LEO PEPPE, EVELYN
HÖBENREICH, PATRIZIA
GIUNTI, VALERIO MAROTTA
Discussion* of the book of Leo Peppe, Civis Romana**
* During the Annual Meeting on Christian Origins of the Italian Centre for
Advanced Studies on Religions (CISSR), Bertinoro, FO, September 29, 2017.
** Leo Peppe, Civis Romana. Forme
giuridiche e modelli sociali dell’appartenenza e
dell’identità femminili in Roma antica, Lecce, Edizioni Grifo,
2016.
VALERIO MAROTTA
Università di Pavia
Cittadinanza e condizione
giuridica delle donne in Roma repubblicana e imperiale
(A proposito di Leo Peppe, Civis
Romana)
1. – Civis Romana[1]
presenta una compiuta analisi storica, la migliore oggi disponibile, della
posizione giuridica e sociale delle donne nel mondo romano. Per descrivere sommariamente
le linee salienti di questo volume, ho adoperato non a caso una parte del
titolo della prima monografia dedicata da Leo Peppe a questi temi[2].
L’ho riletta, assieme a quella del 2016, per ripercorrere
l’itinerario storiografico del loro autore in questi ultimi
trent’anni. Se, nel 1984, si proponeva un quadro estremamente preciso
delle fonti e della bibliografia allora disponibili, oggi si constata
un’assoluta padronanza della letteratura specialistica: dal diritto
romano ai più recenti contributi di scienze sociali come
l’antropologia o la sociologia.
Nell’esame
dei contenuti di questa monografia, dovrò necessariamente privilegiare,
rispetto agli altri, alcuni temi specifici. Prenderò in esame nel
dettaglio due differenti questioni: le donne e la trasmissione della
cittadinanza; le donne e l’esercizio di pubbliche potestà.
Quanto
alla seconda, il testo fondamentale, dal quale occorre necessariamente
procedere è, senza dubbio, Ulpianus 1 ad Sabinum D. 50.17.2 pr.:
Feminae ab omnibus officiis
civilibus vel publicis remotae sunt. et ideo nec iudices esse possunt nec
magistratum gerere nec postulare nec pro alio intervenire nec procuratores
existere.
È
un brano di straordinario rilievo e non soltanto nella storia del diritto
romano antico. Oggi non si riflette abbastanza sui suoi reimpieghi
d’età medievale. I testi della compilazione giustinianea furono
costantemente al centro del dibattito giuridico tra XII e XVII secolo, perfino
in questioni sideralmente distanti dal mondo reale dei giuristi romani come la
trasmissione dei feudi e la successione alla corona di Francia. Mi soffermo su
di un solo esempio che ha attirato la mia attenzione nel quadro di una ricerca
sulla lex regia in età
tardomedievale e moderna. Nel 1329, appena un anno dopo l’ascesa al trono
del primo Valois (Filippo VI), Petrus Jacobi (conosciuto come Pierre Jame[3]), un
professore dell’Università di Montpellier, compose un importante
commentario sulla successione al trono di Francia. In una rubrica dei suoi Aurea practica libellorum, dedicata ai
rapporti tra il diritto feudale e il droit
écrit (cioè il Corpus
iuris civilis) e, più in particolare, allo specifico problema della
trasmissione dei feudi, egli sottolineò che le donne erano escluse in
quanto tali dalla successione nei «ducati e in certi altri feudi tenuti
come dignità», invocando a sostegno della sua conclusione D.
50.17.2 pr. Tali considerazioni avranno un peso decisivo nelle discussioni
giuridiche che contrassegnarono il conflitto tra Plantageneti e Valois[4].
Inizialmente questo testo e altri attinenti all’istituto della tutela
interpretarono, in questa secolare vicenda, un ruolo molto ancor più
rilevante della stessa lex Salica,
un’altra norma – è noto – gravemente discriminatoria
nei confronti del sesso femminile[5].
D.
50.17.2 pr., cui è dedicato l’intero cap. V, propone una
«sintesi (quasi) perfetta»[6] delle
esclusioni cui erano soggette le cives
Romanae. L’esclusione delle donne (osserva Paolo in D. 5.1.12.2) dagli officia
civilia e dalle magistrature trova fondamento non nella natura – dal momento che esse,
come i servi, hanno iudicium – ma nei mores, per un diritto risalente accolto[7]
unanimemente:
Paulus
17 ad edictum D. 5.1.12.2: Non
autem omnes iudices dari possunt ab his qui iudicis dandi ius habent: quidam
enim lege impediuntur ne iudices sint, quidam natura, quidam moribus. natura,
ut surdus mutus: et perpetuo furiosus et impubes, quia iudicio carent. lege
impeditur, qui senatu motus est. moribus feminae et servi, non quia non habent
iudicium, sed quia receptum est, ut civilibus officiis non fungantur.
Il
testo parrebbe distinguere tra funzioni civili e funzioni pubbliche. Ma enumera
una serie di esclusioni, alcune delle quali non sono originarie o risalenti, dal
momento che sarebbero state introdotte soltanto nel corso del tempo,
così come attesterebbe l’aneddoto di Carfania[8] nel
caso del postulare pro aliis.
Vorrei
– lo ricordavo poc’anzi – soffermarmi, però, sulla
questione delle magistrature. A tal riguardo appare, per molti versi, ancor
più interessante la testimonianza di Ambrosiaster, cui Leo Peppe dedica
un intero capitolo, il VI. La domanda iniziale da cui procede
quest’anonimo (Ambrosiaster è un nome convenzionale coniato, forse
per scherno, da Erasmo da Rotterdam[9])
autore, identificabile quasi certamente con un presbitero romano che
operò al tempo di Papa Damaso e del suo successore Siricio, è la
seguente: la donna è inclusa nell’imago Dei al pari dell’uomo? La sua risposta è
negativa. Leo Peppe giustamente sottolinea che questa discussione, in apparenza
piuttosto oziosa, racchiudeva in sé una rilevante posta politica ed
economica. In effetti la Chiesa gerarchica – e mi rifaccio ad alcune
osservazioni di Peter Brown[10]
(che, peraltro, non valorizzano adeguatamente, a mio giudizio, le posizioni
dell’Ambrosiaster) – intendeva controllare possibili outsider e, in primo luogo, di quanti,
godendo dell’appoggio anche economico delle signore
dell’aristocrazia senatoria – titolari a volte di immensi patrimoni
– ambissero, in tal modo, a costituire poli di influenza alternativi
all’interno della Chiesa romana. Girolamo, che non ha mai ignorato
«i palazzi dei ricchi», era perfettamente conscio del fatto che la
vera causa del suo allontanamento da Roma erano stati i suoi rapporti con le
ricche nobildonne romane («prima di conoscere la casa di Paola, questa
santa, tutti a Roma erano concordemente a mio favore. Tutti,
all’unanimità, mi ritenevano degno di essere fatto vescovo.
Damaso, di felice memoria, non parlava che citando le mie espressioni»[11]).
Proprio per questo forse, al contrario dell’Ambrosiaster, egli era
disponibile a riconoscere alle sue seguaci dell’aristocrazia senatoria
romana un ruolo ascetico di primo piano nella Chiesa:
Ambrosiaster Quaestiones veteris et novi testamenti
45.3 Quomodo enim potest de muliere dici, quia imago dei est, quam constat
dominio viri subiectam et nullam auctoritatem habere? Nec docere enim potest
nec testis esse neque fidem dicere nec iudicare: quanto magis imperare.
