster il conte Trautmansdorff, il
quale – esibite le credenziali ai mediatori – cercò dapprima
di accattivarsi gli Stände; non
riuscitovi, sperò almeno, col dar maggior soddisfazione ai Protestanti,
di guadagnarsi il favore della Svezia, separandola dalla Francia. Ma
fallì anche in questa manovra. Trauttmansdorff trattava con molta
franchezza – rileva Contarini – e nel secondo colloquio che ebbe
coi mediatori offrì senza tante cerimonie Pinerolo e Moyenvic nonché
il dominio dei tre vescovati di Metz, Toul e Verdun alla Francia, ed alla
Svezia l’ esecuzione del trattato di Schönbeck del 1635. I Francesi
si burlarono delle proposte di Trauttmansdorff, come se fossero state offerte
loro cose che già possedevano tutte[251].
Trauttmansdorff
adunò a consiglio i suoi collaboratori e con questi venne nella
determinazione di promettere l’Alsazia meridionale. A ciò si
opponevano gli Spagnoli dacché una cessione dell’Alsazia avrebbe
pregiudicato le loro posizioni sul Reno superiore. Ma Contarini insistette: la
guerra contro il Turco, di nuovo scoppiata, spingeva Venezia a desiderare che
la pace si concludesse al più presto[252]. Pertanto
Trauttmansdorff si risolse ad invitare i mediatori a indagare su come i
Francesi la pensavano al riguardo[253]. Ma i Francesi rifiutarono
anche questa offerta, assicurando che una divisione della Alsazia non si poteva
fare senza ne nascesse un perpetuo litigio. Il Nunzio domandò –
evidentemente contro la volontà di Contarini che lo voleva interrompere
– che cosa i Francesi avrebbero ceduto al Kaiser se questi avesse concesso loro tutta quanta l’Alsazia.
La domanda palesava l’impazienza con la quale l’inviato del Papa si
aspettava l’accordo delle Potenze Cattoliche. Ma i Francesi, invece,
attribuirono l’impazienza agli Imperiali, e alla proposta di
Trautmannsdorff ne contrapposero un’altra, con la quale oltre alle cose
offerte domandavano l’Alsazia, Sundgau e Breisgau e le due importanti
piazze di Breisach e di Philippsburg. Tali pretese parvero eccessive a tutti,
anche ai Protestanti e agli stessi Svedesi; i quali però, per non
alienarsi la Francia, non si dichiararono contrari, e del resto convertirono
poi la cosa a proprio vantaggio, perché quanto più chiedeva la
Francia tanto più chiedevano anche loro.
Finalmente
“col calore degli uffitij quasi violenti presso Cesare” il 14
aprile 1646 giunsero le risposte imperiali le quali appianavano ogni altra
difficoltà che non fosse quella di Breisach: Contarini rilevò
ironicamente che da secoli non si dava il caso che un ambasciatore francese fosse
riuscito come allora a mandare al suo Re tre province in un dispaccio.
Breisach
in effetti come punto strategico non aveva l’uguale, ad eccezione di
Casale e della Valtellina. Pertanto gli Imperiali proposero prima di demolire
la fortezza, poi di rilasciarla alla Francia finché rimanesse in vita
l’Imperatore regnante, insistendo sempre sul fatto che il vero confine
tra la Francia e l’Impero doveva essere il Reno. Ma i meno propensi ad
una tale cessione erano gli Spagnoli i quali spiegarono ai mediatori che i
Potentati italiani non avrebbero avuto più alcuna sicurezza qualora la
Francia avesse messo piede oltre il Reno, controllando in tal modo le
comunicazioni dell’Italia con l’Olanda.
Anche
la Chiesa non poteva stare tranquilla vista l’amicizia esistente tra
Svezia e Francia. Il Nunzio, infatti, disse che ci avrebbe pensato, ma
Contarini ribatté che la pace doveva conseguirsi ad ogni costo. Alla
fine l’Imperatore acconsentì a che Breisach rimanesse, incorporata
con l’Alsazia, alla Corona di Francia, persuaso – con Breisach
– di giungere alla conclusione del trattato, conformemente alla parola
che i Francesi avevano dato ai mediatori.
Viceversa
con grande disappunto di tutti, i Francesi si ostinarono nella pretesa di
Philippsburg. Quando Contarini - il Nunzio non voleva pronunziarsi se i
Francesi non accettavano la clausola “salvi gli interessi della
Chiesa” - difese la posizione di Trauttmansdorff, i Francesi tennero
duro, ed il Veneto dovette spiegare tutta la propria abilità e proporre
una convenzione per cui ambo le parti potevano fare le proprie riserve: il Kaiser nei confronti della Spagna e
della Lorena, il Cristianissimo in relazione alle pretese della Svezia e dello
Hessen[254].
A
queste trattative il Nunzio non volle prendere parte, ed anzi elevò una
protesta per ciò che riguardava le cessioni ai Protestanti (Adam Adami
riferisce che egli elevò non meno di cinque proteste in nome della Sede
Apostolica).
Sulla
base della proposta di Contarini ci si avviò alla conclusione delle
trattative circa la questione dell’Alsazia, ed un accordo in tale senso
venne stipulato e sottoscritto alla presenza del Veneto il 13 settembre 1646.
Tutto
questo era avvenuto nonostante le continue opposizioni della Spagna che, oltre
a cercare di gettare il discredito su Trauttmansdorff alla corte di Vienna, si
studiava anche di convincere i mediatori che al bene della Cristianità
– e di Venezia in particolare – conveniva assai più che la
pace fosse generale[255].
Alla
Francia si cedeva ogni giurisdizione sui tre Vescovadi di Metz, Toul e Verdun,
la sovranità su Pinerolo in Piemonte e su Moyenvic in Lorena,
l’Alsazia e le fortezze di Breisach e di Philippsburg –
quest’ultima però solo a titolo di protezione.
La
Francia a sua volta doveva restituire tutti gli acquisti conseguiti in Germania
con le armi, che erano molti e rilevanti.
Fu
convenuto che questo accordo particolare fosse in seguito inserito ad verbum in quello generale, come
difatti accadde. I Francesi, quindi, si recarono a Münster, dove poco
appresso – nel febbraio del 1647 – si giunse ad una intesa circa la
soddisfazione della Corona di Svezia, intesa consistente nella ritenzione di
gran parte della Pomerania, dei Vescovadi di Bremen e Verden con l’uso
del porto di Vismar.
Si
tardò tuttavia ancora un anno e più prima di pervenire alla pace,
in primo luogo a causa delle soddisfazioni da concedere ai Protestanti,
sostenute puntigliosamente dalla Svezia, e poi anche per via della pretesa
opposta dai Francesi che – qualora si fosse conseguita la pace in
Germania senza quella tra Francia e Spagna – all’Imperatore non
fosse consentito di assistere la Spagna.
Su
questo punto Trauttmansdorff e gli Stati dell’Impero convennero che
l’Imperatore come tale e come arciduca d’Austria non potesse
soccorrere gli Spagnoli, ma che come re d’Ungheria gli fosse concesso di
perseguire gli interessi tanto comuni alle due Case di Asburgo.
Non
appagati i Francesi obiettarono che sotto l’appellativo di re di Ungheria
l’Imperatore avrebbe aiutato gli Spagnoli con tutte le sue forze; e in
tale divergenza di opinioni i mediatori colsero l’occasione per proporre
le guerre contro il Turco, appoggiando soprattutto un articolo segreto per il
quale i Francesi si impegnavano ad assistere l’Imperatore qualora una
simile guerra si fosse intrapresa.
Ma al
momento di stringere i Francesi si ritirarono giacché in realtà
essi non desideravano affatto pregiudicare i commerci e l’amicizia con la
Porta ed anche gl’Imperiali poco se ne curarono, essendo il Kaiser dopo sì lunga guerra,
desideroso solo di quiete e del tutto alieno del muoverne un’altra[256]. I mediatori insinuarono
che la guerra contro il Turco avrebbe reso in ogni caso impossibile che si
porgessero aiuti agli Spagnoli; i Francesi e gli Stände al contrario asserirono che non bisognava in nessun
modo che l’Imperatore restasse armato, perché le sue armi, sebbene
destinate contro il Turco, sarebbero state rivolte contro di loro. Alla fine si
concluse che l’Imperatore non dovesse né come Imperatore né
come arciduca d’Austria e nemmeno come re di Ungheria assistere il re di
Spagna.
Restavano
ancora da stabilire le cessioni e i compensi per i Protestanti, le cui
trattative passarono per le mani del solo Contarini. Poco appresso si
sistemarono gli articoli concernenti il tanto discusso elettorato Palatino, il
quale fu lasciato per sempre alla Baviera, mentre all’ex elettore
Palatino veniva attribuito in compenso un ottavo elettorato, insieme col Basso
Palatinato. Il Palatinato Superiore veniva conservato dal duca di Baviera che
in cambio rilasciava al Kaiser
l’ipoteca sull’Austria Superiore).
Nell’agosto
del 1648 furono precisati gli articoli della soddisfazione della Svezia, la
quale in virtù delle cessioni ricevute diventava oltre tutto uno Stato
Immediato dell’Impero con voto e seggio alla Dieta.
Stabiliti
questi punti tra gli Stände e la
Svezia[257],
tutto il congresso si trasferì a Münster, dove in una adunanza in
casa di Oxenstierna – cui si volle che anche Contarini fosse presente
– il 24 ottobre 1648 venne finalmente firmata la pace tra l’Impero
e le Corone di Francia e di Svezia. Tale pace – nota Contarini –
per quanto dannosa per l’autorità dell’Imperatore del Sacro
Romano Impero, era però vantaggiosa per la Casa d’Austria, che
conseguiva la Corona di Boemia in via ereditaria, recuperava l’Austria
Superiore sino allora impegnata alla Casa di Baviera, e preservava i suoi Stati
patrimoniali dalla libertà di coscienza, concessa invece a tutti gli altri
Stati[258].
Per
maggior chiarezza si sono tralasciate fin ora le trattative con la Spagna le
quali, sebbene strettamente collegate con quelle dell’Impero, seguirono
tutto un altro corso.
Al
suo arrivo a Münster Peñaranda (di temperamento fervido e
fraudolento – a detta di Contarini) – dichiarò di avere
poteri amplissimi per fare pace, tregua e tutto quello che i Francesi avessero
voluto, secondo le condizioni, però che la forma di ciascuno di questi
trattati richiedeva; riserva, questa, che limitava di molto la sua precedente
affermazione. Per prima cosa egli si adoperò per la venuta degli
ambasciatori dei Paesi Bassi a Münster. Questi, infatti, giunsero nel
gennaio del 1646, ricevendo trattamento regio, in ogni circostanza. Dopo lo
scambio delle credenziali risolsero di trattare senza l’aiuto dei
mediatori, ancorché qualche volta si servissero della persona di
Contarini.
Nel
marzo del 1646 gli Spagnoli presentarono le loro proposte agli Olandesi, e sia
per liberarsi dal sospetto di voler fare un trattato separato, sia per
escludere gli intralci che avrebbe cercato di frapporre la Francia, suggerirono
che la Regina Madre di Francia trovasse una conciliazione per tutte le
divergenze esistenti tra le due Corone di Francia e Spagna, con i riguardi ai
quali l’obbligava la Francia e dentro la convenienza che poteva sperare
la Spagna. Ma – come si è visto – il disegno non venne
accolto; dopo di che gli Spagnoli presentarono ai Francesi le loro proposte, e
queste e le risposte francesi passarono attraverso l’interposizione degli
Olandesi. I quali intanto, nel giugno 1646, giunsero a concordare una tregua
con la Spagna, tregua che essendo contraria ai precedenti accordi con la
Francia, provocò una grande collera sia presso la corte francese sia
presso i Plenipotenziari a Münster, che inutilmente tentarono di accusare
di corruzione gli ambasciatori, giacché sebbene Servient si recasse
all’Aja proprio con l’intento di intimorirli, gli Olandesi
ugualmente non mutarono proposito.
Tuttavia
Peñaranda, temendo che Servient riuscisse nell’intento, si
recò dai mediatori, scusandosi di aver posto il negozio in mano agli
Olandesi e giustificandosi col dire di aver così agito non già
per diffidenza verso i mediatori bensì perché gli Olandesi gli
avevano promesso di sottoscrivere una pace separata. Le trattative furono di
nuovo affidate ai mediatori, dacché la tregua degli Olandesi con la
Spagna del gennaio 1647 [259] conteneva una clausola
che la rendeva inefficace qualora anche la Francia non fosse addivenuta ad un
accordo con la Spagna. Pertanto nel febbraio del 1647 Longueville
presentò ai mediatori un progetto di pace con la Spagna di sessantasei
articoli, al quale gli Spagnoli fecero riscontro con un altro progetto in
lingua spagnola di soli venticinque articoli e un proemio ove si accennava alla
Repubblica di Venezia ed al Papa come mediatori.
Entro
il 16 novembre 1647 i mediatori avevano concordato quarantotto articoli tra i
plenipotenziari delle due Corone e questi si erano impegnati a non aggiungervi
e a non togliervi più nulla. Ne erano rimasti indecisi sei, sui quali
Servient propose agli Olandesi di fare da arbitri[260]. Gli Spagnoli
approvarono per guadagnarsi maggiormente le simpatie delle Province Unite con
le quali il 30 gennaio 1648 riuscirono a convertire la tregua in pace.
Pare
che Longueville e d’Avaux volessero sottoscrivere il trattato, ma
trovando opposizione in Servient chiesero istruzioni a corte; e quivi i pochi
ministri che dissentivano dalla pace erano per autorità più forti
della maggioranza che la voleva. Fu quindi domandata udienza alla Regina dal
Nunzio e dall’ambasciatore di Venezia Nani[261] il quale cercò
inutilmente di far prevalere i propri argomenti su quelli di Mazarino,
contrario a firmare la pace.
Del
resto, venuti a conoscenza della pace ispano-olandese, i Francesi se ne
adontarono e le successive trattative palesarono che nessuna delle parti
tendeva all’accordo. Peñaranda comunicando ai mediatori la notizia
della pace firmata con gli Olandesi lo fece quasi in modo di prender congedo,
ed infatti poco dopo partì. Fece seguito la pace dell’Impero e la
partenza di tutte le legazioni. E sebbene i mediatori si trattenessero a Münster
ancora sei mesi (il Senato aveva comunicato a Contarini che la sua partenza era
subordinata a quella del Nunzio) rimase concordato soltanto il trattato con
l’Impero. Per vero Mazarino, prima che Contarini partisse da
Münster, gli chiese – per mezzo del suo segretario Fabris – di
proseguire i negoziati. Ma il tentativo, lo abbiamo già visto,
finì nel nulla[262].
La
pace tra Francia e Spagna doveva concludersi molto tempo dopo.
Dal
trattato dell’Impero, secondo Contarini, derivarono alla Repubblica di
Venezia due grandi vantaggi[263]: il merito conseguito
presso tutti i principi e città dell’Impero grazie alla mediazione
portata a termine felicemente, se pure con poco profitto per ciò che
concerneva la guerra contro il Turco (a proposito della quale la Repubblica
venne da tutti commiserata ma da nessuno effettivamente assistita), e il
beneficio di poter considerare, insieme con tutti i Potentati confinanti con
l’Impero, motivo di sicurezza la diminuzione del potere imperiale e la
sua subordinazione alle leggi dell’Impero.
In
verità, come di siffatti sentimenti della Repubblica si convinse il Kaiser Ferdinando III (che anzi –
sia pure non apertamente – accusò Venezia di essersi intesa coi
suoi nemici, in vendetta delle cose di Mantova)[264] altrettanto fu chiaro a
Venezia ch’essa non doveva aspettarsi aiuti contro il Turco
dall’Imperatore[265].
