Università di Pisa
Brevi note per una conciliazione delle fonti sui fatti del 494 a.C.:
alle radici del potere tribunizio
SOMMARIO: 1. Premessa sul metodo. – 2. Composizione sociale della civitas ed antefatti storici della crisi. – 3. Alle radici della secessio. Una questione di metodo: la
strategia della plebe per la fissazione di un punto d’incontro. – 4. I tribuni rivoluzionari della
plebe: elezione e potere. – 5. Ius iurandum plebis, ius
iurandum populi. L’egida divina sulle leggi sacrate. – 6. Per una possibile ricostruzione
conservativa del ψῆφος patrizio
di Dionysius 6.90.2. – Abstract
Credo che una premessa sia assolutamente necessaria a questo
breve lavoro. L’idea che lo guida non è, anzitutto, quella di inserirsi nello
sterminato dibattito che grandi Maestri del passato[1] hanno
condotto sull’interpretazione storiografica dell’emersione tranciante del
contropotere plebeo nel corso del primo secolo di vita della res publica; non potrebbe essere quella,
onde evitare di perdersi a ritroso nei meandri dell’analisi leggendaria
dell’età arcaica, di discutere delle cause prime dei fenomeni analizzati: che,
del resto, la storia sia un flusso inscindibile di cause ed effetti razionalmente
congiunti è circostanza tutta da meditare e di cui, in ogni caso, chi scrive,
costretto da un tempo umanamente limitato, non deve pagare il fio. Lo scopo di
questa indagine sarà, allora, quello di valorizzare la coerenza sistematica
delle fonti antiche piuttosto che di adagiarsi sull’una o sull’altra mediazione
ideologica delle stesse.
Quello che qui si vuole prendere in considerazione è un breve
arco di storia romana che si apre, secondo il computo dei «Fasti consolari
capitolini», nel 509 a.C., data natale del sistema repubblicano, chiudendosi
nel 449 a.C., con l’approvazione delle leges
Valeriae Horatiae. Di questo lasso temporale interessa, tuttavia,
precipuamente, l’anno 494 e, in particolare, secondo la narrazione dionisiana -
che, si sa, non segue la sopra adottata convenzione temporale[2] - le
poche ore dal dialogo tra Bruto e Agrippa al misterioso voto patrizio di
ratifica all’elezione dei tribuni.
In assenza di ulteriori riscontri, pur consapevoli del divario
temporale tra la ricostruzione narrativa delle fonti e gli eventi storici
considerati, l’accettazione, non acritica, dei dati da queste provenienti pare,
a chi scrive, la via più opportuna da percorrere. E, del resto, i fatti narrati
sono, a mio avviso, nelle linee di fondo concordanti, molte volte non espressi
in una terminologia giuridica coerente, ma ciò, mi pare, si debba porre in
relazione con le contingenze temporali di un momento storico caratterizzato da
fermenti para-rivoluzionari e costituzionalmente fluido, che, se, da un lato, impone
una lettura giuridicamente orientata degli atti normativi, politici e religiosi
posti in essere dalle due opposte fazioni sociali, allo stesso tempo consiglia
di valorizzarne la portata pratica, più dell’aspetto formale. Siamo, in altri
termini, di fronte al diritto pubblico embrionale della civitas, alla sua genesi fattuale: in larga misura essa
determinerà, non lo si può negare, le forme della legalità repubblicana matura,
e, pur tuttavia, resta uno iato, che non può essere eliminato, tra procedimento
politico di creazione ordinamentale e sua cristallizzazione legale, che
sconsiglia, a mio avviso, mi pare opportuno premetterlo sin da ora, di
applicare agli strumenti di superamento della crisi sovrastrutturale del 494
a.C. le rigide categorizzazioni normative di epoca post-decemvirale[3].
Giacché poi, per evitare quel regressus
ad infinitum di cui poc’anzi si rammentava il pericolo, si dovranno porre solide
fondamenta, credo che esse si possano individuare nella composizione sociale
della civitas della fine del VI
secolo a.C., nella divisione tra patricii,
discendenti delle antiche gentes, che
avevano partecipato alla fondazione dell’Urbs
o che da tempo immemore s’erano aggregate, ramificazioni genealogiche
successive ai patres consiglieri dei
re, facenti parte del più risalente senato cittadino[4], e plebs, moltitudine variegata di stirpi[5] di
mutevole consistenza economica e origine etnica, coagulatesi, per ragioni di
convenienza, intorno all’ordinamento della civitas
quiritaria, cui originariamente non appartenevano[6], e che,
pure, nel seno della nuova costituzione centuriata dovettero assumere un ruolo
rilevante nella difesa di quella struttura comunitaria, che, tuttavia, non più
che saprofiti le considerava[7].
Dell’ordine plebeo la componente più ricca, afferente al grande
commercio, aveva risentito della contrazione economica seguente alla caduta dei
Tarquini, ma si poneva per lo più il problema di come conquistare un ruolo
politico, stretta come era dalla posizione minoritaria all’interno del senato
e, soprattutto, nel comizio centuriato, dal quale venivano eletti i praetores, titolari collegiali di quell’imperium, prima indiviso, che era stato
del rex[8], e dalla
propria incapacità di mettere a frutto politicamente i numeri della plebe più
povera, massa amorfa, spesso succube dei propri soggioganti; gli strati
inferiori, piccoli artigiani, commercianti al dettaglio e prestatori retribuiti
di lavoro manuale, nonché contadini assegnatari regi di infimi lotti di terra,
vennero in senso stretto travolti dal tracollo dell’economia regionale e,
logorati dalla continua necessità di abbandonare i campi per prendere parte a
spedizioni militari, dovettero, prima, cedere i propri terreni agricoli, poi,
la propria forza lavoro al vicino più forte, asservendosi, in contropartita
delle somme necessarie al mantenimento della propria famiglia, ai feneratores[9].
Ancora, nel 495 e nei primi mesi del 494 a.C. ragioni belliche
favorivano i patricii, che sfruttavano la paura di nemici
esterni per posticipare ogni trattativa con l’ordine plebeo: prima i Volsci
(Livius 2.23.1), poi, i Sabini e gli Aurunci (Livius 2.26.1 ss.), infine, insieme,
gli Equi, gli Ernici, i Sabini e i Volsci (cfr. Livius 23.30.3 e Dionysius
6.50.2), tenevano lontane dal dibattito politico cittadino le difficoltà
economiche e le rivendicazioni politiche della plebe. Eppure, con l’elezione
dei nuovi consoli del 494, Virginio e Vetusio, e l’uscita di carica
dell’acerrimo nemico Appio Claudio la plebe aveva ormai preso quel coraggio e
quella coscienza di classe che precedentemente le erano sempre mancati,
impediva ai consoli il normale svolgimento dell’attività di giudizio e si
riuniva con il calare della notte in consultazione informale, fissando una
linea comune d’azione per ogni questione da discutersi nel foro (Livius 2.27.1
ss.; 2.28.1)[10]. Con il ritiro volontario
del gradito dittatore Manio Valerio, a cui era stato impedito di rispettare le
promesse a tempo fatte al popolo riguardo alla cancellazione dei debiti, e
tentando i consoli, di nuovo, la via di disgregare i propositi interni della
plebe, mercé la conservazione dell’esercito in armi con il pretesto di una
ripresa delle ostilità contro gli Equi, la pazienza della vexata pars venne meno: C. Sicinio Belluto guidava la componente
plebea dell’exercitus sul Monte Sacro
e dava inizio alla prima secessione, Livius 2.32.1-3 [11]:
…Itaque quamquam
per dictatorem dilectus habitus esset, tamen quoniam in consulum verba iurasset
sacramento teneri militem rati, per causam renovati ab Aequis belli educi ex
urbe legiones iussere. Quo facto maturata est seditio. Et primo agitatum
dicitur de consulum caede, ut soluerentur sacramento; doctos deinde nullam
scelere religionem exsolui, Sicinio quodam auctore iniussu consulum in Sacrum
montem secessisse.
Non moto di popolo minuto, questa secessio, ma opposizione ferma della parte non gentile dell’exercitus centuriatus, che portava a
compimento le minacce palesate già prima dell’ultima ripresa delle ostilità con
i popoli confinanti: «libertatem
unicuique prius reddendam esse quam arma danda, ut pro patria ciuibusque, non
pro dominis pugnent» (Livius 2.28.7).
Mi pare anzitutto significativo, da questo punto di vista, che la
classe plebea, non avendo mai trovato animo di accendere la scintilla
rivoluzionaria nei precedenti numerosi tentativi di resistenza dei debitori
all’aggressione da parte degli usurai (cfr. Livius 2.27.8 ss.), insorga in armi
di fronte all’ennesimo tentativo del patriziato di rimandare l’apertura di una
trattativa sulle nuove condizioni della convivenza tra gli ordini nella sua
componente titolare di reddito, prescindendo completamente dalla massa inurbata
dei nullatenenti.
E i capite censi, del resto, così come i clientes e i debitori in ceppi rappresenteranno un pericolo per la
buona riuscita dell’ascesa sociale plebea, se, come a me sembra, c’è da prestar
fede, se non alle parole di Appio, alla circostanza, espressa in Dionysius
6.63.3-4, per cui la corruttibilità di questa massa la teneva vincolata al
patriziato, che con misere concessioni avrebbe potuto assoggettarla ad una leva
irregolare.
Lo scontro, allora, diviene immediatamente politico, prima di
tutto politico.
La richiesta di liberare i debitori asserviti mediante nexum o aggiudicati al creditore (subito
accolta dagli emissari senatori, Dionysius 6.83.4), è ormai superata, è
divenuta solamente un ponte per allargare il favore alla secessio presso la plebe più povera e riuscire a riscuotere ciò
che, invece, davvero interessa: il diritto di eleggere propri rappresentanti
(Dionysius 6.87.3)[12].
C’è, a tal punto, un fisiologico impasse della spinta
rivoluzionaria, le trattative si protraggono; di certo, v’è la paura di
aggressioni nemiche, ma anche la volontà dell’aristocrazia patrizia di non
pagare un prezzo troppo alto, c’è che la creatività rivoluzionaria, che aveva
escogitato un così potente strumento di lotta, la secessio, ora doveva mettere a punto non solo un novero di
richieste politiche funzionali al proprio scopo, ma pure meccanismi di
guarentigia e forme di autotutela, i quali assicurassero stabilità alle
conquiste sociali, economiche, politiche ed eventualmente costituzionali, che
dalla conclusione vittoriosa della lotta si attendevano[13].
E qui, mi pare, si debba mettere in luce un interessante dato: lo
ius è un monopolio patrizio, di
conseguenza, ha natura classista[14]; non è
tramite esso che la plebe avrà securtà delle sue conquiste: ciò a cui il senato
può vincolarsi conformemente allo ius,
nello stesso ius può essere sciolto[15]. Con il
diritto ‘umano’ come avversario, le uniche chance
di non vedere revocate in breve le concessioni fatte vengono ai plebei
dalla protezione divina dei patti e da un po’ di sano terrore che la
moltitudine in ogni epoca può far calare sulla classe dirigente[16]. Per
questo non è opportuno, a mio avviso, cercare forzosamente di associare una
qualifica perfetta sotto il profilo giuridico a tutti i fatti del 494 a.C. che
pure possano ambire ad una tale rilevanza[17]. Ciò
che la plebe è scrupolosa nel seguire è, se esiste, la norma
giuridico-religiosa preesistente[18],
tuttavia, l’opposizione alla sovrastruttura cittadina, che ella percepisce come
estranea e patrizia, è per il resto totale. L’idea diffusa è che solo
attraverso i fatti e l’azione rivoluzionaria la plebe potrà fissare le
fondamenta di una comunità alternativa, nuova ed autosufficiente, capace di
interloquire politicamente con i preesistenti organi della civitas[19].
Proprio in quanto non appare possibile fissare regole comuni di
convivenza[20], bisogna affidare la tutela
della plebe a dei campioni della rivoluzione, che veglino sul rispetto della
sua posizione sociale, con coscienza, non tanto giuridica, quanto politica, il
cui potere, oltre che posto sotto l’egida divina, sia auto-consistente,
puntellato, cioè, dalla forza della moltitudine.