Non
mi soffermo su tutti i termini di quest’elenco. Alcuni di loro non
appaiono precisi dal punto di vista giuridico. Dominium, per esempio, è un termine, che, in questo nesso,
non trova ovviamente alcun riscontro nelle fonti del diritto. Anche il termine testis deve essere inteso in maniera
compiuta, dal momento che esso non può non riferirsi alla sola generale
incapacità della donna di essere testimone alla confezione di un
testamento[12]. Ma – come è
ovvio – vorrei innanzi tutto valorizzare l’espressione imperare.
In
tal modo – cioè a dire, con le parole quanto magis imperare! – l’Ambrosiaster intende
rimarcare l’esclusione di principio delle donne dall’esercizio del
potere pubblico. Leo Peppe[13] si
è opportunamente chiesto quale fosse il ruolo delle donne delle famiglie
imperiali. Sappiamo che – a eccezione del controverso episodio di Irene
(imperatrice a Costantinopoli tra il 797 e l’802)[14], che
giustificò, peraltro, la decisione, assunta di comune accordo da Papa
Adriano e da re Carlo, di acclamare un imperatore in Occidente – non sono
noti, prima del IX secolo, casi del genere[15].
A
Roma il ruolo della donna, negli spazi civici, fu molto limitato. Sul piano dei
principî del diritto pubblico d’età imperiale alla stessa
Augusta, consorte o madre dell’imperatore attualmente in carica, non si
concesse alcuna concreta dimensione giuridica. La differenza tra Augusta e
Augusto e la posizione del tutto superiore di quest’ultimo risaltano al
meglio da:
Ulpianus 13 ad legem
Iuliam et Papiam D. 1.3.31: Princeps legibus solutus est: Augusta autem
licet legibus soluta non est, principes tamen eadem illi privilegia tribuunt,
quae ipsi habent.
È,
quest’ultimo testo, la prova più evidente del fatto che, per il
diritto pubblico romano, il nomen di Augusta non soltanto non ineriva una
posizione (non vorrei adoperare nomenclature ancor più impegnative come
carica o incarico) perpetua – il che peraltro è altrettanto vero,
almeno a mio parere, per la stessa suprema carica imperiale –, ma che
esso non poteva neppure distinguersi – a differenza di quanto si rileva
nel caso del princeps – dalla
sua titolare attuale, proprio perché non esiste una sua autonoma
funzione: gli eventuali privilegi accordati all’Augusta – è proprio quel che osserva Ulpiano (13 ad legem Iuliam et Papiam D. 1.3.31)
– dovranno essere, pertanto, definiti di volta in volta dal titolare
della suprema carica (princeps)
ovvero – potremmo aggiungere – dal senato (e, dunque, pur sempre
col consenso dell’imperatore).
Secondo
una costituzione di Antonino Pio si doveva volgere a favore di quello vivente
l’incremento patrimoniale, a causa di morte, disposto per onorare il
principe defunto. In tal modo cessava di operare la regola sul dies cedens e, almeno implicitamente, si
riconosceva la devoluzione costante (noi diremmo, ma in forza di differenti
categorie giuridiche, ‘istituzionale’) degli acquisti patrimoniali
del princeps alla sua funzione:
Gaius
14 ad legem Iuliam et Papiam D. 31.56: Quod principi relictum est, qui ante,
quam dies legati cedat, ab hominibus ereptus est, ex constitutione divi
Antonini successori eius debetur.
Ciò
che è stato lasciato al principe, che è morto prima del giorno di
apertura della successione[16],
è dovuto al suo successore. Un legato (per damnationem[17])
lasciato al princeps era acquistato
– nel caso di premorienza dell’imperatore onorato rispetto al
disponente[18] – dal successore.
Quest’eccezione, di diritto singolare, non fu estesa anche
all’Augusta:
Mauricianus
2 ad legem Iuliam et Papiam D. 31.57:
Si Augustae legaveris et ea inter homines esse desierit, deficit quod ei
relictum est, sicuti divus Hadrianus in Plotinae et proxime imperator Antoninus
in Faustinae Augustae persona constituit, cum ea ante inter homines esse
desiit, quam testator decederet.
Lo esclusero, a due riprese, sia Adriano per Plotina[19],
sia Antonino Pio per Faustina Maggiore[20].
L’imperatore – a differenza dell’Augusta – era
dispensato dall’osservanza di quanto stabiliva il ius civile[21]
e, di conseguenza, la morte del legatario non avrebbe reso cadùco il
lascito. Siamo, senza dubbio, molto distanti dalla visione dei giuristi
d’età intermedia[22],
secondo la quale, delle due persone coincidenti nel sovrano, quella individuale
è solo organum et instrumentum
della dignitas eterna (ovvero della suprema
carica in quanto persona ficta)[23],
ma registriamo, pur sempre, il tentativo della cancelleria antoniniana di
distinguere, se adoperassimo le nostre categorie concettuali, tra persona e
funzione, grazie a un accorto impiego delle facoltà imperiali inerenti
alla solutio legibus. In tal modo,
per i lasciti testamentari disposti in favore di un princeps, di fatto si guardava costantemente ed esclusivamente alla
funzione di questo o di quel titolare pro
tempore della suprema carica[24].
È
interessante rilevare che l’Augusta, nelle immagini tardoantiche a corpo
intero, non giunse mai a indossare il cingulum[25],
la cintura tipica del soldato e del magistrato romano, un simbolo più
del potere magistratuale che del rango imperiale e perciò precluso alle
Auguste in quanto donne. In effetti, a ben vedere, lo stesso titolo di Augustus
e, a maggior ragione, di Augusta non comporta, di per sé, alcun
esercizio di un potere. A tal riguardo si può rilevare che, nella
costruzione tetrarchica, i poteri connessi con l’esercizio della
dignità imperiale, dovevano essere assunti per un periodo di tempo
limitato. Ciò non di meno, nel quadro della costituzione dioclezianea,
l’abdicazione non poneva fine alla dignitas
di chi aveva rinunciato all’imperium.
In altre parole, i principes, pur
lasciando ad altri il governo effettivo dell’ecumene, non perdevano il
loro carattere sacro. Sebbene avessero rinunciato al loro imperium e alla loro tribunicia
potestas, Diocleziano e Massimiano, in quanto seniores Augusti[26],
furono chiamati Domini[27],
portando, pur sempre, la corona radiata e l’alloro. Queste immagini della
propaganda ufficiale li rappresentavano con un ramo d’ulivo, tra le mani,
in luogo della spada o della lancia[28].
Si annunciava al mondo, in tal modo, che i padri dei nuovi Augusti, abdicando[29]
per attendere così a un meritato riposo[30],
non avevano deposto la propria dignità[31].