L’ambasciatore
veneto Giustiniani riferiva in seguito al Senato che l’Imperatore vedeva
nella Repubblica il migliore bastione della sua frontiera contro il Turco e la
propria maggior sicurezza nell’essere il Turco impegnato in guerra contro
di essa[266].
L’avere
Venezia svolto la sua mediazione nella pace di Westfalia resta comunque
suggellato nelle parole che nel proemio del trattato ne rinnovano la memoria:
«Tandem Diuina Bonitate factum est, ut annitente Ser.ma
Rep.ca veneta (cuius consilia difficillimis Christiani Orbis temporibus
publicae saluti et quieti nunquam defuere) utrinque de Pace Universali suscepta
sit cogitatio...».
e
che, poco più oltre, fanno menzione dell’ «... Ill.mi Exc.mi
legati Senatorisque Veneti Domini Aloisij Contareni Equitis, qui mediatoris
munere procul a partium studio totos pene quinque anos impigre perfunctum
est...».
"Gott Lob! Num ist erschollen
Das edle Fried - und Freudens Wort
Dass nun mehr ruhen sollen
die Spiess und Schwester und ihr Mord"
Con
queste parole Paul Gerhardt, il più grande poeta di Kirchenlieder successivo a Lutero, comincia il suo "Danklied für die Verkündigung des
Friedens". La pace cui è dedicato il Lied dal poeta è la Pace di Westfalia, e ben si comprende il
suo entusiasmo, pensando a ciò che la guerra dei trent'anni
rappresentò per la Germania. Non solo, infatti, la popolazione venne
quasi dimezzata, tanto che solamente all'inizio dell'Ottocento la Germania
poté avere tanti abitanti quanti ne aveva prima della guerra; ma il
paese venne desolato in modo da cadere in un imbarbarimento che si nota persino
nell'arte della stampa.
Il
giubilo per la riconquistata pace fu tale che nessuno allora ebbe coscienza di
ciò che la Pace di Westfalia avrebbe rappresentato per la storia
europea, così come nessuno ebbe a presentire che la molteplicità
degli interessi in giuoco e delle parti contrastanti nell’arengo politico,
avrebbe fatto sì che di lì a pochi decenni i due trattati di
Münster e di Osnabrück sarebbero stati guardati sotto punti di vista
spesso antitetici, ricevendone una diversa interpretazione, pur rimanendo fermo
il punto che essi erano da lodare per aver posto fine a tanta carneficina.
Nella
bibliografia che qui di seguito sarà richiamata sono, come si
vedrà, frammiste fonti e letteratura, ma ciò corrisponde allo
scopo della bibliografia stessa, la quale vuole distinguere per ogni punto del
momento storico di cui ci si occupa, il materiale specifico che lo riguarda, in
via sia di connessione logica, sia di connessione di argomento[267].
Va
anzitutto menzionato il fatto che nell’Archivio di Stato di Venezia sono
conservati, riguardo la Pace di Westfalia, undici faldoni che coprono il
periodo che va dal 31 luglio 1643 al 22 febbraio 1650. I faldoni includono i
dispacci inviati al Senato (alcuni cifrati) e la corrispondenza con gli altri
ambasciatori di Alvose Contarini. Vedi ASVe, Senato, Dispacci Münster, 1-11, (1643-1649). I Registri
contenenti le copie sono invece conservati nella Biblioteca Marciana di
Venezia. Vedi Manoscritti italiani,
VII, 1098-1104 (8148~8154), Registro di
lettere al Ser.mo Senato di Venezia del Sig. Cavalier Alvise Contarini,
Ambasciatore straordinario al Convento per la pace Universale di
Cristianità in Munster, vol. 1-6. Era abitudine degli ambasciatori
veneti redigere una relazione finale che veniva presentata al Senato veneto al
termine dell’ambasceria. Una raccolta di tali relazioni fu pubblicata a
Venezia, a partire dal 1856 da N. BAROZZI e G: BERCHET, Relazioni
degli stati europei lette al senato dagli ambasciatori veneti nel secolo
decimosettimo.
In
Italia, tuttavia, la Pace di Westfalia non ha dato origine ad un particolare
interesse scientifico, vuoi perché il nostro paese rimase ai margini
della guerra, non venendo da essa che occasionalmente e indirettamente
coinvolto, vuoi probabilmente per la sconfitta del Cattolicesimo che essa
rappresentò. Dobbiamo guardare al Novecento per trovare studi che la riguardino.
Dal momento che la pace di Westfalia divenne una legge fondamentale del Sacro
Romano Impero, vanno citati anzitutto gli studi di E. BUSSI, in particolare i
due volumi de Il Diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del
XVIII secolo, vol. I Padova 1957; vol. II Milano 1959; ma anche IDEM, Esperienze e prospettive. Saggi di storia
politica e giuridica, Modena, 1976. Dell'argomento si era occupato da altro
punto di vista MARIO TOSCANO con il suo lavoro Sicurezza collettiva e garanzie internazionali nei Trattati di
Westfalia, Milano 1939.
Lo scritto di LAURA SCHIAVI:
"La Mediazione di Roma e Venezia nel
Congresso di Münster", pur essendo basato su documenti originali
di ambo gli archivi, tratta in effetti più dello spirito con cui si
conducevano le trattative che non specificamente della mediazione (il volume
risulta edito a Bologna nel 1923). Si occupa di un aspetto tangenziale della
guerra dei trent’anni R. QUAZZA, La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato
(1628-1631), 1926.
In
tempi relativamente recenti sono stati pubblicati il saggio di S. ANDRETTA, La diplomazia veneziana e la pace di
Westfalia, in Annuario
dell’Istituto storico Italiano per l’età moderna, XXXVII-XXXVIII
(1975-1976), 1-129, che utilizza prevalentemente la relazione finale di Alvise
Contarini, e la voce Contarini in Dizionario biografico degli italiani,
XXVIII, Roma, 1983, 82. Va detto che in lingua italiana è stato tradotto
anche l’illuminante saggio di E.W. BÖCKENFÖRDE, La Pace di Westfalia e il diritto di alleanza
dei ceti dell’Impero, in Lo
Stato moderno (E. Rotelli- P.A. Schiera), Bologna, 1974, III.
In lingua inglese sono comparsi D.
CROXTON, Westphalia: The Last Christian
Peace, N.Y., 2013;
L. BUSSI, The growth of international law
and the mediation of the Republic of Venice in the peace of Westphalia, in Parliaments Estates and Representation, 19,
1999; C.V. WEDGWOOD, The Tirty Years’ War, it. tr. La guerra dei trent’anni, Milano
1991; e più risalente K.
COLEGROVE, Diplomatic Procedure
Preliminary to the Congress of Westphalia, in AJIL, vol. XIII, 1919.
Diversamente,
come ben si comprende, vanno le cose per
quanto riguarda quegli Stati che presero parte attiva alla lunga vicenda:
particolarmente Francia Svezia e Germania. In quest'ultima, naturalmente, la
Pace di Westfalia sin dal primo momento in cui essa fu conclusa,
costituì oggetto non solo di esposizione sistematica e di commentari, ma
anche di studi di diritto costituzionale, in dipendenza del fatto che essa non
solo venne collocata fra le leggi fondamentali dell'Impero, ma altresì
considerata legge formale dello stesso.
Bisogna
però a questo proposito distinguere tra la letteratura più
recente, e in genere moderna e la letteratura più antica. La letteratura
dei tempi moderni prende in esame la pace di Westfalia soprattutto sotto il
profilo politico, sia interno che internazionale: interno in quanto, come
ricorda W. TREUE essa rappresenta la più grande catastrofe per la
Germania prima del 1945; internazionale in quanto da questo "Epochemachend Datum" si fa
iniziare, per lo più, l'ordinamento politico internazionale degli Stati
Europei.
Degli
atti del congresso venne fatta una prima raccolta a opera di, J. G. von MEIERN,
Acta Pacis Westphalicae Publica Oder
Westphälische Friedens-Handlungen und Geschichte. L’opera,
pubblicata ad Hannover fra il 1734 e il 1736, consta di sei volumi in folio, ed è stata superata
solo recentemente da quella iniziata con intenti onnicomprensivi da M. BRAUBACH E K. REPGEN (Münster
1962 -) di grande importanza ed incalcolabile utilità per gli studiosi.
Viene qui citata come ACTA PACIS WESTPHALICAE (A.P.W.).
A
riprova dell’’interesse che rivestono per gli studiosi le relazioni
approntate dagli ambasciatori della Repubblica di Venezia, quelle riguardanti
Germania e Austria compaiono anche nelle Fontes
Rerum Austriacarum (II Abt. Diplomataria et Acta Vol. XXVI e
XXVII), a
cura di J. FIEDLER, Die Relationen der Botschafter Venedigs über
Deutschland und Oesterreich in siebzehnten Iahrhundert, Wien 1867. Quest'opera in particolare
è una fonte molto importante. Essa contiene, tra le altre, anche la
relazione che, del congresso di pace, fece al Senato di Venezia l'ambasciatore
Contarini. Questa relazione finale dà, senza mancare alcuna esagerazione,
una tra le più precise esposizioni di tutti gli interessi contrapposti
ed una sagace, concisa discussione dei problemi basilari di cui si chiedeva la
soluzione al Congresso.
Comprendono
infine anche una raccolta di documenti i due volumi di Cfr. H. von ZWIEDINECK -
SÜDENHORST, Die Politik der Republik
Venedig während des dreissigjährigen Krieges, Stuttgart 1882, che
esaminano la politica tenuta dalla Repubblica nel corso della guerra dei
trent’anni.
Corrisponde
alla natura delle cose e alla logica dei fatti che la letteratura più
importante sulla Pace di Westfalia sia quella in lingua tedesca, perché
mentre le norme della Pace per quanto riguarda tutti gli altri Stati Europei
erano norme che interessavano solamente in relazione ad un aspetto della loro
attività internazionale, e ciò sempre meno, quanto più ci
si avvicina ai giorni nostri, per la Germania invece, costituendo esse anche
norme di Diritto Costituzionale, sono rimaste osservate e in vigore fino al
1806, cioè fino alla scomparsa del Sacro Romano Impero.
Anche
entro la letteratura tedesca, però, è possibile vedere, riguardo
alla Pace di Westfalia, una molteplicità di atteggiamenti i quali
corrispondono alla diversa posizione spirituale nella quale si trova lo
scrittore.
I Reichsjuristen o Reichsrechtslehrer, naturalmente, vedono – e a ragione
– nella Pace di Westfalia la causa prima della impotenza politica e
militare del Reich, ond'è che
sono portati a esprimere su di essa un giudizio piuttosto negativo. I
pubblicisti dei singoli Stati territoriali, al contrario, sono indotti a una
valutazione diversa in quanto è proprio nella Pace di Westfalia che
questi Stati vedono soddisfatte le loro tendenze autonomistiche.
Anche
qui, naturalmente, vediamo riflesso il dramma storico della Germania che si
dibatte a lungo tra unità e particolarismo, quel dramma, sconosciuto a
Paesi come l'Inghilterra e la Francia che assai prima e per tempo hanno
conquistato la loro unità politica e territoriale, e che invece ha tante
somiglianze con la storia del nostro Paese.
A parte questo contrasto, che
si svolge sul terreno politico-costituzionale, è anche possibile notare
un diverso apprezzamento fatto dagli scrittori a seconda che essi siano
cattolici o riformati, cosa questa che non va dimenticata giacché spesso
taluni giudizi contrastanti dipendono dalla diversa confessione religiosa cui
appartengono i loro autori.
Non
ci si deve, oltre a ciò, nascondere il fatto che molto spesso vi
è identità di vedute tra i giuristi o i pubblicisti di
confessione riformata e gli scrittori che appartengono agli Stati territoriali,
perché se èvero che la guerra dei trent’ anni è
stata una guerra di religione, è anche vero che in più vi
è stata quella coincidenza tra tendenze autonomistiche dei principi
territoriali e tendenza alla libertà religiosa, che ovviamente si faceva
più stretta per quanto riguarda gli Stati a religione riformata.
Di
recente per la Pace di Westfalia e per l'ordinamento giuridico che essa ha
lasciato in eredità, si è nuovamente risvegliato nella scienza
storica uno straordinario interesse, causato – come giustamente nota il
Dickmann – dalla somiglianza dei problemi del nostro tempo, dopo le due
grandi guerre mondiali, con quelli di allora. Tale interesse si è
manifestato nella maniera più evidente nella pubblicazione degli Atti
del Congresso, iniziata in modo veramente grandioso a cura di Max Braubach e
Konrad Repgen.
Di
KONRAD REPGEN, a cura di -F. Bosbach e C. Kampmann
è recentemente stato pubblicato Dreißigjähriger
Krieg und Westfälischer Friede, Studien und Quellen, München
2015, una raccolta di scritti riguardanti la guerra dei trent’anni e la
pace di Westfalia, mentre ad anni più addietro risale K.
REPGEN, Die Römische Kurie in der
Westfälische Friede, I: 1521-1644, Tübingen 1965 .
Vanno anche ricordati:
G. CHRIST, Der Exzellenz-Titel für die Kurfürstlichen Gesandten auf dem
Westfälischen Friedenkngress, in Parliaments
Estates and Representation, 19, 1999.
H. DURCHHARDT (hrg), Der Westfälische Friede: Diplomatie -
politische Zäsur - kulturelles Umfeld – Rezeptionsgeschichte, in
Historische Zeitschrift, 26, 1998.
M.
SCHNETTER, Der Reichsdeputationstag 1655-1663, Aschendorf, 1996.
S.KREMER,
Herkunft und Werdegang geistlicher Führungsschichten in den Reichsbistümern
zwischen Westfälischem Frieden und
Säkularisation, Herder
1992.
L.
BELY, Les relations internationales en
Europe. XVIIe - XVIIIe siècles, Paris, 1992.
H.
GALEN, Der Westfälische Frieden. Krieg
und Frieden. (Ausstellungskatalog Stadtmuseum
Münster März/Oktober 1988).
K.
ABMEIER, Der Trierer Kurfürst Philipp Christoph von Sötern und der
Westfälische Friede, Aschendorf 1986.
F.
BOSBACH, Die Kosten des Westfälischen Friedenkongresses, Aschendorf,
1984.
W. BECKER, Der Kurfürstenrat. Grundzüge
seiner Entwicklung in der Reichsverfassung und seine Stellung auf dem
Westfälischen Friedenskongress,
Münster 1973.
Un accurato quadro d’insieme in F. DICKMANN, Der
westfälische Frieden,
Münster 1959.
Riunisce
le Vorträge bei dem Colloquium
Französischer und Deutscher Historiker vom 28 April- 30 April in
Münster il volume collettaneo Forschungen
und Studien zur Geschichte des Westfälische Friede, Münster 1965,
contenente gli studi segnati con(x) :
(x)
JEAN MEUVRET, La situation
économique et financiére de la France durant les dernière
années du règne de Louis XIII et pendant la Régence
jusqu'en 1648.
(x)
FRITZ DICKMANN, Der Westfälische
Friede und die Reichsverfassung.
(x)
ROLAND MOUSNIER, Les mouvements populaire
en France avant les traités de Westfalie et leur i cidence sur ces
traités.
(x)
ALPHONSE DUPRONT, De la
Chrétienté à l'Europe. La passion westfalienne du nonce
Fabio Chigi.
(x)
HERMANN WEBER, Friede un Gewissen.
(x)
KURT VON RAUMER, 1648/1815: Zum Problem
internationaler Friedesordnung im älteren Europa.
La
letteratura meno recente conta le seguenti opere:
I.I.
POELHEKKE, De Vrede van Münster,
Gravenhage 1948.