Ad onore del vero, neppure deve essersi trattato di una scelta
strategica spontanea della plebs,
quella di mantenere i propri rappresentanti fuori dall’ordinamento della civitas, rinunciando alla partecipazione
in nome della rivoluzione[21]; del
resto, pur non prevalendo in senato l’impostazione reazionaria di Appio Claudio
circa la repressione di quella che egli riteneva una deliberata seditio, il suo monito, nelle parole
forse leggendarie attribuitegli dall’Alicarnassense, a non mutare le
istituzioni dei padri e a non concedere pari diritti politici ad una classe
così infima di persone avrebbe fatto illo
tempore argine all’ardire plebeo (Dionysius 6.61.1-2), favorendo,
nondimeno, alla distanza, le successive conquiste istituzionali degli
appartenenti a quell’ordine.
Infatti, il risultato della trattativa, condotta attraverso le
misurate parole di L. Giunio Bruto e Menenio Agrippa, fu, anzitutto, un patto,
assimilabile ad un foedus[22], con
cui, oltre ad impegnarsi alla rimessione dei debiti, i patres concedevano ai plebei di eleggere propri rappresentanti con
il diritto di difendere (auxilium ferre)
i membri del loro ordine, che fossero stati privati arbitrariamente dei propri
diritti o assoggettati ad atti di coercitio
dai magistrati della civitas
(Dionysius 6.87.3 e 6.89.1 e Livius 2.33.1 e 4.6.7)[23]. I patres ottenevano di mantenere intatte
le istituzioni cittadine, riconoscendo una comunità alternativa alla civitas, quella plebea, dotata di propri
magistrati, con funzione meramente garantista[24]. La
vaghezza delle facoltà di questi difensori della plebe e una sostanziale
assenza di guarentigie terrene sembrava, di certo, far gioco a favore dei
patrizi, ma proprio quella genericità, orientata nei decenni immediatamente
successivi in senso onnicomprensivo[25],
associata alla geniale conversione dell’antica sanzione criminale della sacertà[26] in
strumento di lotta di classe, in considerazione della sua immediata
applicabilità e dell’inesistenza di qualsiasi vincolo procedurale[27],
imprimerà una decisiva accelerazione al percorso per la partecipazione dei
plebei al governo della res publica.
Nel quadro incerto delle fonti si pone, in primo luogo, il problema
di stabilire chi abbia eletto i primi tribuni, non potendosi qui prestar fede
all’opinione di Dionigi, che riteneva vi avesse provveduto il comizio curiato[28]. La
contingenza rivoluzionaria mi suggerisce di intendere che l’elezione debba
essere stata compiuta, senza particolare ossequio delle forme, da un’assemblea
che è difficile perfino denominare ‘concilio della plebe’: si trattava,
infatti, con buona probabilità, di un consesso composto dalla sola plebe in
armi e da quella che l’aveva via via raggiunta sul Monte Sacro durante la secessio[29].
È dopo questa elezione che Bruto, secondo il racconto di Dionigi,
6.89.2, arguendo la fragilità della conquista politica, consiglia alla plebe
presente sul monte di rendere sacra e inviolabile la magistratura appena creata[30]. Il
testo della rogatio è tranciante:
chiunque attenti all’incolumità fisica del tribuno o ne coarti la volontà, sia sacer e i suoi beni consacrati alle
divinità plebee, chiunque uccida l’uomo sacer
non venga considerato assassino (Dionysius 6.89.3 e Festus, De verb. sign.,
v. Sacer mons, p. 424 L[31]). Al
solo scopo di estendere il precetto sanzionatorio e il conseguente impegno
anche a quella plebe non presente sul Monte Sacro, dando alla delibera,
attraverso una forma di coercizione diffusa, la forza di una vera lex nel neonato ordinamento
rivoluzionario, si consolidava la sua inderogabilità con un giuramento di tutti
gli individui appartenenti alle stirpi plebee[32] e, in
assenza di una base giuridico-costituzionale della comminatoria di pena, si
colmava questa debolezza religione,
qualificando come atto gradito agli dei la consacrazione del capo del
contravventore, in modo da porre un tale iussum
plebis sotto l’egida protettiva della più antica e stringente sanctio (interna) della storia giuridica
romana[33].
L’intangibilità della magistratura tribunizia si impone a tutto
il populus per effetto
dell’approvazione del testo del primigenio plebiscito da parte della plebe
riunita sul Monte Sacro e la sua coercibilità è rimessa al potere massivo
dell’intero ordine mercé il giuramento di imporne il rispetto al patriziato[34]. La
speranza dei patres di aver dato alla
plebe una mera forma di rappresentanza “sindacale” si era infranta, non avevano
che in minima parte contribuito a plasmare i poteri del tribuno, concedendo
soltanto l’illusione libertaria del ‘diritto di ausilio’, e, adesso, si
trovavano a fronteggiare un soggetto dotato di una forza politica e giuridica
potenzialmente sconfinata, almeno pari alla capacità materiale ed effettiva
della plebe di garantirne l’intangibilità. Per questo, e qui mi pare di dover
mettere bene in risalto un aspetto spesso sottovalutato, il tribuno in realtà
può fare, avverso il potere di governo dei consoli e anche a livello
propositivo, tutto ciò che la forza
rivoluzionaria della plebe è in grado di consentirgli[35]. Mi sembra che una simile idea possa desumersi
da Livius 2.54.5-6, attraverso le lamentele dei consoli Lucio Furio e Caio
Manlio, posti sotto accusa dal tribuno Gaio Genucio nel 473 a.C.:
…quod si consulatus
tanta dulcedo sit, iam nunc ita in animum inducant consulatum captum et
oppressum ab tribunicia potestate esse; consuli, velut apparitori tribunicio,
omnia ad nutum imperiumque tribuni agenda esse; si se commoverit, si respexerit
patres, si aliud quam plebem esse in re publica crediderit, exilium Cn. Marci,
Meneni damnationem et mortem sibi proponant ante oculos.
Nel passo il consolato viene descritto come una magistratura
sotto scacco, l’imperium risulta
nella sostanza prigioniero del potere di azione dei tribuni: o una volta
assunta la carica si rinuncia ad esercitarlo od ogni gesto in difesa dei patres potrà condurre ad una condanna
all’esilio o, peggio, alla morte. Il console nulla può proporre al popolo e
nulla può impedire ai tribuni se ciò non è conforme all’interesse della plebs, assiste impotente all’espansione
autoritaria della tribunicia potestas
e riesce a contrapporvisi solo abbandonando la propria veste legale[36].
Il tribuno può, nella sua fase di vita extra-costituzionale
(anche tramite gli edili o i suoi viatores),
esercitare una forma di coercitio
rivoluzionaria al fine di garantire il rispetto delle prerogative e delle
decisioni politiche della plebe[37], nonché
far approvare al concilium plebis
testi normativi capaci di vincolare pure la componente patrizia del populus: se, del resto, gli fosse stato
impedito, ciò avrebbe comportato una violazione della lex tribunicia prima, nel 492 ulteriormente rafforzata[38].
Mi pare che uno scorcio della trattazione liviana condensi e testimoni
tutto quanto fin qui affermato:
Livius 2.56.6-14:
Principio statim anni nihil prius quam de lege agebatur. Sed ut inuentor legis Volero, sic Laetorius, collega eius, auctor cum
recentior tum acrior erat. Ferocem faciebat belli gloria ingens, quod aetatis
eius haud quisquam manu promptior erat. Is, cum Volero nihil praeterquam de
lege loqueretur … itaque deficiente oratione, "quando quidem non facile
loquor" inquit, "Quirites, quam quod locutus sum praesto, crastino
die adeste; ego hic aut in conspectu uestro moriar aut perferam legem". Occupant tribuni templum
postero die; consules nobilitasque ad impediendam legem in contione consistunt.
Summoueri Laetorius iubet, praeterquam qui suffragium ineant. Adulescentes
nobiles stabant nihil cedentes uiatori. Tum ex his prendi quosdam Laetorius
iubet. Consul Appius negare ius esse tribuno in quemquam nisi in plebeium; non
enim populi sed plebis eum magistratum esse; nec illam ipsam submouere pro
imperio posse more maiorum, quia ita dicatur: "si uobis uidetur,
discedite, Quirites". Facile contemptim de iure disserendo perturbare
Laetorium poterat. Ardens igitur ira tribunus uiatorem mittit ad consulem,
consul lictorem ad tribunum, priuatum esse clamitans, sine imperio, sine
magistratu; uiolatusque esset tribunus, ni et contio omnis atrox coorta pro
tribuno in consulem esset, et concursus hominum in forum ex tota urbe
concitatae multitudinis fieret.
Siamo nel 470 a.C., Publilio Volerone aveva reso nota l’anno
precedente, durante il suo primo incarico, la propria intenzione di rimettere
al comizio tributo, epurato dagli elementi patrizi del populus (Livius 2.56.2 e 2.60.5, cfr. nt. 28), l’elezione dei
tribuni, per garantire, escludendo i clientes
delle famiglie patrizie, che solo i plebei titolari di proprietà terriere
potessero parteciparvi. Il collega
Letorio, uomo di scarsa eloquenza, ma di ferma risoluzione, raccoglie questa
proposta e la presenta davanti alla plebe riunita in assemblea. Il giorno della
riunione il foro è gremito e i tribuni pronti a parlare; l’iniziativa, però,
provoca la reazione immediata dei consoli e di tutto il patriziato, poiché
mutando la competenza e la composizione stessa del collegio votante andava ad
incidere, eradicandola, sulla possibilità dei patrizi di controllare quell’elezione,
lì privava di quello che essi ritenevano un diritto acquisito, di far pesare il
voto dei propri clienti su questa scelta, plasmando, inoltre, un consesso
nuovo, mai oggetto di trattativa durante la secessione. Di fronte al tentativo
patrizio di intromettersi nell’assemblea, il tribuno non esita a far arrestare
gli intervenuti, il console Appio più volte minaccia Letorio, rammentandogli la
sua totale mancanza di potere, d’essere per la civitas un semplice privato, di non poter pertanto ordinare ai
patrizi di ritirarsi dall’assemblea e di come l’imperium sia, a ogni effetto, l’unica legittima fonte di
coercizione, ma il tribuno non arretra: non sarà forse neppure un magistrato,
come sostiene Appio, e, tuttavia, gli si contrappone con un’identica forza, consolidata
dalla minaccia dell’insurrezione dei plebei riuniti nel foro. Poco importa che,
infine, gli animi si plachino e la discussione venga rimessa all’assemblea
senatoria e al comizio (questo organo, infatti, approverà tutto quanto proposto
in quella sede dal tribuno): il potere tribunizio esiste in via di fatto e, a
maggior ragione, come forma di pressione politica sugli organi legali della
comunità.
Quello che mi pare precipuamente significativo del lungo episodio
narrato da Livio è il fatto che sia palesata la possibilità per il tribuno, a
pochi anni dalla conclusione dell’estenuante trattativa per il rientro della
secessione, di plasmare liberamente in via legislativa, cioè tramite
plebiscito, non soltanto l’ordinamento plebeo, incidendo sulle “regole del
gioco costituzionale” fissate dal sopra ricordato foedus, ma, a prestar fede alla narrazione liviana (Livius 2.60.5: «Plus enim dignitatis comitiis ipsis
detractum est patres ex concilio
submovendo…»), pure la composizione per tribù di un’assemblea cittadina,
forgiando un quid novi di difficile
collocazione ordinamentale, anche grazie all’esercizio di un illimitato potere
di coercizione rivoluzionaria[39].
Oltre a questo, ogni tribuno avrebbe potuto trascinare in
giudizio i contravventori dei precetti imposti dalla plebe a tutti i Romani o
punire i magistrati patrizi che fossero andati, nella loro azione di governo,
contro gli interessi dell’ordine plebeo, irrogando, a seguito di un giudizio
assembleare del concilio, attraverso un potere, solo in via di fatto acquisito[40],
sanzioni laiche e non sacrali[41], seppur
sotto la minaccia che qualsiasi tentativo di ostacolarlo sarebbe stato
considerato come aggressione nei suoi confronti, implicando l’automatica
conversione del colpevole in homo sacer[42].
È una situazione, questa, che perdurerà tra il 494 e il 451 a.C.,
imponendo, poi, una riflessione in fase di redazione della legge delle XII
Tavole, nonché al momento della restaurazione post-decemvirale. Nel primo corpo
normativo, infatti, fu assegnata la competenza per tutti i procedimenti
criminali che potevano portare alla messa a morte di un cittadino al comizio
centuriato[43], mentre una delle leggi
Valerie-Orazie fisserà il principio in base al quale ai plebisciti sia
consentito dettare regole vincolanti per tutto il populus con il consenso del senato[44].
