Università
di Udine
Funzione consolatoria e funzione afflittiva delle
tutele contro il danno non patrimoniale: le origini di una polivalenza *
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il risarcimento
del danno non patrimoniale nel diritto attuale. Dalla funzione punitiva, alla
funzione satisfattoria, al riemergere di profili afflittivi. – 3. Le azioni penali
in bonum et aequum del diritto
romano: condanne con funzione di vendetta e con funzione riparatoria. – Abstract.
Quando parliamo di danno
non patrimoniale ci riferiamo a una nozione fondamentalmente negativa, quella
cioè di danno che colpisce un bene o un interesse individuale di tipo non
patrimoniale, vale a dire non suscettibile di valutazione economica[1].
Proprio perché il danno
non patrimoniale riguarda beni o interessi che non possono essere oggetto di valutazione
economica, il cui valore non può quindi essere espresso in termini pecuniari,
si pone dapprima il problema della risarcibilità, cioè di stabilire se ed
eventualmente a quali condizioni sia risarcibile un danno anche non
patrimoniale[2]; e poi,
data in ipotesi la presenza di un danno non patrimoniale risarcibile, il
problema ulteriore della quantificazione del risarcimento. Su questo secondo
tema, nel suo legame con il profilo funzionale della responsabilità civile, si
sofferma specificamente il presente lavoro.
La liquidazione di un
danno non patrimoniale segue invero una logica peculiare, del tutto diversa da
quella della liquidazione di un danno patrimoniale. Quando infatti si tratti di
risarcire un danno patrimoniale, il problema della quantificazione può essere
impostato in modo relativamente semplice, perché la somma dovuta come
risarcimento è tendenzialmente pari al valore del bene danneggiato, e il bene
danneggiato ha un valore di mercato che, essendo oggettivo, può essere
individuato con una certa facilità. L’affermazione sconta una semplificazione
forse eccessiva[3], ma in
questa sede può considerarsi accettabile come punto di passaggio verso il
prosieguo di un discorso concentrato sul danno non patrimoniale.
In riferimento a questo
genere di danno il problema diviene infatti davvero acuto perché, nel caso del
danno non patrimoniale, il bene o interesse danneggiato non ha – per
definizione – un valore di mercato. Nasce allora l’esigenza di individuare un
criterio per calcolare l’importo da versare come riparazione del danno[4],
ma non solo. Occorre infatti anche capire se questa somma possa effettivamente
essere considerata un risarcimento del danno. E, nell’affrontare questo secondo
problema, si giunge allo studio delle funzioni della responsabilità civile.
Come è noto, il tema della
funzione è di particolare attualità, dato che in tempi recentissimi le Sezioni
Unite hanno dichiaratamente sostenuto la c.d. “polifunzionalità” del sistema
generale della responsabilità civile[5].
È ben vero che l’affermazione giurisprudenziale è legata alla questione
concreta che ne ha dato occasione, la questione cioè della possibile efficacia
in Italia di una sentenza straniera di condanna al risarcimento di danni
punitivi, e la non esclusività della funzione risarcitoria della responsabilità
civile viene quindi predicata per sostenere la compatibilità con l’ordine
pubblico della sentenza di condanna al risarcimento punitivo purché sia stata
resa «nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità
delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti
quantitativi». Ma pur essendo dedicato alla specifica questione dei danni
punitivi, il tanto atteso arrêt
fornisce una indicazione del tutto coerente a quanto da tempo si va dicendo in materia
di danno non patrimoniale. Se infatti la funzione risarcitoria in senso proprio
è appropriata ai casi di danno patrimoniale, perché il risarcimento elimina (o
dovrebbe eliminare) completamente il costo del danno dal patrimonio del
danneggiato[6], nel
caso in cui il danno sia non patrimoniale, la somma accordata al danneggiato in
realtà non toglie di mezzo il danno, e non è allora un risarcimento in senso
proprio. Esclusa la funzione propriamente risarcitoria, e confermata così la
“polifunzionalità” della responsabilità civile ravvisata dalle Sezioni Unite,
sorge allora l’interrogativo circa lo scopo perseguito dal sistema della
responsabilità civile per danni non patrimoniali[7].
Prima di avvicinare la
risposta, è bene fissare una premessa.
Quando si tratta di
liquidare il danno non patrimoniale, di stabilire cioè la somma da attribuire
al danneggiato, non c’è un valore patrimoniale pregiudicato oggettivamente
misurabile in moneta. Il denaro misura infatti il valore dei soli beni
patrimoniali. In epoca meno recente si diceva che gli aspetti interiori della
persona non sono suscettibili di stima in denaro, essendo al di fuori della
destinazione cui sono sottoposti gli oggetti del mondo esteriore per i quali
l’espressione quantitativa è fornita dalla moneta, ed essendo troppo importanti
e troppo permeati della individualità umana[8].
Allo stesso risultato si giunge peraltro, in modo più moderno, riflettendo
sulla funzione del denaro, o meglio su una delle funzioni del denaro, quella di
misurare i valori delle cose[9].
Questa funzione presuppone infatti l’esistenza di un mercato dove i beni siano
scambiati per valori misurati appunto in denaro. Ma dove il bene sia non
patrimoniale il mercato non c’è per definizione, essendo il bene non
patrimoniale insuscettibile di scambio, pena una sua surrettizia conversione in
bene patrimoniale: se infatti il bene potesse essere scambiato con denaro che
ne indica il valore, esso per ciò solo diventerebbe un bene patrimoniale.
Se il denaro non può per
definizione misurare il valore del bene o dell’interesse non patrimoniale, in
ogni ordinamento e in ogni epoca storica la liquidazione monetaria del danno
non patrimoniale, ove concessa, porta dunque con sé un inevitabile giudizio
equitativo[10],
eventualmente ancorata a determinati parametri obiettivi [11].
Sulla base di questa
premessa, veniamo ora alla risposta per l’interrogativo sulla funzione del c.d.
risarcimento del danno non patrimoniale.
A tale fine, occorre
evidenziare quali siano le circostanze di cui il giudice può tenere conto,
anche cumulativamente, nella sua valutazione di equità o di giustizia, quando
cioè stabilisce quale è l’importo che ritiene giusto ed equo assegnare al
danneggiato.
La prima circostanza è la
gravità del pregiudizio, l’entità, cioè, della compressione del valore non
patrimoniale individuale che è stato pregiudicato[12].
La seconda circostanza di
cui il giudice può tenere conto, è la condotta dell’autore del danno, la sua
gravità. In particolare, il giudice potrebbe determinare un risarcimento più
elevato se la lesione al valore non patrimoniale sia stata voluta e deliberata,
ci sia quindi dolo, e un risarcimento inferiore dove il fatto dannoso sia solo
colposo[13].
Si intuisce allora il
collegamento tra liquidazione del danno non patrimoniale e la funzione del suo
c.d. risarcimento.
Se infatti nella sua
valutazione equitativa il giudice guarda al danneggiato, e gli accorda tanto
più denaro quanto maggiore è il pregiudizio da lui subito, la funzione della
responsabilità civile per il danno non patrimoniale viene ricondotta a ragioni
solidaristiche e definita “satisfattiva” o “consolatoria”[14]:
si intende dire che, se anche il denaro non può per definizione eliminare il
pregiudizio non patrimoniale, esso può tuttavia dare al danneggiato la
possibilità di consolarsi o di trovare una soddisfazione alternativa che lo
compensi[15].
Quando invece il giudice
guarda alla gravità della condotta, e accorda una somma maggiore quanto più
grave sia stata la condotta, la funzione della responsabilità civile per il
danno non patrimoniale non è più (o non è più solo) satisfattiva, bensì è anche
punitiva, o afflittiva, con scopi che riguardano per di più la prevenzione
generale contro i danni[16]:
è caratteristica della pena, infatti, quella di essere tanto più elevata quanto
più grave è la condotta che si vuole reprimere.
Emergono così due
possibili funzioni della responsabilità civile per danni non patrimoniali: una
funzione satisfattiva e una funzione punitiva, che possono poi anche cumularsi
se il giudice compie entrambe le valutazioni descritte.
Nel prosieguo, vedremo
allora come nell’esperienza giuridica attuale si possa registrare una
oscillazione tra ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale in funzione
prevalentemente punitiva e ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale
in funzione prevalentemente satisfattoria. La constatazione aprirà a una
parallela analisi dell’esperienza giuridica romana, che consentirà di
verificare la presenza di una simile oscillazione, la quale però muove in senso
opposto.
Cominciamo allora dal
ripercorrere la storia del sistema odierno della responsabilità civile per danni
non patrimoniali. Non essendo possibile entrare nel dettaglio, il percorso sarà
schematizzato attraverso l’individuazione di alcune tappe fondamentali. Una
prima tappa corrisponde alla situazione precedente e immediatamente successiva
l’entrata in vigore del cod. civ. del 1942; una seconda tappa testimonia
l’emersione della funzione satisfattiva del risarcimento del danno non
patrimoniale, e culmina nella sentenza della Corte costituzionale degli anni
’80 in materia di danno biologico; una terza tappa comprende la elaborazione
della figura del danno esistenziale e la successiva sistemazione della materia
data dalle c.d. sentenze di San Martino della Corte di Cassazione a Sezioni
Unite nel 2008; l’ultima tappa vede la riscoperta della funzione punitiva del risarcimento
del danno non patrimoniale in certi settori dell’esperienza giuridica, e
specificamente nell’ambito degli illeciti c.d. endofamiliari.
Partendo allora dalla fase
iniziale, la prima tappa, va ricordato come il codice civile del 1865 non
contenesse alcuna espressa disposizione relativa alla risarcibilità del danno
non patrimoniale. Il suo art. 1151 stabiliva infatti che «Qualunque fatto
dell’uomo che arreca danno ad altri obbliga quello per colpa del quale è
avvenuto a risarcire il danno», ripetendo così la formulazione dell’art. 1382 code civil. Di conseguenza, era discusso
se, nella generica nozione di danno contenuta nella proposizione normativa,
dovesse ricomprendersi o no anche il danno non patrimoniale[17].
La questione – se cioè
l’art. 1151 si riferisse anche al danno non patrimoniale – si animò in modo
particolare per effetto dell’entrata in vigore del codice penale Rocco (1930),
il cui art. 185, comma 2, stabilisce che «Ogni reato, che abbia cagionato un
danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole»:
ci si chiedeva allora se l’art. 185 cod. pen. rendesse esplicita una regola
ricavabile dai principi generali del diritto civile, o se invece introducesse
una tutela estranea ai principi del diritto civile, e dunque una tutela da
collegare solamente al diritto penale[18].
Questa era la situazione
al momento della entrata in vigore del codice civile del 1942, che nel suo art.
2059 introduce la nuova regola secondo la quale il danno non patrimoniale deve
essere risarcito nei soli casi determinati dalla legge. La regola fu da subito
interpretata nel senso che, siccome l’unico caso di risarcimento del danno non
patrimoniale previsto dalla legge era all’epoca quello dell’art. 185 cod. pen.,
il danno non patrimoniale fosse risarcibile nei soli casi in cui il fatto
illecito costituisse reato[19].
La soluzione è già attestata nella relazione al Re, ed è interessante notare
come in quella sede la restrizione fosse giustificata sulla base della funzione
repressiva e preventiva del risarcimento del danno morale[20].
Dunque, in questa prima
fase di evoluzione del sistema il risarcimento del danno non patrimoniale
appare associato a una funzione repressiva, e quindi punitiva, della
responsabilità civile[21].
Veniamo alla seconda
tappa.
La situazione descritta
rimase ferma fino a che non fu acquisita la consapevolezza di come il sistema
così inteso lasciava pressoché irrisarcibili i danni non patrimoniali
consistenti nella lesione della integrità psicofisica. Eppure, questi sono i
danni non patrimoniali più gravi, rispetto ai quali un sentimento di giustizia
fa percepire più intensamente l’esigenza di un ristoro. Però, in questo stadio
di evoluzione del sistema, questo genere di danni poteva essere compensato per
i soli profili patrimoniali delle eventuali spese sostenute per le cure o della
diminuzione della capacità reddituale, e sotto il profilo della pecunia doloris nei limiti consentiti
dal rinvio dell’art. 2059 cod. civ. ai fatti costituenti reato[22].
Sulla scorta degli approdi
di una autorevole dottrina della fine degli anni ’50 [23],
si giunse così a decisioni di merito nelle quali, rilevato che la Costituzione
(all’art. 32) tutela il diritto alla salute di ogni individuo, il danno
all’integrità psicofisica dell’individuo, detto anche danno biologico o alla
salute, sarebbe risarcibile direttamente in base all’art. 2043 cod. civ.[24].
La marea dei dibattiti e
delle oscillazioni giurisprudenziali in materia montò progressivamente, sino a
raggiungere la Corte Costituzionale. Chiamata a decidere della legittimità
dell’art. 2059 cod. civ. nella parte in cui non avrebbe consentito una tutela
risarcitoria generalizzata del diritto alla salute, in riferimento a una
possibile violazione degli artt. 3, 24 e 32 Cost., la Corte pronunciò una
sentenza interpretativa di rigetto nel 1979[25],
e poi soprattutto la sentenza n. 184 del 1986 [26].
Con questa storica pronuncia, la Corte ritenne di dover limitare la nozione di
danno non patrimoniale contemplato all’art. 2059 cod. civ. al danno morale soggettivo,
inteso come danno che arreca un dolore morale alla vittima, un patema d’animo,
risarcibile nei soli casi previsti dalla legge come reato. Così facendo, la
Corte conferma la vecchia idea della funzione repressiva-preventiva del
risarcimento del danno non patrimoniale concesso dall’art. 2059 cod. civ. in
relazione all’art. 185 cod. pen. nei casi previsti dalla legge come reato[27].
Ridotta in tal modo la categoria del danno non patrimoniale di cui all’art.