Non a caso, in questi conii, sono
quasi sempre congiunte assieme, nella legenda
e nelle personificazioni che compongono l’immagine, la providentia deorum e la quies Augg.(ustorum). Tutto questo emerge dallo studio dei pilastri della villa
di Romuliana-Gamzigrad (ove Galerio aveva costruito la propria
città-palazzo)[32],
ma anche da una dedica delle Terme di Diocleziano a Roma, ove si riscontra il
medesimo ordine attestato da questi bassorilievi: Diocleziano e Massimiano sono
denominati invicti seniores Augusti;
ai loro nomi fanno seguito quelli degli invicti
Augusti (Costanzo e Galerio) e dei nobilissimi
Caesares (Severo e Massimino)[33].
Tutto
questo, a mio giudizio, permette di sgombrare il campo da ogni equivoco. Le
titolature onorifiche – si pensi, per esempio, al titolo di mater castrorum conferito ad alcune
Auguste non comporta, di per sé, alcunché sul piano strettamente
giuridico. Differente, ovviamente, quello propriamente politico: e si pensi, in
primo luogo, al caso di Agrippina minore, la madre di Nerone[34].
I suoi tentativi di travalire i limiti posti dai mores e dale prassi costituzionali furono costantemente rintuzzati
dal figlio e da Seneca: mediante espedienti di tipo cerimoniale, in alcuni
casi, in altri attraverso concessioni prive di rilevanza sul piano del ius publicum. Pertanto ha perfettamente
ragione Leo Peppe[35]
quando sostiene che le Augustae hanno avuto certamente e spesso un rilevante
ruolo politico, ma sono state escluse dall’imputazione giuridica del
potere e del suo esercizio. Le donne potevano essere un veicolo ideologico di
legittimazione: è noto, a tal riguardo, quel che avrebbe risposto Marco
Aurelio a quanti gli domandavano perché non avesse ripudiato sua moglie
Faustina minore[36].
La legittimazione del potere di Marco, l’adozione dinastica di Antonino
Pio, si fondava anche sul presupposto politico del matrimonio con la figlia del
suo predecessore.
Parrebbe
confliggere con questo quadro e con queste conclusion esclusivamente una
testimonianza dell’Historia Augusta
nella vita Heliogabali:
4.1-4 Deinde ubi primum diem senatus
habuit, matrem suam in senatum rogari iussit. 2 Quae cum venisset, vocata ad
consulum subsellia scribendo adfuit, id est senatus consulti conficiendi
testis, solusque omnium imperatorum fuit, sub quo mulier quasi clarissima loco
viri senatum ingressa est. 3 Fecit et in colle Quirinali senaculum, id est
mulierum senatum, in quo ante fuerat conventus matronalis, solemnibus dum taxat
diebas et si umquam aliqua matrona consularis coniugii ornamentis esset donata,
quod veteres imperatores adfinibus detulerunt et his maxime, quae nobilitatos
maritos non habuerant, ne innobilitate remanerent. 4 Sub Symiamira facta sunt
senatus consulta ridicula de legibus matronalibus: quae quo vestitu incederet,
quae cui cederet, quae ad cuius osculum veniret, quae pilento, quae equo, quae
sagmario, quae asino veheretur, quae carpento mulari, quae bovum, quae sella
veheretur et utrum pellicia an ossea an eborata an argentata, et quae aurum vel
gemmas in calciamentis haberent.
Ma
– al di là dell’oggettiva stravaganza del giovane imperatore
devoto del monolite di Emesa – questo resoconto deve essere assunto per
quel che effettivamente intende essere: l’Historia Augusta[37]
è un’opera ‘finzionale’ quant’altre mai[38].
All’autore[39] di queste vitae non si può, in alcun caso,
prestar fede senza un attento esame dei fatti e delle fonti parallele. Si
è accertato, in effetti, che un cospicuo numero di informazioni da esse
fornitoci non è vero. Siamo dinanzi, piuttosto, a un’opera di
finzione. E il suo autore non si prefisse mai lo scopo di ingannare i propri
lettori. Non di meno poiché i fatti, se non costantemente alterati, sono
sempre piegati a un fine preciso, politico ancor prima che letterario, i suoi
racconti e i progetti di riforma delle istituzioni che egli propone,
attribuendoli ora a questo, ora a quell’imperatore, devono divenire
oggetto d’un esame scrupoloso. In questo caso verità e finzione
sono artatamente mescolate assieme. Eliogabalo – l’imperatore che
nella visione propria del biografo dell’Historia Augusta ha sovvertito tutti i principî della
convivenza civile e della convenienza politica e umana – ammette una
donna, sua madre, a funzioni propriamente virili. Non sappiamo se le cose siano
davvero andate così. Avrei più di un dubbio: ma possiamo
constatare quanto il biografo sia abile nel mescolare verità e finzione.
In effetti sùbito dopo, a ben vedere, egli fa riferimento, e con precisione
estrema, alla notizia, confermata peraltro anche da Ulpianus 2 de censibus D. 1.9.12pr.[40],
della prassi, adottata, peraltro, anche dai predecessori di Eliogabalo, di
attribuire con solennità i consularis
coniugii ornamenta alle mogli di uomini che non avevano la dignitas richiesta. Quanto, invece, al mulierum senatus, credo che non avesse
torto Johannes Straub[41]
a indicare in questo rilievo una implicita, ma sarcastica, allusione a una
congregazione di donne cristiane dell’alta società di fine IV secolo.
Che il biografo – identificabile, secondo Stéphane Ratti, con
Virio Nicomaco Flaviano senior (quaestor
sacri palatii di Teodosio e praefectus
praetorio dell’usurpatore Eugenio[42])
– riprenda un rilievo ironico di San Girolamo non deve stupire più
di tanto. Il Ratti ha creduto di poter concludere che il suo autore fosse
– nonostante il suo attaccamento alla tradizione pagana – un
attento lettore di san Paolo e dello stesso Girolamo[43].
In effetti l’Historia Augusta è
stata scritta contra Christianos[44].
In questa prospettiva, Eliogabalo stesso, il primo a colpire le fondamenta
della religione tradizionale, appare solo un antesignano di Costantino e dei
suoi successori e dunque responsabile, come questi ultimi, del sovvertimento
dell’ordine costituzionale di Roma.
Nel
conflitto tra Pagani e Cristiani il corpo delle donne e il suo controllo
interpretarono un ruolo di primo piano. A tal riguardo Leo Peppe[45]
ha giustamente valorizzato una testimonianza di Georgius Cedrenus[46],
nella quale si fa riferimento a una disposizione con la quale
l’imperatore Decio, attorno al 249, avrebbe impartito alle donne
cristiane il divieto di circolare in pubblico a capo coperto. Il velo fu a Roma
e, a maggior ragione in Grecia, il simbolo e l’abito delle donne perbene.
Non è un caso, pertanto, che San Paolo[47]
abbia chiesto a tutte le cristiane di indossarlo. In quanto donne perbene non
avrebbero potuto altrimenti proporsi in pubblico. D’altra parte la
più antica norma concernente il velo – una legge assira
dell’XI secolo – si limitava a proibirne l’uso alle
prostitute e alle altre donne di malaffare[48].
Inoltre, secondo Lattanzio[49],
Diocleziano, nel suo editto contro i Cristiani, tra le altre cose li avrebbe
privato anche del diritto di agire in giudizio de iniuria, de adulterio e de
rebus ablatis: sicché libertatem
denique ac vocem non haberent («fossero privati della libertà
e perfino della parola»). La virtù della donna cristiana non era
più ritenuta degna di tutela. In tal modo, implicitamente, si poneva la
consorte del cristiano sul medesimo piano della condannata per adulterio[50].