Già la cogenza del foedus,
quale accordo giuridicamente vincolante per entrambe le parti, riposava, in effetti,
su un impegno solenne assunto davanti agli dei mediante un sacramentum: esso aveva per oggetto la remissione dei debiti e la
concessione ai plebei della possibilità di eleggere propri capi dotati del
potere di ius auxilii. Ancora, era
corroborata da un giuramento l’imperatività della lex sacrata; proprio perché essa era stata votata in un contesto
sedizioso, da un organo di parte, per impegnarsi a farne osservare le
statuizioni, la plebe aveva avvertito la necessità di vincolare a ciò i propri
membri di fronte alle divinità. Essendo la sacertà un automatismo sanzionatorio
ad esecuzione diffusa, il sacramentum
serviva ad imporre ad ogni singolo membro della comunità plebea di farsi
portatore materiale della pena sacrale, quando le circostanze lo avessero reso
necessario. In altri termini, nel contesto del neonato ordinamento plebeo lo ius iurandum plebis si limitava a far
nascere religione un dovere, quello
di consacrare agli dei il capo del contravventore, che non esisteva iure[45].
È quanto con chiarezza
apprendiamo da Livius 3.55.7-10. Lo storico augusteo, infatti, dopo aver
sorvolato sulla difesa sacrale dell’inviolabilità tribunizia narrando i fatti
del 494, si sofferma indirettamente sul contenuto del giuramento solo al
momento di descrivere il restauro dell’istituto da parte dei consoli del 449
a.C., Valerio Potito e Orazio Barbato. Con una delle proprie rogationes, infatti, essi vollero che
fosse sancita, non più solo religione,
ma per legge, l’intangibilità di questi magistrati e che la medesima forma di
tutela valesse per gli edili e per gli iudices
decemviri:
…et cum religione inuiolatos eos, tum lege
etiam fecerunt, sanciendo ut qui tribunis plebis aedilibus iudicibus decemuiris
nocuisset, eius caput Ioui sacrum esset, familia ad aedem Cereris Liberi
Liberaeque uenum iret, … aedilem prendi ducique a maioribus magistratibus,
quod, etsi non iure fiat…
In base a questa norma,
dunque, la consacrazione a Giove del capo del profanatore tutelava i “difensori
della plebe”; essa, tuttavia, non avrebbe minacciato l’incolumità del
magistrato maggiore che avesse arrestato, o coercito in altro modo, un edile
plebeo;
…tamen argumentum esse non haberi pro sacro
sanctoque aedilem; tribunos uetere iure iurando plebis, cum primum eam
potestatem creauit, sacrosanctos esse.
Pertanto, secondo le
parole di Livio, la legge non aveva potuto conferire quell’aura piena di
intangibilità agli edili e ai giudici delle cause sui debiti: non sarebbero
stati sacrosanti e avrebbero comunque dovuto soccombere al potere dei magistrati
cum imperio. Il meccanismo
sanzionatorio era identico a quello del plebiscito sacrato del 494, di cui la
legge del 449 riprendeva fedelmente i termini, e, nondimeno, la sacrosanctitas restava fisiologicamente
fuori dello schema costituzionale repubblicano, sovvertendone la gerarchia,
senza modificarla. Per questo essa rimaneva prerogativa esclusiva del tribuno,
derivando a costui, non tanto dal dettato della disposizione normativa del 449,
quanto dal richiamo all’antico giuramento rivoluzionario[46].
Questo atto, dunque, da parte sua, aveva assolto alla funzione di rendere efficace la sanctio insita alla prima lex sacrata, eppure, ancora qualcosa
mancava sotto il profilo della stabilità della conquista ottenuta: a ciò
avrebbe posto rimedio un secondo impegno solenne. La mia personale opinione è,
infatti, che questo ius iurandum plebis,
contestuale o immediatamente successivo all’approvazione della rogatio di Bruto (su cui cfr. Dionysius
6.89.2 e Livius 3.55.10), debba essere tenuto distinto dall’altro giuramento,
descritto in Dionysius 6.89.4. Da un lato, del resto, in base alle fonti
citate, ne sono diversi gli oggetti: il primo inerendo all’osservanza dei
precetti fissati con la legge sacrata, il secondo all’impossibilità di
abrogarla[47], dall’altro, pure i
soggetti, essendo il primo atto della sola plebs
e il successivo di tutti i Romani[48].
Afferma infatti lo storico greco in quest’ultimo passo:
Dionysius 6.89.4: καὶ ἵνα
μηδὲ τὸ
λοιπὸν τῷ δήμῳ ἐξουσία
γένηται καταπαῦσαι
τόνδε τὸν νόμον, …, πάντας
ἐτάχϑη ῾Ρωμαίους
ὀμόσαι
καϑ῏ ἱερῶν ἧ μὴν
χρήσεσϑαι τῷ νόμῳ…
L’idea alla base dell’imposizione a tutto il popolo del secondo
giuramento mi pare chiara: c’è, da parte della plebe, l’intenzione di sfruttare
a pieno il momento di forza, evitando che la ripresa del patriziato,
l’indebolimento dei propri capi o il venir meno della spinta rivoluzionaria
possa nel futuro portare i consoli a proporre l’abrogazione della norma
sull’inviolabilità tribunizia con la conseguenza di rimettere il tribuno
all’arbitrio del potere d’imperium.
Siamo, come già si è detto, alle origini dell’elaborazione romana
del concetto di lex, così, anche la
sua struttura è embrionale. Il rispetto del precetto contenuto nelle leges sacratae era garantito dalla
minaccia della consecratio capitis et
bonorum, che ne costituiva la sanctio;
il giuramento di tutti i Romani suppliva alla necessità di dotarla di un
apparato protettore tale da assicurarne la stabilità nel tempo, impedendone pro futuro la messa in discussione, una sanctio anche questa, dunque, ma esterna[49], che si
imponeva mediante l’invocazione rivolta alle divinità di colpire come sacrilego
colui che fosse risultato spergiuro[50].
C’è, è innegabile, un complesso rapporto di consolidamento tra
questo giuramento e la lex sacrata
del 494, che va oltre la dichiarazione della sua sempiternità. La sacertà, da
tempo immemore irrogata per comportamenti contrari allo ius sacrum, era stata, in quella convulsa fase sediziosa,
estrapolata dal suo contesto ed applicata a condotte di rilevanza tutta umana.
La sacrosanctitas tribunizia, del
resto, altro non era che una forma “celata” di intangibilità politica:
attraverso questo giuramento, imposto, giova ricordarlo, in un momento di
evidente debolezza dell’altra parte, la plebe otteneva immediatamente di sanare
questa forzatura, in quanto, dal compimento di quell’atto, la disapplicazione
dei precetti della legge sacrata sarebbe certo equivalsa agli occhi degli dei
ad un’abrogazione tacita della stessa, travolgendo Roma intera sotto la loro
ira. Il tentativo di ledere la figura dei tribuni diveniva, per questa via, il
presupposto, sebbene meramente potenziale (dovendo legarsi ad una condotta
negligente sul piano sanzionatorio), della compromissione dei rapporti tra i
Romani e il proprio Olimpo e la sacertà rivoluzionaria recuperava la sua
originaria natura di sanzione associata a comportamenti che, per lo meno in
modo indiretto, recavano offesa alla divinità[51].
Alcune brevi riflessioni conclusive, infine, mi pare si debbano
dedicare alla notizia, invero abbastanza isolata nel quadro delle fonti, per cui
l’Alicarnassense alluderebbe ad un voto patrizio intervenuto a ratificare la
magistratura plebea.
Per sua natura una testimonianza così priva di termini di
confronto pone senza dubbio il sospetto circa la sua veridicità e, tuttavia,
convinzione di chi scrive è che il racconto degli antichi si possa emendare e
mettere in discussione solo in presenza di vizi logici o di incoerenze
insanabili emergenti dal raffronto testuale delle divergenti tradizioni.
Pertanto, è utile sottoporre la notizia ad un attento vaglio critico, fosse
pure per decretarne la totale inattendibilità. Afferma lo storico greco:
Dionysius 6.90.2: ἀποδόντες
δὲ καὶ τοῖς ἐν τῇ πόλει θεοῖς
καριστήρια, καὶ τοὺς
πατρικίους
πείσαντες ἐπικυρῶσαι τὴν ἀρχὴν ψῆφον ἐπενέγκαντας…
Dopo alcune celebrazioni religiose di ringraziamento agli dei
protettori della Città, i plebei chiesero ai patrizi di convalidare con decreto
la magistratura.
Stante l’essenza tipica del foedus, perfezionato tra la comunità patrizia e
quella plebea ed avente ad oggetto la creazione della magistratura tribunizia
ed il conferimento alla stessa dello ius
auxilii, quale accordo idoneo a
far nascere in capo alle parti reciproci obblighi giuridici sanzionati di
fronte agli dei, mi pare, anzitutto, che, in via logica, si debba pervenire,
sotto il profilo oggettivo, a distinguerne il riconoscimento senatorio di cui
in Dionysius 6.90.2, trattandosi, altrimenti, di un’insensata replica del placet già consolidato al momento del
perfezionamento di quella conventio.
Conseguentemente, accorta dottrina[52] è
partita dall’assunto che il voto del patriziato, nell’economia della narrazione
dionisiana, dovesse riguardare l’inviolabilità tribunizia riconosciuta dalla
prima lex sacrata, e che esso non
dovesse consistere in una legislazione comiziale in cui fosse stato versato il
contenuto di tale plebiscito, anzitutto, in ragione del fatto che, secondo il
racconto di Dionigi di Alicarnasso, soggetti attivi di questa delibera
sarebbero stati solo i patrizi e non tutto il populus, poi, per una
motivazione precipuamente terminologica: in quanto il verbo ἑπικυρόω rimanda all’idea di una
ratifica, infine, perché, altrimenti,
si porrebbe un problema d’identità con la terza delle leggi Valerie-Orazie, con
il risultato di anticipare a tale momento storico la costituzionalizzazione dei
tribuni della plebe. Anche intendendo questa delibera come senatoconsulto, la
sua esistenza non meriterebbe credito. Essa sarebbe stata in primo luogo
inutile, nella misura in cui avesse avuto la finalità di vincolare i patrizi,
infatti, ciò, come detto, risultava già garantito, per lo meno indirettamente,
dal giuramento di tutti i cittadini e, in ogni caso, dalla capacità della plebe
di imporre anche con la forza l’ossequio alla propria unilaterale statuizione[53], e, di
più, anacronistica, perché avrebbe anticipato il meccanismo di parificazione
dei plebiscita alle leges disciplinato dalla lex Valeria-Horatia
de plebiscitis[54].
Condivido pienamente la sopraesposta pars destruens, e, nondimeno,
il senso delle parole di Dionigi, a mio avviso, potrebbe essere ancora diverso.
Lungi dal palesare l’esistenza di una ratifica senatoria alle leggi sacrate,
lettura che a me pare certamente non credibile, non tanto e non solo per le
esposte ragioni di diritto, ma soprattutto per il contesto politico di
quell’arco di sessant’anni che vanno dal mutamento di regime costituzionale,
fino all’entrata in vigore della legislazione decemvirale[55], il
racconto dello storiografo greco forse reca l’eco di un passaggio confermativo
dei tribuni eletti davanti al senato.
L’idea, che mi sento di avanzare in forma del tutto congetturale,
mi è suggerita, oltreché dal dato testuale del passo dionisiano[56], cui
certamente è più vicina rispetto alle decostruite altre possibili
interpretazioni, dalle indicazioni, numerosissime nelle fonti antiche, di
un’estrema risalenza dell’auctoritas
patrum, che esse, in particolare per quanto concerne la ratifica
dell’elezione dei titolari di imperium
e le decisioni di politica estera, vorrebbero addirittura operante nell’epoca
monarchica[57]. In ogni caso, pur non
essendo qui la sede per dissertare sull’attendibilità di quest’ultima
ricorrente attestazione, tale potere informa senza dubbio l’apparato
costituzionale repubblicano nell’epoca immediatamente successiva alla cacciata
dei Tarquini, come mette in luce, tra gli altri, Cicerone: «vehementer id retinebatur, populi comitia ne essent rata nisi ea
patrum adprobavisset auctoritas» (De
rep. 2.32.56)[58]. Pertanto, mi pare che,
di fronte alla creazione di una nuova magistratura, prudenza avrebbe suggerito
ai plebei di seguire rigorosamente la procedura elettiva di cui ci si avvaleva
per l’elezione comiziale dei praetores,
richiedendo al senato, tramite la propria auctoritas,
di colmare il congenito ‘difetto di capacità’ di un’assemblea[59], quella
plebea, che, al più, poteva aspirare ad esser pari a quella centuriata, ma non
certo, realisticamente, più competente di questa in fatto di elezioni
magistratuali[60].