V. KYBAL e G. INCISA DELLA
ROCCHETTA, La nunziatura di Fabio Chigi,
I, I.2 in Miscellanea della R. Deputazione Romana di storia patria, Roma
1943-1946.
H.
HAUSER, La prépondérance espagnole
(1559-1660), Parigi 1933.
L. PASTOR, Storia dei Papi XIII, XIV, ed. ital. -
Roma 1932.
W.
PLATZHOFF, Geschichte des
europäischen Staatensystem 1559-1660, Monaco, Berlino 1928.
K.
KASER, Das Zeitalter der Reformation und
Gegenreformation, Gotha 1922.
F.
ISRAEL, Adam Adami und seine Arcana Pacis
Westfalicae, Berlino 1910.
L.
STEINBERGER, Die Jesuiten und die
Friedensfrage 1635-1650, Friburgo in B 1906.
H.
RICHTER, Die Verhandlungen über die
Aufnahme der Reformierten in den Religionsfrieden aus dem Friedenskongress zu
Osnabrück 1645-1648, Berlino 1906.
A.
OVERMANN, Die Abtretung des Elsass an
Frankreich im westfälischen Frieden, Karlsruhe 1905.
F.
TORTUAL, Zur Geschichte des
westfälischen Friedens, Monaco 1879.
C.T.
ODHNER, Die Politk Schwedens im westfälischen
Friedenskongress, Gotha 1877.
Non
sufficientemente considerata dagli storici moderni è stata la
letteratura per così dire contemporanea alla conclusione della Pace di
Westfalia perché apparsa negli anni immediatamente successivi alla
stessa, ovvero quella che si venne formando alla fine del 17° e durante il
18° secolo. Questa letteratura, viceversa, è di fondamentale
interesse, perché ci testimonia il giudizio dei contemporanei, ovvero il
modo come la pace venne considerata lungo il decorrere del tempo, via via che
si raffreddavano le ceneri del grande conflitto. Lo studio di questa
letteratura, nonché la ricerca del pensiero degli uomini che vissero in
quel tempo, è l'unica maniera per entrare nel mondo spirituale di allora
e per poterlo comprendere. L'immedesimarsi con le passioni degli uomini di
quell'epoca è una esigenza che già venne sentita alla fine del
18° secolo perché J. St. PUETTER espressamente nel suo "Manuale completo della storia tedesca del
Reich" sosteneva che per comprendere le trattative di pace bisogna
conoscere i sentimenti delle parti in causa, al qual fine egli ricorda
espressamente le opere di:
ERASMI IRENICI, "Biblioteca Gallo-Suevica, sive syllabos
operum selectorum quibus Gallorum Suecorumque hac tempestate belli proferendi,
pacis evertendae studia publico exhibentur, Utopiae apud Udonem, hoc anno
(1642), 4 vol. Sotto il nome di Erasmo Ireneo si nasconde, pare, una gesuita di
Magonza, secondo altri, invece, l'ambasciatore austriaco Isaac Volmars.
ANONYMI (Johann. Stellae), Monarchia
Gallica quae contra calumnias in libello, cui titulus: Bibliotheca
Gallo-Suecica, intestatus asseritur, Europae salutaris futura ostenditur, 1649.
Bisogna
distinguere, poi, la letteratura che si occupa solo dell'aspetto politico della
Pace di Westfalia da quella che riguarda invece solamente al lato giuridico
della stessa.
Quella
che si occupa solo dell'aspetto politico si può dividere, poi, a seconda
che esponga la storia delle trattative di pace, ovvero la conclusione della
stessa.
Al primo indirizzo
appartengono le seguenti opere:
Praeliminaria pacis imperii, das ist des Kaisers, der
Krone FrankReich, Spanien und Schweden, und der Stände zwischen den
plenipotentiariis verübte acta et tractata, 1648.
Cph. FORSTNERI, Epistolae negotium pacis Osnabrugo -
Monasteriensis concernentes, Mumpelgard 1656. Il Forstner era consigliere
dei principi di Hohenlohe. Puetter, op.
cit. pag. 656/181, dà di lui le seguenti notizie: Christoph Forstner
(n. 1598 - m. 1667) fu autore di Hypomnemata
politica, scritti nel 1617 quando aveva appena 19 anni. Viaggiò in
Italia e in Francia; divenne consigliere dei principi di Hohenlohe, quindi
cancelliere di Mömpelgard, e partecipò alle trattative della pace
di Westfalia. Particolare menzione, oltre a quello citato, merita il suo
scritto De comitiis electoralibus,
del 1631. Un elenco di tutte le lettere stampate di questo influente uomo
politico è contenuto nella IV parte del Lehretisches magazin. Si veda anche JO. HEN, BOECLER Elogium Chph. Forstneri, Argentorati
1669.
CLAUDE DE MESME CONTE D'AVAUX, Memoires touchants les negociations du traité de la paix fait
à Munster en 1648, Cologne (Grenoble) 1674). Il
d'Avaux era ambasciatore francese ai negoziati; morì nel 1656.
(Anonimo)
- Historia pacis Germano-Gallo-Suecicae
Monasterii atque Osnabrugae tractatae, a. 1648 perfectae, Irenopoli
1679. Si tratta di Tobias Pfanner, nato il 1641; fu segretario della
cancelleria di Gotha ed informatore dei principi di Gotha, quindi Hofrath al servizio dei duchi di
Sassonia. Più tardi di questo libro fu fatta un'altra edizione con
premesso il nome dell'autore, edizione che fu stampata a Gotha il 1697. Lo Pfanner morì il 1716.
ACTES ET MEMOIRES de la negociation de la
paix de Münster, (4 volumi), Amsterdam 1640.
H.
GROTIUS, Epistolae quotquot reperiri potuerunt, Amstel 1689: Grozio fu
ambasciatore svedese alla corte di Francia.
S.
PUFENDORF, Commentariorum de rebus
suecicis libri XXVI ab expeditione Gustavi Adolphi Regis in Germaniam ad
abdicaitonem usque Christinae, Ultrajecti 1786.
ADAM
ADAMI, Arcana Pacis Westphalicae,
Francofurti 1648. Più tardi l'opera venne ristampata come ADAM ADAMI, Relatio
historica de pacificatione Osnabrugo-Monasteriensi, Francofurti 1707;
l'opera venne nuovamente curata e ripubblicata da J.G. von Meiern a Leipzig nel
1637; trovasi ora riprodotta negli "Acta Pacis Westphalicae", S, III
D, vol. I, pagg. 281-342. Adam Adami (n. 1610 - m. 1663) dal 1628 è monaco
benedettino; dal 1637 priore; dal 1643 fece parte degli ambasciatori dei
prelati del Würtenberg e dell'abate di Corvey alle trattative di pace; dal
1650 è vescovo di Hierapolis e suffraganeo nel capitolo di Hildesheim.
J.H. BOEHMER, Dissertatio
controversiae selectae in tractatibus pacis Westfalicae motae, Halae 1720.
C.G. HOFFMANN, Series
rerum per Germaniam et in comitiis a transactione Passau ad an. 1720 gestarum
ad illustrandas pacis Westphalicae tabulas, Franofurti et Lipsiis 1720.
GUILLAUME
HJACINTHE BOUGEANT (gesuita), Histoire
des guerres et des negociations qui precederent le traité de Westfalie,
sous le regne de Louis XIII et le ministère du cardinal de Richelieu et
du cardinal Mazarin composée sur les memoires du Comte d'Avaux,
Paris 1727.
IDEM, Histoire
du traitè de paix de Westfalie, Paris 1744. Queste
due opere vennero tradotte insieme in Tedesco sotto il titolo: Wlilh. Hyac. Bougeant, Historie
des dreissigjährigen Krieges und des darauf erfolgten Westphälischen
Friedens mit Anmerkungen und Vorrede, von Fried. Eb. Rambach, Halle, tomi I-II 1758, tomo III 1759,
tomo IV 1760.
A. BRUNI, Hispaniarum regis ad tractatus P.W. legati
relatio de pacificatione Monasteriensi (da un manoscritto che si trovava
nella Biblioteca del Consiglio di Governo del Wurttenberg in Stuttgart) si
trova in J.J. Moser, Miscellanea juridico
historica, Francofurti und Leipzeig, I 1729, II 1730.
D.C.W.
GAERTNER, Westphälische
Friedens-Canzley darin die von A. 1643 bis 1648 bei den Münster und
Osnabrückischen Friedens-Tractaten gefürte geheime Correspondence
ertheilte Instructiones erstattete Relationes und andere besondere Nachrichten
enthalten (dai manoscritti dell'ambasciatore imperiale von Crane), in 9
parti (dal 1641 al 31 maggio 1646) Leipzig 1731-1737. Dal
1727 il Gaertner è professore a Lipsia, dal 1732 Appellations- Rath a Dresda e poi Consigliere del Reichshofrath. Nella Vorrede di questa raccolta egli scrive
che la fortuna gli ha portato tra le mani una collezione quasi completa di atti
( la quale per la maggior parte è composta dalla corrispondenza tenuta
dall'allora ambasciatore imperiale mandato a Münster e Osnabrück )
che contiene le istruzioni segrete agli ambasciatori, le relazioni degli
stessi, le loro note e molte particolari notizie quel tempo non ancora edite.
In realtà si tratta di una raccolta che venne compilata dal Reichshofrath Johann Crane come
ambasciatore imperiale al congresso di pace di Westfalia. Questa raccolta
comincia nel 1641 e, nella edizione del Gärtner, finisce col 31 maggio
1646 perché, come ci fa sapere J. St. Puetter (op. cit., I, p. 432) i manoscritti del Crane andarono distrutti in
un incendio a Dresda.
MEMOIRES
ET NEGOTIATIONS SECRETES de la Cour de
France touchant la paix de Münster (par Jean Aymond), Amsterdam 1710.
ISAAC
VOLMAR L.B. VON RIEDEN, Diarium seu
protocollum actorum publicorum I.P.W., Francofurti 1718. Questo
lavoro si trova anche in A. CORTREYUS, Corpus
juris publici S.R.I.G., Francofurti tomo I, II 1707, tomo III 1709; tomo IV
1710. Dal Cortreyus si comprende che il von Rieden era ambasciatore
dell'Imperatore. Il diario va dal 1643 al 1648).
NEGOTIATIONS
SECRETES touchant la paix de Münster
et Osnabrück, à la Haye 1725, in 4 tomi.
J.G.
von LEIERN (n. 1692 - m. 1745). Fu Hof-und Canzlei-Rath, in seguito anche archivista e Geheim Justiz-Rath di Hannover.
Acta Pacis Westfalicae publica oder Westphaelische Friedens
Handlungen und Geschichte, vom Jahr 1643 bis 1648, in
sei parti, Hannover und Göttingen 1734-1736, a questa opera J. Ludolph
Walther (che fu Segretario d'Archivio in Hannover) ha aggiunto un Universal Register ed una Lebensgeschichte der Westphälischen
Friedens Gesandten, editi a Goettingen nel1740.
ACTES
ET MEMOIRES de la negociation de la paix
de Münster, Amsterdam 1680 (in 4 parti).
Al secondo indirizzo (opere
relative alla conclusione della pace) si possono ascrivere:
J. C. LOBKOWITZ, Pax S.R.I. licita demonstrata, Vienna
1649.
J. HORNBECK, Examen bullae papalis qua Papa Innocentius X
abrogare nititur pacem Germaniae, Ultrai 1652.
L. DE MONTESPERATO (Herm.
Conring), Vndiciae pacis Osnabrugensis
contra Innocentii X bullam, London 1653. Questo libro venne tradotto anche
in tedesco come Rettung des
Osnabrückischen und Münsterischen Friedens wider Innocenz des X
Nullitätserklärung.
W.I. SCHUTZ, Manuale pacificum sive quaestiones XX ex
I.P. religionem eiusque exercitium concernentes, Francofurti 1654
(et cum notis H.B. Picerunti i.c. Hier Brückneri, Spirae 1683).
T.
OELHAFEN VON SCHOELLENBACH, Templum pacis
etc. seu de pace Germaniae restaurata eiusque conservandae mediis,
Francofurti 1657.
P.A. BURGOLDENSIS
(cioè Oldenburger), Discursus ad
I.P.O.M. Genève 1668, nuova edizione aumentata 1669.
J. DECKHERR, De pace civili et religionis in I.P.W. data,
Spirae 1680.
J. OTTONIS, Adnotationes ad instrumentum pacis
Westphalicae et Noviomagensis, Francofurti 1697.
U.
OBRECHT, Brevis et succincta expositio
pacis caes. Suecicae, Argentorati 1701.
Anonimo
(H. HENNIGER), Meditationes ad I.P. Caes.
Suecicae, (in
X parti 1706-1712).
C.O. RECHENBERG, Dissertatio de pacis Onsabrugensis
obligatione universali, Lipsiae 1720-1727 (la sez. II di questa opera,
stampata a Berlino, è più rara).
J.G. ESTOR, Programma de quibusdam subsidiis ad
explicandum I.P.W. necessariis, Giessen 1726. (Questo lavoro si trova
anche in J.G. ESTOR, Auserlesene Kleine
teutsche Schriften, 12 parti in 3 vol., Giessen 1732-1739).
C.G. HOFFMANN, Analysis Pacis Westphalicae, Francofurti
ad Viadrum 1732.
E. RAUSCH, Dissertatio de usu et Praesentia actorum
pacis Westphalicae, Helmstadt, 1736.
N.H.
GUNDLING, Discursus über den
Westphälischen Frieden aus richtigen und unverfälschten MSCtis aus
Licht gestellet, (nebst Joh. Chr.
Feustel. Erzählung der
vornehmsten Ursachen des dreissigjäahrigen Krieges von der Zeit der
Reformation bis auf den Westphälischen Frieden, Frankfurt und Leipzig
1736).
MEIERI EMBLEMATA, seu loca quaedam ex Ad. Adami
Historia de Pace Westphalica a Jo. Gottfr. de Meiern interpolata, inversa vel
omissa, Ratisbonae 1739.
(In
risposta a questo scritto vedi J. G. VON
MEIERN, Beleuchtung der in Regensburg
herausgekommenen so genannten emblematum wodurch sowohl die neue Edition des
Adami etc. als die Acta Pacis Westphalicae haben verdächtig gemacht werden
wollen, Hannover 1739.
J.E.
ZSCHACKWITZ, Geschichtsmässige und
in der Reichspraxi gegründete Erleuterung des Westphälischen Friedens,
Halle 1741.
H.H.
ENGELBRECHT, Gründsätze einer
Enleitung zu Vorlesungen über den Westphälischen Frieden,
Greifswald 1743.
E.M.
CHLADENII, Oratio pacem Westphalicam
plane inter exempla haberi, Vindobonae 1748.
GESCHICHTE
des dreissigjährigen Krieges und
Westphälischen Friedens zum Beruf der gegenwärtigen
Staatsbegebenheiten, Frankfurt un Leipzig 1748 e 1760.
F.J. KORTHOLT, De
expunctis in Pace Westphalica, Giessen 1751.
P.W. SCHMID, Dissertatio
controversias quasdam circa recessum executionis a 1649 Norimbergae conclusum
exponens, eiusque convenientiam cum ipso I.P.W. vindicans, Jeane 1758.
Jo. Ad. L.B. VON ICKSTADT, Dissertatio de iusta et efficaci summi pontificis protestatione
adversus pacem religiosam et Westphalicam, obligationem tamen eiusdem
intrinsecam et pactitiam iter compaciscentes haud infringente, Ingolstadt
1759. Questo lavoro si trova (dello stesso autore) anche negli Opuscula Juridica varii argumenti,
Ingolstadt, tomo I 1748, tomo II 1759.
F.J.L. SCHRODT, Disputatio polemica ad illustrandum art. V
pacis Westphalicae, Pragae 1762.