2059 cod. civ., la Corte aveva però trovato il modo di dichiarare infondata la
questione di legittimità dell’art. 2059 cod. civ., sostenendo che il danno
biologico, cioè la lesione dell’integrità psico-fisica della persona, sarebbe
risarcibile non in base a quella norma (che quindi era salvata dalla censura di
incostituzionalità), ma sulla base di una interpretazione costituzionalmente
orientata dell’art. 2043 cod. civ. alla luce dell’art. 32, comma 1, Cost.,
norma quest’ultima che individua il bene giuridico poi tutelato dalla norma
secondaria dell’art. 2043 cod. civ.
Non è il caso di fermarsi
sulle molte critiche suscitate dalla decisione[28],
peraltro poi corretta da un successivo intervento per effetto del quale il
danno biologico fu riportato nell’alveo dell’art. 2059 cod. civ.[29].
Mi limito a evidenziare come la Corte ribadisca che il risarcimento del danno
non patrimoniale inteso come danno morale soggettivo assolve a una funzione di
repressione e di prevenzione, ma taccia invece sulla funzione del risarcimento
del danno biologico in sé considerato. Peraltro, nella dottrina tale funzione
era pacificamente ricondotta agli scopi satisfattivi o consolatori della
responsabilità civile[30],
e non sono rinvenibili tracce di un dissenso sul punto da parte del Giudice
delle leggi. Ma, per non far dire alla Corte ciò che essa in effetti non ha
detto, la questione di quale fosse il suo pensiero in materia deve restare
irrisolta.
Veniamo piuttosto alla
tappa successiva.
Negli anni ’90 del secolo
scorso, quando si è potuto assistere ad un progressivo spostamento dell’attenzione
della scienza civilistica italiana dalla dimensione patrimonialistica
dell’esistenza umana a quella personale, due scuole civilistiche, quella
genovese e soprattutto quella triestina, elaborarono la nozione di ‘danno
esistenziale’.
Come è noto, per danno
esistenziale si intende – in linea di massima – ogni pregiudizio che l’illecito
provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e
i suoi assetti relazionali, con uno sconvolgimento della quotidianità che priva
l’individuo di occasioni per esprimere e realizzare la propria personalità nel
mondo esterno[31]. Il
danno esistenziale così definito può allora distinguersi dal danno morale
soggettivo per la sua natura non meramente emotiva e interiore, ma
oggettivamente accertabile[32].
Alla risarcibilità del
danno esistenziale non sarebbe peraltro sufficiente il semplice accertamento di
una modificazione negativa nelle condizioni di vita dell’individuo. Almeno
nell’opinione prevalente a cavallo dei due secoli, il danno esistenziale era
visto come una figura di danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.
alla stessa stregua del danno biologico. Era cioè accolta un’ottica
consequenzialistica, ritenendosi che il risarcimento del danno esistenziale
presupponesse la sussistenza di tutti gli elementi della fattispecie di
responsabilità, senza allargare quindi il ventaglio degli illeciti, e
comprendesse i riflessi negativi – che fosse possibile provare – conseguenti
alla lesione di una determinata situazione giuridicamente rilevante[33].
La categoria del danno
esistenziale approdò presto alla giurisprudenza, dapprima di merito e poi anche
di legittimità[34], che
ravvisava fattispecie di danno risarcibile sotto la voce del danno esistenziale
non solo in casi di responsabilità aquiliana, ma anche – e forse
prevalentemente – in casi di responsabilità contrattuale[35].
Le vicende giudiziarie andarono via via crescendo[36],
ed ebbero – spesso nella giurisprudenza dei Giudici di Pace, non a caso
equitativa – connotati inaccettabilmente bagatellari[37].
La decisione della Corte
costituzionale del 1986 aveva dunque delineato un sistema che non resse alla
esplosione dei danni esistenziali: in particolare, il favore che la figura
riscosse presso il ceto forense, attratto dall’alleggerimento probatorio rispetto
al danno biologico[38],
determinò una pressione tale sulla giurisprudenza che l’esigenza di una
risistemazione della materia non tardò a farsi sentire.
Un primo tentativo si ebbe
nei primi anni del nuovo millennio con le sentenze della Cassazione del 2003
nn. 8827 e 8828, le c.d. sentenze gemelle[39],
e con la sentenza n. 233, dello stesso anno, della Corte Costituzionale[40].
Con le sentenze gemelle del 2003 la Cassazione si staccò dalla tradizionale
lettura restrittiva dell’art. 2059 cod. civ., visto in relazione all’art. 185
cod. pen. come diretto ad assicurare tutela contro il solo danno morale
soggettivo. Seguendo l’orientamento di una parte della dottrina civilistica, la
Cassazione, alla quale si allineò poi il Giudice delle leggi confermando così
la legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ., delineò un sistema
della responsabilità civile denominato “bipolare”, che ruota intorno ad un
primo polo rappresentato dall’art. 2043 cod. civ., ove sono racchiuse le regole
di risarcimento del solo danno patrimoniale; e ad un secondo polo fornito
dall’art. 2059 cod. civ., il quale viene letto come norma che riguarda tutti i
danni non patrimoniali, ivi comprese quelle lesioni a valori costituzionali,
come il diritto alla salute, che costituiscono un catalogo di ampiezza almeno
pari alle situazioni giuridiche soggettive riconducibili all’art. 2 Cost.
Nelle sentenze del 2003
c’erano peraltro alcune oscurità. In particolare, salvo un breve obiter dictum nella motivazione della
sentenza della Corte Costituzionale, i Giudici non avevano trattato in modo
specifico di un danno definito espressamente come esistenziale né della sua
possibile collocazione sistematica.
Per questa ragione, negli
anni successivi la questione della riparabilità del danno esistenziale restò fortemente
controversa nella giurisprudenza, soprattutto di merito[41].
E proprio per questa ragione, si arrivò nel 2008 a un ulteriore intervento
della Corte di Cassazione, questa volta a Sezioni Unite. In quattro sentenze
consecutive[42], con
una ripetizione volta proprio a rimarcare il fatto che si voleva cercare una
soluzione quanto più stabile e definitiva possibile, la Cassazione ribadì e
precisò il carattere bipolare del sistema della responsabilità civile, e in
particolare stabilì cosa debba intendersi per “casi previsti dalla legge” in
cui il danno non patrimoniale va risarcito ai sensi dell’art. 2059 cod. civ.
Ricompresi tra i casi previsti dalla legge sarebbero, secondo le Sezioni Unite,
innanzitutto i casi in cui il fatto costituisce reato, ove ai sensi dell’art.
185 cod. pen. va risarcito anche il danno non patrimoniale; sarebbero poi tutti
gli altri casi in cui una specifica disposizione di legge preveda espressamente
la risarcibilità del danno non patrimoniale, come avviene per esempio nella
legislazione in materia di irragionevole durata del processo[43],
o in quella sul divieto di discriminazioni per motivi razziali, etnici o
religiosi[44];
sarebbero infine i casi in cui, al di fuori di una specifica previsione
legislativa, il fatto illecito abbia causato un pregiudizio a un valore
individuale costituzionalmente protetto: dove cioè la Costituzione tuteli un
interesse individuale non patrimoniale, la lesione di quell’interesse deve
ritenersi uno dei casi previsti dalla legge in cui il danno non patrimoniale è
risarcibile ai sensi dell’art. 2059 cod. civ.[45].
Le
sentenze delle S.U. del 2008 segnano la situazione attuale. Dopo di esse c’è
stata qualche scossa, ma si può dire che l’assetto complessivo dell’ordinamento
sia quello appena visto.
Tornando
allora alle funzioni del risarcimento del danno non patrimoniale, può
constatarsi come, dopo la prima tappa, nella quale al risarcimento del danno
non patrimoniale era riconosciuta una funzione repressiva-preventiva, le altre
due – dagli anni ’80 sino alle S.U. del 2008 – si muovono quasi esclusivamente
nella logica di una funzione satisfattoria della responsabilità civile per
danni non patrimoniali. La funzione punitiva emerge al massimo come una sorta
di residuo storico legato all’art. 185 cod. pen.
E
arriviamo così alla quarta e ultima tappa.
L’atteggiamento
della civilistica poc’anzi segnalato, il fatto di prestare attenzione crescente
alla dimensione non patrimoniale dell’esistenza umana, ha un evidente punto di
emersione nel diritto di famiglia. Basta solo ricordare come siano stati
ripensati i modelli familiari, con tutta la serie di progetti e di leggi sulle
convivenze non matrimoniali[46];
oppure come la filiazione abbia richiesto nuove valutazioni, in ragione dello
sviluppo di tecniche di procreazione medicalmente assistita e per altro verso
in ragione di una ammodernata idea di responsabilità genitoriale[47].
Non c’è allora da stupirsi se anche nel settore della responsabilità civile la
famiglia è stato un terreno in cui si è assistito a notevoli evoluzioni.
A
partire dalla seconda metà degli anni ’80, si è infatti cominciato a criticare
serratamente la c.d. dottrina dell’immunità. Si tratta dell’idea per cui il
diritto di famiglia conterrebbe dentro di sé tutte le regole da applicare alla
vita della comunità familiare, ivi comprese le appropriate regole
sanzionatorie. In particolare, secondo questo modo di pensare, qualora dalla
violazione di un qualsiasi dovere familiare fosse derivato un danno, mai ci
sarebbe stata l’applicazione di regole comuni di responsabilità civile, bensì
soltanto l’applicazione di apposite regole del diritto di famiglia[48].
Messa
in crisi la dottrina dell’immunità e acquisita la consapevolezza di come i
doveri familiari siano veri e propri obblighi giuridici, e non doveri di
carattere tendenzialmente morale o sociale, si è allora cominciato ad accordare
risarcimenti nel caso di violazione di quei doveri. Il fenomeno, noto come
“illecito endofamiliare”, può avere varie configurazioni. In linea di massima,
nei rapporti fra coniugi i casi riguardano fondamentalmente la violazione dei
doveri di fedeltà o di assistenza[49],
mentre nei rapporti con i figli riguardano la violazione dei doveri derivanti
dal rapporto parentale[50].
Le
decisioni, sotto il profilo della risarcibilità del danno, seguono i principi
appena descritti in materia di risarcimento del danno non patrimoniale, spesso
richiamando i precedenti illustrati poc’anzi, nel senso che – al di fuori dei
casi in cui l’illecito costituisca anche reato – il danno non patrimoniale
viene risarcito quando la condotta del genitore o del coniuge abbia violato un
diritto fondamentale della persona costituzionalmente garantito. Questo accade,
ad esempio, nel caso di violazione del diritto del figlio alla assistenza, non
solo materiale, ma anche morale del genitore, tutelato dall’art. 30 Cost.[51]
C’è
però una particolarità, nel senso che talora il risarcimento viene accordato
solo se la violazione del dovere familiare è “grave” o “consapevole”[52].
Così, ancora ad esempio, non ogni tradimento è fonte di responsabilità
risarcitoria, ma solo quello che, per le sue modalità, risulta particolarmente
grave e odioso e in quanto tale lesivo di diritti e interessi fondamentali
dell’altro coniuge[53].
Quasi
sempre, poi, la somma accordata a titolo di risarcimento viene liquidata in via
equitativa dal giudice tenendo conto di vari parametri tra i quali appare
spesso il dolo[54]. In
altri termini, l’importo cui il convenuto è condannato è più alto se lui abbia
volontariamente e consapevolmente tenuto il comportamento dannoso[55].
Senza
bisogno di approfondire ulteriormente, si può dunque constatare come in
quest’area dell’esperienza giuridica, dove il danno non patrimoniale viene
liquidato in presenza di violazioni gravi o deliberate, tenendo conto del dolo
ai fini dell’ammontare della somma da liquidare, riappaia la funzione punitiva
della responsabilità civile per danni non patrimoniali[56].
D’altra parte, l’idea
della punizione sembra emergere anche in varie sedi normative. Una rassegna
sarebbe ultronea ai fini di questa riflessione[57],
ma un esempio può essere utile. Riformando la disciplina della separazione
personale tra coniugi e dell’affidamento dei figli[58],
il legislatore ha introdotto un articolo 709 ter cod. proc. civ., che riguarda le controversie tra genitori circa
l’esercizio della responsabilità genitoriale o le modalità di affidamento,
prevedendo che in caso di gravi inadempienze o di atti comunque pregiudizievoli
per il minore o che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità
dell’affidamento, il giudice possa non solo modificare le condizioni di
affidamento, ma anche ammonire il genitore inadempiente e/o condannarlo al
pagamento di una sanzione amministrativa (nn. 1 e 4), e ancora disporre il
risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore
e/o nei confronti dell’altro genitore (nn. 3 e 4).
La norma prevede dunque
misure preventive e punitive, quali l’ammonimento e la sanzione amministrativa,
ma anche una misura risarcitoria. Rispetto al risarcimento previsto dalla
legge, ci si è chiesti proprio quale sia la sua funzione. La risposta della
dottrina prevalente e delle prime applicazioni giurisprudenziali è stata nel
senso della sua funzione punitiva, da taluno addirittura assimilata a quella
dei danni punitivi, con un risarcimento da commisurare alla gravità delle
sfumature soggettive della condotta[59].
Per il vero, non è mancata qualche pronuncia che, contestando tale prospettiva,
ha considerato l’art. 709 ter cod.
civ. come la codificazione in ambito familiare dell’ordinario danno non
patrimoniale risarcibile ex art. 2059
cod. civ.[60]. Ma al
di là del fatto che l’opinione non tiene nel debito conto di come la funzione
afflittiva non sia affatto estranea all’art. 2059 cod. civ., questo
orientamento appare recessivo[61],
cosicché resta il segnale normativo che indirizza a una rinnovata funzione
punitiva della responsabilità civile per i danni non patrimoniali.