In the
doctrine of the last century the use of the
literary sources on the birth of the plebeian
power in the early roman republic has been often object of ideological
mystification: this article is an attempt to exploit the coherence of those
sources in their own purity, starting, in particular, from the narration of
Livius and Dionysius on the facts of 494 B.C. These Authors describe clearly
the revolutionary atteinement of tribunes’ power: the menace of a military
mutiny determinates patrician’s decision to give to plebs the right of choosing their own political delegates with
restricted faculty (primarily, the ius
auxilii), but the crucial and ingenious invention of the plebs secluded on the Sacer mons is to make untouchable the
person of tribun voting in favour of leges
sacratae. The hypothesis underlined in this paper is that this tribunes’
inviolability (named sacrosanctitas)
decreed by leges sacratae and
defended by the revolutionary power of the secluded plebs makes the plebeians magistrates able to do everything against
the faculty of praetores and other
urbans delegates, also before a lex
publica gives the tribunes wider constitutional powers.
[Per la pubblicazione
degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Il dibattito sulla natura e sul fondamento del
potere plebeo, concretatosi costituzionalmente con la creazione dei primi tribuni,
era polarizzato fino alla metà del secolo appena trascorso dalla
contrapposizione tra due impostazioni antitetiche: l’ipotesi federativa e
quella legislativa, in entrambe, ideazione e statalizzazione di tale
contropotere finivano per coincidere. A titolo esemplificativo, la prima era
sostenuta dai capostipiti G.B. NIEBUHR, Histoire
romaine, trd. fr., Bruxelles 1830, 570 ss. e L. LANGE, De sacrosanctae
potestatis tribuniciae natura eiusque origine commentatio, Leipzig 1883, 40
ss.; in Italia da P. BONFANTE, Storia del
diritto romano, 4a ed., Milano 1958, 104-115; E. COSTA, Storia del diritto romano, 2a ed.,
Firenze 1920, 170 ss.; la seconda, invece, è l’ipotesi di T. MOMMSEN, Das römische Staatsrecht, 3a ed.,
Berlin 1887; E. HERZOG, Die lex
sacrata und das sacrosanctum, in Neue Jahrbücher für Philologie, 1876,
139 ss., in Italia di F.E. VASSALLI, La
plebe nella funzione legislativa, in Studi
senesi 24, 1906, 1-5 e G.
NICCOLINI, Il tribunato della plebe, Milano
1923, 46 ss. Per una rassegna completa di questo straordinario dibattito G.
LOBRANO, Fondamento e natura del potere
tribunizio nella storiografia giuridica contemporanea, in Index, 3, 1972, 233 ss.
[2] Dionigi di
Alicarnasso, infatti, adotta la convenzione di computo del tempo propria del
mondo greco, cioè quella fondata sugli anni olimpici. La conversione nel
sistema varroniano è tuttavia agevole stante che la data del primo evento
olimpico è nota e risale al 776 a.C. In Dionysius 7.1-2 si racconta che i
consoli Tito Geganio Macerino e Publio Minucio, appena insediati, dovettero
fronteggiare una grave carestia di grano originatasi dalla sedizione della
plebe. Il senato inviò ambasciatori presso Etruschi e Campani, oltreché in
Sicilia per comprarlo. Quelli diretti in Sicilia presero il mare nel secondo
anno della 72a olimpiade, 17 anni dopo la cacciata dei re (Dionysius 7.1.5:
κατὰ τὸν
δεύτερον ἐνιαυτὸν
τῆς ἑβδομηκοστῆς
καὶ δευτέρας ὀλυμπιάδος
… ἄρχοντος
Ἀθήνησιν
Ὑβριλίδου,
ἑπτακαίδεκα
διελθόντων ἐτῶν
μετὰ τὴν ἐκβολὴν
τῶν βασιλέων…). Di
conseguenza, secondo l’Alicarnassense la secessione avvenne in a.Ol.
72.1=492/491 a.C., essendo la plebe insorta sul finire di un anno, essa è
normalmente collocata negli ultimi mesi del 492. Sulla cronologia romana ricostruita
da Dionigi si veda diffusamente F. MORA, Il pensiero storico-religioso antico:
autori greci e Roma. I: Dionigi di Alicarnasso, Roma 1995, 159 ss.
[4] Livius 1.8.7; Dionysius 2.8.1-3; Cicero, De rep. 2.12.23; è del resto nativa, sia
nel suo sviluppo in senso normativo che nella sua genesi consultiva, di questa
sola parte del populus l’auctoritas (G. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe,
Milano 1992, 137 ss.), seppur, poi, di certo, successivamente al 367 a.C., essa
diviene prerogativa di tutti i senatori, anche quelli di origine plebea (V.
MANNINO, L’auctoritas patrum, Milano
1979, 132 ss.).
[5] A. GUARINO, La rivoluzione della plebe, Napoli 1975, 158: l’Autore, pur
considerando superati i dubbi circa l’organizzazione patriarcale della plebe,
metteva in luce come il vincolo di parentela, indicato da un identico nomen, andasse sotto la denominazione, corrispondente alla gens, ma significativamente difforme, di
stirps.
[6] Per i meccanismi di permeazione all’interno
della civitas di quelle genti che
costituiranno il nucleo primo della plebe rimando all’interessante contributo
di M. TORELLI, Dalle aristocrazie
gentilizie alla nascita della plebe, in Storia
di Roma, 1. Roma in Italia, a
cura di A. Schiavone, Torino 1988, 243-247 e 257 ss. La nota massima per cui plebeii gentes non habent (cfr. Livius
10.8.9 ss.), che, dopotutto, si giustificava perfettamente in base alla
composizione multietnica di tale ordine, teneva esclusa la plebs da ogni istituzione cittadina: dal senato e dal comizio
curiato, che sull’ordinamento delle antiche gens
erano modulati: «se si era inquadrati in una gens, si era Quirites, patres, patricii. Mentre, se non si era [...] si era non Quirites, cioè moltitudine estranea alla
civitas quiritaria» (A. GUARINO, La rivoluzione, cit., 159; esplicito
anche Livius 2.23.8); che equivale a dire che se si era legati alla Città lo si
era solo per ragioni economiche, perché si viveva di artigianato, di lavori
manuali o dei commerci, ai margini dell’economia quiritaria, solo con la
costituzione centuriata, infatti, come corrispettivo per la fruizione della
linfa vitale cittadina, sarà preteso dal rex
un contributo di anime plebee all’exercitus,
compensato sotto i Tarquini da modeste assegnazioni regie di terre anche alle
famiglie di questo ordine. La ‘rivoluzione oplitica’ e queste assegnazioni per
la prima volta attribuiscono una rilevanza non clientelare (e dunque non
ancillare) alle famiglie plebee, che assumono un ruolo equilibratore del potere
patrizio, funzionale alla stabilità di governo (e all’esercizio del neonato
potere di imperium) del rex, non più mero fiduciario dei gruppi
gentilizi (del resto, la quantomeno formale ratifica legislativa del potere
monarchico, mediante la lex curiata de
imperio, aveva imposto, secondo la romanistica prevalente, l’integrazione
del comizio curiato con componenti plebee, cfr. F. SERRAO, La «Legge», in Classi, partiti e legge nella repubblica
romana, Pisa 1975, 22). Qui, si
potrebbe dire, nasce la plebe come ordine in positivo, non individuabile solo
per esclusione, portatrice di valori in parte eterogenei, nonché di una forza
innovatrice sovrastrutturale (G. LOBRANO, Il
potere dei tribuni, cit., 163 ss.) dalla quale nascerà il “potere negativo”
dei tribuni, gendarme della costituzione perfetta, nata dalla frattura tra
l’ordine senatorio e la plebe (cfr. P. CATALANO, Sovranità della multitudo e
potere negativo: un aggiornamento, in Studi
in onore di Gianni Ferrara, I, Torino 2005, 646 s.).
[8] Livius 1.60.3: «...Duo consules inde
comitiis centuriatis a praefecto urbis…
creati sunt…» e Livius 2.1.10-11:
«Deinde quo plus virium in senatu
frequentia etiam ordinis faceret, caedibus regis deminutum patrum numerum
primoribus equestris gradus lectis ad trecentorum summam expleuit»; i due
notissimi passi liviani offrono l’occasione di un’ulteriore precisazione
metodologica: l’impostazione dichiarata di chi scrive, fallace o inutile che
possa essere, è quella di ricostruire e valorizzare i tratti comuni delle fonti
antiche, pertanto, non ci si potrà soffermare su quelle letture, pur di
straordinario valore scientifico, che partono dal presupposto di negare, sulla
base di argomenti, anche, certo, verosimili, le indicazioni dalle stesse
provenienti. Impossibile, per esempio, come già evidenziava F. SERRAO, Secessione e giuramento della plebe al monte
sacro, in Index, 35, 2007, 24,
interloquire con il complessivo impianto costituzionale delineato da A.
GUARINO, La rivoluzione, cit., 13
ss., la sua ricostruzione, pur coerente in stessa ed espressa in modo suadente,
si svolge totalmente a margine delle fonti a nostra disposizione.
[9] Dionysius 6.22.1; Livius 2.23.3-7; F. SERRAO, Secessione e giuramento, cit., 13 ss. e
ID., Diritto privato economia e società
nella storia di Roma. 1. Dalla società gentilizia alle origini dell’economia
schiavistica, Napoli 2006, 84. Dal punto di vista economico tutto è
riassunto, condensato, da Livio nella narrazione di un esemplificativo
episodio: Magno natu quidam cum omnium
malorum suorum insignibus se in forum proiecit. Obsita erat squalore vestis,
foedior corporis habitus pallore ac macie perempti; ad hoc promissa barba et
capilli efferaverant speciem oris. Noscitabatur tamen in tanta deformitate, et
ordines duxisse aiebant, aliaque militiae decora volgo miserantes eum
iactabant; ipse testes honestarum aliquot locis pugnarum cicatrices adverso
pectore ostentabat. Sciscitantibus unde ille habitus, unde deformitas, cum
circumfusa turba esset prope in contionis modum, Sabino bello ait se
militantem, quia propter populationes agri non fructu modo caruerit, sed villa
incensa fuerit, direpta omnia, pecora abacta, tributum iniquo suo tempore
imperatum, aes alienum fecisse. Id cumulatum usuris primo se agro paterno
avitoque exuisse, deinde fortunis aliis; postremo velut tabem pervenisse ad
corpus; ductum se ab creditore non in servitium, sed in ergastulum et
carnificinam esse. Inde ostentare tergum foedum recentibus vestigiis verberum.
Ad haec visa auditaque clamor ingens oritur. Non iam foro se tumultus tenet,
sed passim totam urbem pervadit. Sul passo in esame e, più in generale,
sulla natura dell’indebitamento movente delle rivolte plebee del secolo V a.C.
cfr. anche il contributo di C. GABRIELLI, Debiti
e secessione della plebe al Monte Sacro, in Diritto @ Storia 7, 2008, (http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Gabrielli-Debito-secessione-plebe-Monte-Sacro.htm).
[10] Sottolinea l’importanza organizzativa di
queste riunioni, che, evidentemente, avranno avuto la funzione di fissare la
linea di condotta plebea e di renderla stabile, duratura, incrollabile di
fronte alle resistenze patrizie, F. SERRAO, Secessione
e giuramento, cit., 16. Certo, prima di questi eventi non si dovrà pensare
alla plebe come ad una massa amorfa, che non si rendesse conto del proprio
comune destino e della necessità di un cambiamento volto alla costituzione di
un ordine alternativo rispetto a quello della civitas quiritaria, e, però, il progressivo, rapido coagularsi dei
propositi innovatori di questa classe è pacificamente inserito dalle fonti in
questo, determinato, breve arco di tempo (cfr. G. LOBRANO, Il potere dei tribuni, cit., 191 ss.): la plebe si auto-individua
per la prima volta e, perseguendo finalmente coesa la propria libertà, diventa
il motore del perfezionamento istituzionale. Non vedo la ragione di ignorare
questa circostanza, non sarei, di conseguenza, per ammettere con tanta
leggerezza, in contrasto con il racconto di Livio, 2.23.4: «Ibi sine ullo duce…», come invece M.A. LEVI, Il valore strumentale del tribunato della
plebe sino alla tribunicia potestas
imperiale, in Il tribunato della
plebe e altri scritti su istituzioni pubbliche romane, Milano 1978, 10,
che, già prima del 494 a.C., la plebe si fosse data propri ordinamenti e capi,
cui fosse legata da un vincolo di giuramento, e che anche il tribuno fosse,
nella prassi, operativo e sacrosanto ben prima della secessione.