C.H. GEISLER, De interpretatione Pacis Westphalicae, I
Erlangen 1771, II Marburg 1775, III 1776.
A. SCHMIDT, Vindiciae pro sententia L.B. de Ickstadt de
parte pontificis protestatione etc. adversus nuperam Schotti censuram,
Heidelberg 1772.
Joh. Iac. MOSER, Erläuterung
des Westphälischen Friedens aus Reichshofräthlichen Handlungen, p.
I Erlangen 1775; p. II Frankfurt und Leipzig 1776.
Fra le opere le quali invece
si occupano prevalentemente degli aspetti giuridici della pace, possiamo far
rientrare i commentari della Pace di
Westfalia, come ad esempio:
J.C.F.
VON ARETIN, Historisch-liberalische
Abhandlung über die erste gedruckte Sammlung der Westphälischen
Friedens-Acten mit urkundlichen Beylagen, München 1802.
J.N.F.
BRAUER, Abhandlungen zu Erläuterung
des westphälischen Friedens, Offenbach 1782-1785, in 3 parti.
P.A. BURGOLDENSIS (propriamente
Phil. Andr. OLDENBURGER, m. 1678), Notitia
rerum illustrium imperii R.G. sive discursus I.P.O.M. Freistadt 1668; 2a
ed. aumentata, Freistadt 1673 (Vi è anche un Supplement di questa opera dello stesso autore, collo pseudonimo di
Franci Irenici, Collegium Juris Publici, 1670).
Godofr. Ferd. VON BUCKISCH
UND LOWENFELS (nativo della Slesia, primo evangelico, poi Cattolico,
andò a Vienna al servizio dell'Imperatore). Observationes historico-politicae in I.P., Vienna 1694.
Ulr. OBRECHT (n. 1646, dal
1673 professore a Strasburgo, dal 1685 Cattolico, m. 1701), Brevis atque succinta expositio I.P. Caes.
olim argentorati pro collegio privato cum auditoribus communicata,
Francofurti 1702.
ANONIMO (cioè Henr.
Hennig, professore a Frankfurt am der Oder, poi ambasciatore del Brandemburgo
Elettorale a Regensburg, nonché ambasciatore anche alla elezione di
Carlo VI, m. 1711) Meditationes ad I.P.
Caes. Suec. Specimen I-10, Halae 1706-1712.
Naturalmente
dell'aspetto giuridico della Pace di Westfalia si preoccupano tutti i trattati
del Reichsrecht - cioè del
diritto imperiale - e la cosa si comprende perché con la Pace di
Westfalia non solo si determinava la reciproca posizione di potenza fra Kaiser e Stände, ma anche si dava all'Impero quell’ordinamento
che lo conduceva ormai sulla via di diventare una confederazione di Stati. Per
il qual motivo i trattati di diritto imperiale sono perciò stesso, entro
certi limiti, anche trattati di diritto internazionale. Va detto anzi, in
proposito, che molto spesso la valutazione politica più acuta, anche
riguardo all'importanza internazionale del trattato di Westfalia, la si trova
proprio nei trattati di diritto imperiale, poichè a questi non sfugge il
grave pregiudizio derivato da quel trattato all’ unità politica
del popolo tedesco.
I
punti di contatto o di frizione tra il diritto interno dell'Impero e quello
internazionale vengono messi in luce in quelle opere le quali si interessano
delle garanzie imposte da potenze straniere e della determinazione dei diritti
dei garanti.
S. NIGUARDI, Dispositio jurium et obligationum quae circa
pacem Westphalicam in Imperio R.G. competunt regi ac regno Galliarum,
Lugduni Batavorum 1750.
J.C.W.
VON STECK, Von den Rechten und Pflichten
der hohen Garants des Wesphälischen Friedens, in Abhandlungen aus dem teutschen Staat-und Lehnrechte zur
Erläuterung einiger neuen Reichsungelegenheiten, 1757.
J.J.
MOSER, Von der Garantie des
Westphälischen Friedens nach dem Buchstaben und Sinn derselbige (di 65
pp.) 1767.
La
giusta posizione politica degli Stati tedeschi dopo la Pace di Westfalia
è presa in esame dalle seguenti opere che trattano problemi particolari:
J.
von ROTH, Die zwei wichtigsten
Reichsgrundgesetze I) Kaiserliche Wahlcapitulation; 2) Osnabrückischer
Friede, nach originalien des Reichsarchivs zu akademische Vorlesungen bestimmte,
Mainz 1788.
J.S.
PUETTER, Geist der Westphälischen
Friedens nach dem innern Gehalt und Wahren Zusammenhange der darin verhandelten
Gegenstände historisch und systematistch dargestellt, Goettingen 1795.
N.
Th. GONNER, Ueber
Verhänderüngen der Religionsübung gegen den Zustand des
Normaljahrs ein commentar über §§ 30 und 31 Art. V des
Onsabrückischen Friedensistrumentum, Landshut 1802.
J.N.
HERT, Tractatus juris publici statuum
imperii R.G. iure reformandi juxta temporum seriem compositionis sc. Passavinae et pacis Guestphaliae,
cur. J.Cp. Koch, Giessen 1770.
E' interessante notare come
la Pace di Westfalia abbia dato origine anche a questioni di metodo, nel senso
che non è mancato chi si è preoccupato di mostrare come talune
norme della pace, in verità solo norme particolarissime, dovessero
venire commentate e spiegate. Per questo genere di letteratura, a titolo
puramente esemplificativo, ricorderemo i seguenti scritti:
E.M. CHLADEIUS, De abusu bullae Brabantinae ad illustrandum
Pacis ex art. 9 § I, Viterbonae 1748 (di 44 pp.). L'art. 9 § I
della Pace di Osnabrück dice tra l'altro: abusus bullae Brabantinae penitus bollantur. Questa disposizione
viene qui illustrata a dimostrazione del modo onde singole particolari norme
della Pace di Westfalia possono venire studiate.
F.J. KORTHOLT, Commentatio
de expunctis in Pace Westphalica ad illustrandum art. 4 setc. II.P.O.,
Giessen 1751 (di 48 pp.). Nella Pace di Osnabrück art. 4
§ I è disposto: «... ut,
qui expresse non nominati vel expuncti sunt, propterea pro amissis vel exclusis
non habeantur» - Henning pensava doversi leggere: non expuncti, ovvero così
intendere. In questo scritto, invece, sulla base delle trattative, viene a
ragione affermato il contrario.
Un
problema specificamente tedesco che diventa di diritto internazionale solo di
riflesso, è quello della pacificazione religiosa. Diciamo di riflesso
perché la violazione di una delle norme della Pace di Westfalia
riguardante la pacificazione religiosa avrebbe sempre dato modo alla Francia o
alla Svezia - come garanti del trattato - di intervenire nelle questioni
interne tedesche. Alla pacificazione religiosa in sé e per sé
sono dedicate, beninteso, ampie parti o quanto meno notevoli cenni in quasi
tutte le opere sopra ricordate, ma in via specifica si occupano di questo
problema gli scritti seguenti:
J.C. BARTEL, Historia et generalia pacificationum imperii
circa religionem, Würzburg 1736.
J.P. BANNIZZA, Subsidia interpretationis doctrinalis pacis
religiosae et Westphalicae, Würzburg 1741.
E' quasi un
secolo che la pace è conclusa quando queste opere vengono stampate ma
non bisogna pensare che esse abbiano solo un valore esegetico o scientifico in
quanto non va dimenticato che se la questione religiosa non tornò a
divampare in Germania, ciò fu dovuto alla circostanza che di fatto la
Dieta Imperiale non ebbe più a sospendere i lavori, pur se, di diritto,
essa si scioglieva alla morte di un Imperatore e si riconvocava
all’incoronazione del successivo.
Degli
Autori che si sono occupati della Pace di Westfalia dal punto di vista del
diritto internazionale, si possono inoltre citare:
A.
RAPISARDI MIRABELLI, Le Congrès de
Westfalie, se negociations et ses resultats au point de vue de l'histoire du
droit des gens, Lugduni Batavorum 1929.
A.
RANDELZHOFER, Völkerrechtliche
Aspekte des Heiligen Römischen Reiches nach 1648, Berlin 1967.
W.
PREISER, Volkerrechtsgeschichte, in Strupp-Schlochauer, Wörterbuch des Völkerrechts,
Bd. III, Berlin 1962.
R.
TURRETINI, La signification des
traités de Westphalie dans le domaine du droit des gens,
Genève 1949.
Sull'argomento della
mediazione, come già è stato osservato, non si possono citare
molte opere giacché, per lo più, gli autori di diritto
internazionale se ne sono occupati solo di sfuggita. Tra questi si possono qui ricordare:
C.
FOURCHAULT, De la Médiation,
Paris 1900.
F.
FUNCK-BRENTANO, Le caractère
religieux de la diplomatie du Moyen Age, in Revue d'histoire diplomatique, I, (1887).
W.
SCHÜCKING, Das völkerrechtliche
Institut der Vermittlung, Publication de l'Institut Nobel Norvégien,
1923.
DE
LA BARRA, La médiation et la
conciliation internationale, in Recueil
des cours de l'Académie du Droit International 1923, Tome I.
D. ANZILOTTI, Corso di Diritto Internazionale, Vol.
III, Roma 1912-1914.
G. ARANGIO-RUIZ, Controversie internazionali, in Enciclopedia del Diritto, X, Milano
1962.
G. SALVIOLI, Tutela dei diritti e interessi
internazionali, Padova 1941.
Anche in questa ottica
può essere di grande interesse consultare le opere degli studiosi di
diritto internazionale più antichi, come:
H.
GROTIUS, De Jure belli ac pacis libri
tres, Hagae 1680.
S.
PUFENDORF, De Jure naturae et gentium,
1672.
J.
TEXTOR, Synopsis juris gentium, Basel
1680.
A.
de WICQUEFORT, L'Ambassadeur et ses
fonction, La Haye 1681.
C. WOLF, Jus gentium methodo scientifica pertractatum, Francoforte 1746.
(nuova ed., con traduzione inglese, Oxford 1934).
E.
de VATTEL, Le Droit des Gens, ou Principes de la loi naturelle appliqués
à la conduite et aux affaires des nations et des souverains, Leiden 1758 (nuova ed. Neuchatel 1777).
Per
quanto riguarda il nostro paese e limitatamente a Venezia che fu direttamente
interessata non solo alle vicende belliche, ma anche alla conclusione del
trattato, in quanto il suo ambasciatore straordinario svolse azione di
mediatore, la letteratura è naturalmente molto vasta. Vedi per tutti:
R. SABBADINI, L’acquisto della tradizione:
tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia (sec. XVII-XVIII), Udine 1995.
A. ZORZI, La
Repubblica del Leone. Storia di Venezia, Milano 1979.
A. LODOLINI, Le repubbliche del mare (Biblioteca di storia
patria), Roma 1967.
F. CHABOD, La politica di Paolo Sarpi, in Scritti sul rinascimento, Torino 1967.
G. CAPPELLETTI, Storia della Repubblica di Venezia,
Venezia 1855, Tomo X.
S. ROMANIN, Storia documentata della Repubblica di
Venezia, Venezia 1842-78.
The article, that studies the Westphalia
congress following the thirty year’s war, concentrates on the mediation
role of the Republic of Venice on which the eventual settlement depended. It is
shown how the process of mediation in international disputes was firmly
grounded in the history of International Law, and which way the venetian
mediator intended as his aim.
Particular attention is paid also to the
constitutional order of the Holy Roman Empire as an outcome of the peace, in
particular concerning the religious problems.
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Lo studio che segue prende le mosse dalla relazione finale
presentata al Meeting of the
International Commission for the History of Representative and Parliamentary
Institutions, in occasione del 350th anniversario della Pace di Westfalia
(Vedila in Parliaments, Estates and
Representation 19, 1999, 73 e ss.) e vuol essere l’anticipazione e
l’annuncio di una ricerca più ampia
[2] Vedi E. BUSSI, Lo studio
del Sacro Romano Impero della Nazione tedesca come Europäische
Forschungsaufgabe, in Esperienze e
prospettive, saggi di storia politica e giuridica, Modena 1976 (399-423).
Lo studio, che rappresenta il testamento scientifico dello studioso, riproduce
la lezione finale tenuta nella Università di Modena, dove l’a. ha
insegnato sino al 1974. Compare anche come Das Recht des Heiligen Römischen
Reiches Deutscher Nation als Forschungsvorhaben der modernen
Geschichtswissenschaft, in Der Staat,
Zeitschrift fuer Staatslehre oeffentliches Recht und Verfassungsgeschichte
Band 16, Heft 4, 1977. Al Sacro Romano Impero come
‘modello’ di organizzazione fa riferimento S. CASSESE, Che tipo di potere pubblico è
l’Unione Europea?, in Quaderni
fiorentini XXXI, 2002, 141.
[3] R. FREIIN von OER, Der
Immerwährende Reichstag und die höchsten Reichsgerichte, in Parliaments, Estates & Representation,17,
1997, 75.
[4] J.J. SCHMAUSS, Akademishe
Reden und Vorlesungen, Lemgo, 1766, 211. E. BUSSI, Esperienze, cit., 420. Vedi anche J.J. MOSER, Teutsches Staats Recht (Teil 46), Frankfurt und Leipzig, 1751, 1;
G.S. TREUER, Dissertatio de jure Statuum
Imperii circa legatos exteros in comitiis, Helmstadt 1728 (e 1736).
[5] Vedi A. TENENTI, L’età
moderna. La civiltà europea nella storia mondiale, II, Bologna 1997,
137 e ss.
[6] R. BIRELEY, The Jesuits and the Thirty Year War: Kings, Courts and confessors,
Cambridge, 2003. Le conclusioni dell’a. si basano
sulla comparazione della corrispondenza fra i superiori generali Muzio
Vitelleschi e Vincenzo Carafa e i confessori delle corti di Austria, Baviera,
Francia e Spagna, coincidendo sostanzialmente col giudizio negativo che della
loro influenza sugli eventi del tempo avrebbe scritto il Pütter.
[7] J.S. PUETTER, Geist der Westphälischen Friedens, Göttingen 1795, 7 e
ss.
[8] Già nel 1603 a Heidelberg i Protestanti avevano
costituito una lega di mutua difesa, convenendo, fra l'altro, di rivolgere le
armi contro quel principe fra loro che si fosse riconvertito al Cattolicesimo.
Tuttavia fu nel 1610 che, dietro incoraggiamento di Enrico IV, a seguito di una
assemblea tenuta a Hall in Svevia, si costituì la famosa Unione. La sua
direzione fu affidata all'elettore palatino, e il comando delle truppe al
principe di Anhalt. Su questo punto cfr.
C.F. VON PFEFFEL, Abrégé de
l'Histoire et du Droit Public d'Allemagne, Paris 1754, 469.
[9] Vedi M. CARAVALE, Ordinamenti
giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, 367 e ss.
[10]Cfr. W. SELLERT, voce Landeshoheit,
in Handbuch zur Deutsche
Rechtsgeschichte, 14, pag. 1388‑1394.
[11] Una interessante interpretazione di questo momento storico
viene fornita da Oswald Spengler, il quale vi vuole riconoscere, in coerenza
con la sua particolare teoria della Storia, il verificarsi di un fenomeno -
comune a suo modo di vedere a tutte le Civiltà - e cioè l'inizio
del "periodo tardo", che vede, in campo spirituale, la formulazione
di una visione puramente filosofica del mondo, nell'arte la maturità del
Barocco e in politica il trapasso definitivo dalle strutture feudali al
concetto di Nazione. Cfr. O. SPENGLER, Il
tramonto dell'Occidente, Milano 1957, 1254 e ss.