Se il quadro emerso da
queste ultime considerazioni registra, in un settore particolare
dell’esperienza giuridica, la funzione punitiva o anche punitiva del
risarcimento del danno non patrimoniale[62],
prima di passare all’ordinamento giuridico romano possiamo dunque sintetizzare
i risultati dell’analisi dedicata all’esperienza contemporanea nelle varie
tappe in cui è stata ricostruita. Si è infatti potuto constatare come
l’oscillazione tra responsabilità civile per danni non patrimoniali con
funzione punitiva e responsabilità civile per danni non patrimoniali con
funzione satisfattoria abbia visto, dopo l’entrata in vigore del codice civile,
una iniziale prevalenza della funzione afflittiva, una successiva prevalenza
della funzione satisfattoria a partire dalla metà degli anni ’70, con un
recupero in tempi più recenti della possibile funzione punitiva. Il tutto, è
bene sottolinearlo per meglio comprendere il seguito del discorso, avviene
sempre all’interno di azioni civili di danno.
Detto questo, vediamo il modo
in cui questo stesso genere di oscillazione, questa stessa duplicazione
funzionale, si è presentata nel diritto romano.
Si è già anticipato che in
quell’ordinamento l’oscillazione fu di segno opposto, ed è ora possibile
spiegare questa precisazione. Nel diritto romano non si pose cioè il problema
di stabilire se un risarcimento del danno non patrimoniale potesse avere
funzione punitiva, bensì quello di assegnare a una pena privata una funzione
satisfattiva del danno non patrimoniale[63].
Il che dipende dal modo in
cui il diritto romano ha costruito quella che noi chiamiamo “responsabilità
civile extracontrattuale”.
In effetti, l’idea della
responsabilità civile extracontrattuale, così come oggi noi la concepiamo, non
trova corrispondenza nel diritto romano. In questo ordinamento, infatti, la conseguenza giuridica di quelli che noi chiamiamo fatti illeciti
extracontrattuali, cioè i delitti
privati romani, è una sanzione a
carattere punitivo, non risarcitorio. Dal delitto, inteso
come atto illecito lesivo di un interesse privato, nasce in capo all’autore
l’obbligo di pagare alla vittima una somma di denaro a titolo di pena, non a
titolo di risarcimento del danno. E, per far valere questo obbligo, la vittima
ha a sua disposizione una azione penale, non reipersecutoria.
Le azioni penali sono
dunque quelle azioni con le quali, nell’ambito del processo privato romano,
l’attore fa valere l’obbligo del convenuto al pagamento della pena pecuniaria
prevista dall’ordinamento giuridico come sanzione per il compimento di un
delitto.
Per lo più, la pena
pecuniaria è determinata in relazione all’entità del danno patrimoniale, salvo
poi essere fissata, a seconda del tipo di delitto, nella semplice stima del
danno, o in un multiplo di essa.
Peraltro,
e arriviamo così al punto che ora ci interessa, il diritto romano ha conosciuto
alcune azioni penali dirette a punire condotte
lesive di interessi non patrimoniali. Proprio in considerazione del bene leso,
che non ha natura patrimoniale, la condemnatio
di queste azioni è concepita in bonum et
aequum: si torna a quanto si diceva in premessa, e cioè che in presenza di
danni non patrimoniali la determinazione dell’ammontare della condanna è
rimessa ad una valutazione equitativa del giudice.
Senonché, la condanna in bonum et aequum sembra assumere diverse
funzioni nelle diverse azioni penali.
In certi casi, l’azione è
dichiaratamente diretta a realizzare una vendetta contro chi ha tenuto il
comportamento delittuoso lesivo di un interesse non patrimoniale. Così, ad
esempio, nell’actio iniuriarum
aestimatoria[64] e nell’actio sepulchri violati[65].
In riferimento alla prima, che tutela l’integrità fisica o morale della persona
contro ingiurie, offese, contumelie, e simili, Paolo dice infatti che essa «magis enim vindictae quam pecuniae habet persecutionem»[66];
e in riferimento alla seconda, che tutela l’interesse alla indisturbata quiete
nella vita dell’oltretomba contro la dolosa profanazione dei sepolcri, la
stessa considerazione giustifica diverse soluzioni giurisprudenziali [67].
In questi casi, proprio
perché l’azione ha una funzione di vendetta, la pena pecuniaria a carico
dell’offensore o del profanatore è determinata dal giudice tenendo conto anche
della gravità della condotta[68]:
è chiaro dunque che a questa pena pecuniaria è del tutto estranea qualsiasi
logica satisfattoria.
In altri casi, invece,
l’azione in bonum et aequum sembra
assumere una funzione riparatoria del danno non patrimoniale che la condotta ha provocato.
A questo proposito, viene
in considerazione l’actio de effusis vel
deiectis[69] per il
caso in cui la cosa versata o lanciata sul sottostante luogo pubblico abbia
provocato il ferimento di un uomo libero.
L’azione è accordata
contro l’habitator, cioè contro colui
che abita la casa dalla quale è caduto l’oggetto, a prescindere dal fatto che
sia stato lui a lasciarlo cadere[70];
dato, questo, già sintomatico del fatto che l’azione, pur essendo diretta a
perseguire una pena pecuniaria, non serve tuttavia a vendicarsi[71].
Quanto
al danno che rileva nell’actio de effusis
vel deiectis per il ferimento dell’uomo libero, in sede di interpretazione
delle parole edittali «si vivet nocitumque ei esse dicetur», Ulpiano precisa che esse non
si riferiscono ai danni provocati «in rem
hominis liberi», quali ad esempio le lacerazioni dei suoi vestiti, bensì ai
danni che «in corpus eius admittuntur»:
D. 9.3.1.6 (Ulpianus libro
vicensimo tertio ad edictum): Haec autem verba ‘si vivet nocitumque ei esse
dicetur’ non pertinent ad damna, quae in rem hominis liberi facta sunt, si
forte vestimenta eius vel quid aliud scissum corruptumve est, sed ad ea, quae
in corpus eius admittuntur.
Sul
modo in cui questi danni quae in corpus
hominis liberi admittuntur devono essere computati dal giudice chiamato a
determinare la condanna in base al criterio del bonum et aequum, le fonti non sembrano però univoche. A tale
riguardo, vengono in considerazione due testi, uno di Gaio e uno di Ulpiano.
Il
primo, quello di Gaio, è tramandato in D. 9.3.6.
D. 9.3.7 (Gaiius libro
sexto ad edictum provinciale): Cum liberi hominis corpus ex eo, quod
deiectum effusumve quid erit, laesum fuerit, iudex computat mercedes medicis
praestitas ceteraque impendia, quae in curatione facta sunt, praeterea
operarum, quibus caruit aut cariturus est ob id, quod inutilis factus est.
cicatricium autem aut deformitatis nulla fit aestimatio, quia liberum corpus
nullam recipit aestimationem.
Gaio afferma che nel caso
in cui la effusio o la deiectio abbia provocato la lesione al
corpo di un uomo libero, il giudice deve fare la stima delle spese mediche e delle
operae mancate, mentre non può tenere
conto delle cicatrici e delle deformità: tale soluzione è motivata con la
considerazione che il corpo dell’uomo libero non può essere oggetto di stima[72].
Gaio, dunque, limita la condanna ai soli danni patrimoniali indiretti subiti
dal viandante ferito: spese mediche, danno emergente, e opere mancate, lucro
cessante. Quello che oggi chiameremmo danno non patrimoniale alla salute, cioè
cicatrici e deformità, non viene invece preso in considerazione.
Tenuto conto del fatto che
la formula ordina al giudice di determinare l’ammontare della condanna secondo
il suo apprezzamento equitativo, e che dunque l’azione sembrerebbe rivolta a
offrire una tutela proprio contro il danno non patrimoniale, la soluzione che
si legge nel passo di Gaio (inestimabilità di cicatrici e deformità), non è
andata esente da sospetti di interpolazione[73].
A favore della genuinità
della particolare soluzione che limita la condanna ai soli riflessi
patrimoniali delle lesioni corporali[74],
si è però rilevato che essa può spiegarsi in primo luogo con il fatto che nella
lesione derivante dalla effusio o
dalla deiectio non è ravvisabile una
offesa, e che dunque il viandante subisce soltanto una diminuzione fisica (di
per sé inestimabile in base al principio per cui il corpo dell’uomo libero non recipit aestimationem), ma non un
pregiudizio alla sua personalità morale o sociale (che il giudice può stimare
secondo equità nell’actio iniuriarum)[75];
in secondo luogo, con il fatto che l’habitator
risponde in via oggettiva[76],
e non necessariamente è l’autore di una effusio
o di una deiectio che potrebbero
essere state compiute anche da altri, rendendo ugualmente responsabile l’habitator[77].
Se gli argomenti addotti a
sostegno della genuinità del passo appaiono condivisibili, se cioè l’assenza di
una offesa alla personalità morale del viandante e la natura oggettiva della
responsabilità dell’habitator possono
aver spinto Gaio a precisare che, nonostante la condemnatio in bonum et aequum, le lesioni fisiche non debbono
essere stimate, questo però non significa che il giurista abbia espresso una
soluzione incontroversa. Anzi, proprio la precisazione che cicatrici e
deformità non debbono essere stimate all’interno di una condanna in bonum et aequum, lascia intravvedere
la possibilità che lo stesso Gaio fosse consapevole di eventuali diverse
opinioni. Ma, al di là di questa congettura, si tratta ora di verificare se la
soluzione di Ulpiano fosse uguale o diversa da quella di Gaio.
E veniamo così al secondo
testo, quello di Ulpiano, nel quale il giurista spiega le caratteristiche dell’actio de effusis vel deiectis concessa
dal pretore per il caso del ferimento dell’uomo libero[78].
D. 9.3.5.5 (Ulpianus libro
vicensimo tertio ad edictum): ... sed si libero nocitum sit, ipsi perpetua
erit actio: sed si alius velit experiri, annua erit haec actio, nec enim
heredibus iure hereditario competit, quippe quod in corpore libero damni datur,
iure hereditario transire ad successores non debet, quasi non sit damnum
pecuniarium, nam ex bono et aequo oritur.
Ulpiano afferma che
l’azione, esperibile senza limiti temporali dal soggetto leso, è invece annuale
qualora venga esperita da altri; afferma poi che essa non compete agli eredi
del ferito iure hereditario[79],
perché il danno arrecato al corpo di una persona libera non deve essere
trasmesso ai successori «quasi non sit
damnum pecuniarium, nam ex bono et aequo oritur».
Sotto il profilo che qui
interessa, il problema che pone il passo ulpianeo riguarda le parole che non
sono state tradotte, e in particolare le parole «quasi non sit damnum pecuniarium»[80].
Numerose traduzioni del
Digesto recano una versione di esse nella quale il quasi è reso in modo corrispondente a quoniam: Ulpiano dunque direbbe che l’azione non compete agli eredi
del ferito iure hereditario, «perché
il danno arrecato al corpo di una persona libera non deve essere trasmesso ai
successori “in quanto non è un danno pecuniario”[81],
e non è un danno pecuniario perché nasce ex
bono et aequo», sembrando con ciò confermare l’idea che nell’azione
esperibile dal ferito il giudice avrebbe dovuto stimare in via equitativa il
danno al suo corpo[82].
Senonché, anche fra gli
autori che accolgono questa traduzione del passo, vi è chi ritiene che in esso
non sia ravvisabile una soluzione contrastante con quella che si legge nel
passo di Gaio. Mi riferisco, in particolare, alla tesi di Franco Casavola il
quale parte dalla considerazione che il «quasi
non sit damnum pecuniarium», riferendosi a un danno intrasmissibile agli
eredi, serve solo a giustificare l’intrasmissibilità ereditaria dell’azione, il
che indica solamente «che il danno non ha investito il patrimonio, non già che
il damnum sofferto dal ferito non sia
in sé e limitatamente al ferito rappresentabile patrimonialmente»,
identificandosi con una perdita finanziaria[83].
Casavola precisa quindi che «se la lesione fisica come tale è pecuniariamente
inapprezzabile, non lo è certo allo stesso titolo dell’iniuria». Anche l’iniuria
sarebbe cioè in sé non apprezzabile pecuniariamente; tuttavia, mentre nell’iniuria esiste un «prevalente profilo
morale-sociale, che il giudice può apprezzare ex bono et aequo», per la lesione conseguente alla effusio o alla deiectio questo profilo non sussiste e il passante subisce solo una
diminuzione fisica. E siccome la diminuzione fisica non recipit aestimationem, lo studioso ritiene che il giudice non
potesse apprezzare, sia pure secondo equità, quel che per definizione è
inapprezzabile, e che quindi il giudice avrebbe dovuto orientare il suo
apprezzamento verso altri criteri. E tali diversi criteri vengono individuati
nelle spese sanitarie e nei mancati guadagni di cui parla Gaio. Spese sanitarie
e mancati guadagni non sarebbero cioè oggetto della stima, ma sarebbero i criteri
di giudizio da utilizzare all’interno della stima equitativa. Si spiegherebbe
così anche perché la condemnatio in bonum
et aequum fosse adeguata pure nell’ipotesi in cui l’attore fosse non il
ferito, bensì l’estraneo, il quale non ha sofferto la diminuzione fisica né la
diminuzione economica ad essa conseguita[84].
Ho già evidenziato alcune
ragioni per dissentire dalla tesi di Casavola[85].
Senza approfondire di nuovo la critica, mi limito a ribadire come, a mio
avviso, l’opinione espressa dallo studioso non possa essere integralmente
seguita nel punto in cui sostiene che «spese sanitarie e mancati guadagni sono
criterii, non oggetti di giudizio». È infatti ovvio che il terzo, il quale
agisca de effusis vel deiectis per il
ferimento dell’uomo libero, non ha personalmente subito né una lesione
corporale né un danno patrimoniale indiretto. Ed è anche plausibile che, come
ritiene Casavola, i danni patrimoniali indiretti subiti dal viandante ferito,
cioè le spese sanitarie da lui sostenute e le occasioni di guadagno che ha
perduto, possano fornire un accettabile criterio in base al quale stimare
equitativamente il pregiudizio del terzo attore[86].