[11] Per le origini di questa tradizione e
dell’opposta, che trasferisce sull’Aventino la secessione, si rimanda a R.
FIORI, Homo Sacer. Dinamica
politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996,
293 e nt. 1-2.
[12] Ribalterei, pertanto, sul punto,
l’impostazione di M.A. LEVI, Il valore
strumentale del tribunato, cit., 4 ss. (coerente, del resto, all’altro
assunto dell’Autore, cioè che la plebe avesse già in epoca più risalente propri
rappresentanti sacrosanti, in occasione della secessione del 494 a.C., soltanto
riconosciuti dal patriziato), per il quale non vi sarebbe potuto essere nulla
di più centrale per la componente plebea del populus dell’ottenere parità economica, attraverso la liberazione
dal debito, e uguaglianza di fronte alla giustizia cittadina. Non che una
simile affermazione sia infondata, ma l’impostazione cade in fallo, a mio
avviso, sotto il profilo della stabilità delle conquiste ottenute: senza una
propria rappresentanza politica (cfr. supra
nt. 10), infatti, la plebe sarebbe rimasta alla mercé di ogni tentativo di
restaurazione patrizio, ostacolata dalla difficoltà di canalizzare la forza
della moltitudine, verso il perseguimento di una linea programmatica comune.
Che, inoltre, in epoca così prossima alla caduta della monarchia etrusca, la
quale tanto aveva favorito l’arricchimento della plebe, la debolezza economica
non dovesse essere intesa come un carattere qualificante dell’intera classe
plebea è chiarito dallo stesso Autore, e ciò, a mio avviso, dice molto sulle priorità
della lotta, quando correttamente si leghi questo dato alla natura militare
della secessio e quindi alla
consistenza patrimoniale dei suoi artefici (cfr. l’illuminate quadro
socio-economico tracciato da E. GABBA, Proposta
per un quadro storico di Roma nel V sec. a.C., in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di M.
Humbert, Pavia 2005, 117-119, come esso abbia determinato l’improvvisa
accelerazione del processo d’integrazione politica della plebe è, tra gli
altri, messo in chiara luce da S. Tondo, Profilo
di storia costituzionale romana, I, Milano 1981, 164). La «direzione dello
Stato repubblicano» è il centro del conflitto anche per L. CAPOGROSSI
COLOGNESI, Lezioni di Storia del diritto
romano. Monarchia e repubblica, Napoli 2004, 88 ss.
[16] Che questa potente miscela tra la protezione
divina delle leggi, il cui rispetto fosse giurato davanti agli dei, e la minaccia
capitale potesse essere nota alla plebe di Roma come strumento utile a
garantire stabilità ad una riforma costituzionale in buona parte imposta,
risulta da quanto Gellio tramanda circa la legislazione ateniese di Solone, Noct. Att. 2.12.1: «...ut sempiternae maneret,
poenis et religionibus sanxerunt». Sul valore dei giuramenti fatti davanti
agli dei, unica possibile forma di garanzia per chi non partecipa ai meccanismi
di creazione e distruzione del diritto, si era anche soffermato lungamente
Bruto, secondo il racconto di Dionysius 6.78.3.
[17] In altri termini, la mia personale convinzione
è che si debba approcciare ai fatti del 494, come suggeriva il Serrao, con
riguardo al noto processo ai consoli del 474 a.C. (cfr. F. SERRAO, Lotte per la terra e per la casa a Roma dal
485 al 441 a.C., in Legge e società
nella repubblica romana, I, Napoli 1981, 79 s.), nella consapevolezza che,
pur nella loro indubbia rilevanza giuridica, siamo di fronte ad istituti e
procedimenti la cui cogenza è sostenuta dalla plebe con la propria forza
rivoluzionaria (cfr. A. MOMIGLIANO,
Manuale di storia romana, 1a ed. a cura di A. Mastrocinque, Torino 2011,
30), sia pure nel tentativo di restare entro la cornice religiosa del sistema
giuridico romano (secondo l’appunto a suo tempo rivolto alla trattazione
serraiana da G. LOBRANO, Il potere dei
tribuni, cit., 121 ss., e recepito, mi pare, in buona misura, in F. SERRAO,
Secessione e giuramento, cit., 17
ss., sul punto, cfr. la precedente impostazione dell’Autore in ID., La «Legge»,
cit., 26 ss.): pertanto, se è assurdo, nel momento stesso del loro primo
rivelarsi, misurarne la costituzionalità, è parimenti infruttuoso lo sforzo di
rintracciarvi gli elementi esatti di un qualche schema giuridico tipico.
[19] F. SERRAO, La
«Legge», cit., 26 ss.; G. LOBRANO, Il potere dei tribuni, cit., 196 ss. e R. FIORI, Homo Sacer, cit.,
304.
[20] Sul punto mi pare valga la pena soffermarsi: è
nella stessa origine del ius, nella
genesi gentilizia dei mores, nella
sua interpretazione ed applicazione appannaggio del collegio dei pontefici e
dei praetores, come organi
giurisdizionali, oltreché nell’impossibilità di innovarlo attraverso l’azione
di un comizio centuriato, ancora saldamente in mano patrizia, che sta la scelta
plebea di combattere, in questa fase, esclusivamente per avere propri
rappresentanti, capi e guide di un ordinamento separato e rivoluzionario (cfr.
F. SERRAO, La «Legge», cit., 26 s.), il cui potere “extra-ordinem” porrà le basi delle future conquiste normative,
altrimenti rimesse all’arbitrio della classe avversa, in grado di abrogarle
così come erano state concesse (un «potere negativo», quello dei tribuni, come
forma di opposizione al potere positivo di creazione ed applicazione del
diritto, cfr. G. LOBRANO, Fondamento e
natura, cit., 249 e P. CATALANO, «Potere
negativo» e sovranità popolare, in I
cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità, Roma 1967, 5, ma,
tuttavia, a parere di chi scrive, anche capace di guidarlo, incanalandone le
forze propositive, verso indirizzi normativi il più possibile graditi alla
plebe).
[21] ‘Partecipazione’ qui intesa nel senso di
acquisizione di una parte del potere di governo della civitas, di un ruolo politico interno alla comunità. Che, però,
l’affermazione stessa del contropotere plebeo sia l’incipit di una lotta per la ‘partecipazione’, la quale, tuttavia,
fino al decemvirato legislativo, avrà la sola veste di un momento di confronto
esterno, nel senso di un suo confinamento alla facoltà di «opposizione
all’aristocrazia dominante», è idea che, in
toto, mi sento di condividere e per la cui messa a fuoco rimando a G.
LOBRANO, Il potere dei tribuni, cit.,
191-203. Un’aspirazione ad essere particeps,
i cui contorni in dottrina ben sono stati definiti dal richiamo, contenuto in
P. CATALANO, Tribunato e resistenza,
Torino 1971, 23 s., alla posizione del lavoratore salariato, rispetto alle
scelte imprenditoriali del datore di lavoro, in una fase storica antecedente al
riconoscimento del diritto di sciopero.
[22] Il primo vincolo evocato da Bruto, quello di
fronte alle divinità, era stretto; il foedus
sottoponeva la parte manchevole alla fides
alla vendetta degli dei. Si noti in proposito come già R. FIORI, Homo
Sacer, cit., 298 e nt. 25 considerasse definitivamente sopite le perplessità,
sollevate in dottrina, circa la non internazionalità dei soggetti coinvolti in
un simile patto, alla luce delle riflessioni a tempo compiute da P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano,
I, Torino 1965, 30 ss. Nello stesso senso, da ultimo, T. LANFRANCHI, Les tribuns de la plèbe et la formation de
la république romaine. 494-287 avant J.-C., Roma 2015, 265.
[23] Mi pare si possa affermare, in effetti, che lo
ius auxilii sia l’unico istituto,
emerso dagli eventi del 494 a.C., dotato di una propria connaturata rilevanza
giuridica sul piano del diritto pubblico romano, facoltà ottriata dai patrizi,
che, tuttavia, così come posta negli accordi tra i due ordini (in condiciones, cfr. Livius 2.33.1-2),
sarebbe stata completamente inutile alla causa plebea, per il semplice fatto
che una qualsiasi prerogativa conferita senza coercizione né sanzione legale
nulla può contro il potere costituito; cfr. M.A. LEVI, Il valore strumentale del tribunato, cit., 11 s. e B. ALBANESE, ‘Sacer esto’, in Bullettino
dell’Istituto di diritto romano «Vittorio Scialoja», 91, 1988 (1992), 161
s.
[25] Cfr. F. SERRAO, Diritto privato economia e società, cit., 86 s. e B. SANTALUCIA, La giustizia penale in Roma antica,
Bologna 2013, 33 ss.
[26] Per le cui origini e la cui natura non può qui
che rimandarsi all’opera miliare di R. FIORI, Homo Sacer, cit., 25 ss.
[27] Si veda in proposito B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari plebei. A
proposito di un libro recente, in Studi
per Giovanni Nicosia, VII, Milano 2007, 258 e 280 s.; è, del resto, il
tenore letterale della lex sacrata,
come riportata da Dionigi in 6.89.3 a suggerirlo, lezione, questa, che, a
differenza di quanto sostenuto da R. PESARESI, Studi sul processo penale in età repubblicana. Dai tribunali
rivoluzionari alla difesa della legalità democratica, Napoli 2005, 68, non
collide con Festus, De verb. sign., v. Sacer mons, p. 424 L: ...at
homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum
immolari, sed qui occidit, parricidii non damnatur; nam lege tribunicia prima
cavetur: «si quis eum, qui eo plebei scito sacer sit occiderit, parricida ne
sit». Le parole della lex tribunicia
prima: «se taluno abbia ucciso… non sia considerato omicida», confermano
come la qualifica di sacer scatti
automaticamente per il solo fatto della compiuta violazione del tribuno (cfr.
B. ALBANESE, ‘Sacer esto’, cit., 168 s.) e che, come sottolineato
da Santalucia, quel «quem popolus
iudicavit» sia da riferire alla necessità di una delibera centuriata di
accertamento della violazione in epoca successiva all’entrata in vigore della
norma de capite civis decemvirale.
[28] Cfr. F. SERRAO, Secessione e giuramento, cit., 18, il quale considerava ab origine l’elezione dei tribuni
prerogativa del concilio tributo, posizione, questa, che a dire il vero cozza
con la rogatio di Volerone del 471
a.C., con cui si sarebbe stabilito che, per evitare le ingerenze patrizie
attraverso il voto dei clientes (privi
di ricchezza immobiliare), da quel momento la plebe avrebbe scelto i propri
magistrati, sulla base delle preferenze accordate dalle tribù territoriali
(Livius 2.56.1-4, in particolare, ʃ. 2: «…rogationem tulit ad populum et plebeii
magistratus tributis comitiis fierent»), epurate a questo scopo dagli adsidui di origine patrizia (Livius
2.60.5: «Plus enim dignitatis comitiis
ipsis detractum est patres ex concilio submovendo…»; irrilevante, in ogni caso, ai nostri fini, se si sia trattato di
un provvedimento creativo o solo modificativo della composizione di questa
assemblea; sulle origini del comizio tributo, per una datazione addirittura
anteriore al 494 a.C., cfr. l’opinione di S. TONDO, Profilo di storia, cit., 153 s. e nt. 88 e 166 ss., secondo il
quale una tale notizia si desumerebbe da Livius 2.21.7 e dal racconto di
Dionigi in 7.15-17; questo stesso Autore, per altro, riteneva attendibile il
riferimento dell’Alicarnassense all’elezione dei primi tribuni, pur
correggendolo avventurosamente: per costui, infatti, Dionigi avrebbe inteso
alludere ad una forma speciale di convocazione dei comizi curiati, limitata
alla sola componente plebea del populus).
La medesima idea del Serrao veniva suggerita in L. CAPOGROSSI COLOGNESI - F.