[12] Vi fu chiaramente un nesso di interdipendenza fra l'economia e
la politica, ma sembra che la perdita del vigore economico sia stata in maggior
misura causa anziché effetto della decadenza politica. Cfr. J. PIRENNE, Les
grands courants de l'histoire universelle, Neuchatel 1944, II, 561.
[13] Su
ciò L. BUSSI, Fra unione personale e Stato sovranazionale. Contributo
alla storia costituzionale dell’Impero d’Austria, Milano 2003.
[14] Sulla questione della successione di Jullier-Clèves,
vedi la chiara esposizione di PFEFFEL, Abregè
de l'Histoire et du Droit Public de Allemagne, Paris 1754, 467-468.
[15] Gli Stati boemi avevano indugiato a lungo fra il duca di Savoia
e l'elettore sassone prima di fermarsi su Federico.
[16] Della quale fu investito segretamente il 28 agosto 1621. Vedi L. BÈLY, Les
relations internationales en Europe XVIIe-XVIIIe siècles, Paris
1992, 73.
[17] Così scriveva al Kaiser
il 27 luglio il Residente imperiale in Roma: «Il Papa offerrisce dar per
aiuto alla Maestà Cesarea ne i presenti rumori di Boemia sessantamila
fiorini da pagarsi diecimila ogni mese pro rata, con l'infrascritte e condizioni.
Prima, che l'imperatore e il Re Ferdinando faccino guerra attuale e formata, contro i Ribelli heretici di
Boemia. Secondo, che concorrino a detta guerra con le forze loro
proporzionalmente. Terzo che il Re Cattolico e i principi dell'Imperio concorrino
ancor essi ad aiutar Sua M.tà in questo bisogno, acciò gl'aiuti
di Sua Beat., ne non sian inutili. Quarto, che in evento, che li tumulti si
accomodino avanti il fine di sei mesi, Sua Beat. ne non sia tenuta a sborsar
maggior quantità, che la rata di dieci mila fiorini, ogni mese, che
dureranno li romori».
Cfr. H. von ZWIEDINECK - SÜDENHORST, Die Politik der Republik Venedig während des
dreissigjährigen Krieges,
Stuttgart 1882, I, 274.
[18] L. BUSSI, Fra unione, cit.,
285. Il G. TURBA, Die Grundlagen der pragmatischen
Sanktion, I, Ungarn, Leipzig – Wien 1911, pag. 1, vi vede l'influenza
delle teorie del diritto naturale e del principio groziano che il vincitore non
fosse tenuto necessariamente a restituire al paese conquistato la condizione
giuridica precedente, nè fosse più questa la base della
legittimazione del suo governo.
[19]Vedi Der Röm.
Kays. auch zu Hungarn und Böheim, u. Königl. Majestaet Ferdinandi des
Andern, u. Verneverte Landes-Ordnung Deroselben Erb- Königreich Boheim.
Das Jus publicum betreffend, in Historische
Aktenstuecke über das Ständewesen in Österreich, Leipzig
1847, II, 8 e ss. ; Cfr. su ciò U. FLOSSMANN, Landrechte als Verfassung, Wien-New York 1976, pag. 196 e ss.; F.
WALTER, Österreichische Verfassungs-
und Verwaltungsgeschichte von 1500-1955, Wiwn, Köln –Graz 1972,
61.
[20] Vedila in
Historische Aktenstücke, cit., pagg.
3-5; in argomento si veda pure quanto osservato da O.HINTZE, Der österreichische und der preussische Beamtenstaat im 17. Und
18. Jahrhundert, in Staat und
Verfassung. Gesammelte Abhandlungen zur allegemeine Verfassungsgeschichte
(a cura di G. Oestreich), Göttingen 1970, I, 327; cfr. HASSINGER, Ständische Vertretungen in den
althabsburgischen Ländern und in Salzburg, nel volume collettaneo a
cura di D. Gerhard, Ständische Vertretungen
in Europa im 17. und 18. Jahrhundert,
Goettingen 1969, 249.
[21] A Massimiliano di Baviera l'imperatore aveva impegnato
l'Austria superiore a garanzia delle somme da lui ottenute per fare la guerra a
Federico.
[22] Ciò avvenne con la Dieta di Ratisbona. Tale Dieta non fu
generale; l'imperatore si era accontentato di chiamare gli elettori e qualche
principe assolutamente devoto alla sua volontà. Ferdinando
comunicò la sua decisione riguardo al trasferimento dell'elettorato. Le
opposizioni degli elettori del Brandeburgo e della Sassonia come pretendenti
più prossimi del Palatinato, non furono ascoltate: gli elettori
ecclesiastici e i principi cattolici avevano dato il loro consenso al
trasferimento. Federico si pronunciò a favore della maggioranza delle voci
e investì solennemente il duca di Baviera del quinto elettorato. Cfr. PFEFFEL, op. cit., 493.
[23] Cfr. J. St. PUETTER, op. cit., 17.
[24] Cfr. PFEFFEL, op. cit., 499.
[25] Cfr. J. St. PUETTER, op. cit., 21.
[26] Cfr. DICKMANN, Der
Westfälische Frieden, Münster, 1965, 77 e 530.
[27] Vedila in ACTA PACIS WESTPHALICAE, a cura di M. Braubach e K.
Repgen, Münster 1962, Serie I: Istruzioni,
vol. I, 18.
[28] Salvius a Langerman, Minden, 16 September 1643, in APW, Die schwedischen Korrespondenzen, I, 1643-1645, pubbl. E. M.
Wermter, Münster, 1965, 40; J.G. von MEIERN, Acta Pacis Westphalicae publica, Hannover 1784, I, 337. A.Böckenförde,
Die Westfälische Frieden, 354.
[29] Sull'argomento cfr. F. CHABOD, La politica di Paolo Sarpi, in Scritti
sul Rinascimento, Torino 1967, 459-588.
[30] Joh. Bapt. Lenk all'elettore Palatino e al Marchese di Anhalt,
in ZWIEDINECK SUDENHORST, op. cit.,
18.
[31] Cfr. Lettera all'Ambasciatore in Corte Cesarea, 1 sett. 1618 in
ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit.,
I, 276.
[32] Lettera 15 sett. 1618 di L. Ridolfi al Kaiser Mattia, in
ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit.,
I, 276.
[33] Venezia, Archivio di Stato,
Esposizione principi, 3 aprile 1619, cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 281.
[34] Venezia, Archivio di Stato, Senato
Secreta 4 dic. 1620, Savii del
Consiglio dei Savii di T.F., cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 294.
[35] I capitoli di questa lega si trovano in Venezia, Archivio di
Stato, Commemoriale, XXVII, c.
186-188, cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op.
cit., I, 284 e segg.
[36] Cfr. H. von ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 67.
[37] Venezia, Archivio di Stato, Esposizione
principi, Conferenza di Agenzia in collegio 30 giugno 1621, cfr.
ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit.,
I, 301.
[38] Vedi ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 173.
[39] «Andato io dunque – riferisce Gritti al Senato
– la sera del giorno di S. Silvestro a palazzo, nell'uscire che fece
l'imperatore dalle sue stanze, incontrammo l'ambasciatore il quale si pose alla
destra del Nunzio essendo io alla sinistra. Gionti poi alla Cappella si
trattenne egli per buon spazio nel gabinetto con S. Mtà. Venne poi al
luogo ordinario degli Ambasciatori ed essendomi io con gli altri levato per
salutarlo, come mi fu apresso, mi disse, parlando in Lingua Spagnola, bacio le
mani di VS, aì che io risposi: Sermo Sig.re; Replicò l'Amb.re io
ho detto, che no voglio trattare del pari con V.S. et io soggionsi faccia
dunque ogniuno li fatti suoi, e nel trà lui e me, l'istesso fece l'Ambr.
di Toscana, spingendo me dall'altra parte. Venne poi il Sr. di Echemberghe e si
trattenne per buon spatio con l'Ambasciator di Spagna e si fermò poi
anche con me. Nella Capella sedevimo con ordine confuso, doppo arrivò
l'Ambr. di Spagna, perché stimano bene che il detto Ambr. non sedesse
appresso di me, stassimo però tutti nella fila medesima». Vedi ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., I, 264.
[40] Cfr. G. CAPPELLETTI, Storia
della Repubblica di Venezia, Venezia 1855, Tomo X, 118.
[41] Per tale convenzione gli Spagnoli sarebbero usciti dalla
provincia, sarebbe stata tutelata
la religione cattolica; si prevedeva, comunque, un congresso da tenersi
in Lucerna al quale avrebbero dovuto partecipare Roma, la Francia e la Spagna;
si ribadiva inoltre l'inviolabilità delle antiche capitolazioni tra i
Grigioni e l'Austria. Ma l'Arciduca Leopoldo del Tirolo obiettò che tale
convenzione era stata stipulata senza di lui e forzò i confini della
Valtellina. Cfr. G. CAPPELLETTI, op. cit.,
Tomo X, 119.
[42] La cosa era stata suggerita a Venezia dal suo Segretario in
Zurigo Lionello. Cfr. Lettera al Sec.rio Lionello a Zurich, 1621/20. 30
gennaio, in ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op.
cit., I, 200.
[43] Vedi la lettera all'ambasciatore in Francia (Giovanni Pesaro)
dell'11 Marzo 1623, in ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., II vol., 215.
[44] Cfr. G. CAPPELLETTI, op.
cit., tomo X, 145.
[45] Su tutto l'argomento cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 57.
[46] Il discorso è riportato in G. CAPPELLETTI, op. cit., vol. X, 155.
[47] Cfr. la lettera del 18.1.1628, all'ambasciatore in Francia, in
ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit.,
Vol. II, 201.
[48] Vedi la relazione di Pietro Vico sull'incontro con Werdenberg
dell'8 marzo 1628, Venezia, Archivio di Stato, Dispacci Germania; cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., II, 234.
[49] Su questo punto cfr. ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 237.
[50] Venezia, Archivio di Stato, Dispacci
Germania, Relazione del Segretario Veneto in Germania al Senato, 22.3.1628;
il decreto imperiale cui si accenna è riportato interamente in H.
ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit.,
Vol. II, 243.
[51] Nella discussione in Senato la tesi riportata fu sostenuta da
Simone Contarini, vedi G. CAPPELLETTI, op.
cit., Vol. X, 158.
[52] “Ponderate a Sua M.tà, come con forme nuove si
miri all'arbitraggio di tutte le successioni di Stati d'Italia, ed al possesso,
per questa via sicuro, di quelli sovra quale vi cadesse alcuna contesa..."
- Venezia, Archivio di Stato, Senato
Secreta, Lettera all’ ambasciatore in Francia, 31 marzo 1628.
[53] Per la corrispondenza Zorzi - Contarini vedi Venezia,
Biblioteca di S. Marco, Legato di
Girolamo Contarini, 1843, LXXXIV F. 5 Classe VII Cod. Raccolta di lettere scritte da diversi.
[54]See G. BENZONI, Contarini,
in Dizionario Biografico degli
Italiani, XXVIII, Roma, 1983, 82; S. ANDRETTA, La diplomazia veneziana e la pace di , in Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età
moderna e contemporanea, XXXVII -XXVIII (1975-1976), 1-129.
[55] Vedile in ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 264.
[56] ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 122.
[57] Vedi ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 131.
[58] E’ la peste descritta da Manzoni ne “I promessi sposi”.
[59] Vedi ZWIEDINECK-SÜDENHORST, op. cit., Vol. II, 173.
[60]"A voi si invieranno lettere di credito perché
abbiate modo di esborsare a codesto Amb.re di Svezia quella somma di denaro che
sarà stabilita in Francia dall'Amb.re nostro Contarini, procurando ancor
voi, se possibile sarà di esser certi che la somma spettando alla
Francia che dovrà essere duplicata della nostra, venga all'istesso
Rè di Svezia effettivamente sborsata" - Lettera all'Am.re a
L’Aja. 14.6.1630; Venezia, Archivio di Stato, Senato Secreta.
[61] L'ambasciatore che la Repubblica inviò, Giovanni
Grimani, ricevette infatti una accoglienza solenne. L'imperatore in persona si
mosse ad accoglierlo alle porte della città, con un corteo di più
di sessanta carrozze; alla prima udienza si levò il cappello tre volte,
concedendogli poi, nelle udienze successive, quelle particolari prerogative
che, nella etichetta diplomatica del tempo, erano segno di grande
considerazione e onoreCfr. "Relatione
de S. Giovanni Grimani Cau. ritornato dalla Amb.ria di Germania. Letta
nell'Ecc.mo Senato a 13 marzo 1641". In J. FIEDLER, Die Relationen
der Botschafter Venedigs über Deutschland und Österreich im 17.
Jahrhundert, Bd I (= Fontes Rerum Austriacarum, Abt II, XXVI) Wien 1866, 238.
[62] «Onde Ecc.mi SSri finalmente concludo che essendo
Alemanni di buona mente (per ciò che riguarda il presente affare dei
Turchi) sperano bene di noi, bene di loro stessi: e quando non segua la Pace,
che in questo caso farebbero certo de miracoli; io dico sicuramente alle SSrie.
Vre. Illme. et Eccell.me che poco capitale si debba fare de loro aiuti, perché
non ne vedo il modo ne meno la disposizione, mentre anch'essi ne conoscono
l'impossibilità». Cfr. Relatione
dell'Amb. Grimani delle cose presenti di Germania sotto il 22 gennaio 1638,
in J. FIEDLER, op. cit., I, 221.
[63] Cfr. Relazione dell'Amb.
Grimani delle cose presenti di Germania sotto il 22 genn. 1638, in J.
FIEDLER, op. cit., 223.
[64]Cfr., sul punto, G. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale, Padova7, 1967, 376; Vedi anche la definizione che trovasi nel Wörterbuch des Völkerrecht und der
Diplomatie, Berlin, 1925, ove alla voce Vermittlung,
si legge: "Die Bemühungen eines
oder mehrere Staaten in einer gespannten Situation in der sich andere befinden,
das friedliche Verhältniss zwischen diesen aufrecht zu erhalten und
dadurch einem Kriege vorzubeuchen,nennt man Gute Dienste (bons Offices).
Bestehen diese Bemühungen darin, auf Ersuchen der Streitteile oder doch
mit deren Zustimmung Vorschlage zur Beilegung des Konfliktes zu machen, so
spricht man von Mediation oder Vermittlung". Da ultimo cfr. B. CONFORTI,
Diritto internazionale, Napoli,
1987, 396 e 407. La differenza è stata legata (vedi C. FOURCHAULT, De la médiation, Paris, 1900, 55)
al fatto che "Les bons offices ne
sont pas, comme la médiation, l'apanage exclusif des états. On
concevrait fort bien qu'un ministre public interposait ses bons offices,
non pas au nom de son gouvernement, mais de sa propre initiative et au son nom
personnel". Era in
questa ottica che, anche quando si negava alla Chiesa cattolica la
personalità di diritto internazionale alla pari degli altri Stati, non
si disconosceva al Papa il diritto di offrire i suoi buoni uffici per
impedire una guerra o favorire
la pace. UBERTAZZI, Contributo alla
teoria della conciliazione delle controversie internazionali davanti al
CdS, Milano, 1958, 4, rilevò una tendenza alla svalutazione delle
peculiarità dei diversi procedimenti. Tale osservazione, e la deduzione
che mediazione e buoni uffici siano equipollenti, non è condivisa dal R.
QUADRI, Diritto internazionale pubblico,
cit., 241. Tuttavia è stato rilevato come la necessità di non
alterare l'equilibrio fra i due grandi blocchi che si sono contrapposti fino a
ieri, e il persistente attaccamento ad una concezione troppo rigida della
propria sovranità abbiano portato, a preferenza dei procedimenti
suaccennati, alla crescita delle diverse tecniche della conciliazione: su
ciò U. VILLANI, La conciliazione
nelle controversie internazionali, Napoli, 1979, 6.