Ma nel caso in cui l’attore fosse il viandante ferito, mi sembra che il suo
impoverimento determinato dai costi sostenuti e dalle occasioni perdute sia non
criterio di stima, bensì oggetto di una stima affidata al giudice. Il danno
patrimoniale, ancorché indiretto, va infatti stimato sia quando si ritenga che
l’azione si estenda anche al danno non patrimoniale, sia, a maggior ragione,
quando si escluda la stima del danno non patrimoniale. Lo stesso Gaio, che nega
la possibilità di una stima delle cicatrici perché il corpo dell’uomo libero
non è suscettibile di aestimatio,
dice infatti che il giudice computat
quei costi e quei mancati guadagni, mentre nulla
fit aestimatio delle cicatrici. Ed è chiaro che con questa precisazione
Gaio non vuole indicare criteri di giudizio, ma vuole chiarire che cosa sia
oggetto di stima nella azione de effusis
vel deiectis. Se Gaio avesse voluto indicare i criteri di giudizio in base
ai quali rappresentare un danno di per sé pecuniariamente inestimabile, si
sarebbe espresso in tutt’altro modo, dicendo, ad esempio, che, poiché il corpo
della persona libera nullam recipit
aestimationem, il danno si computa in base alle spese di cura e ai mancati
guadagni.
In conclusione, le tesi
che riconducono all’idea di damnum non
pecuniarium la sola stima di pregiudizi patrimoniali o “rappresentabili”
patrimonialmente non sono convincenti, e non riescono a togliere l’impressione
che Ulpiano si riferisse proprio al danno non patrimoniale, quel danno che è
tale in quanto nasce ex bono et aequo[87];
e che quindi Ulpiano, diversamente da Gaio, possa aver ritenuto stimabili in
via equitativa anche cicatrici e difformità[88].
L’idea che il danno al
corpo dell’uomo libero si identificasse anche per Ulpiano con la sola perdita
patrimoniale subita dal viandante ferito sembrerebbe però essere suggerita da
una diversa, e forse più corretta, versione delle parole «quasi non sit damnum pecuniarium», che si legge in altre
traduzioni, come ad esempio in quella di Schipani[89],
il quale rende quelle parole con «quasi non fosse un danno pecuniario». Secondo
questa traduzione, dunque, Ulpiano affermerebbe che il danno al corpo dell’uomo
libero non deve passare ai suoi successori iure
hereditario come se non fosse (quasi
non sit) un danno pecuniario (quale effettivamente è) in quanto scaturisce ex bono et aequo[90].
Questa traduzione, che fa
coincidere il danno dato in corpore libero
con un danno pecuniario[91],
non riesce però a convincermi. Come si è visto, infatti, commentando le parole
edittali «si vivet nocitumque ei esse
dicetur» Ulpiano specifica che esse si riferiscono ai danni «quae in corpus eius [i.e hominis liberi] admittuntur», e non alle sue cose (D. 9.3.1.6). Sulla base di
questa premessa, non riesco a persuadermi del fatto che Ulpiano dovesse fingere
la non pecuniarietà del danno al corpo dell’uomo libero in quanto identificava
questo danno con le sole perdite patrimoniali conseguenti alla lesione fisica: è vero che le spese mediche o le occasioni
perdute non sono certo identificabili con danni arrecati alle cose dell’uomo
libero; ma è anche vero che spese mediche e occasioni perdute hanno una
rilevanza patrimoniale che le rende sicuramente più vicine a questo genere di
danni di quanto siano vicine a lesioni fisiche arrecate al corpo dell’uomo
libero[92].
Per superare
l’insoddisfazione della traduzione del «quasi
non sit damnum pecuniarium» con «quasi non fosse un danno pecuniario» senza
quella possibile forzatura rappresentata dal renderlo con la proposizione “in
quanto non è un danno pecuniario”, si può allora pensare che il sit abbia il significato di “esserci”, in modo che
la traduzione debba essere “come se non ci fosse danno pecuniario”.
Lo spunto per formulare
l’ipotesi è fornito dalla su esposta interpretazione proposta da Franco
Casavola e ripresa da Feliciano Serrao, e specificamente dalla considerazione
per cui il «quasi non sit damnum
pecuniarium», riferendosi a un danno non trasmissibile agli eredi,
servirebbe a giustificare soltanto la intrasmissibilità ereditaria dell’azione[93].
Il rilievo pare assolutamente condivisibile: in effetti, il nucleo del passo è
rinvenibile nel non debet, riferito alla (in)trasmissibilità ereditaria
del danno recato al corpo dell’uomo libero. La regola è poi spiegata da Ulpiano
con una motivazione nella quale la questione della qualificazione del danno,
come pecuniario o no, così come il rilievo della sua nascita ex bono et
aequo, vanno intesi in funzione della affermata intrasmissibilità
successoria del danno al corpo. Come si diceva, questo è dunque il principio
che il giurista ha voluto evidenziare, non già una questione circa la natura
patrimoniale o no del danno al corpo.
Sulla base di questo
rilievo, occorre allora chiedersi per quale ragione Ulpiano abbia sentito il
bisogno di affermare che l’azione de effusis vel deiectis per il caso di
danno al corpo è intrasmissibile agli eredi. E in tal senso, viene in rilievo
il fatto che, come nota lo stesso Casavola, il danno al corpo è un danno che
non investe il patrimonio, ma che nel contempo potrebbe essere «in sé e
limitatamente al ferito rappresentabile patrimonialmente», identificandosi con
una perdita finanziaria. Forse più esattamente, il concetto potrebbe essere
espresso rilevando come, nel caso di danno al corpo, l’evento dannoso è di tipo
non patrimoniale, ma è un evento che può avere delle conseguenze dannose
patrimonialmente rilevanti. Del resto, lo stesso Gaio aveva riconosciuto che la
lesione al corpo dell’uomo libero può comportare spese mediche e perdita di
occasioni lucrative per il viandante ferito, vale a dire perdite finanziarie,
tant’è che limitava a tali pregiudizi la condanna dell’habitator.
Proprio il fatto che il
danno al corpo può comportare perdite finanziarie, e proprio la consapevolezza
di come Gaio limitasse la condanna dell’habitator a tali perdite
finanziarie, potrebbe allora aver spinto Ulpiano a chiarire come, nonostante il
danno al corpo possa comportare conseguenze dannose pecuniariamente
significative, e in particolare i danni patrimoniali indiretti evidenziati da
Gaio, l’azione de effusis vel deiectis non diviene per ciò trasmissibile
agli eredi. L’azione resta invece intrasmissibile come se non ci fosse danno
pecuniario («quasi non sit damnum pecuniarium»), in quanto, nonostante la presenza di conseguenze dannose
patrimonialmente rilevanti, l’azione nasce ex bono et aequo proprio
perché c’è stato il danno non patrimoniale al corpo. In questo modo viene dunque
evitata quella indebita assimilazione tra danno al corpo e danno pecuniario che
mi ha indotta a non accogliere la traduzione di «quasi non sit damnum pecuniarium» con “come se non fosse un danno
pecuniario”.
In conclusione, anche una
traduzione dell’inciso «quasi non sit damnum pecuniarium» con “come se non ci fosse
danno pecuniario”, al pari di quella con “in quanto non è un panno pecuniario”,
conferma l’impressione che Ulpiano, nel riferirsi al danno al corpo, lo
considerasse un danno non patrimoniale
che è tale in quanto nasce ex bono et
aequo; e che quindi Ulpiano, diversamente da Gaio, lo possa aver ritenuto
stimabile in via equitativa.
Al di là del fatto che la
soluzione di Ulpiano sembra più coerente di quella di Gaio con la natura
dell’azione concepita in bonum et aequum,
è immaginabile anche la possibile ragione di questa divergenza di opinioni.
La ragione per la diversa
concezione di Ulpiano potrebbe cioè non essere ricollegabile alla sola sua
insistenza sul danno «quod in corpore libero datur» del passo in esame, o dei
danni «quae in corpus eius admittuntur» di D. 9.3.1.6, segnale di una particolare sensibilità
per quel genere di pregiudizio. In effetti, va anche considerato come sia
prospettabile una ragione per dissentire nel merito dall’opinione di Gaio: non
è infatti detto che il danno al corpo del viandante ferito abbia riflessi
patrimoniali. Potrebbero mancare le spese mediche, ad esempio perché il ferito
è medico egli stesso, o perché ha ritenuto superfluo ricorrere alle cure del
medico, o perché il medico amico lo ha curato gratuitamente. Potrebbero anche
mancare occasioni perdute di guadagno, perché di fatto non ce ne sono state, o
perché il viandante ferito non svolge alcuna attività lucrativa. In questi
casi, mancano quelli che Casavola chiama pregiudizi rappresentabili
patrimonialmente, quei pregiudizi ai quali Gaio restringe la condanna. Resta
soltanto il danno al corpo. E a Ulpiano può essere parso che fosse ingiusto, e
contrario alla ratio dell’actio de
effusis vel deiectis, lasciare che in questi casi l’habitator restasse
impunito (e la sicurezza delle strade non protetta)[94].
Non si deve infatti
dimenticare che l’azione è pur sempre una azione penale.
D’altra parte, è anche
evidente che in questi casi l’azione è concessa anche se non ci sia stata
offesa (l’habitator potrebbe non
essere l’autore del danno), e non ci sia quindi ragione per vendicarsi.
In definitiva, nell’actio de effusis vel deiectis l’accento
è posto sul danno in sé, piuttosto che sulla condotta. E dunque, almeno in questo
caso, sembra affacciarsi nell’ambito delle azioni penali l’idea di una
riparabilità del danno non patrimoniale, idea che invece è del tutto estranea
all’actio iniuriarum e all’actio sepulchri violati che mirano a
realizzare una vendetta proporzionale alla gravità della condotta[95].
In sintesi, possiamo
constatare come nel sistema romano l’idea di una possibile funzione
satisfattoria della somma accordata a fronte della lesione di un interesse non
patrimoniale si presenta all’interno di una azione penale. In questo senso, si
coglie come l’oscillazione sia opposta a quella verificatasi nell’esperienza
attuale. Oggi infatti la funzione punitiva è venuta enucleandosi all’interno
del sistema della responsabilità civile, e cioè nell’ambito di azioni civili risarcitorie.
Ma il tutto è un accidente storico che discende da un dato costante e
immutabile, cioè dal fatto che la somma di denaro concessa a fronte della
lesione di un interesse non patrimoniale è oggetto di una determinazione
necessariamente equitativa del giudice.
The
essay outlines the evolution of the Italian law of torts related to non
pecuniary losses, with the purpose of showing how the function of the
compensation varies between satisfaction and sanction. The same can be said – with
an opposite evolution – for the Roman tort law, where the actio iniuriarum and the actio
de sepulchro violato are strictly penal, whereas the actio de effusis vel deiectis seems to sometimes provide a
compensation for non pecuniary damages.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione
Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
* Il testo consiste nella rielaborazione di una
lezione tenuta il 22 febbraio 2017 nell’ambito della 2nd Winter School ‘Ius Civile Europaeum’, corso organizzato
dal Dipartimento di diritto privato e critica del diritto dell’Università di
Padova e dedicato a ‘Pena privata e risarcimento del danno’.
[1] Punto di partenza è questa nozione di danno
non patrimoniale assai tradizionale, che si trova consolidata in giurisprudenza
(d’obbligo ricordare la sua adozione in C. Cost. 26 luglio 1979, n. 88) non
meno che in dottrina (sin da A. De Cupis,
Il danno. Teoria generale della
responsabilità civile, I, 3a ed., Milano 1979, 59 ss.; ma v. anche, solo
per esempio, G. Alpa - M. Bessone
- V. Zeno-Zencovich, I fatti illeciti, 2a ed., in Trattato di diritto privato, diretto da
P. Rescigno, 14. VI, Torino 2006, 40).
[2] Cfr. le considerazioni di A. di Majo, La tutela civile dei diritti, 4a ed., Milano 2003, 247 ss., e i
modelli normativi ricordati da G.
Bonilini, Il danno non
patrimoniale, Milano 1983, 205 ss. e M.M. Francisetti
Brolin, Danno non patrimoniale e
inadempimento. Logiche “patrimonialistiche” e valori della persona, Napoli
2014, 12 ss.
[3] Il tema tocca non solo categorie che qui
possono essere solamente menzionate (si pensi al problema della causalità dove si
tratti di capire se e quali danni indiretti siano risarcibili: sul punto, in
particolare, C. Salvi, Il danno extracontrattuale. Modelli e
funzioni, Napoli 1985, 57 ss.), ma la stessa concezione del danno, ove –
volendo semplificare – si oscilla tra una nozione differenziale (la c.d. Differenzhypothese, per cui il
risarcimento sarebbe pari alla differenza tra la consistenza del patrimonio
all’esito del verificarsi del danno e la consistenza che il patrimonio avrebbe
avuto se il danno non si fosse verificato), e una nozione che tiene conto di
criteri di misurazione di tipo soggettivo, che considerino anche il valore
dell’effettiva lesione verificatasi in capo al danneggiato (rinvio sul punto a
A. di Majo, La tutela civile dei diritti, cit., 219 ss.; F.D. Busnelli - S. Patti, Danno e
responsabilità civile, 3a ed., Torino 2013, 11 ss., 24 ss.).
[4] V. invero, sulla «ricerca di uno statuto
risarcitorio» per il danno alla persona, F.D. Busnelli
- S. Patti, Danno e responsabilità civile, cit., 105
ss. Considerazioni del medesimo tenore si trovano anche in G. Bonilini, Il danno non patrimoniale, cit., 169 ss.; C. Salvi, Il danno
extracontrattuale. Modelli e funzioni, cit., 183 ss.