CÀSSOLA, Le vicende repubblicane sino
alle XII Tavole, in Lineamenti di
storia del diritto romano, a cura di M. Talamanca, 2a ed., Milano 1989, 84,
e, tuttavia, risultava subito dopo emendata, nello stesso manuale,
coerentemente alla più tarda normativa, da F. CÀSSOLA - G. LABRUNA, I ‘concilia plebis’ e l’equiparazione
dei ‘plebiscita’ alle ‘leges’, in Lineamenti di storia del diritto romano, a cura di M. Talamanca, 2a
ed., Milano 1989, 216. In ogni caso, anche ammettendo che dei comizi curiati,
durante la monarchia etrusca, fossero venuti a far parte tutti i plebei (e non
solo i clientes delle genetiche
famiglie gentilizie, come è stato sostenuto da A. GUARINO, La rivoluzione, cit., 68 ss.), conformemente all’ipotesi, tra gli
altri, creduta da F. DE MARTINO, Storia
della costituzione romana, I, 2a ed., Napoli 1972, 159 s. e da F. SERRAO, La «Legge»,
cit., 22, l’idea che la scelta dei tribuni fosse compiuta (nel 494 e negli anni
immediatamente successivi) dall’assemblea curiata, oltreché inverosimile da un
punto di vista politico, collide anch’essa con il racconto liviano che si
sofferma sulla capacità dei patrizi di influenzare l’elezione per mezzo dei
propri sodali plebei (cfr. Livius 2.56.3: «…sed quae patriciis omnem potestatem per
clientium suffragia creandi quos vellent tribunos auferret») e non fa alcun
cenno ad un loro coinvolgimento diretto nella decisione assembleare. Inoltre,
per una ragione logica si deve escludere, concordando con l’opinione di M.A.
LEVI, Il valore strumentale del tribunato,
cit., 11, che la confusione di Dionigi sia quella tra curiae e centurie, dato che altrimenti i tribuni sarebbero stati
scelti tra la plebe (Livius 2.33.1) dai patrizi, largamente prevalenti in
questo consesso. Più di recente, A.
PETRUCCI, Corso di diritto pubblico
romano, Torino 2012, 12 s. e 30, ha ritenuto che i primi tribuni fossero
stati eletti dal ‘concilium plebis’,
senza che se ne possa specificare il modo di disposizione. In G. CRIFÒ, Lezioni di storia del diritto romano, 5a
ed., Parma 2010, 56 s. e 87 s., invece si è proposta l’idea, che salva solo in
parte la soluzione dell’Alicarnassense, per cui vi sarebbe stata una votazione
di due tribuni da parte della plebe riunita sul Monte Sacro, poi, una
cooptazione di altri tre, secondo la tradizione preferita da Livius 2.33.2 e,
infine, l’assemblea del populus,
curiata o centuriata, avrebbe approvato l’elezione.
[29] Per ciò che concerne invece le successive
procedure elettive (condividendo la posizione di F. CÀSSOLA - G. LABRUNA, I ‘concilia plebis’, cit., 216 ss.) sarei per seguire le fonti: in un primo momento,
tra il 494 e il 471, mi sembra plausibile che la plebe votasse i suoi
rappresentanti per teste all’interno del concilium
plebis, divenuto poi tributo, per difendersi dalle intromissioni patrizie,
favorite dal legame di clientela, su iniziativa di Publilio Volerone.
[31] Qui mi pare di dover seguire il filone
dottrinario prevalente che identifica la lex
tribunicia prima del passo di Festo con il plebiscito del 494 a.C.; cfr. G.
DE SANCTIS, Lex tribunicia prima, in Miscellanea
G. Mercanti, V, Città del Vaticano 1946, 543 = in Scritti minori, V, Roma 1983, 486; F. SERRAO, Lotte per la terra, cit., 168 nt. 288; B. ALBANESE, ‘Sacer esto’, cit., 168; R. FIORI, Homo Sacer, cit., 297 e R. PESARESI, Studi sul processo, cit., 2 nt. 1; contra P. MAROTTIOLI, Leges Sacratae,
Roma 1979, 124, da ultimo, T. LANFRANCHI, Les
tribuns de la plèbe, cit., 263 ss., nega l’attendibilità della qualifica di
questa delibera in termini di plebiscito, poiché nessun plebiscito avrebbe
potuto mutare le regole del diritto criminale romano in un tale periodo
storico; secondo questa impostazione, pertanto, si sarebbe dovuto attendere
fino al 449 per trovare un atto degno di essere qualificato come lex e regolante la materia (in senso
diametralmente opposto, ma nemmeno considerato da Lanfranchi, il contributo
alla definizione di legge nel diritto romano di F. SERRAO, La «Legge», cit., 28, a
cui, sul punto, rimando). Nel 494 a.C., secondo questo Autore, la natura di
ordinamento di parte dell’organizzazione plebea renderebbe impossibile
qualificare come atto normativo una statuizione della plebe, di conseguenza, in
questo anno e fino al suo recepimento da parte della legge comiziale del 449
a.C., soltanto un giuramento rivoluzionario avrebbe garantito la posizione dei
tribuni. Oltre a tradire l’antico pregiudizio statualista - ne sia prova
l’idea, suggerita dal Lanfranchi, che solo una legge comiziale potesse
intervenire a mutare il diritto criminale preesistente - le pagine di questo
Autore hanno l’effetto distrofico di cancellare la lotta plebea per la
conquista del potere di autonormazione. Siamo di fronte, se non alla prima in
assoluto (cfr. A. GUARINO, La rivoluzione,
cit., 31, secondo il quale proprio la rivoluzione plebea avrebbe portato a Roma
l’idea nuova «dell’elevazione del populus
ad assemblea deliberante») ad una
delle prime forme attive di partecipazione del popolo romano, o di parte di
esso almeno, al procedimento di produzione normativa (R. ORESTANO, I Fatti di normazione nell’esperienza romana
arcaica, Torino 1967, 268), alla testimonianza tangibile che la lex, come atto normativo avente un
contenuto sostanziale, nasce dalla spinta innovatrice del movimento plebeo
(cfr. F. SERRAO, loc. cit., 28), ma l’Autore lo nega; non rileva le
incongruenze di un istituto pubblicistico al suo stato embrionale, ma lo relega
nella sfera della mera rilevanza politica e religiosa: ne fa discendere un
impegno politico pro futuro e non un
vincolo giuridico. Impostazione che, a parere di chi scrive, si deve rigettare in toto. Accoglierla, intanto, significa
reputare completamente inattendibile la tradizione storiografica antica: il
dato normativo, infatti, è per essa posto attraverso la rogatio di Bruto e la delibera di una primordiale struttura
conciliare, la sua cogenza è garantita dall’interazione tra sacrosanctitas e giuramento, che
sostituisce sul piano giuridico-religioso il fondamento auspicale del potere
dei magistrati patrizi, assumendo così la stessa imperatività di una lex nell’ordinamento separato della
plebe e aspirando ad imporsi alla generalità del populus, attraverso la minaccia rappresentata dal sacer esto, brandito contro il
patriziato come letale arma rivoluzionaria.
[33] F. SERRAO, Secessione
e giuramento, cit., 18-19 e R. PESARESI, Studi sul processo penale, cit., 2 nt. 1.
[34] Concorderei, pertanto, con la visione di F.
SERRAO, La «Legge», cit., 27 s. e B. ALBANESE, ‘Sacer esto’, cit., 164:
se da un punto di vista strettamente giuridico una delibera della sola plebe è
idonea a vincolare essa soltanto, tuttavia, il plebiscito giurato di per sé irroga
ad ogni offensore (dunque, sia patrizio che plebeo) la sacertas (così pure, più recentemente, cfr. B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari, cit.,
257-259), impegnando in via esclusiva gli appartenenti alla classe plebea a
garantire l’esecuzione del sacrificio. Non mi persuade, invece, la
ricostruzione di R. FIORI, Homo Sacer, cit., 314, il quale ritiene che il
giuramento plebeo associato alla lex
sacrata potesse avere l’unica funzione di sottoporre alla minaccia della
pena sacrale gli appartenenti alla componente plebea del populus, e che, per altro, questa sia l’unica ragione plausibile
per cui, di seguito, il giuramento sarebbe stato reiterato e imposto a tutto il
popolo (Dionysius 6.89.4), cfr. infra nt.
50. Da ultimo, pur togliendo ogni dignità storica al concetto di ‘lex sacrata’, quale plebiscito sorretto
da ius iurandum plebis (sulle
criticità di questa impostazione già si è detto supra, cfr. nt. 31), concorda con i primi due Autori sull’esistenza
e sul valore del giuramento sacrale, anche T. LANFRANCHI, Les tribuns de la plèbe, cit., 271 ss.: nell’ottica rivoluzionaria
di un atto normativo propriamente detto non si potrebbe neppure parlare,
pertanto, il precetto verrebbe imposto dalla plebe all’atto stesso del sacramentum e protetto, oltre che dalla
sua forza politica, pure religione.
[35] I magistrati plebei acquisiscono in breve
tempo facoltà non scritte, in ordine alla possibilità di bloccare le iniziative
dei consoli, presentare proposte di legge all’assemblea della plebe e anche in
campo giudiziario, poiché la plebe ha la forza materiale di imporle (cfr. F.
SERRAO, La «Legge», cit., 28), di ciò è sintomo non trascurabile anche il
fatto che la successiva legge sacrata, del 492, non sia sottoposta ad alcuna
approvazione senatoria (Dionysius 7.17.5 e si veda F. SERRAO, Diritto privato economia e società,
cit., 85 ss.). Maggiore ponderazione merita il proseguo della trattazione del
Serrao: laddove sostiene che in relazione ai «processi rivoluzionari dinanzi
all’assemblea della plebe, si andò facendo strada un’interpretazione evolutiva
per cui si ritenne che ogni offesa alla plebe o ai suoi interessi costituisse
violazione delle due leggi sacratae del
494 e del 492». La mia impressione è che l’opinione del Maestro sul punto vada
precisata tenendo conto delle osservazioni di B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari, cit.,
259 ss., al, comunque approfondito, lavoro di R. PESARESI, Studi sul processo, cit., 10 ss.: questa estensione di competenze è
determinata dall’approccio rivoluzionario della plebe, ma non si fonda
direttamente sul carattere sacrato “acquisito” di tutte le delibere della
stessa, non ogni plebiscito è sacrato nel senso di comminare al contravventore
la qualifica di sacer, ma il tribuno
in ogni aspetto della sua attività politica e legislativa non può essere
violato o interrotto, per l’essere questi protetto dalle leggi del 494 e 492,
pertanto, ogni suo atto legislativo, coercitivo o giurisdizionale sarà compiuto
sotto la minaccia che qualsiasi reazione al suo potere (aggressione o turbativa
che sia) verrà valutata alla luce di quelle disposizioni.
[36] Su questa inarrestabile espansione della potestas tribunizia e sul suo rapporto
di paradossale predominanza sull’imperium
consolare in questa fase storica doveva pure essersi intrattenuto Dione
Cassio: sotto il primo profilo è rivelatrice la trattazione epitomata delle sua
“Storia” in Zonara, 7.15, mentre l’altra notizia si offre a noi nella versione
originale contenuta nella parte finale del frammento Dion Cassius 17.15, ove il
potere negativo viene descritto come fisiologicamente prevalente su quello di
coloro che si dovevano cimentare nel proporre qualcosa di nuovo (sul punto, G.