2. –
Nessuno – anche e soprattutto alla luce di una serie di studi convergenti
condotti da Leo Peppe in questi ultimi trent’anni – può
dubitare del fatto che le donne fossero cives
e facessero parte, sia pur in un senso profondamento differente da quello
originario, del populus Romanus. Ma
vi è di più: la donna può trasmettere anche trasmettere la
cittadinanza. Come osserva Leo Peppe, la civis
fa cives, per nascita e per
manumissione.
Quanto alla prima, credo sia opportuno – come osserva
anche Leo Peppe – procedere dalla definitiva messa a punto di Yan Thomas[51]. La
nascita o, meglio, il concepimento in iustae
nuptiae è il meccanismo attraverso il quale si perpetuava, di
generazione in generazione, la civitas
Romana. Proprio per questo il matrimonium era, per Cicerone, principium urbis et quasi fundamentum rei
publicae[52]. Quali regole
disciplinavano, secondo il diritto romano, la nascita di figli legittimi
dall’unione d’un uomo e d’una donna? Nella trasmissione, di
generazione in generazione, della civitas
Romana si constata una regolarità, che connota peraltro quasi tutte
le società del mondo antico, nelle quali concetti e istituzioni come
matrimonio, filiazione legittimità e cittadinanza sono, per definizione,
sempre collegati.
In Celsus 29 digestorum D. 1.5.19 incontriamo una regola, che identica
ripropongono Cicerone[53] e,
implicitamente, il formulario dell’adrogatio[54], uno
dei più antichi paradigmi negoziali romani:
Cum legitimae nuptiae
factae sint, patrem liberi sequuntur: vulgo quaesitus matrem sequitur[55].
Cosa nasconde questo dispositivo? Perché ne divenga
l’erede, è necessario, per quanto non sufficiente, che il figlio
assuma lo status del padre. Il matrimonio
conferisce la condizione paterna, la nascita illegittima quella materna. In
assenza di iustae nuptiae, il neonato
nasce schiavo, peregrinus o cittadino
romano, secondo che la madre abbia, al momento del parto, la condizione di schiava, straniera o Romana. Nel matrimonio (che richiede sempre il reciproco ius conubii[56]) il
figlio segue la condizione del padre al momento del concepimento. Qualora
esista ius conubii, in presenza di iustae nuptiae, che presuppongono
secondo l’ordine giuridico romano anche la pubertà dei due sposi
(quattordici anni per i maschi, dodici per le femmine) e la loro sanità
di mente, i figli seguiranno la condizione del padre. Il diritto qualifica come
legittimo o illegittimo il momento in cui una donna è fecondata da un
uomo (ossia ne riceve il seme [concipit]).
Il momento a cui guarda il diritto, nel caso di congiunzione legittima,
è quello del concepimento, tra i sette e i dieci mesi prima (iustum tempus).
Di questi due eventi, il concepimento in iustae nuptiae e il parto (di colei che
abbia concepito da non si sa chi [vulgo]),
il primo si ricostruisce sulla base d’una praesumptio iuris («il padre è chi risulta in base al
matrimonio»)[57], il
secondo si constata immediatamente (perché è un mero fatto).
Quest’ordine, sociale, familiare e patrimoniale, è soprattutto
politico, perché governa la trasmissione della cittadinanza.
Erano differenti, pertanto, le temporalità proprie
alle due branche (paterna e materna) della filiazione civica. L’origo paterna non coincideva con il
luogo di nascita del padre, ma con la città da cui il padre stesso
traeva la patris origo, e così
via di séguito, risalendo all’indietro indefinitamente. E gli
obblighi di un civis nei confronti
del municipium o della colonia, coincidente con la propria origo, non sarebbero mai venuti meno,
benché egli fosse nato altrove e la sua famiglia risiedesse da anni o da
generazioni in un’altra civitas.
Di questi due fatti, nell’ordine, il concepimento legittimo, ossia in iustae nuptiae e il parto (di una
partoriente che abbia concepito indistintamente da non si sa chi [vulgo]), uno (il secondo) si constata
immediatamente, l’altro (il primo) si ricostruisce, sulla base della praesumptio iuris «Pater is est quem nuptiae demonstrant»,
«il padre è chi risulta in base al matrimonio»[58].
Bachofen[59]
aveva compreso la natura di quest’opposizione, che colloca il diritto
romano tra i due principii del legame materno e del legame paterno: l’uno
fisico (naturalistico), l’altro immateriale e astratto (il concepimento),
e che si presuppone sulla base del diritto. L’errore di questo grande
storico e giurista, se di errore si può parlare, è stato quello
di interpretare, secondo la moda evoluzionistica che dominava la storia
istituzionale del suo tempo, l’antitesi di questi due principii come il
risultato del passaggio dall’uno all’altro. In realtà
è all’interno di uno stesso sistema legale, e non per sviluppo
progressivo, che il principio paterno si articola su quello materno: nel
matrimonio, la madre determina la paternità del marito[60].
Quest’ordine, oltre che sociale, familiare e patrimoniale, è anche
politico, perché governa la trasmissione della cittadinanza.
Anche il meccanismo che regola, dal profondo, il
«diritto d’origine» null’altro è che la
filiazione civica. In tal modo l’iscrizione dei cittadini nei ranghi
della civitas si conforma alla
medesima continuità temporale e al medesimo ordine della chiamata degli
eredi nella successione legittima[61].
Quelli concepiti in iustae nuptiae
seguivano l’origo del padre.
Quelli nati fuori del matrimonio seguivano l’origo della madre. A prima vista parrebbe solo un’ulteriore
banalità. Ma la complessità di questa struttura comincia a
svelarsi quando si reperisce la differenza che separa le temporalità
proprie alle due branche della filiazione civica: il principio paterno e il
principio materno.
L’origo
paterna non era il luogo di nascita del padre, ma la città da cui il
padre traeva egli stesso l’origine paterna, e così via di
séguito, risalendo all’indietro indefinitamente. Dal lato
maschile, non c’era limite a questo regresso nel tempo, o, se si
preferisce, a quest’immobilizzazione del tempo da parte del diritto.
Nell’ordine politico la continuità successoria si fissava in un
luogo che non era necessariamente quello della residenza, ma che rimaneva quello
dell’appartenenza civica. Così la cittadinanza degli ascendenti si
prolungava nella cittadinanza dei discendenti.
Come funzionava l’origo
materna? Secondo Nerazio la madre fornisce interamente la prima origine, la prima origo:
Eius, qui iustum patrem non habet, prima
origo a matre eoque die, quo ex ea editus est, numerari debet[62].
Cosa rivela questo testo? L’origine acquisita per
mezzo della madre trae inizio dal momento del parto: il neonato prende la cittadinanza
che la madre possiede in questo preciso istante. Ma qualificandola prima, il giurista vuole spiegare che la
cittadinanza locale del bambino non gli viene più in alto che da sua
madre, che, in questo caso, la sua cittadinanza locale non si inscrive in una
linea di successione genealogica. Confrontato con un frammento ulpianeo[63],
secondo il quale «la donna è il principio e la fine della propria
famiglia», le parole di Nerazio aiutano a comprendere in che cosa la
trasmissione femminile non è, in senso proprio, una trasmissione
d’origine: ciò che proviene dalla donna non si inserisce nella
successione del tempo, ma rappresenta un principio in assoluto, perché
una donna non può essere titolare della patria potestas[64].