[6] Per l’esistenza di una «sovrabbondanza» addirittura
«schizofrenica di fini ed obiettivi», v. C. Salvi,
Il paradosso della responsabilità civile,
in Rivista critica del diritto privato,
1983, 128 (v. anche Id., Il danno extracontrattuale. Modelli e
funzioni, cit., 84 ss., e Id.,
La responsabilità civile, in Trattato di diritto privato, a cura di
G. Iudica e P. Zatti, Milano 1998, 11 ss.); in modo meno drastico, ma
ugualmente evidente, v. tra i molti P.
Perlingieri, Le funzioni della
responsabilità civile, in Rassegna di
diritto civile, 2011, 119 s.; G. Alpa
- M. Bessone - V. Zeno-Zenovich, I fatti illeciti, cit., 26 s.; A. di Majo, La tutela
civile dei diritti, cit., 173 ss.; M.
Franzoni, Dei fatti illeciti (Art.
2043 – 2059), in Commentario del
codice civile Scialoja-Branca, a
cura di F. Galgano, Bologna 1993, 52; F.D. Busnelli,
v. Illecito civile, in Enciclopedia giuridica Treccani, XV,
Roma 1991, 6; S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile,
Milano 1964, 54.
[7] Il problema è posto con particolare chiarezza
da C. Salvi, Il danno extracontrattuale. Modelli e funzioni, cit., 83 ss.
[8] A. De
Cupis, Il danno. Teoria generale
della responsabilità civile, cit., 354 s., che riecheggia con qualche
attenuazione le idee di C.F. Gabba,
Questioni di diritto civile, II, Torino
1898, 233, 251 s.
[9] Sulla funzione del denaro come strumento di
scambio, oppure come misura dei valori, oppure come riserva di liquidità, v.
per tutti B. Inzitari, La moneta, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia,
diretto da F. Galgano, VI, Padova 1983, 4 ss.
[10] Sui termini della questione, v. in particolare
G. Bonilini, Il danno non patrimoniale, cit., 169 ss., e già A. De Cupis,
Il danno. Teoria generale della
responsabilità civile, cit., 356 e 581, nonché A. Ravazzoni, La
riparazione del danno non patrimoniale, Milano 1962, 166 ss.
[11] C. Salvi,
Il danno extracontrattuale. Modelli e
funzioni, cit., 184 ss., rilevato come un semplice rinvio alle valutazioni equitative
del giudice (eventualmente mediato dall’utilizzo dell’art. 1226 cod. civ.)
lasci insoddisfatti, per il rischio che il risarcimento divenga strumento di
punizione svincolato dalle garanzie che debbono circondare la comminazione di
sanzioni, propone l’utilizzazione di criteri oggettivi e suscettibili di
tradursi in modo uniforme in moneta, al fine di assicurare una tendenziale
parità di trattamento. La constatazione è di per sé condivisibile, e coerente
agli sforzi applicativi dei nostri tempi. Ma, in ogni caso, proprio il
passaggio da valori non patrimoniali alla moneta risarcitoria implica una
valutazione equitativa, che – è ben vero e anche auspicabile – in certi casi
potrebbe non essere esclusivamente giudiziale, ma basarsi su parametri di tipo oggettivo
(si pensi alle tabelle per la liquidazione del danno alla salute), e tuttavia
resta sempre ancorata a criteri equitativi, che sono i soli a consentire di
passare da beni e valori non economicamente valutabili a una valutazione
economica. In questo passaggio, mi sembra, è sempre racchiusa una valutazione
di giustizia o equità (e non a caso l’a. citato non nega la presenza di un
giudizio che definisce “valutativo-discrezionale”).
[12] Si immagini, tanto per dare una qualche
concretezza al discorso, un insulto in cui il risarcimento è commisurato alla
gravità del pregiudizio all’onore o alla reputazione: il risarcimento sarà
tanto più alto, quanto più grave è l’offesa.
[13] In questo caso, si immagini l’insulto in cui
la somma liquidata alla persona offesa cresca secondo che l’offesa stessa sia
stata fatta per distrazione o sia stata arrecata apposta.
[14] C. Salvi,
Il danno extracontrattuale. Modelli e
funzioni, cit., 186 ss.; v. anche A. di
Majo, La tutela civile dei diritti,
cit., 222.
[15] Il danneggiato ha avuto una lesione fisica che
lo ha costretto a letto per tre mesi; il denaro non può eliminare il fastidio e
il dolore che ha provato; ma con il denaro ottenuto quale risarcimento, il
danneggiato può andare in vacanza tre mesi, può fare beneficenza, può
risparmiare, può quindi fare qualcosa che lo consoli.
[16] C. Salvi,
Il danno extracontrattuale. Modelli e
funzioni, cit., 189; v. anche A. di
Majo, La tutela tutela civile dei diritti, cit., 222.
[17] Una rassegna completa va oltre le esigenze di
questo lavoro. Basti ricordare, in senso favorevole alla risarcibilità, G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, V, Fonti delle obbligazioni: quasi contratti,
fatti illeciti, legge, Firenze 1904, 387 ss.; L. Barassi, Danno e
risarcimento fuori dei contratti, in Rivista
del diritto commerciale, 1918, I, 564; B. Brugi,
Risarcimento del danno morale, in Rivista del diritto commerciale, 1921,
II, 448 ss.; in senso contrario, oltre al già menzionato Gabba (sopra, nota 8),
si vedano soprattutto G. Pacchioni,
Del risarcimento dei danni morali, in
Rivista del diritto commerciale,
1911, II, 240 ss. e G.P. Chironi, Del danno morale, in Rivista del diritto commerciale, 1913,
II, 801 ss.
[18] Per una attenta ricostruzione del dibattito
dell’epoca rinvio a M.M. Francisetti
Brolin, Danno non patrimoniale e
inadempimento, cit., 51 ss.
[19] Al massimo affermandosi che in caso di danno
alla persona non può non esservi reato: A. Ravazzoni,
La riparazione del danno non patrimoniale,
cit., 103 ss.
[20] Rel. al Re, n. 803: «Circa il risarcimento dei
danni cosiddetti morali, ossia circa la riparazione o compensazione indiretta
di quegli effetti dell’illecito che non hanno natura patrimoniale, si è
ritenuto di non estendere a tutti la risarcibilità o la compensabilità, che
l’art. 185 del codice penale pone soltanto per i reati. La resistenza della
giurisprudenza a tale estensione può considerarsi limpida espressione della
nostra coscienza giuridica. Questa avverte che soltanto nel caso di reato è più
intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una
più energica repressione con carattere anche preventivo. Il nuovo codice si è
perciò limitato a dichiarare che il danno non patrimoniale deve essere
risarcito (in senso largo) solo nei casi stabiliti dalla legge, presente o
futura, e nelle forme, eventualmente diverse da una indennità pecuniaria, da
essa stabilite (art. 2059)».
[21] Nel senso della costante funzione punitiva del
risarcimento del danno non patrimoniale, v. ancora G. Bonilini, Il danno non
patrimoniale, cit., 77 ss.
[22] M.V. De
Giorgi, v. Danno. II) Danno alla
persona, in Enciclopedia giuridica
Treccani, X, Roma 1994, 1.
[23] Mi riferisco alla tesi secondo la quale l’art.
2059 cod. civ. conterrebbe una delimitazione del risarcimento riguardante il
solo danno morale soggettivo, laddove altre voci di danno non patrimoniale
sarebbero assorbite nel principio generale dell’art. 2043 cod. civ.: R. Scognamiglio, Il danno morale (contributo alla teoria del danno extracontrattuale),
in Rivista di diritto civile, 1957,
I, 292, 295.
[24] Sono gli orientamenti della giurisprudenza di
merito soprattutto pisana e genovese (vanno ricordate le sentenze, assai note,
di Trib. Genova 30 maggio 1974 e App. Genova 17 luglio 1975, in Responsabilità civile e previdenza,
1975, 420 ss.; Trib. Genova 20 ottobre 1975, in Giurisprudenza italiana, 1976, I, 2, 444 ss.; Trib. Genova 15
dicembre 1975, in Foro italiano,
1976, I, 2, 1977 ss.; Trib. Pisa 29 marzo 1979, in Giurisprudenza italiana, 1980, I, 2, 20 ss.).
[27] Si legge infatti nella sentenza: «La scelta
legislativa operata con l’emanazione dell’art. 2059 cod. civ. (tra le opposte
tesi della totale irrisarcibilità del danno morale subiettivo e della
risarcibilità, in ogni caso, del medesimo) discende dall’opportunità di
sanzionare in modo adeguato chi si è comportato in maniera vietata dalla legge.
[...] dopo l’attenta lettura della precitata relazione ministeriale al codice
civile è impossibile negare o ritenere irrazionale che la responsabilità civile
da atto illecito sia in grado di provvedere non soltanto alla reintegrazione
del patrimonio del danneggiato, ma [...] anche [...] ad ulteriormente prevenire
e sanzionare l’illecito, come avviene appunto per la riparazione dei danni non
patrimoniali da reato. Accanto alla responsabilità penale (anzi, forse meglio,
insieme ed “ulteriormente” alla pena pubblica) la responsabilità civile ben può
assumere compiti preventivi e sanzionatori».
[28] Per una rassegna di voci critiche, cfr. M.V. De Giorgi, v. Danno. II) Danno alla persona, cit., 3, la quale, rispetto alla più
evidente di esse (e cioè che la Corte, non qualificando il danno alla salute
come danno non patrimoniale, ne ammette implicitamente la natura patrimoniale,
in contrasto con la premessa per cui nel caso di danno biologico non vanno
risarciti i soli riflessi patrimoniali del pregiudizio), cerca di difendere la
pronuncia rilevando come essa sembri evocare un tertium genus di danni.
[31] La definizione è consolidata: si rinviene tra
gli altri in Cass., s.u., 24 marzo 2006, n. 6572; P. Cendon - P. Ziviz,
v. Danno. X) Danno esistenziale, in Enciclopedia giuridica Treccani, X, Roma
2002, 3, con l’osservazione di come il danno esistenziale sia in altri termini
configurabile quando la vittima dell’illecito subisca un peggioramento della
propria esistenza quotidiana o perché non può più fare quel che faceva prima
(ribaltamento dell’agenda quotidiana), o perché è costretto a compiere attività
prima estranee alla sua quotidianità.
[35] La questione della risarcibilità del danno non
patrimoniale da inadempimento di un’obbligazione ha una sua autonoma rilevanza:
sul tema, per un controllo, v. M.M. Francisetti
Brolin, Danno non patrimoniale e
inadempimento, cit., 151 ss.; M. Maggiolo, Il danno non patrimoniale da inadempimento,
in Responsabilità civile. Danno non
patrimoniale, diretto da S. Patti,
a cura di S. Delle Monache, Torino 2010, 659 ss.; V. Zeno-Zencovich, Interesse
del creditore e danno contrattuale non patrimoniale, in Rivista del diritto commerciale, 1987,
I, 77 ss.
[36] Ricordiamo, senza pretesa di completezza, casi
di perdita di un familiare per fatto illecito di un terzo; di incidenti
stradali o sul lavoro che abbiano provocato gravi invalidità a un familiare; di
violenze sessuali ai danni di una figlia minorenne; di figli nati con
malformazioni a causa di errori medici; di perdite traumatiche del feto; di
nascite non desiderate a seguito di un errato intervento di vasectomia; di
lesioni arrecate alla capacità procreativa; di mancato mantenimento di un
figlio per mesi o anni; di disconoscimento da parte del padre di un neonato
frutto di fecondazione assistita. Al di fuori dell’ambito familiare, il danno
esistenziale è stato risarcito in ipotesi di lesione dei diritti del
lavoratore, per esempio in caso di mobbing;
o, ancora, in caso di disagi esistenziali patiti dalle vittime di immissioni
intollerabili: per una rassegna delle fattispecie anche solo possibili, cfr. i
contributi raccolti in Aa. Vv., Trattato breve dei nuovi danni. Il
risarcimento del danno esistenziale: aspetti civili, penali, medico-legali,
processuali, a cura di P. Cendon, Padova 2001, 197 ss.
[37] Si è invero assistito a liquidazioni di danni
esistenziali immaginari, esagerati o comunque insignificanti per qualità e
quantità: così, ad esempio, il danno esistenziale derivante da ritardata
attivazione del servizio telefonico, consistente nel disagio che l’utente deve
affrontare per provvedere diversamente e per sollecitare la società ad
adempiere; il danno esistenziale derivante dalla rottura del tacco di una
scarpa da sposa, dall’errato taglio di capelli, dall’attesa stressante in
aeroporto, dal disservizio di un ufficio pubblico, dall’invio di
contravvenzioni illegittime, dalla morte dell’animale d’affezione, dal mancato
godimento della partita di calcio per televisione determinato da un black out elettrico: v. la rassegna di P. Sciascia, v. Danno non patrimoniale, in Dizionari
del diritto privato, promossi da N. Irti – Diritto civile, a cura di S. Martuccelli e V. Pescatore, Milano
2011, 558 s., tratta dalla Relazione n.
61/2008, a cura di M. Rossetti,
in Archivio relazioni civili della Corte
di Cassazione.
[38] Il danno esistenziale è invero svincolato
dalla presenza e dalla dimostrazione (medico-legale) di una patologia
clinicamente diagnosticabile: v. un cenno in M.M. Francisetti Brolin, Danno
non patrimoniale e inadempimento, cit., 107.