URSO, Cassio Dione e i magistrati: le
origini della repubblica nei frammenti della Storia romana, Milano 2005, 52
ss. e 72). Il dato, per altro, emerge in tutta la sua nettezza dal seguito
della narrazione liviana circa i fatti del 473 a.C., in 2.54.1 ss., in
particolare, al ʃ. 9: …tandem qui obversati vestibulo tribuni fuerant nuntiant domi mortuum
esse inventum. Quod ubi in totam contionem pertulit rumor, sicut acies funditur
duce occiso, ita dilapsi passim alii alio. Praecipuus pavor tribunos inuaserat,
quam nihil auxilii sacratae leges haberent morte collegae monitos. Il
processo tribunizio intentato da Genucio contro i consoli dell’anno precedente
per aver agito contro gli interessi della plebe porta ad emersione un problema
che è in re ipsa al rapporto tra
potere rivoluzionario e potere costituito: il secondo soccombe al primo
ogniqualvolta resta nell’osservanza, che tuttavia lo caratterizza, dello schema
di legge, il primo vacilla in tutti i casi in cui manchi della forza di
autoimporsi. Il tribuno accusa Lucio Furio e Caio Manlio di aver ignorato le
richieste della plebe riguardo all’approvazione della legge agraria, portandoli
in giudizio per una ragione prettamente politica, ma non ne ha alcun diritto,
non v’è nessuna normativa preposta, neppure rivoluzionaria, che lo autorizzi a
fare ciò: eppure la plebe percepisce, non la sua azione, ma il suo assassinio,
come atto illegittimo e torna a temere per la propria incolumità, dubitando
della perdurante validità ed efficacia delle leges sacratae. Tutto ciò, ai fini della nostra trattazione,
conferma l’idea che qualsiasi iniziativa del tribuno è congrua al suo potere se
egli ha da sé solo o attraverso l’ausilio degli altri plebeii magistratus la forza di esercitare la coercizione, di
promuovere il procedimento giudiziario, piuttosto che di proporre una certa rogatio e se la plebe, in relazione a
queste sue risoluzioni, è in grado di imporne l’inviolabilità attraverso lo
schema della sacertas (anche cfr.
quanto detto nel testo a riguardo di Livius 2.56.6-14).
[37] È stato pure sostenuto (M.A. LEVI, Il valore strumentale del tribunato,
cit., 12), in base ad una ragione essenzialmente logica, che lo ius coercendi dovesse essere
riconosciuto ai tribuni dagli stessi patres
insieme allo ius auxilii: senza
di esso, del resto, il diritto di soccorrere i cittadini plebei vessati da atti
dei magistrati patrizi sarebbe rimasto lettera morta. Mi limito a rilevare, sul
punto, che la constatazione, per quanto ovvia, non presuppone che questo potere
dovesse essere assicurato costituzionalmente; inoltre, nessuna allusione ad un
simile riconoscimento è presente nel quadro delle fonti: né il foedus (Dionysius 6.89.1), che
autorizzava i plebei all’elezione di propri rappresentanti, né il successivo
giuramento di tutti i Romani (Dionysius 6.89.4, su cui infra § 5 e nt. 47), che aveva ad oggetto il divieto di abrogare le
leggi sacrate, né il voto senatorio di ratifica all’elezione dei tribuni
(Dionysius 6.90.2, su cui infra § 6)
conferivano ai magistrati plebei un simile potere.
[38] La lex
Sicinia (o Icilia) contra verba atque interfationem stabiliva
che nessuno avrebbe potuto impedire al tribuno di parlare all’assemblea plebea
contrapponendosi a lui anche solo verbalmente (cfr. Cicero, Pro Sest. 37.79: «…Itaque fretus sanctitate
tribunatus, cum se non modo contra vim et ferrum sed etiam contra verba atque
interfationem legibus sacratis esse armatum putaret…»): colui che avesse violato tale precetto avrebbe dovuto
impegnarsi mediante vades a pagare
una multa, se non lo avesse fatto, avrebbe potuto essere punito con la morte;
tra gli altri, si veda F. SERRAO, Diritto
privato economia e società, cit., 85 s. Ancor oggi non è sopito in dottrina
il dibattito circa il significato dell’espressione «θανάτῳ
ζημιούσθω», impiegata da Dionigi in 7.17.5: se indichi la
consecratio capitis o altra forma di
pena capitale; recentemente, nella prima direzione si è pronunciato R.
PESARESI, Studi sul processo, cit., 4
e 37, nell’opposta, invece, si è
mosso B. SANTALUCIA, Sacertà e processi
rivoluzionari, cit., 259 e nt. 12.
[40] B. SANTALUCIA, Sulla legge decemvirale de capite civis, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli umanisti, a cura di M.
Humbert, Pavia 2005, 402 s.
[41] Mi sembra sul punto da condividere la
posizione e nei dettagli l’argomentazione di B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari, cit.,
260 ss.; i processi istituiti dai tribuni davanti all’assemblea della plebe in
epoca predecemvirale rispondono a due schemi: secondo il primo, il concilio
colpisce i componenti dell’altro ordine con condanne pecuniarie e capitali per
aver compiuto atti di aggressione o comunque pregiudizievoli alla plebe, in
alternativa, sottopone al giudizio popolare soggetti che, passibili di consecratio capitis ai sensi della legge
sacrata del 494 a.C., per ragioni di opportunità politica, si decide di processare
pubblicamente. In entrambi i casi le fonti non fanno cenno all’accertamento
della sacertà, nel primo caso, del resto, ne sarebbe mancato in toto il presupposto, non essendo
ravvisabile una violazione dell’integrità o della libertà tribunizia (nel 476,
Tito Menenio veniva processato per la perdita di un importante avamposto
militare, una battaglia persa è pure causa dell’accusa a Spurio Servilio Prisco
nel 475, nel 473 è generica l’accusa di atti ostili alla plebe rivolta da
Genucio ai consoli di quell’anno, poi, ancora, Cesone Quinzio, nel 461, viene
accusato per l’uccisione di un plebeo non protetto dall’inviolabilità
tribunizia), nel secondo, l’attivazione del processo è utile proprio a non
esasperare lo scontro politico, attraverso l’esecuzione sommaria
dell’automatismo sacrale nei confronti di membri dell’ordine patrizio
particolarmente in vista (è il caso dei processi del 491 a Cneo Marcio
Coriolano, per aver chiesto la consegna dei tribuni in cambio dell’elargizione
a basso costo di grano alla plebe, e del 470 ad Appio Claudio Sabino, per i
tentativi di violenza contro il tribuno Laetorio, durante il suo sforzo per far
approvare, mediante plebiscito, il trasferimento della competenza per
l’elezione dei tribuni al concilio tributo, in nessuno dei due episodi, in ogni
caso, si fa luogo alla dichiarazione della sacertà).
[43] Cfr. Tab. 9.1-2, 6; Cicero, De leg. 3.4.11: «de capite civis nisi per maximum comitiatum… ne ferunto» e 3.19.44; De
rep. 2.36.61 e Pro Sest. 30.65: «cum…
XII tabulis sanctum esset ut ne…
liceret, neve de capite nisi comitiis centuriatis rogari»; la legislazione
decemvirale recava in sé un compromesso politico: la plebe otteneva di essere
giudicata di fronte alle centurie a seguito dell’invocazione della provocatio contro la coercitio consolare, mentre il
patriziato, dalla sua, metteva al bando i processi capitali rivoluzionari
davanti ai concilia plebis, cfr.
l’originale impostazione di J. BLEICKEN, Ursprung
und Bedeutung der Provocation, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 76, 1959, 348 ss., C. VENTURINI, Lo Strafrecht mommseniano ad un secolo di
distanza, in Processo Penale e
società politica nella Roma repubblicana, Pisa 1996, 55 ss. e 81 s., ed
ancora B. SANTALUCIA, Dalla vendetta alla
pena, in Storia di Roma, 1. Roma in
Italia, a cura di A. Schiavone, Torino 1988, 442 e ID., La giustizia penale, cit., 36. In senso
contrario cfr. R. PESARESI, Studi sul processo, cit., 105 ss., per
il quale la legge non avrebbe riguardato l’accertamento della sacertà davanti
ai concili della plebe, ma soltanto la regolazione dell’esercizio del potere d’imperium dei magistrati patrizi; del
resto, secondo questo Autore, nemmeno avrebbe potuto, in quanto la non
abrogazione delle disposizioni sacrate era stata oggetto di specifica
trattativa in epoca predecemvirale. Mi limito sul punto a segnalare che la
norma in questione non possa leggersi come tentativo di smantellamento della
disciplina introdotta dalle leges
sacratae, ma, al più, come procedimentalizzazione del meccanismo di
irrogazione della sanzione da queste stabilito; sugli altri argomenti adotti
non mi pare utile qui indugiare a fronte della critica già compiuta da B.
SANTALUCIA, Sacertà e processi
rivoluzionari, cit., 269 ss., la cui impostazione in pieno condivido. Non
si ignora, per altro, come pure vi sia stato un dibattito non troppo risalente
sulla correttezza della lettura ciceroniana della norma decemvirale. Secondo
l’interpretazione di E. GABBA, Maximus comitiatus, in Athenaeum, 65, 1987, 203
e ss., l’aggettivo maximus doveva
fare riferimento semplicemente ad una convocazione plenaria del comizio
competente, sul punto, mi limito a richiamare le osservazioni a suo tempo
compiute da B. ALBANESE, Maximus comitiatus,
in Scritti giuridici, II, Palermo
1991, 1689 ss. e da B. SANTALUCIA, Sulla
legge decemvirale, cit., 402 ss. Come anche è testimoniato da Festus, De
verb. sign., v. Sacer mons, p.
424 L (cfr. supra nt. 27), da questo
momento la qualità di sacer del
profanatore dell’inviolabilità tribunizia
per esonerare l’uccisore da sanzione criminale avrebbe dovuto essere
dichiarata giudizialmente da tutto il popolo riunito per centurie, in tema,
conformemente alla tradizione ciceroniana, cfr. ID., loc. ult. cit., 411 e ID., loc. cit., 269-272 e 275 s.; contra L. GAROFALO, Opinioni recenti in tema di sacertà, in Sacertà e repressione criminale in Roma arcaica, Napoli 2013, 13
ss., il quale ritiene non applicabile all’homo
sacer per violazione del precetto della lex
sacrata del 494 a.C. la norma delle XII Tavole, in quanto essa avrebbe come
presupposto per la sua applicazione lo status
civitatis, che il contravventore perderebbe al momento della commissione
del fatto contrario all’inviolabilità (così più diffusamente anche C. PELLOSO, Sacertà e garanzie processuali in età regia
e proto-repubblicana, in Sacertà e
repressione criminale in Roma arcaica, Napoli 2013, 110 ss.). E, tuttavia,
questa seconda impostazione non mi persuade: secondo l’idea di Santalucia,
infatti, davanti al comizio centuriato si sarebbe dovuto svolgere un processo
teso all’accertamento giudiziale della violazione della lex sacrata, seguito, poi, dalla dichiarazione pubblica di sacertà
(cfr. L. PEPPE, Note minime di metodo
intorno alla nozione di homo sacer, in Studia et Documenta Historiae et
Iuris 73, 2007, 431 e P. CARAFA -
M. FIORENTINI - U. FUSCO, La città, i re
e il diritto, in La Leggenda di Roma.
III. La costituzione, a cura di A. Carandini, Milano 2011, 355 s.). Il
momento dell’accertamento interno a questa procedura segnava il passaggio dalla
condizione di civis a quella di
reietto dalla comunità, pertanto, fintanto che la violazione non fosse stata
verificata di fronte al populus, l’imputato non si sarebbe dovuto
considerare colpevole e quindi sacer,
godendo, di conseguenza, dei pieni diritti del cittadino (recentemente, per
altro, lo stesso L. GAROFALO ripubblicava un saggio, Homo liber e homo sacer due archetipi dell’appartenenza, in Fondamenti e svolgimento della scienza giuridica, Torino 2015, 26
s. e nt. 65, in cui aderiva alla ricostruzione qui prediletta).