[65] Stari autem debet sententiae arbitri quam
dixerit sive aequa sit sive iniqua. D.IV, 8,
27, 2.
[66]Una
netta chiarificazione di tale differenza trovasi in G. MORELLI, La sentenza internazionale, Padova,
1931, 14 e ss.
[67]Per la
Convenzione dell'Aja per il regolamento pacifico delle controversie del 29 luglio
1899 e 18 ottobre 1907, il ruolo del mediatore sarebbe volto «...à concilier les
prétensions opposèes et à appaiser les ressentements qui
peuvent s'être produit entre les Etats en conflit». La
convenzione stabilì alcuni
punti fermi: a) che gli Stati estranei ad una controversia avevano il diritto
di offrire i propri buoni uffici o la loro mediazione, e che l'esercizio di
questo diritto non doveva essere riguardato come un atto ostile; b) che buoni
uffici e mediazione hanno esclusivamente il carattere di un consiglio, e non
possono avere mai valore vincolante; c) che l'accettazione di una mediazione non comportava di per
sè l'interruzione delle operazioni militari, quando la guerra fosse
esplosa prima della accettazione della mediazione stessa, a meno di un apposito
accordo in tal senso. Cfr. E. BOREL, L'acte général de
Genève, in Recueil des Cours
de l'Académie de droit international, 1929, II, 504 e ss.; F.
SCHUMAN, International Politic, N.Y.,
1953 (5a),
149; U. VILLANI, op. cit., 15 e ss.
[68] E’ stato notato (L. DELBEZ, Les principes
généraux du droit international public, droit de la paix, droit
préventif de la guerre, droit de guerre, Paris 1964, 485, 16) come
proprio buoni uffici e mediazione lascino affiorare con particolare evidenza
quanto la pretesa eguaglianza degli Stati – sancita dall’art. 2
della carta dell’ONU – sia contraddetta dall’ineguaglianza
dei mezzi e delle risorse.
[69] La preoccupazione, espressa specialmente dagli Stati meno
potenti nei confronti della mediazione, deriva proprio dal fatto che tale
istituto, con lo scopo apparente di fornire una soluzione delle controversie,
si presta in realtà ad abusi da parte delle potenze maggiori, come
dimostra l'esperienza del XIX secoloVedi su ciò L. BUSSI, Mediazioni e arbitrati fra Medioevo ed
Età Moderna, in Diritto@storia,
n.4, 2005 < http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Bussi-Mediazione-e-arbitrati.htm >.
[70] Cfr. C. DE VISSCHER, Justice
et médiation, in Rev. de droit
int. et de lég. comp., 1933, 414-420. Se nell'ipotesi di una
carenza del diritto si deve vedere una vera lacuna, questa si
presenterà, in questo caso, come l'assenza di una norma convenzionale o
consuetudinaria applicabile alla fattispecie nell'insieme delle norme
giuridiche in vigore. Ma spesso le parti desiderano che a regolare la
controversia sia un diritto nuovo e migliore dell'esistente, e di conseguenza
domandano all'organo giudiziario scelto sia la modificazione della regolamentazione
giuridica, se si tratta di una controversia politica, sia il suo superamento in
sede di decisione arbitrale, se si tratta di un giudizio equitativo in una
controversia giuridica. La modifica della normativa esistente nella quale sfocia la
soluzione di una controversia politica, può consistere sia nella
aggiunta di norme nuove alle antiche, sia nella sostituzione di queste con
quelle, cioè nella produzione di diritto nuovo. In questo caso, a
rigore, non si dovrebbe parlare di lacune del diritto. Cfr. L. SIORAT, Le
problème des lacunes en droit international, Paris 1958, 99 e
ss.
[71] Cfr. SCHÜCKING, op.
cit., pag. 13; RANDELZHOFER, op. cit.,
224; ARANGIO-RUIZ, op. cit., 398.
[72] Cfr. G. SALVIOLI, op.
cit., 9, nota 2.
[73] ARANGIO-RUIZ, op. cit.,
398.
[74] Per mediazione e buoni uffici come categoria di diritto
processuale internazionale vedi SCHÜCKING, op. cit., 23 e ss.; cfr. anche ARANGIO-RUIZ, op. cit., 396.
[75]Così
V. ARANGIO-RUIZ, voce Controversie
internazionali, in Enciclopedia del
diritto, X, 1962, 384.
[76]In tal
senso A. MIGLIAZZA, Il fenomeno della
organizzazione e la Comunità internazionale, Milano, 1958, 129. Non
a caso, in quelle comunità parziali che sono caratterizzate da un
più stretto vincolo sociale, l'obbligo del previo esperimento di mezzi
pacifici di soluzione delle controversie è una delle manifestazioni
più rilevanti di tale vincolo. Così nel Patto della
Società delle Nazioni, che non solo rendeva obbligatorio l'esperimento
dell'arbitrato per le controversie eventualmente sorgenti fra le Potenze firmatarie,
ma stabiliva anche che, ove l'arbitrato non fosse stato accettato, allora
diveniva obbligatoria la mediazione, intesa come mediazione del Consiglio, e
riguardata come il mezzo elettivo per la soluzione delle controversie
politiche. Va notato che, mentre la prima Convenzione dell'Aja stabiliva che si
dovesse ricorrere alla mediazione "en
tant que le circonstance le permettront", i termini dell'art. 12 del
Patto della Società delle Nazioni erano assai più vincolanti: "les membres de la societè conviennent"
ovvero "ils se soumettront".
Vedi L. CAVARÉ, Le droit international public positif, II, Paris 1962, 188 e ss. Anche
la Carta dell'ONU, dichiarando che scopo dell'Organizzazione è quello di
mantenere la pace e la sicurezza internazionale, obbliga gli Stati firmatari ad
esperire anzitutto mezzi di soluzione pacifica per i loro conflitti, e addita
la mediazione fra essi, soprattutto per le controversie non giuridiche. L'ONU
stesso, come organizzazione, può svolgere il ruolo di mediatore, tramite
i suoi organi principali, Consiglio di Sicurezza e Assemblea generale, che
avrebbero il compito di promuovere la soluzione di quelle controversie "la
cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della
pace e della sicurezza internazionale". Si è parlato addirittura di
un "dovere" dell'ONU di svolgere opera mediatrice. Anzi, l'art. 2,
par. 4 della Carta non proteggerebbe solo gli Stati membri, ma anche i
non-membri. A tale "dovere" corrisponderebbe un correlativo diritto
al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale: la Carta
conferirebbe ad ogni Stato-membro, così come al Segretario Generale, il
diritto di invocare la mediazione collettiva delle Nazioni Unite, portando
all'attenzione del Segretario Generale o dell'Assemblea ogni controversia o
ogni situazione suscettibile di creare una frizione o dar luogo ad una
controversia (art. 34 e 35). Sul punto vedi OPPENHEIM, International Law, cit, 11; sulla tendenza ad attribuire alle
organizzazioni internazionali non solo il compito di promuovere la stipulazione
di convenzioni collettive, ma anche quella della sorveglianza della loro
esecuzione vedi R. AGO, Considerazioni su
alcuni sviluppi dell'organizzazione internazionale, in La Comunità internazionale, VII, 1952, 24 (dell'estr.).
[77] Vedi
L. BUSSI, I trattati e la guerra: la
lunga traccia della consuetudine internazionale. L’antico testamento, in
Diritto @ Storia, 13, 2015 < www.dirittoestoria.it/13/memorie/Bussi-Trattati-guerra-antico-testamento.htm >.
.
[78] Nel 3000 a.C., i Sumeri avevano sviluppato quella che è ritenuta la prima civiltà della Mesopotamia. Essa ci appare sviluppata in città- Stato, in costante conflitto per il controllo delle acque. Gli scavi delle rovine di Lagash portarono alla luce circa 30.000 tavolette d’argilla, le cui iscrizioni rivelano con straordinaria minuzia l’amministrazione di un antico tempio babilonese, che era a un tempo centro industriale, commerciale e agricolo. Si è così venuti a conoscenza del fatto che il re di Kish, Mesilim, è stato arbitro di una controversia che opponeva due città del meridione babilonese, Lagash e Umma. Il trattato di delimitazione concluso in tale occasione, di cui si possiede il testo iscritto su una tavoletta recentemente scoperta, ricorda che dietro comando del dio Enlil, “re delle nazioni”, Ningirsu, divinità principale di Shirpula, e il dio di Gishku, decisero di tirare una linea di demarcazione fra i loro rispettivi territori, e che Mesilim, re di Kish, guidato dalla sua propria divinità, Kadi, segnò il confine e innalzò una stele fra i due territori a memoria della definizione della frontiera. La politica di definire la frontiera con un arbitrato sembra abbia avuto successo e assicurato la pace fra i due territori per qualche generazione. g Cfr. J. PIRENNE, La paix, cit.
[79] Umma (la moderna Tell Jokha), durante l’invasione dell’Iraq del 2003 fu danneggiata dai bombardamenti. Il sito archeologico è stato distrutto, con grave danno della ricerca scientifica.
[80]Dalla controversia sarebbero stati coinvolti tre principi di Lagasca: Eanatum, Enannatum I, fratello e successore di Eannatum e infine Entemenas, figlio e successore di Enannatum I. Per ulteriori approfondimenti, vedi A. POEBEL, Der Konflikt zwischen Lagash und Umma zur Zeit Enannatums I. und Entemenas, in Oriental Studies, Paul Haupt Anniversary Volume, Baltimore-Leipzig, 1926, 220-266. Vedi l'analisi approfondita che viene fatta dei documenti concernenti la composizione del conflitto da W.PREISER, Zum Völkerrecht der vorklassischen Antike, in Archiv des Völkerrechts,4 Bd., 3 H., 1954, 260 e ss.; L. DELAPORTE, op. cit., 78.
[81] In tal senso M.N. TOD, International Arbitration among the Greeks, Oxford,
1913, 171; J. PIRENNE, La paix, cit.,
201.
[82] A. POEBEL, op. cit, 222.
[83] W. PREISER, Zum Völkerrecht, cit., 268.
[84] Ad
essa rinvia P. CATALANO, Linee del
sistema sovranazionale romano, I, Torino 1965, 12-43. Più
chiaramente F. SINI, Religione e sistema
giuridico in Roma repubblicana, in Diritto
@ Storia, 3, 2004 < www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Sini-Religione-e-sistema-giuridico.htm >. Al fattore religioso
Jacques Pirenne riconosce, nel processo di fusione delle varie entità
politiche minori – tanto nell'antico Egitto, come in Mesopotamia –
una funzione catalizzatrice verso
un potere regale unico cui la sanzione religiosa avrebbe fornito carattere di
legittimità: J.PIRENNE, La paix,
cit., 206.
[85] L.
BUSSI, I trattati e la guerra, cit.
[86]Cfr. DE LA BARRA, La
Médiation et la conciliation internationale in Recueil des cours de l'Academie du droit Internationale, 1923, I,
561. V. BÉRARD, De arbitris inter
liberas Graecorum Civitates, Lutetiae Parisiorum, 1894; C. PHILLIPSON,
The international Law and Custom of
Ancient Geece and Rome, London, 1911; A. RAEDER, L'arbitrage international chez les Hellènes, Christiania,
1912; M.N. TOD, International Arbitration among the Greeks,
Oxford, 1913; M. DE TAUBE, Les Origines
de l'arbitrage international. Antiquité et Moyen Age in Recueil des Cours de l'Académie de
droit international,1932, IV, 18; F. ADCOCK - D.J. MOSLEY, Diplomacy in Ancient Greece, London
1975, 186; V. ILARI, Guerra e diritto nel
mondo antico, I, Guerra e diritto nel
mondo greco-ellenistico fino al III secolo, Milano 1980, 39.
[87] L. PICCIRILLI (a cura di-), Gli
arbitrati interstatali greci, I dalle origini al 338 a.C., Pisa 1973; II Dal 337 al 196 a.C., Pisa 1997.
[88] Secondo Igino arbitrata da Giove, secondo Varrone risolta da una sorta di referendum fra tutti gli abitanti della regione. Il mito reca fra l'altro traccia del passaggio da una società senza prevalenza di sesso, ad una società patriarcale. L. PICCIRILLI, Gli arbitrati, I, cit., 233 e ss.
[89] La controversia, secondo Pausania, sarebbe stata risolta grazie a Briareo,il quale, fungendo da mediatore (diallaktes) propose che si attribuisse a Poseidone l'istmo e i suoi dintorni e ad Elios le alture dominanti la città. Vedi L. PICCIRILLI, Gli arbitrati, I, cit., 242.
[90] Le molte fonti che ne parlano in L. PICCIRILLI, Gli arbitrati, I, cit., 277.
[91] Del mortale Eaco che per la sua imparzialità viene scelto a fare da arbitro anche nelle contese degli dei parla Pindaro, Isthmia 8.21-24. Cfr. L. PICCIRILLI, Gli arbitrati, I, cit., 245.
[92] E. DE RUGGIERO, L’arbitrato
pubblico in relazione al privato presso i Romani, Roma 1893; M.R. CIMMA, Reges socii et amici populi romani,
Milano 1976; E. TAÜBLER, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen
Reichs. I:Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Leipzig 1913; A. HEUSS, Die völkerrechtliche Grundlagen der römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit,
(Leipzig 1933), 2nd ed., Aalen 1968.
[93] La tesi è
sostenuta validamente da M.R. CIMMA, Reges
socii et amici, cit., 336.; cfr. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, Napoli 1973, II, 11-63; 37 e ss., 44 e ss.; B. PARADISI, L'amitié internationale. Les phases critiques de son ancienne histoire, in Rec. des Cours,
1951, 329 e ss.
[94]Per il
quale Roma non avrebbe mai riconosciuto altri Stati come pari a sè: i socii fuori d'Italia stavano con Roma
in condizione di soggezione, analogamente ai foederati
latini e italici. T.MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, Lipsia, 1887, rist. Graz 1952, v.III,
pp.645-650. Ripercorre l’evoluzione della critica F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del
“diritto internazionale antico“, Sassari 1991, 34 e ss.
[95]
M.R.CIMMA, op. cit., 132 e ss.
[96] F.
SINI, op. ult.cit., 92 e ss.; M.R.
CIMMA, I Feziali e il diritto internazionale antico, in Ius Antiquum-Drevnee pravo. 1(6), 2000, 24 ss.
[97] L.
BUSSI, Echi dello jus belli romano nella dottrina canonistica della
guerra giusta, in Ius antiquum, 1
(13) 2004, 130 e ss.; IDEM, Il problema della Guerra nella prima civilistica,
in A Ennio Cortese, Roma 2001, I.
[98] «Si officii nostri est omnibus sua jura
defendere ac inter eos componere pacem, ac stabilire concordiam multo magis
ratio exigit atque usus utilitatis exponit, ut sancimus charitatem inter
maiores, quorum pax aut odium redundat in plurimos». Vedi S. Gregorii papae operum, p. I, reg.,
l.II, ep. LXX, in MIGNE, P.L., CXLVIII, col. 421.
[99] A
partire da S. Paolo (Ebrei, 9.15; I Timoteo II.5) al concetto di mediazione
soprannaturale si richiama sempre più spesso il pensiero cristiano.
[100]
L'idea viene avanzata al Concilio di Parigi del 825, vedi M.G.H., Concilia, II, 2, 549, e richiamata
successivamente a più riprese. Vedi la dichiarazione di Callisto II al
Concilio di Reims nel 1119 in MANSI, Sacrorum
Conciliorum nova et amplissima collectio, 1776, XXI, 240.
[101] P. BELLINI, Il gladio
bellico. Il tema della guerra nella riflessione canonistica
dell’età classica, Torino 1989, 57 e ss.