[41] Fra le sentenze favorevoli ad accordare il
risarcimento del danno esistenziale, v. ad esempio Trib. Padova 23 novembre
2003, in Giurisprudenza di merito,
2004, 2239; Trib. Casale Monferrato 28 aprile 2004, in Giurisprudenza di merito, 2004, 2461; Trib. Venezia 6 dicembre
2004, in Danno e responsabilità,
2005, 1137; Trib. Roma 30 giugno 2005, in Giurisprudenza
di merito, 2006, 579. Viceversa, contro la configurabilità del danno
esistenziale come autonoma voce di danno, v. ad esempio Trib. Roma 16 gennaio
2004, in Danno e responsabilità,
2004, 1107; Trib. Bologna 19 ottobre 2004, in Guida al diritto, 2005, IV, 51; Trib. Napoli 1 marzo 2005, in Giurisprudenza di merito, 2006, 591;
Trib. Como 23 novembre 2005, in Foro
italiano, 2007, I, 222. Intervennero peraltro anche i giudici di
legittimità: Cass. 11 novembre 2003, n. 16946.
[43] Art 2, comma 1, l. 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di
violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375
del codice di procedura civile).
[44] Art. 44, comma 7, d. lgs. 25 luglio 1998, n.
286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero).
[45] Della lunga motivazione delle sentenze delle
S.U., può qui essere sufficiente indicare due passaggi fondamentali. Il primo,
sta nella constatazione di come tutte le varie categorie di danno non
patrimoniale elaborate nel corso degli anni (danno morale soggettivo, danno
biologico, danno da lesione del rapporto parentale, danno esistenziale) sono in
realtà non figure autonome e assoggettate a regole proprie, bensì altrettante
convenzioni linguistiche, modi di descrivere certi danni che sono e restano non
patrimoniali e che vanno risarciti se e in quanto ricadano in uno dei casi
previsti dalla legge nel senso appena descritto. Il secondo passaggio
fondamentale riguarda la lesione dei valori individuali costituzionalmente
garantiti, e in particolare le c.d. liti bagatellari cui si è già accennato. Le
S.U. vogliono mettere un argine a questo tipo di iniziative, e dicono a tal
fine che non qualsiasi lesione di un valore individuale costituzionalmente
garantito dà diritto al risarcimento, ma soltanto la lesione grave che provochi
un danno non futile. C’è un dovere di tolleranza che la convivenza impone,
dicono le S.U., dovere di tolleranza in forza del quale dobbiamo sopportare i
semplici fastidi, i semplici disagi relativi ai più disparati aspetti della
vita quotidiana che ciascuno di noi conduce nel contesto sociale. Il diritto a
un risarcimento sorge allora soltanto in situazioni non tollerabili, in cui il
pregiudizio è appunto grave e non futile.
[46] L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e
disciplina delle convivenze).
[47] L. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente
assistita); d. lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma
dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219).
[48] I termini della questione e la evoluzione del
sistema (non solo italiano) sono riassunti nel saggio Il declino della immunity doctrine nei rapporti familiari, ora in F.D. Busnelli
- S. Patti, Danno e responsabilità civile, cit., 359
ss., dove sono ripresi temi già trattati in S.
Patti, Famiglia e responsabilità
civile, Milano 1984, 40 s., 77 ss.; più di recente T. Montecchiari, Violazione dei doveri familiari e risarcimento del danno, Napoli
2008, 104 ss., e C. Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia,
Torino 2015, 44 ss.
[51] Cass. 22 luglio 2014, n. 16657; Trib. Milano,
sez. IX civile, 23 luglio 2014, in www.altalex.com/documents/news/2014/09/12/danno-endofamiliare-quando-e-come-risarcirlo-si-alle-tabelle-di-milano.
V. anche C. Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia,
cit., 457 ss.
[52] App. Bologna 10 febbraio 2004, in Famiglia e diritto, 2006, 511 ss.; Trib. Venezia 30 giugno 2004, in Danno e responsabilità, 2005, 548 ss.;
Cass. 10 maggio 2005, n. 9801.
[53] Trib. Milano 4 giugno 2002, in Giurisprudenza italiana, 2002, 2290;
Trib. Milano 24 settembre 2002, in Danno
e responsabilità, 2003, 1130; Trib. Venezia 3 luglio 2006, in Responsabilità civile e previdenza,
2006, 951; Trib. Brescia 14 ottobre 2006, in Responsabilità civile e previdenza, 2007, 81; Trib. Venezia 14
maggio 2009, in Responsabilità civile e
previdenza, 2009, 1885; Cass. 15 settembre 2011, n. 18853; Cass. 17 gennaio
2012, n. 610.
[54] Trib. Venezia 30 giugno 2004, cit.; Trib. Min.
L’Aquila 8 luglio 2005, in Diritto di
famiglia e delle persone, 2006, 191; Trib. Venezia 14 maggio 2009, cit.
[55] Altro esempio potrebbe essere la componente
risarcitoria dell’assegno divorzile, liquidata talora secondo un criterio
esplicitamente sanzionatorio: Cass. 12 gennaio 1984, n. 246 (sul tema, in
particolare, C. Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia,
cit., 144 ss.).
[56] In senso critico verso la valenza punitiva del
risarcimento in quest’ordine di ipotesi, v. però T. Montecchiari, Violazione
dei doveri familiari e risarcimento del danno, cit., 314 ss.
[57] La dottrina ha peraltro provveduto a
catalogare i casi in cui nella configurazione normativa di determinati doveri
familiari (per esempio agli artt. 81, 129 bis,
104, 337 sexies cod. civ.) sono
recepite condotte solo dolose o gravemente colpose: C. Favilli, La
responsabilità adeguata alla famiglia, cit., 277 s.
[58] Art. 2, comma 2, l. 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in tema di separazione dei
coniugi e affidamento condiviso).
[59] In dottrina F.D. Busnelli - S. Patti,
Danno e responsabilità civile, cit.,
82 s.; C. Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia,
cit., 229 ss.; in giurisprudenza Trib. Vallo della Lucania 7 marzo 2007, in Responsabilità civile e previdenza, 207,
472; Trib. Messina 5 aprile 2007, in Foro
italiano, 2008, 1689; Trib. Verona 11 febbraio 2009, in Famiglia, persone e successioni, 2011,
710; Trib. Messina 8 ottobre 2012, in Danno
e responsabilità, 2013, 409; v. anche Trib. Padova 3 ottobre 2008, in Famiglia e diritto, 2009, 609.
[60] Trib. Pavia 23 ottobre 2009, in Famiglia e diritto, 2010, 149; Trib. Varese 7 maggio 2010, in Responsabilità civile e previdenza,
2010, 554; Trib. Modena 17 settembre 2012 n. 1425, in Persona & Danno (https://personaedanno.it/articolo/risarcito-il-danno-alle-minori-per-disinteresse-del-padre-trib-modena-1792012-valeria-mazzotta).
[61] Particolarmente significativa è la (pur cauta)
menzione delle misure previste all’art. 709 ter
cod. proc. civ., nn. 2 e 3, all’interno di un catalogo di misure sanzionatorie
punitive contenuto nella motivazione di Cass., s.u., 5 luglio 2017, n. 16601,
cit.
[62] In una prospettiva più ampia, sulla possibile
funzione ultracompensativa del risarcimento del danno non patrimoniale, v. M. Maggiolo, Microviolazioni e risarcimento ultracompensativo, in Rivista del diritto civile, 2015, 109
ss.
[63] Riprendo qui alcune considerazioni già svolte
in P. Ziliotto, Sulla non patrimonialità del danno e
dell’interesse nel diritto romano, Alessandria 2012, 13 ss. e in P. Ziliotto, Stima del corpo e del danno al corpo dell’uomo libero, in Il corpo in Roma antica. Ricerche giuridiche, a cura di L. Garofalo, I, Pisa 2015, 59 ss.
[64] È noto che questa azione venne introdotta dal
pretore per riordinare la disciplina dell’iniuria
contenuta nelle XII Tavole, le quali prevedevano differenti sanzioni per tre
diverse ipotesi di lesioni fisiche (il membrum
ruptum, punibile con la pena del taglione se non fosse intervenuta una
composizione volontaria tra reo e offensore; la ossis fractio, punita con una pena pecuniaria fissa di 300 o di 150
assi, secondo che la persona lesa fosse libera o schiava; l’iniuria, da intendersi come atto lesivo
della personalità fisica altrui di minore gravità rispetto alle altre due
figure, punita con una pena pecuniaria fissa di 25 assi). Nell’editto del
pretore le ipotesi di iniuria furono
estese fino a ricomprendere anche le lesioni alla personalità morale altrui: ad
un edictum sull’iniuria relativo alle lesioni personali, si affiancarono infatti un
edictum relativo al convicium, uno relativo all’adtemptata pudicitia, e uno concernente
ogni altro atto infamante lesivo dell’onore del cittadino. In sede di
interpretazione, i giuristi considerarono generale il primo editto, attribuendo
così all’iniuria una portata tanto
estesa da ricomprendere ogni condotta lesiva della integrità fisica o morale
altrui consistente in una contumelia,
in un oltraggio, in un dispregio della personalità altrui: cfr. A. Marchi, Il risarcimento del danno morale secondo il diritto romano, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano
15, 1904, 214 ss.
[65] L’editto de
sepulchro violato è riportato in D. 47.12.3 pr. (Ulpianus libro vicensimo quinto ad edictum praetoris):
Praetor ait: ‘Cuius dolo malo sepulchrum
violatum esse dicetur, in eum in factum iudicium dabo, ut ei, ad quem
pertineat, quanti ob eam rem aequum videbitur, condemnetur. si nemo erit, ad
quem pertineat, sive agere nolet: quicumque agere volet, ei centum
<aureorum> actionem dabo. si plures agere volent, cuius iustissima causa
esse videbitur, ei agendi potestatem faciam. ...’. Legittimato ad agire con
l’actio sepulchri violati è dunque,
in primo luogo, is ad quem ea res
pertinet, vale a dire il titolare del ius
sepulchri, e in tal caso l’azione è in
bonum et aequum concepta; per il caso che il titolare del ius sepulchri non vi sia o non voglia
agire, il pretore accorda a qualunque cittadino una azione diretta al
conseguimento di una pecuniaria fissa; infine, per il caso in cui più soggetti
intendano esperire l’azione, il pretore riconosce il potere di agire al
portatore dell’interesse maggiore. Sulle azioni popolari, sul problema della
legittimazione ad agire, e su quello della natura, privata o popolare,
dell’azione intentata dall’interessato, v. per tutti C. Fadda, L’azione
popolare. Studio di diritto romano ed attuale, I, Torino 1894,
passim; F. Casavola, Fadda e
la dottrina delle azioni popolari, in Labeo
1, 1955, 129 ss.; Id., Studi sulle azioni popolari romane. Le actiones
populares, Napoli 1957, 23 ss; A.
Saccoccio, Il modello delle azioni
popolari romane tra diritti diffusi e class actions, in Actio in rem e actio in personam. In ricordo di Mario Talamanca, a cura di L. Garofalo, I, Padova
2011, 713 ss.
[66] D. 37.6.2.4 (Paulus libro quadragensimo primo ad edictum); v. anche D. 47.10.17.22
(Ulpianus libro quinquagensimo septimo ad
edictum): ... ultionem iniuriarum
suarum eripit ...
[67] Così, ad esempio, per il caso in cui
l’estraneo abbia agito in assenza del titolare del ius sepulchri, Giuliano afferma che il pretore non dovrà accordare
a quest’ultimo la in integrum restitutio
contro il convenuto che abbia pagato la litis
aestimatio nella azione intentata dall’estraneo, anche se, per ipotesi, il
titolare del ius sepulchri non abbia
potuto agire perché assente rei publicae
causa; questa soluzione, osserva poi il giurista, non deve far pensare che
la posizione dell’assente rei publicae
causa sia aggravata, dal
momento che l’azione ha lo scopo di realizzare una ultio, una vendetta, e non ha nulla a che fare con la res familiaris del diretto interessato:
in altre parole, dice il giurista, la vendetta è consumata con il pagamento
della litis aestimatio, e dunque è del tutto indifferente
che l’attore sia il dominus o
l’estraneo (D. 47.12.6 [Iulianus libro
decimo digestorum]). E ancora, nel caso in cui l’erede necessario abbia
esercitato il ius abstinendi non
immischiandosi nell’eredità, Papiniano ritiene che egli possa esperire l’actio sepulchri violati concepita in bonum et aequum, vale a dire l’azione
che spetta al titolare del ius sepulchri,
senza per ciò dover temere i creditori ereditari: infatti, dice il giurista,
benché l’azione gli spetti per l’eredità, tuttavia egli non «id capiatur, quod in rei persecutione, sed
in sola vindicta sit constitutum» (D. 47.12.10 [Papinianus libro octavo quaestionum]); in senso
analogo, v. D. 29.2.20.5 (Ulpianus libro
sexagesimo primo ad edictum).