Ovviamente questo quadro descrive compitamente lo stato
delle cose di età medio, tardorepubblicana e imperiale. Leo Peppe
è perfettamente consapevole del fatto che forse, in epoche precedenti
(prima, ovviamente, della stabilizzazione delle istituzioni cittadine), la
filiazione legittima e, dunque, la trasmissione della cittadinanza non si
attenessero costantemente a queste regole. In effetti, secondo Festo[65] e
Valerio Massimo[66], l’unico Fabio
superstite, dopo la strage del Cremera, avrebbe sposato, per la sua ricchezza,
la figlia[67] di Numerio Otacilio di
Maleventum a condizione che il primo figlio maschio prendesse il suo nome,
Numerio. Peraltro si può rilevare, sul piano della comparazione storica,
che queste situazioni di incertezza, poste a difesa, in fondo, del cosiddetto
principio della mobilità aristocratica, sono state definitivamente
superate, per ciò che concerne Atene soltanto nel 451, nella Giudea di
Ezra, al momento del ritorno di altri ebrei Ebrei esiliati in Babilonia, in
quegli stessi anni e, a Roma, dopo le XII Tavole.
Abstract
1. – I will consider two different
issues in details. Women
and the exercise of public authority; women and the transmission of citizenship. The
fundamental text is Ulpianus
1 ad Sab. D. 50.17.2pr. It is conclusive. The exclusion of women
from officia civilia and public
powers is not justified according to natura,
but by mores (Paulus 17 ad ed. D. 5.1.12.2). I would like to deepen the study of the problem of
magistrature. In this regard, Ambrosiaster's testimony seems decisive (Quaestiones
veteris et novi testamenti
45.3). Not all the terms used by Ambrosiaster are
appropriate: for example, the word dominium.
The term testis only refers to the
woman's inability to be witness of a Testament. From my particular point of view, the word imperare is more important than the others. Which was the role of
the women of the imperial family, particularly of the emperor's mother or wife,
called, usually, Augustae? According
to the rules of public law, no effective power is granted to the Augusta, wife or mother of the emperor.
Reading Ulpianus 13 ad l. Iuliam et Papiam D. 1.3.31 we can identify the differences between princeps and Augusta.
We cannot distinguish the nomen of Augusta from her current owner. Actually, according to public law,
there is no peculiar constitutional position of the Augusta. Augusta’s
privileges must always be indicated by the emperor or by the senate. According
to a constitution of Antoninus Pius, the legatum
per damnationem, left to the deceased princeps,
had to be attributed to the living princeps.
What had been left to the princeps,
who died before the opening of the testament, belongs to the next princeps. A legacy in favor of the princeps is attributed, when he dies
before the day begins (dies cedit),
to the next princeps.
This exception, attributable to ius singulare, was not extended to Augusta (Mauric. 2 ad l.
Iul et Pap. D. 31.57). Regarding
testamentary wills in favor of a princeps,
only the function of the imperator
for the time being (pro tempore) was
taken into consideration.
In the pictures of Late Antiquity, the Augusta never wears the cingulum, the typical belt of the Roman
soldier and magistrate, a symbol of magisterial power rather than of imperial
rank. I believe that the title of Augusta
confers only an honorable position. But the same thing applies to the title of Augustus. Actually, Diocletian and
Maximian, despite their abdication, retained the title of seniores Augusti. In my opinion, all this allows to clear the field
from misunderstandings. These honors, such as, for example, the title of mater castrorum, have no legal value.
Obviously the strictly political dimension looks very different. Therefore, Leo
Peppe is perfectly right when he argues that the Augustae certainly had an important political role, but they were
excluded from the juridical attribution of power and, consequently, from its
exercise. The women of the imperial family were, in some cases, an important
instrument of ideological legitimization of power. We can propose, for example,
Marcus Aurelius and Faustina minor.
A text of the Historia Augusta would seem to deny these conclusions (vita
Heliogabali
4.1). But
this detailed account must be interpreted according to what its author intended
to say Heliogabalus has violated all the rules of civil coexistence. In his
abyss of perversion, He even granted his mother exclusive privileges of men. We
do not know if the facts really happened in this way. We can doubt the
truthfulness of this story. But, in the Historia
Augusta, truth and fiction are artfully mixed together. Actually, the
biographer remembers with precision the practice of attributing the consularis coniugii ornamenta to the
wives of high rank men (consulares),
who got married again with lower rank men. It was also mentioned by Ulpianus 2 de censibus D. 1.9.12 pr.
On the other hand, with regard to the mulierum senatus, I do not think it was
wrong for Johannes Straub to point out an implicit but sarcastic suggestion in
this connection to a congregation of Christian women of late fourth century.
The biographer was a reader of the writings of Saint Paul and of St. Jerome. He
wrote his work contra Christianos. In
this perspective, Heliogabalus has only preceded Constantine and his subversion
of traditional religion. In the conflict between Pagans and Christians, the
body of women and his control played a very important role. According to
Georgius Cedrenus (Historiarum Compendium 453.9) the
Emperor Decius forbade
Christian women to circulate in public wearing a veil. In Rome the veil was the
symbol of the honest woman. Actually, St. Paul ordered all Christian women to
wear a veil (1Cor 11.1-6.13-16). The oldest law concerning the veil was an Assyrian law
of the 11th century BC. But this measure forbade prostitutes to wear this
garment. According to Lactance (De morte
persecutorum 13.1), Diocletian deprived Christians of the right to accuse
de iniuria, de adulterio
and de rebus ablatis: as a result they lost their liberty and
even the right to free speech: libertatem denique ac vocem non
haberent. The virtue of Christian woman is no longer
protected: thus, implicitly, the Christian’s wife is equated to the woman
condemned for adultery.
2. – Nobody can doubt that women
were cives. It must be recognized,
moreover, that women were part of the populus,
but in a different sense than the original one. Also the woman can transmit
citizenship, by birth and by manumission.
In
the transmission of Roman citizenship from one generation to another you can
note a regularity. In Celsus 29 digestorum
D. 1.5.29 we find this rule: Cum
legitimae nuptiae factae sint, patrem liberi sequuntur: vulgo quaesitus matrem
sequitur. Marriage confers the paternal condition; vice versa the illegitimate
birth maternal condition. The children, begotten in lawful marriage, are in the
power of their fathers. Roman citizen are bound together in lawful matrimony,
when they are united according to law, the males having attained the age of
puberty and the females a marriageable age. If we consider these two events –
1) conception in iustae nuptiae and
2) birth of child of unknown father – we recognize the first on the basis
of a praesumptio iuris: Paulus 4 ad edictum D. 2.4.5, pater
est is quem nuptiae demonstrant.
Vice
versa we note immediately the second because it is just a fact. This order is,
above all, political and not only familiar or patrimonial. Actually it
regulates the transmission of citizenship. Children born in iusto matrimonio were
in the potestas of their father and, consequently, they
were his heirs on intestacy. Vice versa children born out of wedlock always
followed the condition of the mother; and it was her condition at the time of
birth, not at that of conception, which decided the status of the child.