[102] Cfr. SCHÜCKING, Das
völkerrechtliche Institut der Vermittlung, Publication de l'Institute
Nobel Norvégien, 5, 1923, 2.
[103] Il Kamp attribuisce a questa circostanza il fatto che venisse
attribuita loro – e non al loro mandante – il merito della pace.
Vedi H. KAMP, Vermittler in den
Konflikten des hohen Mittelalter, in La
giustizia nell’alto Medioevo (Secoli IX-XI), II, Spoleto 1997, 677.
Essi venivano chiamati concordiae et
pacis ordinatores ovvero pacis
intercessores o anche mediatores
pacis.
[104] L.
BUSSI, Mediazioni e arbitrati fra
medioevo ed età moderna, cit.
[105] Cfr. RANDELZHÖFER, Völkerrechtliche Aspekte des heiligen Römisches Reiches nach
1648, Berlin 1967, 224.
[106] H. GROTIUS, De jure belli ac pacis libri
tres, III, XX, § XLVI (ed. a cura di B.J.A. De Kanter – van
Hettinga Tromp, con note di Feenstra e C.E. Persenaire), Aalen 1993 = Lugduni
Batavorum 1939, 843.
[107] COLEGROVE, op.
cit., 451.
[108] U. GROTIUS, De jure belli ac pacis XXIII, 6.
[109] K. COLEGROVE, Diplomatic Procedure preliminary to the Congress of Westphalia, in Am. Journ. of Intern. Law, 13 (1919), 45.
[110]BOGUSLAV v. CHEMNITZ (Hippolitus a Lapide): Königlicher Swedischer in Teutschland
gefürter Kriegs, Stettin 1648.
[111] E. VATTEL, Le
droit des gens, Leiden 1758, I, 518-519.
[112] BULMERINCQ in (Holtzendorff) Handbuch des Voelkerrechts, IV,
17.
[113] Cfr. SCHÜCKING, op.
cit., 15, ANZILOTTI, op. cit.,
33.
[114] Tale
fu quella che il Papa si arrogò - e che gli venne riconosciuta - nel
caso della disputa per la corona imperiale fra Ottone di Sassonia e Filippo di
Svevia. Sulla potestà del Papa in caso di vacanza della carica
imperiale, cfr. W. ULLMANN, Principi di
governo e politica nel Medioevo, tr. it., Bologna 1972, 109. In questa
ottica, il Papa riteneva di essere arbitro
ex officio nelle questioni temporali. Quando Filippo Augusto si oppose a tale concezione, il Papa
riaffermò il diritto contestato, in virtù dell'idea che la pace
è un dovere per i Cristiani e che al capo della Chiesa aveva il diritto
di imporla loro. Vedi MIGNE, P.L.
CCXIV, Reg. de negotio imperii,
Epistola CLXXXV.
[115] Circa
l’arbitrato di Bonifacio VIII, vedi DUMONT, Corps Universel Diplomatique, I, I, 299.
[116] T. SCHMIDT, Der Bonifaz-Prozess. Verfahren der Papstanklage in der Zeit Bonifaz'
VIII. und Clemens V., Wien 1989. La lettera di Federico II in
M.G.H., LL, II, p. 355. Contra P. BELLINI, L'obbligazione da promessa
con oggetto temporale nel sistema canonistico classico, Milano 1964, 426,
il quale cita tale lettera come prova dell'avvenuta trasformazione della
giurisdizione disciplinare ecclesistica generale propter crimen in una giurisdizione ecclesiastica generale in temporalibus rebus.
[117] WOLFF, Jus Gentium
methodo scientifica pertractatum, Francoforte 1764, VIII (De Pace pactione
pacis), 1036.
[118] Vedi
in merito L. BUSSI, Il problema della guerra nella prima civilistica, in
A Ennio Cortese, Roma
2001, I, 149.
[119]Per la critica di Pufendorf a Grozio vedi M. PANEBIANCO, Ugo Grozio e la tradizione storica del
diritto internzionale, Napoli, 1974, 105-110; M. BAZZOLI, La concezione pufendorfiana della politica
internazionale, in V. Fiorillo (a
cura di- ) Samuel Pufendorf filosofo del diritto e della politica , Atti del
convegno internazionale Milano, 11-12 novembre 1994, Napoli, 1996, 48.
[120]S. PUFENDORF, De
jure naturae et gentium libri octo, Amsterdam 1672, V, XIII, 7. (CIL, 5, Oxford, 1934)
[121] Cfr. C.V. WEDGWOOD, The TirtyYears’ War, it. tr. La guerra dei
trent’anni, Milano 1991, 110.
[122] J. W.TEXTOR, Synopsis
Juris Gentium, Basel 1680, XX, 50-61.
[123] CORNELIUS VAN BYNKERSHOEK, Quaestiones Juris Publici libri duo, I, 25, n. 10. Nello stesso
senso A. DE WICQUEFORT, L'Ambassadeur et
ses fonction, La Haye 1681.
[124] Cfr. G. ARANGO-RUIZ, voce Controversie
internazionali, in Enciclopedia del
Diritto, vol. X, Milano 1962, 398-399. Cfr. anche SCHÜCKING, op. cit., 18. Anche nella Convenzione
dell'Aja del 18 Ottobre 1907, art. 2, il ricorso alla mediazione è
lasciato ad un apprezzamento discrezionale en
tant que les circonstances le permettront.
[125] ANZILOTTI, op. cit.,
33: «in questo caso il dovere degli Stati firmatari è quello di
provocare, chiedere la mediazione. Ma può consistere anche semplicemente
nel tollerare che l'intromisisone si eserciti se e in quanto lo Stato o gli
Stati che dovrebbero esercitarla lo reputino conveniente. Al dovere di chiedere
e consentire la mediazione può corrispondere tanto una semplice
facoltà quanto un vero e proprio dovere di intervenire». Il
ricorso ai Buoni uffici e alla mediazione è previsto dallo Statuto delle
Nazioni Unite che a) li annovera fra i mezzi politici che le parti dovrebbero
tentare prima di portare la controversia innanzi al Consiglio (art. 33, I), b)
li annovera implicitamente tra i mezzi dei quali il Consiglio può
comunque suggerire l'esperimento. c) li include implicitamente fra i metodi di
azione degli stessi, organi delle Nazioni Unite.
[126] Cfr. ANZILOTTI, op. cit.,
36.
[127] Cfr. SCHÜCKING, op.
cit., 20.
[128] Cfr. ANZILOTTI, op. cit.,
35.
[129] Cfr. SALVIOLI, Tutela dei
diritti e interessi internazionali, Padova 1941, 8-9. Cfr. ANZILOTTI, op. cit., 36.
[130] WOLFF, op. cit., par.
1037; cfr. SCHÜCKING, op. cit.,
18.
[131] WOLFF, op. cit., par.
1036.
[132] ANZILOTTI, op. cit.,
28 e 134, cfr. anche SCHÜCKING, op.
cit., 18.
[133] K. COLEGROVE, op. cit.,
453.
[134] Cfr. F. DICKMANN, Der
Westfälische Frieden, Munster 1965, 82.
[135] C.F. VON PFEFFEL, Abrégé
de l'Histoire et du Droit Public d'Allemagne, Paris 1754, 502-508.
[136] K. COLEGROVE, op. cit.,
454.
[137] Cfr. DICKMANN, op.
cit., 83.
[138] In tema vedi W. ULLMAN, Principles of Government and Politics in the Middle Ages, London
1966, tr. it: Principi di governo e
politica nel Medio Evo, Bologna 1972, 43.
[139] Attualmente: «Occorre
che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità
delle nazioni sia durevole, grave e certo». Vedi Catechismo della Chiesa cattolica, Roma 1992, 2309, 566.
[140] Hostes hi sunt, qui nobis,
aut quibus nos publice bellum
decrevimus, vel qui populo Romano decreverunt. Ceteri latrones, aut praedones
sunt, D. 50.16.118. In tema vedi F. SINI, Bellum
nefandum, 187 e ss.; H. HAUSMANNINGER, Bellum justum und justa causa belli im
älteren römischen Recht, in Oesterreichische
Zeitschrift für öffentliches Recht, XI, 1961, 335 e ss.; P.
BONFANTE, La morale politica dei Romani,
in Scritti giuridici vari, IV, Roma,
1925, 503.
[141] In tema vedi P. BELLINI, Il
gladio, cit., 85 e ss.
[142] Hoc autem voco romanum quia Roma est caput fidei nostre et
mater, HEINRICUS DE SEGUSIO, Summa
aurea, I, rubr. De tregua et pace,
Venetiis 1674, 359.
[143] Ibidem, 360. Circa la visione di Grotio in tema di Guerra giusta, e le
radici medievali della sua dottrina vedi P. HAGGENMACHER, Grotius et la doctrine de la guerre juste, Paris 1983.
[144] Sulla politica di Urbano VIII, vedi L. PASTOR, Geschichte der Päpste seit dem Ausgang
des Mittelalters, Freiburg 1928, XIII, 462 e ss.
[145] Cfr. E.M. WERMTER, Die
schwedische Instruktionen, Einleitung. in ACTA PACIS WESTPHALICAE, S.I., vol. I,
197.
[146] Cfr. K. COLEGROVE, op.
cit., 458.
[147] Cfr. F. DICKMANN, op.
cit., 87.
[148] Cfr. K. COLEGROVE, op.
cit., 454.
[149] Cfr. K. COLEGROVE, op.
cit., 463.
[150] N. BAROZZI e G. BERCHET, Relazioni
degli stati Europei lette al Senato dagli Ambasciatori Veneti, Serie II,
Francia, vol. II, 351.
[151] Vedi Istruzioni svedesi,
ottobre 1641/23; in ACTA PACES WESTPHALICAE, I, vol. I S. I, 242.
[152] Vedi Istruzioni svedesi,
settembre 1637, n. 16 in ACTA PACIS WESTPHALICAE, S. I, vol. I, 223.
[153] «Nos Christina Dei
Gratia Svecorum Gothorum Wandalorumque designata Regina et Princeps
haereditaria, magna Princeps FInlandiae Dux Estoniae et Coreliae Ingriaeque
Domina etc. Illustris nobis sincere dilecte. Quam benevolo affectu et grato
animo literas Serenissimae Reipublicae Vestrae, obltamque in promovenda pace
universali operam acceptaverimus, quibus de causis moram in responso hactenus
dando interponere necessum fuerit, quae desuper amice admonenda apud
Rempublicam Vestram habeamus Dom. V.S. intelectura est a Consiliario et legato
nostro, nobili et magnifico Nobis D.
Hugone Grotio. Non dubitavimus quin ad haec audienda, et ad suos principales
fideliter referenda operamque in promovendis publicis rationibus interponenda
sit paratissima.
Ceterum rogamus etiam benigne
ut de nostro in Rempublicam Vestram prono animo ac flagranti studio eandem
certiorem reddere, et ipsa a nobis sibi faventissima quaevis polliceri velit.
Quam de caeero Divinae
protectioni diligenter commendamus.
Dabantur in Regia nostra
Stocholmensis die 30 decembris anno 1637». Vedila
in N. BAROZZI e G. BERCHET, op. cit., 316.
[154] Vedi K. COLEGROVE, op.
cit., 462.
[155] Vedi F. DICKMANN, Westphälische
Friede und Reichsverfassung, in Forschungen
und Studien zur Geschichte des Westfälischen Friedens, Munster 1965,
20 e ss.
[156] Relazione dell'Amb.
Grimani delle cose presenti di Germania sotto il 22 Gennaio 1638, in
FIEDLER, op. cit., 222 e ss.
[157] Cfr. E. BUSSI, Il diritto
Pubblico nel Sacro Romano Impero, Padova, 1957, 148.
[158] A Correr Richelieu affidò la conciliazione delle Case di
Guisa e Soisson, affare delicatissimo per il quale non si era voluto nemmeno
l'aiuto del Pontefice. Cfr. BAROZZI e BERCHET, op. cit., II, II, 316.
[159] Cfr. Relazione di Grimani
tornato dalla Ambasceria di Germania, in FIEDLER, op. cit., 274.
[160] Cfr. Relazione di Grimani
tornato dalla Ambasceria di Germania, in FIEDLER, op. cit., 276.
[161] Una prima volta il 4 Marzo 1639 e una seconda volta nel 1640.
[162] Cfr. F. DICKMANN, Der
Westfälische Frieden, Munster 1965, 104.
[163] Vedi Relatione di Alvise
Contarini ritornato dall’Ambasceria di Münster, in FIEDLER, op. cit., 293.
[164] Ibidem.
[165] Vedi Observationes Adam
Adami (Agosto 1641): «Cum esse
visum foederatis Galliae et Sueciae pro Colonia et Lubera deligere Monasterium
placuit hoc ipsum quoque Caesari et statibus imperii Ratisbonae congregatis, et
mox transribuntur salviconductus», in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie
III, D, vol. I, 282.
[166] DICKMANN, Der
westfälische Frieden, Münster 1965, 191.
[167] Vedi Kommissionsbeschluss
des Rates der Stadt Münster, 3 giugno 1643, in ACTA PACIS
WESTPHALICAE, Serie III, D, vol. I, 34. Cfr. anche Protokoll des Rates der Stadt Münster, 17 ag. 1643, ibidem, 52.
[168] Observationse Adam Adami, 27 maggio 1643, in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie III,
D, vol. I, 284 n. 5.
[169] DICKMANN, op. cit.,
191.
[170] Die Stadt Münster an die Friedensvermittler, Münster 1644, in ACTA P.W., Serie III, D, vol. I,
77; cfr. Die Stadt Münster and die
Friedensvermittler, Münster (16 dic. 1644), ibidem, 93.
[171] Protokoll des Rates der Stadt Münster, Münster II febb. 1644,
in ACTA P.W., Serie III D, vol. I, 66.
[172] Die Stadt Münster an Chigi, Münster (25 ag. 1644), in ACTA P.W. Serie III, D,
vol. I, 86.
[173] Die Stadt Münster an
Contarini (15 luglio 1646), in ACTA P.W. Serie III, D, vol. I, 158.
[174] Protokoll des Rates der Stadt Münster (Münster 23 nov. 1646), in ACTA PACIS WESTPHALICAE,
Serie III, D, vol. I, 179.
[175] Alvise Contarini, figlio di Tommaso Contarini (da non
confondere con l’omonimo e contemporaneo Alvise Contarini di
Niccolò, anche lui diplomatico) era nato a Venezia, nella contrada di
S.Maria dell’Orto nell’aprile del 1597. Dopo aver ricoperto varie
cariche in patria, seguendo l’esempio del padre era entrato giovanissimo nella
diplomazia. La sua prima ambasceria era stata nei Paesi Bassi olandesi, nel
1623; di qui era passato in Inghilterra (ove aveva negoziato la pace fra quella
corona e la Francia) e in Francia, ove si era adoperato per la questione di
Mantova; in tutta la Corte egli era stimato come uno dei più qualificati
ministri che la Repubblica avesse mai avuto. Dopo il ‘32 era stato
ambasciatore a Roma ove aveva appianato un contrasto fra la Repubblica e la S.
Sede, quindi a Costantinopoli, ove era stato imprigionato, e quindi
successivamente liberato, grazie ad una momentanea riconciliazione della
Repubblica con il Sultano. Doveva morire poco dopo essere tornato dalla
ambasceria di Münster, cioè l’11 marzo 1651. Fu sepolto nella
Chiesa di S. Maria dell’Orto; cfr. Barozzi e Berchet,
op. cit., II, II, 253.