[68] Per l’actio
iniuriarum, v. fra gli altri D. 47.10.7.7 (Ulpianus libro quinquagensimo septimo ad edictum); D. 47.10.17.3 (Ulpianus libro quinquagensimo septimo ad edictum);
D. 47.10.8 (Paulus libro quinquagensimo
quinto ad edictum); D. 47.10.9 pr.-2 (Ulpianus libro quinquagensimo septimo ad edictum); I. 4.4.9. Il giudice,
chiamato a effettuare una aestimatio
iniuriae, una aestimatio contumeliae
– cfr. D. 9.2.5.1 (Ulpianus libro octavo
decimo ad edictum); D. 47.10.15.46 (Ulpianus libro [septuagensimo]
<quinquagensimo> septimo ad edictum) –, dovrà quindi
determinare l’entità della condanna sulla base di un suo apprezzamento
equitativo, unico criterio utilizzabile dato l’oggetto della stima e unico
criterio che consenta una stima direttamente proporzionale alla gravità
dell’offesa: sul punto v. P. Beretta,
Condemnatio in bonum et aequum, in Studi
in onore di S. Solazzi, Napoli 1948,
265 ss., spec. 272 s., il quale evidenzia che la ragione per cui, nella
punizione dell’iniuria, si passò da
una pena pecuniaria fissa alla condemnatio
in bonum et aequum (sopra, nt. 64) va ricercata nel fatto che il danno
prodotto dall’iniuria venne concepito
come danno non patrimoniale. A tale proposito, Beretta nota che l’inadeguatezza
e l’insufficienza della pena legislativamente predeterminata possono spiegare
l’abbandono del principio della pena fissa, ma non la ragione per cui questa
sarebbe stata sostituita con la condemnatio
in bonum et aequum. Per eliminare gli inconvenienti della pena fissa
sarebbe stato infatti sufficiente introdurre una condanna al quanti ea res erit, nel simplum o in un multiplo, in base alla
quale la pena si sarebbe potuta adeguare
alla gravità del delitto e alla entità del danno (patrimoniale) da esso
prodotto. Ma, concependo come non patrimoniale il danno derivante dall’iniuria, sarebbe stato impossibile
calcolare la relativa pena sulla base del quanti
ea res, sia inteso come verum pretium
rei sia inteso come id quod interest:
«di qui la necessità di ricorrere a una pena liberamente irrogabile dal giudice,
che la proporzionerà alla maggiore o minore gravità dell’azione delittuosa non
sulla base di un criterio di stima economica, bensì sul principio del bonum et aequum, attraverso il quale
quel sentimento sociale, per cui una data somma di denaro può servir di
compensazione e riparazione per l’offesa ricevuta, trova la sua
realizzazione». Per la rilevanza della
gravità della condotta nella aestimatio
litis dell’actio sepulchri violati
concepita in bonum et aequum, v. D.
47.12.3.8 (Ulpianus libro vicensimo
quinto ad edictum praetoris), dal quale risulta che il giudice, nella sua
valutazione equitativa, dovrà tenere conto fra l’altro dell’iniuria arrecata e della temerarietà
dell’agente.
[69] Il testo dell’editto de his, qui deiecerint vel effuderint è tramandato in D. 9.3.1 pr.
(Ulpianus libro vicensimo tertio ad
edictum): Praetor ait de his, qui
deiecerint vel effuderint: ‘Unde in eum locum, quo vulgo iter fiet vel in quo
consistetur, deiectum vel effusum quid erit, quantum ex ea re damnum datum
factumve erit, in eum, qui ibi habitaverit, in duplum iudicium dabo. si eo ictu
homo liber perisse dicetur, <sestertium>
quinquaginta [aureorum] <milium nummorum>
iudicium dabo. si vivet nocitumque ei
esse dicetur, quantum ob eam rem aequum iudici videbitur eum cum quo agetur
condemnari, tanti iudicium dabo. si servus insciente domino fecisse dicetur, in
iudicio adiciam: aut noxam dedere’. L’editto prevede dunque tre
fattispecie, accordando per ciascuna di esse una azione penale esperibile
contro l’habitator: per il caso in
cui la cosa gettata o versata abbia arrecato danno a cose, l’azione mira al
conseguimento di una somma di denaro pari al doppio del loro valore; per il
caso in cui la cosa gettata o versata abbia provocato la morte di un uomo
libero, l’azione mira al conseguimento di una pena pecuniaria fissa; per il
caso in cui la cosa gettata o versata abbia ferito un uomo libero, l’azione
mira al conseguimento di una pena pecuniaria da determinarsi in via equitativa.
Le caratteristiche di queste tre azioni, sulle quali ho già avuto occasione di
soffermarmi brevemente (in P. Ziliotto,
Stima del corpo e del danno al corpo
dell’uomo libero, cit., 63 ss.), sono descritte nell’“involutissimo” (così
F. Casavola, Studi sulle azioni popolari romane, cit., 160) D. 9.3.5.5 (Ulpianus
libro vicensimo tertio ad edictum): Haec
autem actio, quae competit de effusis et deiectis, perpetua est et heredi
competit, in heredem vero non datur. quae autem de eo competit, quod liber perisse
dicetur, intra annum dumtaxat competit, neque in heredem datur neque heredi
similibusque personis: nam est poenalis et popularis: dummodo sciamus ex
pluribus desiderantibus hanc actionem ei potissimum dari debere cuius interest
vel qui adfinitate cognationeve defunctum contingat. sed si libero nocitum sit,
ipsi perpetua erit actio: sed si alius velit experiri, annua erit haec actio,
nec enim heredibus iure hereditario competit, quippe quod in corpore libero
damni datur, iure hereditario transire ad successores non debet, quasi non sit
damnum pecuniarium, nam ex bono et aequo oritur. Stando alle affermazioni di Ulpiano, si
ritiene per lo più che l’azione per il danno alle cose fosse una azione penale
privata (C. Fadda, L’azione popolare, cit., 157; F. Casavola, loc. cit., 161; F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale. Forme giuridiche
di un’economia-mondo, Pisa 1989,
130; M.F. Cursi, Roman Delicts and the Construction of Fault,
in Obligations in Roman Law. Past,
Present, and Future, a cura di T. A. J. McGinn, Ann Arbor 2012, 310; W. Wołodkiewicz, Deiectum vel
effusum e positum aut suspensum nel diritto romano, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche
95, 1968, 376 e 379; T. Giménez-Candela,
Los llamados cuasidelitos, Madrid 1990, 96;
T. Palmirski, Effusum vel deiectum, in Au-delà des frontières. Mélanges W. Wołodkiewicz, II, Varsovie
2000, 679 s.; H. Ankum, L’édit du préteur de his qui deiecerint
vel effuderint, in Studia Iuridica
41, 2003, 12; M. Giagnorio, Brevi note in tema di azioni popolari,
in Teoria e storia del diritto privato
5, 2012, 52; per la natura popolare dell’azione, v. invece E. Lozano y Corbi, Popularidad y regimen de la legitimacion en la actio de effusis et
deiectis, in Studi in onore di A.
Biscardi, V, Milano 1984, 315 ss.; B.
M. van Hoek, D. 9,3,5,4:
Übersetzungsfragen im Bereich der actio de deiectis vel effusis als Popularklage, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 117, 2000, 463 ss.); quanto all’azione per la morte dell’uomo
libero, essa è espressamente detta da Ulpiano penale e popolare (per la
genuinità del passo, v. per tutti F. Serrao,
loc. cit., 130 ss.); per quanto riguarda infine l’azione per il ferimento, che
Ulpiano dice essere esperibile senza limiti di tempo dal ferito stesso, ma
entro un anno dall’estraneo, è discusso se l’azione concessa al ferito avesse
natura privata o popolare (per la natura privata, v. C. Fadda, loc. cit., 157; J. Paricio, Estudio
sobre las actiones in aequum conceptae, Milano 1986, 75; F. Serrao, loc. cit., 134
ss.; H. Ankum, loc. cit., 13; P. Ziliotto, loc. cit., 65 s.; per la
natura popolare, F. Casavola, loc.
cit., 62 ss.; E. Lozano y Corbi,
loc. cit., 320 ss.; C.A. Cannata, Il danno risarcibile nel diritto romano,
in Il danno risarcibile. Congresso
internazionale ARISTEC. Baia delle Zagare 14-16 giugno 2007, a cura di
Letizia Vacca, Napoli 2011, 35 s.).
[70] Sotto questo profilo, l’effusum vel deiectum rientra nella categoria dei ‘quasi delitti’.
Cfr. D. 44.7.5.5 (Gaius libro tertio
aureorum): Is quoque, ex cuius cenaculo (vel proprio ipsius vel conducto vel in quo
gratis habitabat) deiectum effusumve aliquid est ita, ut alicui noceret, quasi ex maleficio
teneri videtur: ideo autem non
proprie ex maleficio obligatus intellegitur, quia plerumque ob alterius culpam tenetur ut servi aut liberi ...; v. anche I. 4.5.1.
[71] Si può evidenziare come in questo caso si
trovi un antenato di quello della odierna responsabilità oggettiva per cose in
custodia.
[72] Cfr. I. 4.5.1: ... si vero vivet nocitumque ei esse dicetur, quantum ob eam rem aequum
iudici videtur, actio datur: iudex enim computare debet mercedes medicis
praestitas ceteraque impendia, quae in curatione facta sunt, praeterea
operarum, quibus caruit aut cariturus est ob id quod inutilis factus est,
dove manca la considerazione relativa alla inestimabilità di cicatrici e
deformità.
[73] Si vedano, in particolare, le considerazioni
di A. Marchi, Il risarcimento del danno morale secondo il diritto romano, cit.,
222 ss. e di P. Beretta, Condemnatio
in bonum et aequum, cit., 283 s., il quale rileva fra l’altro che la soluzione
contrasterebbe con D. 9.3.1.6 (riportato sopra, nel testo), dal quale risulta
che il giudice doveva stimare l’ammontare della condanna proprio in riferimento
alle lesioni fisiche. Per l’ipotesi di una interpolazione v. anche A. De Medio, La legittimazione attiva nell’actio legis Aquiliae in diritto romano classico, in Studi di diritto romano, di diritto moderno
e di storia del diritto pubblicati in onore di V. Scialoja nel XXV anniversario
del suo insegnamento, I, Milano 1905, 58 s., nt. 1, il quale però limita la
sua critica alla indicazione dei criteri da seguire nella stima della pena
(spese mediche e mancato guadagno), indicazione che toglierebbe al giudice la
discrezionalità riconosciutagli dal pretore con la concessione dell’azione
concepita in bonum et aequum e che
dunque non potrebbe risalire a un giurista classico. Contro la tesi di De
Medio, v. F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., 140, il quale rileva come le fonti attestino l’esistenza
di altre azioni in bonum et aequum a
proposito delle quali i giuristi indicano al giudice i criteri direttivi cui
informare il suo apprezzamento: così, ad esempio, in D. 47.12.3.8 (citato
sopra, nella nt. 68) vengono enunciati i criteri di stima della condanna nell’actio sepulchri violati. Considerazioni
analoghe si trovano anche in F. Casavola,
Studi sulle azioni popolari romane,
cit., 168.
[74] Sul punto v. F. Serrao, Impresa e
responsabilità a Roma nell’età commerciale, cit., 137, nt. 50, e 140,
secondo il quale ciò non sarebbe contraddetto da D. 9.3.1.6 (riportato sopra,
nel testo), in quanto in questo passo Ulpiano non stabiliva criteri per la
determinazione della condanna ma «voleva semplicemente dire che il danno di cui
si tratta nella terza previsione edittale (si
vivet nocitumque ei esse dicetur) è quello arrecato al corpo e non quello
arrecato alle cose, che rientra invece nella prima previsione dell’editto». Per
la genuinità del passo gaiano, v. anche F. Casavola, Studi sulle azioni popolari romane,
cit., 167; J. Macqueron, L’intérêt moral ou d’affection dans les
obligations délictuelles en droit romain, in Études offertes a André Audinet, Paris 1968, 185; R. Wittmann, Die Körperverletzung an Freien im klassischen römischen Recht,
München 1972, 67 ss.; F. Serrao,
loc. cit., 139; M.F. Cursi, Il danno non patrimoniale e i limiti
storico-sistematici dell’art. 2059 c.c., in Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato.
Obbligazioni e diritti reali, Napoli 2003, 126 e nt. 70; R. Martini, Sul risarcimento del “danno morale” in diritto romano II (Ripensamenti),
in Rivista di Diritto Romano 8, 2008, (http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano08Martini-II.pdf), 4, nt. 15.
[75] F. Casavola, Studi sulle azioni popolari romane,
cit., 167 s.; F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., 140. V. anche T. Giménez-Candela, Los llamados cuasidelitos, cit., 100.
[77] F. Serrao Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., 140; M.F. Cursi, Il danno non patrimoniale e i limiti
storico-sistematici dell’art. 2059 c.c., cit., 127.
[79] L’erede del ferito potrebbe dunque agire come alius: cfr. F. Casavola, Studi sulle
azioni popolari romane, cit., 163 s.
[80] Problema sul quale ho già avuto occasione di
soffermarmi (P. Ziliotto, Stima del corpo e del danno al corpo
dell’uomo libero, cit., 72 ss.).
[81] Cfr.
Cuerpo del Derecho Civil romano a doble texto, traducido al castellano del
latino publicado por los hermanos Kriegel, Hermann y Osenbrüggen con las variantes de las principales
ediciones antiguas y modernas y con notas de referencias por D. Ildefonso y L.
García del Corral, I, Barcelona 1889, 594 («puesto que no es un daño
pecuniario»); El Digesto de Justiniano,
versión castellana por A. d’Ors, F. Hernandez-Tejero, P. Fuentesca, M. Garcia
Garrido y J. Burillo, I, Pamplona 1968 («porque no es un daño pecuniario»); Corpus Iuris Civilis. Tekst en Vertaling,
onder redactie van J.E. Spruit, R. Feenstra, K.E.M. Bongenaar, II, Zutphen 1994
(«omdat het eigenlijk geen op geld waardeerbare schade betreft»); Corpus Iuris Civilis, Text und Übersetzung,
herausgegeben von O. Behrends, R. Knütel, B. Kupisch, H.H. Seiler und P. Apathy, II,
Digesten1-10, Heidelberg 1995, 774
(«da er kein Vermögensschaden ist»); The
Digest of Justinian, english translation edited by A. Watson, I, ed. riv.,
Philadelphia 1998, 295 («as it is not a matter of pecuniary loss»). V. anche, sia pure in modo
più sfumato, Das Corpus Juris Civilis
in’s Deutsche übersetzt, herausgegeben von C.