Also
the process that regulates, from the bottom, the ius originis, is nothing else but the civic sonship. Actually a
child born in iusto matrimonio (that is, where there was conubium between the parents) was legitimate, took the father’s
status and was in his potestas. In
this way the insertion in the civitas
follows the temporal continuity and the order of intestate succession. The
children conceived during the marriage acquired the origo of their father. The children conceived out of a iustum matrimonium acquired the origo of their mother. How did the origo a matre work? Neratius writes (3 membranarum D. 50.1.9): Eius, qui iustum patrem non habet, prima
origo a matre eoque die, quo ex ea editus est, numerari debet. What does this text mean
to tell us?
The origo gained through the mother
starts from the moment of childbirth. The child takes the citizenship that the
mother has at this exact moment. The lawyer wants to explain that local
citizenship of the child starts with the mother only. In this case, the local
citizenship of the child is not enrolled in a genealogical line of succession.
Actually patria potestas existed only
over children born in iusto matrimonio, or, in other words,
only such children could be admitted to an existing familia. We must compare this doctrine with the words of Ulpian: 46
ad edictum, D. 50.16.195.5: Mulier
autem familiae suae et caput et finis est.
Actually
the illegitimate child took its civic status from his mother, but this gave her
no rights over the child. The female transmission is not, strictly speaking, a
transmission of origo. What comes
from the woman doesn’t fit in the succession of time, but it represents a starting point,
because a woman cannot be a holder of the patria
potestas and in no circumstances the mother could have potestas over her child, legitimate or illegitimate, nor she could
adopt a child.
The peculiar rights of the citizen were summed up in the familiar term suffragium et honores, the right of
voting and the capacity of holding magisterial offices, and in the terms conubium and commercium. There was no conubium
between Roman citizens and foreigners. But Latins and foreigners (peregrini) might be given conubium by special grant. Conubium, in particular, is a term which
explains itself. The foundation of the Roman family was a marriage according to
the ius Quiritium, and not to have
the conubium was to be incapable of
entering into the Roman family system. Illegitimate children were fatherless
and sui iuris; their mothers could
not have potestas over them, and they
had no inheritance rights from their fathers.
Obviously this framework describes the state of things of Late Republic
and Principate. We also have to take into account the institutions such as the so-called aristocratic
mobility in the archaic period. You can see, in terms of historical comparison,
that these situations of uncertainty had been definitively overcome in Athens
in 451 BC, among the Jews in the time of Ezra (around 450 BC) and in Rome after
the Twelve Tables.
[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza,
rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi
presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione
“Tradizione Romana” sono stati valutati “in chiaro”
dalla direzione di Diritto @ Storia]
[1] L.
PEPPE, Civis Romana. Forme giuridiche e
modelli sociali dell’appartenenza e dell’identità femminili
in Roma antica, Lecce, Grifo, 2016.
[2] L.
PEPPE, Posizione giuridica e ruolo
sociale della donna in età repubblicana, Milano, Giuffré,
1984.
[3] Vd. P. FOURNIER, “Pierre Jame (Petrus Jacobi)
d’Aurillac, jurisconsulte”, Histoire
Litteraire 36 (1927) 481-521.
[4] Sul
tema – dal punto di vista giuridico-costituzionale – vd. R. E. GIESEY, Le
rôle méconnu de la Loi Salique. La succession royale XIVe - XVIe
siècles, Paris, Les Belles Lettres, 2007.
[5] LIX De alodis
§ 6 (Eckhardt M.G.H. LLI 4.1,
1962): De terra uero Salica nulla in
muliere <portio aut> hereditas est, sed ad uirilem sexum, qui fratres
fuerint, tota terra pertineat.
[10] P.
BROWN, Per la cruna di un ago. La
ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C.,
trad. it. Torino, Einaudi, 2014, 352-354.
[11]
Ieron. Ep. XLV, 3 e LIV, 1 [102a] pp. 481 e 550-60 102c], vol. II p. 352: Antequam domum sanctae Paulae nossem, totius in me urbis consonabant;
omnium paene iudicium dignus summo
sacerdotio decernabar. Beatae
memoriae Damasus, meus sermo erat.
[18]
Più difficile determinare quale sia stato il fondamento giuridico della
decisione di Caracalla di incamerare le proprietà di coloro i quali
avevano fatto menzione del fratello Geta nei loro testamenti: vd. Cass. Dio
77.12.5 ed Herod. 6.1.8. Sul tema, con specifico riferimento anche a D. 31.56 e
D. 31.57, F. MILLAR, The Emperor in the
Roman World, London, Duckworth, 1977, 157.
[19]
Morta, probabilmente, nel 122: vd. A. GARZETTI, L’Impero da Tiberio agli Antonini, Bologna, Cappelli, 1960,
403.
[20]
Scomparsa tra il 10 dicembre del 140 e il 9 luglio del 141: vd. G. GUALANDI, Legislazione imperiale e giurisprudenza
II, Milano, Giuffrè, 1963, 177; K. P. MÜLLER EISELT, Divus Pius constituit. Kaiserliches
Erbrecht, Berlin, Duncker & Humblot, 1982, 299;
C. KUNST, Die Rolle der römischen
Kaiserfrau. Eine Einleitung, in (C. Kunst-U. Riemer eds.) Grenzen der Macht. Zur Rolle der
römischen Kaiserfrauen, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2000, 1-6, in
part. 2. Ora, ampiamente, A. PISTELLATO, “Augustae nomine honorare:
il ruolo delle Augustae fra ‘Staatsrecht’e prassi politica”,
in (J.-L. Ferrary-J. Scheid eds.) Il
princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali
del potere imperiale da Augusto a Commodo, Pavia, IUSS Press, 2015, 392-427,
in part. 406-407, 415.
[21] E
cioè dal fondamentale effetto del dies
cedens, quello che serviva a giustificare la trasmissibilità agli
eredi del legatario del legato. G. GROSSO, I
legati nel diritto romano. Parte generale, Torino, Giappichelli, 2°
ed., 1962, 294 s.: cfr. Ulpianus 20 ad
Sabinum D. 36.2.5 pr.: Si post diem
legati cedentem legatarius decesserit, ad heredem suum transfert legatum.
[22]
BALDUS, Consilia, III, Venetiis,
1575, 121, n 6 folio 34; Consilia,
III, Venetiis, 1575, 159, n. 6, folio 45v.
[23]
Diversamente, dunque, da quel che sostenne G. BESELER, Juristische Miniaturen, Leipzig, Noske, 1929, 143 s., seguito,
più di recente, anche da MÜLLER EISELT, Divus Pius constituit, 300, che riprendono entrambi la nozione di corporation sole. Anche F. SCHULZ, Classical Roman Law, Oxford, Clarendon
Press, 1951, 651, individuò, nella figura del princeps, una corporation
sole, ma senza proporre alcun riferimento a D. 31.56.
[24] P.