[176] Molto spesso i colleghi di Contarini parlano della sua
abilità. Vedi per esempio il Memorandum of D’Avaux and Servien to Brienne (Muenster 23
April 1644) in APW, II, B, Die
franzoesischen Korrespondenzen, I, 128: «Don Diego Sahavedra a eu peur que nostre petit différent avec
Contarini ne l’esloignast de la médiation et n’a sceu le
dissimuler en parlant à nous ces jours passéz y ayant mesme
adjousté ces mots: qu’on ne pouvoit pas nier que Monsieur le Nunce
ne soit bien honneste homme, mais que l’autre est un grand sujet et
qu’il ne seroit pas possible que la négotiation peust estre faicte
sans son entremise». Vedi anche il dispaccio di
Mazarino a Longueville (29 Luglio 1645), in APW, II, B, Die franzoesischen Korrespondenzen, II, 549.
[177] APW, II B, Die
Franzoesische Korrespondenzen, II, 30.
[178] Brienne a d’Avaux e Servient, Parigi 21 January 1645, in APW, Serie II, Abt. B, Die
Franzoesischen Korrespondenzen, 1645, 69.
[179] Memorandum di Luigi
XIV (Mazarino?) per D’Avaux e Servient, 21 gennaio 1645, Ibidem,
74.
[180] Papa Innocenzo X, salito al trono di S. Pietro nel 1644 dopo la
morte di Urbano VIII.
[181] Observationes Adam Adami, in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie III,
vol. I, 316, n. 51.
[182] Relazione di Alvise
Contarini ritornato dalla Ambasceria di Münster, in J. FIEDLER, op. cit., 398.
[183] Observationes Adam Adami, in A.P.W. Serie III, D, vol. I, 286, n. 7.
[184] Observationes A. Adami,
in A.P.W., Serie III, D, vol. I, 341.
[185] Relazione di Alvise Contarini,
in FIEDLER, op. cit., 296.
[186] Vedi Relazione
dell’Amb. Grimani tornato di Germania, in J. FIEDLER, op. cit., 280.
[187] Observationes Adam Adami, in ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie III,
D, vol. I, pg. 318, n. 55.
[188] F. DICKMANN; Der
Westfälische Frieden, Münster 1965, 197.
[189] Relazione di Alvise
Contarini ritornato dalla Ambasceria di Münster, in FIEDLER, op. cit., 334.
[190] Nelle Istruzioni imperiali si fa cenno a questa discordia fra
Venezia e la S. Sede e si raccomanda agli ambasciatori di fare in modo che essa
non abbia a pesare sui negoziati. Cfr. Kaiserliche
Instruktionen (23 settembre 1643) in ACTA PACIS WESTHPLICAE, Serie I, vol. I, 417.
[191] Su ciò L. BELY, op.
cit., 340 e ss.
[192] F. DICKMANN Der
Westfälische Frieden, Münster 1965, 207.
[193] E. BUSSI: Il diritto
pubblico nel Sacro Romano Impero, Padova 1957, 170. Cfr. F. DICKMANN, op. cit., 208.
[194] A. RANDELZHOFER; op. cit.,
205 e ss.
[195] Vedi supra
[196] Vedi Relazione
dell’Amb. Grimani tornato di Germania, in FIEDLER, op. cit., 252.
[197] Tale difficoltà è prospettata anche nelle
Istruzioni imperiali, del 1643. Vedi ACTA PACIS WESTPHALICAE, Serie I, vol. I,
418.
[198] G. CHRIST, Der Exzellenz-Titel für die
Kurfürstlichen Gesandten auf dem Westfälischen Friedenkngress, in
Parliaments Estates and Representation, 19,
1999, 92 ss.
[199]La regina Anna a D’Avaux e Servient, Parigi 9 Aprile 1644,
in APW, II, B, Die Französische
Korrespondenzen, I, 54.
[200] Servient a Brienne, Münster, 9 Aprile, 1644, in
APW, II, B, Die Französische
Korrespondenzen, I, 69.
[201] Cfr. Relazione di Alvise
Contarini ritornato dalla Ambasceria di Münster, in FIEDLER, op. cit., 307.
[202] Nella processione solenne del 12 Febbraio 1645 l’ordine
di precedenza era tale che i paggi del Veneto venivano, assieme a quelli
francesi subito prima del S. Sacramento mentre, subito dopo, venivano gli
ambasciatori francesi e Contarini. Cfr.
Observationes Adam Adami, in A.P.W.,
S. III, D, vol. I, 293.
[203] Su questo punto cfr. Observationes
Adam Adami, in A.P.W., S. III D, vol. I, 294. Del dissidio parlano anche le Istruzioni francesi, sia quella del
1637 (vedi A.P.W., S. I, p. 38) sia quella del 1643 (cfr. ibidem 65).
[204] Vedi Observationes Adam Adami, in A.P.W., S. III D, vol. I, 324.
[205] Vedi Observationes Adam Adami, in A.P.W., S.III D, vol. I, 314.
[206] Sembra che, nonostante le ripetute proteste di Contarini,
D’Avaux si rifiutò di dargli soddisfazione e la Corte gli diede
ragione (cfr. DICKMANN op. cit. 211).
Ma Contarini nella sua Relazione finale rende una versione diversa: vedi
FIEDLER op. cit. 299.
[207] Era stata l’ idea di D. REINKINGK, Tractatus de regimine saeculare et ecclesiastico, Gissae 1619, II,
I; e di D. ARUMAEUS, Discursus academici
de jure publico, I,I,7.
[208] B.P. von Chemnitz (HIPPOLITUS A
LAPIDE), Dissertatio
de ratione status in Imperio nostro Romano-Germanico, Freistadii 1647. Il libro ebbe grande influenza sulle posizioni
svedese e francese, dacchè fu conosciuto sin dal 1640.
[209] Vedi E. BUSSI, Scienza
giuridica tedesca e italiana nel XVII secolo, in Esperienze e prospettive. Saggi di storia politica e giuridica, cit,,
224.
[210] Per i
concetti di accentramento – decentramento si rinvia a H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato,
tr. it., Milano 1959, 330 e ss.
[211] L. HUGO, De Statu
regionum Germaniae, Gissae, 1689.
[212] J. LIMNEUS, Dissertatio
apologetica de statu imperii Romano-Germanici, Onolsbaci, 1643.
[213] J. ALTHUSIUS, Politica,
Herborn 1614, reprint Aalen 1641.
[214] E. W. Böckenförde, Die Westfälische Frieden und das Bündnisrecht des
Reichsstände in Der Staat VIII
(1969) 449-478, trad. it. La pace di Westfalia
e il diritto di alleanza dei ceti dell’Impero in Lo Stato moderno,
(E. Rotelli / P.A. Schiera), Bologna 1974, II, 338-339.
[215] L. BUSSI, Fra unione
personale, cit., p. 270 e ss..
[216] Sulla componente religiosa di questo problema vedi O. BRUNNER, Land und Herrschaft. Grundfragen der
territorialen Verfassungsgeschichte Oesterreichs in Mittelalter, 5a ed.,
Wien 1965, tr. it. 1983, 150.
[217] E. BUSSI, Lo studio del Sacro Romano
Impero della Nazione tedesca come Europäische Forschungsaufgabe,in Esperienze e prospettive, saggi di storia
politica e giuridica, cit., 399-423.
[218] La
durata del Reichstag venne nel tempo
aumentando, anche per l'incalzare degli avvenimenti: il continuo stato di guerra
coi Turchi; l’ostilità della Francia; la necessaria creazione di
un esercito permanente, i disordini religiosi: sicché il Reichstag di Regenspurg, convocato da
Leopoldo I nel 1662 allo scopo di domandare agli Stände sussidi finanziari ed aiuti militari contro i Turchi,
non venne più sciolto e, per quanto giuridicamente prendesse termine tante volte quante volte un imperatore
veniva meno (per via del principio
che non si poteva definire Reichstag una riunione priva dell'imperatore, di
fatto continuò le sue sedute ininterrottamente sino alla fine
dell'ImperoSulla composizione e il funzionamento del Reichstag vedi E BUSSI, Il Diritto pubblico del Sacro Romano
Impero alla fine del XVIII secolo, II, Milano 1959, 3 e ss.
[219] E. BUSSI, Il Diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla
fine del XVIII secolo, II, Milano 1959, 22.
[220] Vedi ad esempio l’art. 3, 1 della Costituzione italiana:
«tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»,
[221] Vedi Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
294.
[222] I dispacci impiegavano 15 giorni per giungere da Münster a
Vienna, 10 per giungere a Parigi, 16 per giungere a Stoccolma, quattro
settimane per Madrid. Non bisogna poi dimenticare che il reciproco giuoco delle
mosse militari creava sempre nuove situazioni e nuovi problemi.
[223] Veniva sollevato per la prima volta il problema della sicurezza
collettiva dell’Europa, il cui concetto si trova per la prima volta nella
Istruzione principale compilata da Richelieu per il Congresso di Colonia (cfr.
A.P.W., S. I, vol. I, 71).
[224] Relazione di Alvise
Contarini, in FIELDER, op. cit.,
308.
[225] Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
311; cfr. MEIERN, Acta Pacis
Westphälische. Friedenshandlungen und Geschiehte, Hannover 1734, vol. I, 68.
[226] COLEGROVE, op. cit.,
474.
[227] Relazione di Contarini al
Senato, in FIEDLER, op. cit.,
332.
[228] DICKMANN, Der
Westälische Frieden, Münster 1965, 292.
[229] DICKMANN, op. cit., 214.
[230] MEIERN, op. cit.,
vol. I, 215.
[231] Relazione di Contarini al
Senato, in FIEDLER, op. cit.,
317.
[232] DICKMANN, op. cit.,
213.
[233] Contarini dice testualmente: «Stabilito per così
dire il Congresso con l’arrivo dei Mediatori e dei plenipotenziari
dell’imperatore e delle Corone tanto a Münster che a Osnabück,
fu il 10 aprile del ‘44 cantata la Messa dello Spirito Santo per
implorare la divina assistenza al maneggio di tanto negozio». Cfr. Relazione di Alvise Contarini, in
FIEDLER, op. cit., 301.
[234] Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
301.
[235] Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
302.
[236] Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
337.
[237] MEIERN, op. cit., I, 83.
[238] MEIERN, op. cit., I, 211.
[239] Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
324.
[240] Relazione di Alvise Contarini, in
FIEDLER, op. cit., 353.
[241] Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
354.
[242] Cfr. Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
366.
[243] La lettera di Contarini agli Ambasciatori francesi li invitava
a rispondere su cinque punti:
«Primo: V.V.
E.E. si compiaceranno farmi sapere il giorno, ed il tempo preciso, nel quale
haveran resoluto di far il loro Ingresso pubblico in questa città.
Secondo: Avvertiti col mio mezzo gli Ambasciatori Cesarei &
Cattolici, di quanto è predetto, manderanno le loro Carozze &
Gentiluomini ad incontrarle ed a complimentarle.
Terzo: Soddisfatto al Complimento, subito dopo la Carrozza di V.V.E.E.
seguirà, senza far posizione d’altre, quella
dell’ambasciatore Cesareo & poi degli altri Ambasciatori.
Quarto: Arrivate V.V.E.E. alla loro habitatione, manderanno la sera
medema overò la mattina appresso, a ringratiar’
dell’incontro gl’Ambasciatori suddetti Cesarei & Cattolici.
Quinto: Gl’Ambasciatori suddetti verranno a visitar V.V.E.E. in
cui non meno, che nella restituzione della visita, la quale doverà in
loro nome esserle da me promessa, si useranno i titoli reciprochi d’Excellenza. Dal resto si osserveranno
poche forme, che se pratticavano avanti la guerra tanto con gli Ministri
dell’imperatore, quanto tra quellli delle due Corone respettivamente.
Cose tutte, che se ben non possano haver difficoltà, perchè
niente deviano dall’usagia prima della guerra pratticatosi. Ad ogni modo
supplico V.V.E.E. assicurarmi colle sue lettere sopra ognuno dei punti predetti
distinctamente e del loro contento e ch’io non abbia preso errore nel
supporre la loro convenienza». MEIERN,
op. cit., pg. 71. Rispondendo a
Contarini, gli ambasciatori francesi scrivevano: «...nous avons une si particulière cognoissance de la
prudence de Vostre Excell., que nous n’avons qu’à approuver,
pour ce qui nous regarde, tout ce qu’il luy a leu resoudre». Cfr. MEIERN, cit., 177.
[244] Vedi Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER op. cit.,
299.
[245] Sui pieni poteri francesi vedi MEIERN, op. cit., vol. I, 202; per la risposta spagnola cfr. ibidem, 204.
[246] Vedi Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, in op. cit.,
303.
[247] Venivano, cioè, invitati tutti indistintamente gli Stände, nonché i principi
italiani. Vedi Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
304.
[248] La risposta imperiale, consegnata ai mediatori era del seguente
tono: «Haviamo pensato diligente sopra la Propositione degli
Plenipotenziari di Francia, e la troviamo riempita di parole bellissime,
però del resto molto lontana da gli mezzi proportionati al negotio
principale, si che n’havessimo havuto ragione assai potente, di
ributtarla come troppo impertinente e stravagante...». Cfr. MEIERN, op.
cit., 368.
[249] Su questo punto vedi capitolo precedente.
[250] Vedi Relazione di Alvise
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
317.
[251] Vedi Relazione di
Contarini, in FIEDLER op. cit.,
319.
[252] Vedi F. DICKMANN, Der
Westfälische Frieden Münster 1965, 267.
[253] Vedi F. DICKMANN, op.
cit., 268.
[254] Dell’argomento si è parlato anche nel capitolo
precedente. Cfr. anche F. DICKMANN, op.
cit., 292.
[255] Cfr. Relazione di
Contarini, in FIEDLER op. cit.,
321.
[256] Cfr. Relazione di
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
73.
[257] Cfr. Relazione di
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
332.
[258] Cfr. Relazione di
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
329.
[259] Cfr. Relazione di
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
344.
[260] Cfr. Relazione di
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
347; Vedi anche Relatione fatta
nell’Ecc.mo Senato Veneto della Pace di Münster del 1658 (sic) Da
Nob. H. Am. r della Ser.ma Rep.ca”, ibidem, 367.
[261] Cfr. Relatione fatta
nell’Ecc.mo Senato etc. in FIEDLER, op. cit., 368.
[262] Cfr. Relazione di
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
354.
[263] Cfr. Relazione di
Contarini, in FIEDLER, op. cit.,
333.
[264] Cfr. Relazione di S.
Girolamo Giustiniani (25, Febbraio 1654), in FIEDLER, op. cit., 389.
[265] Ciò non toglie che Casa d’Austria vantasse il
proprio ruolo di antemuralis nei
confronti del pericolo turco. Vedi L. BUSSI, Fra unione personale, cit., 226.
[266] Cr. Relazione di
Giustiniani, in FIEDLER, op. cit.,
386. In realtà, durante tutta la guerra dei trent'anni, la
nobilità magiara, sostenuta dalla Francia, non darà tregua agli
Asburgo, mentre la Transilvania, impegnandosi con George Rakoczy in una
politica internazionale di largo respiro, si legava in alleanza con la Francia
e la Svezia. Quanto alla Turchia, a capo delle sue truppe c’era uno dei
più potenti Visir che la sua
storia abbia avuto, Achmet Koprülü. Grazie a lui, i Turchi sommersero
con le proprie armi l’intera Ungheria austriaca, fino alla vittoria di
Raimondo Montecuccoli presso il San Gottardo e il recupero, con la pace di
Vasvar (1664), di tre dei sette comitati che l'impero ottomano si era annesso
nel XVI secolo.Vedi L. BUSSI, Fra unione
personale, cit., 104 e ss.
[267] Esiste, a cura di E ORTLIEB e M.
SCHNETTGER una Bibliographie zum
Westfälischen Frieden, Taschenbuch 1996.