Otto, B. Schilling und C.F.F. Sintenis, I, Leipzig 1830, 795 («indem derselbe gleichsam
kein zu Geld anzuschlagender Schaden ist»). Questo, del resto, è un modo di intendere l’inciso che è dato per
scontato da molta dottrina, la quale pure poi diverge più o meno intensamente
sulla interpretazione del passo: cfr. C. Fadda,
L’azione popolare, cit., 157, dove
scrive che l’azione «non proposta dal ferito non può esserlo dagli eredi come
tali, in quanto non si tratta di danno patrimoniale, ma di danno recato al
corpo dell’autore, e la stima del danno si fa ex bono et aequo»; A. Marchi,
Il risarcimento del danno morale
secondo il diritto romano, cit., 223, dove osserva che «questa
intrasmissibilità attiva è da Ulpiano giustificata con la considerazione che in
tale caso trattasi di risarcire un danno di natura non patrimoniale»; C. Sanfilippo, Il risarcimento del danno per l’uccisione di un uomo libero nel diritto
romano, in Annali del Seminario
Giuridico dell’Università di Catania 5, 1950-51, 126, dove afferma che
«quest’azione [...] non compete agli eredi del ferito [...] perché non è un’azione
a tutela del patrimonio del ferito stesso»;
F. Casavola, Studi sulle azioni
popolari romane, cit., 167, dove osserva che il quasi non sit damnum pecuniarium «tende a giustificare
l’intrasmissibilità ereditaria dell’azione con l’intrasmissibilità del damnum, il che sta ad indicare soltanto
che il danno non ha investito il patrimonio», seguito, su questo punto, da F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, cit., 142
(«la motivazione quasi non sit damnum
pecuniarium serve [...] solo a spiegare [...] l’intrasmissibilità
dell’azione agli eredi “in quanto il danno non ha investito il patrimonio”»), e
da E. Lozano y Corbi, Popularidad y regimen de la legitimacion en la
actio de effusis et deiectis, cit., 322 ss.; G.
Longo, I quasi delicta. Actio de effusis et deiectis. Actio de
positis ac suspensis, in Studi in onore
di C. Sanfilippo, IV, Milano 1983, 448 s., il quale, ritenendo giustinianea
la parte finale di D. 9.3.5.5 (da sed si
alius), osserva: «con un discorso oscuro [...] si direbbe che tale erede
non agirebbe [...] in quanto è erede del ferito, poiché il danno del suo dante
causa non è danno patrimoniale», e «Il quantum
del danno sopportato dal ferito [...] non sarebbe pecuniario. [...] Il quasi, poi, è assurdo»; J.B.M. van Hoek, D. 9,3,5,4: Übersetzungsfragen im Bereich der actio de deiectis vel
effusis als Popularklage, cit., 466,
dove, ritenendo che l’azione del ferito solo casualmente condivide con le
azioni popolari il carattere della intrasmissibilità e della pura penalità,
rileva che «Ulpian gibt den wirklichen Grund deutlich an: Eine Verletzung des
Körpers des Freien ist kein damnum
pecuniarium und daher kann sie nicht iure
hereditario die Erben in ihrer Eigenschaft als Erben betreffen»; C.A. Cannata, Il danno risarcibile nel diritto romano, cit, 35 e 37, dove afferma
che l’azione popolare per il ferimento «potrà magari anche essere esperita da
un erede della vittima, ma non a questo titolo, in quanto essa si riferisce ai
danni prodotti al corpo di un uomo libero, che non sono danni pecuniari e
quindi la relativa pretesa non si trasmette agli eredi», e «Dobbiamo prestare
attenzione a questa nozione di damnum
che ex bono et aequo oritur e non è
un damnum pecuniarium. [...] non è un danno pecuniario, perché non è
valutabile in denaro; da ciò si conclude che esso non può essere risarcibile
sulla base di un’aestimatio: esso può
solo essere compensato col criterio del bonum
et aequum» (va peraltro notato che Cannata, nel riportare D. 9.3.5.5 [a pp.
33 e 37], scrive quia non sit damnum
pecuniarium, e non quasi non sit
damnum pecuniarium); implicitamente anche P.
Beretta, Condemnatio in bonum et aequum, cit., 274, quando, in
riferimento a D. 9.3.1.5 e 6, afferma che il principio ispiratore della condemnatio in bonum et aequum è
espresso nelle parole «quia in homine
libero nulla corporis aestimatio fieri potest», e aggiunge: «Impossibile
ritenendosi una valutazione economica della lesione commessa in danno del
libero, non resta che lasciare al giudice la possibilità di fissare
equitativamente una somma, che vada a soddisfazione e compenso per le offese
ricevute. Si veda anche l’osservazione di Ulpiano a proposito dell’azione de effusis et deiectis in caso di
lesioni di un libero: D. 9.3.5.5».
[82] Si ricordi, infatti, che in D. 9.3.1.6,
Ulpiano, commentando le parole edittali «si
vivet nocitumve ei esse dicetur», afferma che esse riguardano i «damna, ... quae in corpus eius [i.e. hominis liberi] admittuntur.
[83] F. Casavola,
Studi sulle azioni popolari romane,
cit., 167, seguito, su questo
punto, da F. Serrao, Impresa
e responsabilità a Roma nell’età commerciale, cit., 142.
[84] F. Casavola,
Studi sulle azioni popolari romane,
cit., 167 s. Per una interpretazione vicina a quella di Casavola, v. ora C.A. Cannata, Il danno risarcibile nel diritto romano, cit., 30, 32 ss. Per una
diversa lettura di D. 9.3.7 e D. 9.3.5.5, sulla quale non è necessario
soffermarsi in questa sede, v. C. Sanfilippo,
Il risarcimento del danno per
l’uccisione di un uomo libero nel diritto romano, cit., 125 ss.
[85] P.
Ziliotto, Sulla non patrimonialità
del danno e dell’interesse nel diritto romano, cit., 28 s.
[86] Sul punto v. F. Serrao, Impresa e
responsabilità a Roma nell’età commerciale, cit., 142 s., il quale prende
le distanze dalla tesi di Casavola quanto alla utilizzabilità del medesimo
criterio di stima per l’azione intentata dal ferito e per quella del terzo.
Secondo Serrao le due situazioni non sono identiche, e la diversità diviene poi
macroscopica ove si consideri privata (e non popolare, come vuole invece
Casavola) l’azione intentata dal ferito e popolare quella dell’estraneo (sopra,
nt. 69). Il bonum et aequum, che
permetteva al giudice di adeguare l’ammontare della condanna alle situazioni
più varie, gli avrebbe imposto di usare diversi criteri di valutazione e di
tener conto di circostanze diverse a seconda dei casi, e in particolare a
seconda di chi fosse l’attore. Si veda, sul punto, anche C. Fadda, L’azione popolare, cit., 159, il quale rilevava come la condemnatio in bonum et aequum, che si
giustifica in favore del ferito perché il danno da risarcire – benché limitato
alle conseguenze patrimoniali del ferimento – è un danno alla persona e non
alle cose, sembra non reggere quando ad agire sia un terzo. E non reggerebbe
per la stessa ragione per cui l’azione è intrasmissibile agli eredi, e cioè per
la natura del danno. «Tanto più che per tal guisa potrebbe venir condannato a
pena maggiore colui che ha ferito un uomo che non colui che l’uccise». Fadda
ipotizza dunque che l’editto possa aver subito una mutilazione e che per
l’azione esperita dal terzo potesse prevedere la condanna a una multa fissa.
[87] E che perciò non è trasmissibile agli eredi
del ferito. D’altra parte, che l’intrasmissibilità attiva fosse propria delle
azioni di ‘soddisfacimento’ risulta a
contrario da quel che afferma Gaio in relazione ad un’altra azione, l’actio in factum ‘si quis mortuum inferre
prohibitus esse dicetur’ (D. 11.7.9 [Gaius libro nono decimo ad edictum provinciale]). Qui Gaio, dopo aver
precisato che con questa azione l’attore consegue il suo interesse a che non
gli fosse impedito di seppellire il cadavere, e dunque il prezzo o la mercede
che ha dovuto sborsare per comprare o prendere in locazione un diverso luogo,
come pure il prezzo del luogo di sua proprietà che ha dovuto suo malgrado
rendere religioso, si dice stupito che questa azione non competa né all’erede
né contro l’erede, dal momento che «ut
apparet, pecuniariae quantitatis ratio in eam deducitur»: sul punto v. A. Marchi, Il risarcimento del danno morale secondo il diritto romano, cit.,
223 e 227, il quale ritiene che anche questa azione fosse in bonum et aequum.
[88] Cfr. R. von Jhering,
Ein Rechtsgutachten, betreffend die
Gäubahn, in Jahrbücher für die
Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts 18, 1880, 73. Sul problema di come possa conciliarsi la
possibilità di una stima del danno al corpo con il principio liberum corpus non recipit aestimationem,
affermato pure da Ulpiano in riferimento al caso della morte provocata dalla effusio o dalla deiectio (D. 9.3.1.5), v. le considerazioni già svolte in P. Ziliotto, Stima del corpo e del danno al corpo dell’uomo libero, cit., 79 s.,
e le obiezioni di L. Solidoro, Il corpo in Roma antica, in Giornate in ricordo di Alberto Burdese.
Venezia, 29-30 aprile 2016, Napoli 2017, 230 s.
[89] Iustiniani
Augusti Digesta seu Pandectae, testo e traduzione a cura di S. Schipani,
II, Milano 2005, 268. V. anche il Corpo
del diritto civile, a cura di G. Vignali, II, Napoli 1856, 89 s., di cui
riporto la traduzione a partire da quippe:
«appunto perché quel danno che si cagiona su di un corpo libero, non deve per
diritto ereditario passare ai successori, come non sia danno pecuniario: giacché
nasce dall’equità».
[90] Il passo è così inteso da M.F. Cursi, Roman Delicts and the Construction of Fault, cit., 313 s., la
quale, a proposito delle parole «quasi
non sit damnum pecuniarium», parla di una finzione utilizzata da Ulpiano
per spostare il piano del discorso dalla intrasmissibilità dell’azione alla
intrasmissibilità della perdita, e afferma: «the loss is indeed pecuniary, but
it is not considered so because of the personal nature of the offense».
[91] Si veda anche R.
Martini, Sul risarcimento del
“danno morale” in diritto romano II (Ripensamenti), cit., 4 e nt. 15, il
quale però rileva che, «poiché si dice ‘quasi
si’», Ulpiano non si sarebbe davvero riferito a un danno non patrimoniale,
ma avrebbe “fittiziamente” fatto discendere la non pecuniarietà del danno (da
cui sarebbe derivata la intrasmissibilità attiva dell’azione) dalla circostanza
che l’azione era ex bono et aequo: i
danni di cui si teneva conto in questi casi sarebbero stati dunque in realtà
solo quelli pecuniari. Va peraltro rilevato come Ulpiano dica non che il danno
al corpo della persona libera non deve trasferirsi ai successori «quasi si», ‘come se’, fosse un danno non
pecuniario, bensì che il danno non deve trasmettersi «quasi non sit damnum pecuniarium».
[92] Tanto
è vero che – sempre stando a quel che scrive Ulpiano, D. 9.2.7 pr. (Ulpianus
libro octavo decimo ad edictum) – esse possono essere perseguite in via
utile anche con l’azione di legge Aquilia. Con ciò non si vuole dire che
di questi danni non possa essere fatta una stima equitativa, ma soltanto che
una valutazione equitativa non è necessariamente limitata a questo tipo di
perdita, come invece sembra ritenere C.A.
Cannata, Il danno risarcibile nel
diritto romano, cit., 38 ss., il quale, pur dopo aver
rilevato che tali entità economiche rappresentano una prima valutazione sicura
del male arrecato, di cui sono le uniche componenti «per le quali nei fatti
esiste una misura implicita. Ed in questa misura almeno il colpevole deve
essere condannato», e avendo precisato che invece nell’actio legis Aquiliae utilis quelle somme rappresentano il solo
oggetto della condanna, giunge però a sostenere (p. 43) che le malformazioni
del corpo dell’uomo libero, «rilevanti nell’actio
iniuriarum, che punisce l’offesa in una misura rapportata alla sua
gravità», non lo sono invece nell’actio
de effusis vel deiectis, «dove il fatto punito non viene individuato come
offesa, per cui esse potranno venirvi in considerazione unicamente se
costituiscano la causa di una diminuzione della capacità di lavoro».
[93] F. Casavola,
Studi sulle azioni popolari romane,
cit., 167; F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., 142.
[94] Se poi si volesse ritenere che, in assenza di
quelle spese o di quelle occasioni perdute, l’habitator debba nondimeno essere condannato a una somma pari al
loro ipotetico importo, come se le une o le altre ci fossero state (e in questo
caso esse sarebbero effettivamente non oggetto, ma criteri di stima), la
conclusione viene ulteriormente rafforzata, perché in questo caso, mancando per
ipotesi il danno patrimoniale, ogni somma accordata al danneggiato attiene
all’unico pregiudizio da lui effettivamente subito, che è quello al corpo. Conviene altresì ribadire come la soluzione
non confligga neppure con la tesi di una penalità affievolita dell’azione,
legata alla assenza di offesa alla personalità morale del viandante e alla
natura oggettiva della responsabilità dell’habitator (F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, cit., 137
ss.: v. sopra, nel testo, in questo paragrafo). Come ho avuto modo di rilevare
(P. Ziliotto, Sulla non patrimonialità del danno e dell’interesse nel diritto romano,
cit., 30 s.), l’una e l’altra non implicano necessariamente che nell’actio de effusis vel deiectis si sarebbe
tenuto conto dei soli riflessi patrimoniali delle lesioni corporali, come
probabilmente era il modo di ragionare di Gaio, perché il danno corporale può
essere stimato ex bono et aequo anche
in casi di responsabilità oggettiva nei quali non siano ravvisabili offese alla
personalità morale o sociale: semplicemente, la ferita subita dal viandante
colpito dalla effusio vel deiectio
sarà valutata dal giudice in via equitativa senza dare rilievo, tra gli
elementi di giudizio, a circostanze riferibili all’autore del fatto dannoso. E
questo probabilmente era il modo di ragionare di Ulpiano.