VOCI, Diritto ereditario romano. I,
2a ed., Introduzione, parte generale,
Milano, Giuffrè, 1967, 417, 457; A. MASI, Ricerche sulla ‘res privata’ del ‘princeps’,
Milano, Giuffrè, 1971, in part. 10 s.; P. VOCI, Nuovi studi sulla legislazione del Tardo Impero, Padova, CEDAM,
1989, 7; E. BUND, “Erbrechtliche Geldquellen römischer Kaiser”,
in Festschrift F. Wieacker,
Göttingen, Vandenheock & Ruprecht, 1978, 57; G. GILIBERTI, Studi sulla massima “Caesar omnia
habet” Seneca de beneficiis 7.6.3, Torino, Giappichelli, 1996, 177;
C. PAULUS, Die Idee der postmortalen
Persönlickeit im römischen Testamentsrecht: zur gesellschaftlichen
und rechtlichen Bedeutung einzelner Testamentsklauseln, Berlin, Duncker
& Humblot, 1992, 119-124, il quale (121 s.) ha senza dubbio percepito il
fondamentale rilievo di questo frammento anche sul piano del diritto pubblico
d’età imperiale («Theoretisch war für das römische
Reich jeder Tod eines Princeps ein Sturz ins Umgewisse»), inquadrandolo,
però, nell’ambito dei problemi connessi con i cosiddetti legata a incertae personae: ma vd., in tal senso, già MÜLLER
EISELT, Divus Pius constituit, 300.
In ogni caso, non parlerei di una «transpersonale» (e, pertanto, certa) «Identität» del princeps. PISTELLATO, Augustae nomine
honorare, 407, parrebbe, invece, condividere quest’impostazione. Vd.
anche H. M. LENZ, Privilegia fisci,
Pfaffenweiler, Centaurus-Verl.-Ges., 1994, 11. Infine – e lo ha chiarito
E. LO CASCIO, Il princeps e il suo
Impero. Studi di storia amministrativa e finanziaria romana, Bari,
Edipuglia, 2000, 97 ss. part., sebbene non abbia inserito D. 31.56 e 31.57 nel
proprio dossier – è
inutile chiedersi se questi lasciti spettassero al fiscus o al patrimonium.
[25]
Così PEPPE, Civis Romana, 239. Sulla lunga vita di quest’insegna
del potere vd. K. F. WERNER, Nascita
della nobiltà. Lo sviluppo delle élite politiche in Europa,
trad. it. Torino, Einaudi, 2000, 192 ss.
[26] CIL 8. 8836 = ILS 645: in quest’iscrizione
Diocleziano e Massimiano formano la coppia dei seniores invicti Augusti, Galerio e Licinio la coppia degli Augusti, Massimino e Costantino quella
dei Caesares.
[27] Vd. H. COHEN, Description
historique des médailles frappées sous l’empire romain
VI, Paris, Rollin&Feuardent, 1892: Diocl. 83, 397, 404, 421, 428;
Maxim. 142, 147 ss., 188, 195, 223 ss., 389 s., 487, 482 ss., 667; CIL 8. 8836 = ILS 645, CIL 6. 1130 = ILS 646 (con riferimento, in questo
caso, al titolo di invicti seniores Augusti): sul punto P. DE
FRANCISCI, Arcana Imperii 3.2,
Milano, Giuffrè, 1948, 28 e ntt. 6 e 7. Alle testimonianze raccolte
dallo Straub (infra, nt. 29) e dal de
Francisci adde AÉ 1961, 250 Dominus
Noster Pater Augustorum et Caesarum.
[28] O di
altre insegne del potere imperiale. La recente scoperta, nella pendice
nord-orientale del Palatino, delle insegne imperiali di Massenzio (scettri
[ornati di pietre dure o vetro], quattro punte di lance da cerimonia e quattro
punte di lancia attribuite a portastendardi) pone a disposizione, anche degli
storici della costituzione romana, materiali di estremo interesse: vd. I.
TANTILLO, “Insegne e legittimazione nell’impero romano”, in (C.
Panella ed.) I segni del potere.
Realtà e immaginario della sovranità nella Roma imperiale,
Bari, Edipuglia, 2011, 13-24, in part. 14-17;
PANELLA, I segni del potere, 25-76.
[29] Sulla «Quies
Augustorum» vd. J. A. STRAUB, Vom
Herrscherideal in der Spätantike, Darmstadt, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, 1964, rist. an. ed. 1939, 89. Roman Imperial Coinage (RIC) VI, 208 (Treviri), 364-65 (Roma), 623-25 (Antiochia). Sul
punto anche S. CORCORAN, The Empire of
the Tetrarchs. Imperial Pronouncement and Government. AD
284-324, 2a ed., Oxford, Clarendon Press, 2002, 207 s. e nt. 12.
[30] DE
FRANCISCI, Arcana Imperii 3.2, 28 s.,
che riprende sul punto STRAUB, Vom
Herrscherideal in der Spätantike, 89 s.
[31] Come
emerge anche dal ruolo di Diocleziano durante la ‘conferenza’ di
Carnuntum nel novembre del 308: vd. W.
SESTON, “La conférence de Carnuntum et le ‘dies
imperii’ de Licinius” (1956), ora in Scripta Varia, Roma, École fr. de Rome, 1980, 497-508.
[32] V.
MAROTTA, Esercizio e trasmissione del potere
imperiale (secoli I-IV d.C.). Studi di diritto pubblico romano, Torino,
Giappichelli, 2016, in part. 158-160.
[36] H.A. Vita Marci
19.7-9: Multi autem ferunt Commodum omnino
ex adultero natum, si quidem Faustinam satis constet apud Caietam condiciones
sibi et nauticas et gladiatorias elegisse. 8 De qua cum diceretur Antonino Marco, ut eam repudiaret, si non
occideret, dixisse fertur : “Si uxorem dimittimus, reddamus et dotem”.
9 Dos autem quid habebatur [nisi]
imperium, quod ille ab socero volente Hadriano adoptatus acceperat?
[37] Un primo status
quaestionis in J.-P. CALLU, Histoire
Auguste. Introduction générale. Vies d’Hadrien, Aelius, Antonin,
Paris, Les Belles Lettres,1992, VII-XCIII, LXX ss.; ma cfr. il divergente, per
certi aspetti, punto di vista di F. PASCHOUD, Histoire Auguste. Tome Vème 1ère partie. Vies
d’Aurélien et de Tacite,
Paris, Les Belles Lettres, 1996, XVIII-XLIII.
[38] Ma,
sul piano della realtà storica effettuale, sebbene sia arduo, non
è però impossibile individuare testimonianze che attestino il
desiderio di alcuni principes
d’attenersi alla legalità di tradizione repubblicana. È
quel che, in fondo, emerge da Amm. 22.7.1-2 (cfr. MAROTTA, Esercizio e trasmissione, 60), un brano nel quale lo storico
antiocheno sottolinea come Giuliano, resosi conto d’aver proceduto, per
propria distrazione e per errore del proximus
admissionum, ad alcune manumissiones
vindictae in presenza del console, che stava presiedendo ai giochi circensi
a Costantinopoli, si autoinflisse una multa di dieci libbre d’oro.
[39]
L’Historia Augusta, le cui vitae sono attribuite a differenti
autori, è stata composta probabilmente (come intuì nel XIX secolo
Hermann Dessau) da un unico biografo, che ha collazionato materiali più
antichi. Sulle fonti dell’Historia
Augusta cfr. le rassegne di T.D. BARNES, “The Sources of the Historia
Augusta”, in (G. Bonamente-G. Paci eds.) Historiae Augustae Colloquium Maceratense, Bari, Edipuglia, 1995, 1-34 e di D.
ROHRBACHER, “The Sources of the Historia Augusta reexamined”, Histos 7 (2013) 146-180 (ove ampia
bibl.). Il dibattito si è incentrato in primo luogo sul presunto autore
della cosiddetta Kaisergeschiche, che
alcuni vorrebbero identificare con un tal Eusebius Nanneticus (di Nantes) (F.
JACOBY, Fr. Gr. Hist., II, 101, 2,
480-482). Altri si limitano a riconoscere, in questo storico, esclusivamente la
principale fonte del biografo dell’Historia
Augusta per il periodo ricompreso tra il 270 e la morte di Carus: vd.,
variamente, da un canto H. SIVAN, “The Historian Eusebius (of
Nantes)”, JHS 112 (1992) 158-16
e, dall’altro, R. SUSKI, “Why Eusebius of Nantes was not the Author
of Kaisergeschichte”, Classica
Cracoviensia 9 (2005) 43-71. Altra bibl. sul tema in ROHRBACHER, art. cit.,
173 ss. Cfr. anche “Appendice. Discussione sulle fonti
dell’Historia Augusta”, in Historiae
Augustae Colloquium Maceratense, 29-34.
[40] Nuptae prius consulari viro impetrare solent
a principe, quamvis perraro, ut nuptae iterum minoris dignitatis viro
nihilominus in consulari maneant dignitate: ut scio Antoninum Augustum Iuliae
Mamaeae consobrinae suae indulsisse.
[41] J. STRAUB, “ ‘Senaculum, id est mulierum
senatus’ ”, BHAC
(1964/65), Bonn, Rudolf Habelt Verlag, 1966, 221-240.
[42] S. RATTI,
Polémiques entre Païens et Chrétiens, Paris, Les Belles
Lettres, 2012, 11 ss., 179 ss.
[43] S. RATTI,
L’Histoire Auguste. Les païens et les chrétiens dans
l’Antiquité tardive, Paris, Les Belles Lettres, 2016, 160 ss.
[44] S. RATTI, Antiquus
error. Les ultimes feux de la rèsistance païenne. Scripta varia augmentés de cinq
études inédites, Turnhout, Brepols Publishers, 2010, 211-215;
ID., L’Histoire Auguste, 110 s.
[48] G. LERNER, “The Origin of
Prostitution in Ancient Mesopotamia”, Signs
11 (1980) 249-254; The Creation of
Patriarchy, Oxford-New York, Oxford University Press, 1989, 123-140; G.R.
DRIVER-J.C. MILES, The Assyrian Laws,
Oxford, Clarendon Press, 1935; G. CARDASCIA, Les lois assyriennes, Littérature Anciennes du Proche-Orient 2,
Paris, Cerf, 1969.
[49] De
morte persecutorum 13.1: Postridie propositum est edictum quo cauebatur, ut religionis illius
homines carerent omni honore ac dignitate, tormentis subiecti essent, ex
quocumque ordine et gradu uenirent, aduersus eos omnis ualeret, ipsi non de
iniuria, non de adulterio, non de rebus sublatis agere possent.
[50] Cfr., per esempio, Tertull. De monogamia 9.3: Non et
nubere legitime [non] potest repudiata et, si quid taliter commiserit sine
matrimonii nomine, non capit elogium adulterii, qua adulterium in matrimonio
crimen est.
[51] Y. THOMAS, “La divisione dei sessi nel diritto
romano”, in (G. Duby-M. Perrot dir.) Storia delle donne.
L’antichità (P. Schmitt Pantel ed.), Roma-Bari, Laterza,
1990, 106 ss.
[54]
Gellius N.A. 5.19.8-9. L’adrogatio era un atto negoziale solenne,
che aveva luogo innanzi ai comizi curiati: in tal modo un pater familias s’assoggettava, divenendone filius, alla potestà d’un
altro pater.
[55] Cf.
Ulpianus 27 ad Sabinum D. 1.5.24: Lex naturae haec est, ut qui nascitur sine
legitimo matrimonio matrem sequatur, nisi lex specialis aliud inducit.
[56] Il ius conubii spetta ai cittadini
d’una medesima civitas o agli
stranieri cui sia stato concesso da un trattato (foedus).
[58] La
presunzione è un «artificio» della scienza giuridica. Oggi,
secondo le dottrine del diritto civile, parleremmo, n questo caso, di
presunzione assoluta, non suscettibile, cioè, di prova contraria: tale
era la presunzione di concepimento durante il matrimonio: per un confronto cfr.,
a tal riguardo, l’art. 232 1° comma ac.c., nonché F. SANTORO
PASSARELLI, Dottrine generali del diritto
civile, 9a ed., Napoli, Jovene, 1980, 299. Nel diritto romano non esiste un
vero e proprio disconoscimento della paternità. In Ulpianus 9 ad Sabinum D. 1.6.6 (Filium eum definimus, qui ex viro et uxore
eius nascitur. sed si fingamus afuisse maritum verbi gratia per decennium,
reversum anniculum invenisse in domo sua, placet nobis Iuliani sententia hunc
non esse mariti filium. non tamen ferendum Iulianus ait eum, qui cum uxore sua
adsidue moratus nolit filium adcognoscere quasi non suum. sed mihi videtur,
quod et Scaevola probat, si constet maritum aliquamdiu cum uxore non
concubuisse infirmitate interveniente vel alia causa, vel si ea valetudine
paterfamilias fuit ut generare non possit, hunc, qui in domo natus est, licet
vicinis scientibus, filium non esse. «Definiamo figlio chi nasce da
un uomo e da sua moglie. Ma se ipotizziamo che un marito sia stato assente,
tanto per dire, dieci anni, e poi, tornato, abbia trovato a casa sua un bambino
di un anno, <in proposito> ci pare bene approvare Giuliano, secondo cui
questi non è figlio del marito. Giuliano, per altro verso, afferma non
doversi tollerare che colui, il quale abbia dimorato ininterrottamente con la
propria moglie, non voglia riconoscere il figlio come se non fosse suo. Ma a me
sembra <vero> ciò che anche Scevola approva, e cioè che, se
consti che il marito per un certo tempo non abbia giaciuto con la propria
moglie per un’infermità intervenuta o per altra causa, o se il
padre di famiglia sia stato in condizione di salute tale da non poter generare,
<allora> il nato in casa, sebbene i vicini credano <altrimenti>,
non è suo figlio») si individua, piuttosto, un rifiuto del figlio in
quanto tale, che il padre si limita a non accettare quale sua legittima prole:
sul punto cfr. F. ZUCCOTTI, “Vivagni XVI-XVII. Il diritto romano e
l’antropologia giuridica. Il rischio di una soverchia
superficialità”, RDR
(2016-2017) n.s. I-II, 64 s.
[59] J.J.
BACHOFEN, Il matriarcato. Ricerca sulla
ginecocrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, tr.
it. di G. Schiavoni, Torino, Einaudi, 1988, I, 70-71, 82-83; II, 630, 639, 1003
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