[44] L’indicazione di Livius 3.55.3: «cum velut in controverso iure esset
tenerenturne patres plebi scitis, legem centuriatis comitiis tulere ut quod
tributim plebes iussisset populum teneret», è, a mio avviso, senza dubbio
incompleta, non lo fosse, si dovrebbe credere alla sua natura di costruzione
anticipatoria della lex Hortensia del
286 a.C. oppure a fenomeni intermedi di desuetudine normativa, a parere di chi
scrive, non verosimili per una statuizione così fondamentale. Personalmente,
ritengo più probabile che il capitolo della legge in questione sia da colmare
sulla scorta della prassi che Dionigi, 2.14.3 e 6.66.3, ricorda, forse in
questo caso anticipandola, in relazione alle delibere del comizio curiato
prima, centuriato poi, di epoca monarchica e proto-repubblicana, la quale
testimonia l’esistenza di un vaglio senatorio, difficile dire se preventivo o
successivo, necessario all’acquisto di validità delle stesse. La rogatio, pertanto, andrebbe letta nella direzione di una equiparazione sul
piano dell’efficacia tra plebisciti e leggi centuriate, come a suo tempo
suggerito da S. TONDO, Profilo di storia,
cit., 204, di conseguenza, mi pare si debba accogliere la lettura di F. SERRAO,
La «Legge», cit., 39 ss., per il quale sarebbe da valorizzare la
contrapposizione tra il termine patres, adoperato
nel presentare la questione controversa, e
quel populus della soluzione, nel
senso che le risoluzioni della plebe sarebbero equiparate a quelle di tutto il
popolo, non necessitando di essere versate in una sua delibera per vincolarlo,
ma, al contrario, non sarebbero capaci di coartare il volere del senato, che,
in rapporto ad esse, avrebbe comunque continuato a esprimersi, attraverso la
prestazione dell’auctoritas. Il
contenuto della disposizione mi pare comunque confermato anche da Livio,
6.42.9, che nel narrare il sofferto procedimento di approvazione delle leges Liciniae Sextiae, in epoca
anteriore alle leges Publiliae Philonis (339
a.C.) e alla lex Hortensia, chiude il
percorso normativo con l’accettazione delle tre rogationes da parte del dittatore e del senato. Nella manualistica
recente, A. PETRUCCI, Corso di diritto
pubblico, cit., 34, ha ritenuto che la legge prescrivesse, al fine di
estendere l’efficacia dei plebisciti a tutto il popolo, la ratifica o il
preliminare vaglio del senato e L. FASCIONE, Manuale di diritto pubblico romano, 2a ed., Torino 2013, 107, che
dovesse ricorrere una preventiva concertazione della rogatio. C’è anche chi recentemente ha sostenuto, con acuta
argomentazione, M. HUMBERT, I ‘plebiscita’ prima dell’equiparazione alle leggi,
in Leges publicae. La legge
nell’esperienza giuridica romana, a cura di J.L. Ferrary, Pavia 2012,
308-315, che il plebiscito debba essere inteso, prima del 287 a.C., come
strumento volto alla fissazione delle rivendicazioni politiche della plebe,
come ultimatum nei confronti della civitas, privo di qualsiasi cogenza
normativa (ordinamentale o extra-ordinamentale, costituita o rivoluzionaria). La
tesi, tuttavia, oltre a porsi in contrasto con la trattazione annalistica,
emenda in larghe parti il pensiero liviano e dionisiano sulla base di
argomentazioni logico-sistematiche che, pur seducenti, non scalfiscono, nelle
sue linee di fondo, la coerenza della tradizione, inoltre, a mio avviso,
l’Autore sottovaluta pregiudizialmente la
forza impositiva della plebe e di conseguenza non vede il compromesso
intrinseco all’integrazione ordinamentale dei plebiscita: la plebe, infatti, otteneva uno strumento di normazione
diretta, ma il patriziato recuperava uno stringente controllo sui suoi
contenuti.
[45] F. SERRAO, Secessione
e giuramento, cit., 19; se si deve anzitutto premettere che il termine
giuramento indica un impegno collettivamente assunto da una comunità nei
confronti di un’altra (o da un gruppo coeso) davanti agli dei, il cui spregio
comporta la rottura della pax deorum
e la conseguente rovina della comunità o del gruppo contravventore,
sicuramente, a seguito dello ius iurandum
sull’inviolabilità dei tribuni nasceva un vincolo religioso, che avrebbe
esposto all’ira divina l’intero ordine plebeo se questo non si fosse impegnato
a far rispettare il contenuto precettivo della lex sacrata per mezzo dell’esecuzione della pena sacrale che ne
costituiva la sanctio. In senso
stretto, dunque, i patrizi non sarebbero stati vincolati al rispetto della
norma, ma le avrebbero dovuto prestare ossequio in forza della minaccia su di
loro gravante per effetto dell’obbligo assunto dai plebei di fronte alle
divinità. A ciò, tuttavia, si deve aggiungere un’interessante considerazione,
recentemente palesata da F. ZUCCOTTI, Giuramento
collettivo e leges sacratae, in Studi
per Giovanni Nicosia, VIII, Milano 2007, 526 s.: se, infatti, si pone mente
alla ragione che aveva spinto i patrizi ad accettare la richiesta plebea di
eleggere propri magistrati, cioè, precipuamente, la necessità di far rientrare
la secessio, ponendo fine all’indebolimento dell’exercitus, non sfuggirà come il vincolo religioso assunto dalla plebs avrebbe finito, indirettamente,
per premere pure sui patrizi, i quali, se avessero tentato di manovrare i
plebei convincendoli a non prestar fede ai sacralizzati propositi, avrebbero
esposto una parte rilevante delle proprie legioni all’ira divina.
[46] Sul passo, F. SINI, Interpretazioni giurisprudenziali in tema di inviolabilità dei tribuni
della plebe (a proposito di Tito Livio 3.55.6-12), in Diritto @ Storia 2, 2003, (http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Tribunato.htm), con il quale non posso che concordare sulle
pregnanti conseguenze della fonte: «Dalla sententia degli iuris interpretes
citati da Tito Livio emerge […] che era proprio la sacrosanctitas,
fondata sul vetus ius iurandum plebis del494 a.C. e non sulla legge del
449 a.C., a stabilire la collocazione istituzionale del tribunato nel sistema
giuridico-religioso romano. Di fronte alla chiarezza con cui gli iuris
interpretes configurano il fondamento del potere tribunizio come
“unilaterale imposizione della plebe”, risultano maggiormente incomprensibili
le ragioni di fondo (ideologiche e metodologiche) che hanno impedito finora
alla dottrina romanistica di orientarsi verso questa ipotesi».
[47] La distinzione emerge chiaramente dal
confronto tra le parole di F. SERRAO, Secessione
e giuramento, cit., 19, che in riferimento al primo atto parla di un
«giuramento di osservare la legge e, principalmente, di farla osservare e, con
ciò, di ritenere sacer chi avesse
attentato alla libertà ed indipendenza dei tribuni…», che «proclama
rivoluzionariamente la validità di un atto di parte», e quelle di R. FIORI,
Homo Sacer, cit., 314, per cui «il secondo giuramento […] è quello di tutti i
Romani durante le cerimoniae sacrificali:
esso sancisce una fides che non
riguarda più i soli plebei, ma anche i patrizi» e di F. ZUCCOTTI, Giuramento
collettivo, cit., 526, ad avviso del quale questo secondo atto solenne
«serve a far sì che non vi sia in futuro la possibilità di far cessare tale legge»,
ovvero la lex sacrata prima; si veda,
infine, ancora lo stesso Serrao, in
ID., Diritto privato economia e società,
cit., 87, per il quale con esso tutti i cittadini «giurarono di non abrogarla o
di non farla abrogare».
[48] Sul punto, mi stupiscono le incertezze avute
anche da illustrissima dottrina, come B. ALBANESE, ‘Sacer esto’, cit., 164
s., il quale, inaspettatamente, identifica lo ius iurandum plebis di Livius 3.55.10 e il giuramento descritto da
Dionysius 6.89.4, ignorandone prima di tutto l’alterità soggettiva
concordemente tramandata dalle fonti («πάντας
ἐτάχϑη ῾Ρωμαίους
ὀμόσαι
καϑ’ ἱερῶν ἧ μὴν
χρήσεσϑαι τῷ νόμῳ»). La distinzione, dopotutto, pur con i limiti
derivanti dalla faticosa individuazione di un termine corrispondente a plebs nella terminologia greca, emerge
(cfr. supra § 4) anche dal raffronto
con Dionysius 6.89.2, se è il neoeletto Bruto a convocare l’assemblea votante
e, poi, giurante la prima legge sacrata: «ὁ δὲ Βροῦτος ἐκκλησίαν
συναγαγὼν
συνεβούλευε τοῖς
δημόταις ἱερὰν καὶ ἄσυλον
ἀποδεῖξαι τὴν ἀρχὴν νόμῳ τε καὶ ὃρκῳ
βεβαιώσαντας αὐτῇ τὸ ἀσφαλές».
[50] Significative perplessità ho sulle motivazioni
che hanno spinto, inaspettatamente, R. FIORI, Homo Sacer, cit., 314 ss. a distaccarsi
dal dettato delle fonti con riguardo ai rispettivi contenuti e, coerentemente,
alla funzione dei menzionati giuramenti; secondo questo Autore, infatti, il
primo giuramento, costituendo ex novo
un ordinamento separato dalla civitas,
avrebbe stabilito la sacratio capitis et
bonorum solamente per i plebei che avessero nuociuto alla persona del
tribuno, il secondo avrebbe invece esteso la medesima sanctio a tutti i Romani. La tesi, oltreché in palese contrasto con
il racconto di Dionigi, mostra, a mio avviso, alcune altre criticità.
Anzitutto, all’evidenza, dopo un decennio di lotte per l’ottenimento di una
qualche forma di tutela in senso garantista, il primo giuramento sarebbe
risultato del tutto superfluo: quale plebeo, mi chiedo, avrebbe aggredito
deliberatamente un tribuno, cioè il frutto ultimo di tanti travagli? Forse, ma
ciò non dissipa i miei personali dubbi sulla ricostruzione proposta, un cliens particolarmente ossequioso verso
i desideri del proprio protettore o un uomo della plebe al soldo patrizio e,
tuttavia, anche in questo caso, l’inutilità della statuizione si paleserebbe
nella misura in cui, tagliata la mano, trascurerebbe inopinatamente di
occuparsi della mente di una simile macchinazione. In secondo luogo,
l’estensione di questa guarentigia giurata sarebbe stata troppo esigua, non
risultando idonea a difendere il tribuno da deliberate aggressioni
aristocratiche. In tema mi pare di poter concordare con l’opinione di F.
ZUCCOTTI, Giuramento collettivo,
cit., 514 ss. e non vedo perché si dovrebbe emendare la tradizione dionisiana:
il giuramento di tutti i Romani assolveva una finalità completamente eterogenea
rispetto al precedente, era utile, infatti, alla causa plebea nella misura in
cui evitava che una disposizione unilateralmente imposta, come quella sacrata,
alla prima debolezza delle forze rivoluzionarie fosse cancellata o svuotata di
significato da un atto altrettanto unilaterale di segno opposto. Nel momento
della sua maggior forza politica la plebe riusciva, con questo atto, a legare religione anche i componenti
dell’avverso ordine ad un provvedimento che non avevano contribuito a plasmare,
in vista, per così dire, dei futuri venti della reazione. Afferma quest’ultimo
Autore: «la sacertà prevista […] per l’attentato al magistrato plebeo, si
colloca su altri piani, che non hanno nulla a che vedere con il giuramento
collettivo» di tutto il populus,
«avente a specifico oggetto l’eterno rispetto di tali statuizioni in se stesse
considerate», se così non fosse, del resto, saremmo di fronte ad un non senso:
i patrizi si sarebbero vincolati davanti agli dei a rispettare una statuizione
unilaterale della plebe, facendo propria la norma sull’inviolabilità dei
tribuni tramite un giuramento, pur non avendola rogata come lex davanti
al comizio centuriato. Difficoltà ricostruttive e sistematiche mi allontanano
dall’argomentazione recentissimamente proposta sul punto da T. LANFRANCHI, Les tribuns de la plèbe, cit., 261 ss.,
anzitutto, anche questo Autore non presta fede al tenore letterale del secondo
giuramento così come tramandatoci da Dionigi, egli infatti ritiene, nonostante
ne riporti il testo in traduzione francese completa e corretta, che questa coniuratio avesse, nel racconto dello
storico di Alicarnasso, la funzione di uno strumento di riconoscimento
ordinamentale della pena della sacratio
capitis per il profanatore dell’inviolabilità tribunizia. Così facendo,
espone incolpevolmente la fonte alla critica di essere o anticipazione indebita
delle leggi Valerie Orazie, circa il recepimento all’interno dell’ordinamento
della civitas dell’inviolabilità
tribunizia o del tutto incoerente con la possibilità per i patrizi di
sottoporre l’intera legislazione all’approvazione comiziale, pervenendo, poi,
per questa via, nelle pagine che seguono, ad espungere del tutto l’evento dalla
sua trattazione.
[54] Un senatoconsulto di ratifica che avrebbe convertito
la statuizione unilaterale plebea in una lex
publica era perfettamente ammissibile pure per questa epoca in base alla
risalente opinione di W. SOLTAU, Die
Gültigkeit der Plebiscite, Berlin 1884, 101.
[55] Cfr. R. FIORI, Homo Sacer, cit., 299; perfino
come mero atto politico un senatoconsulto avente per oggetto i contenuti delle leges sacratae sarebbe assolutamente
inopportuno, che senso avrebbe avuto, infatti, legittimare politicamente uno
strumento di lotta ideato dalla controparte? Anche T. LANFRANCHI, Les tribuns de la plèbe, cit., 261 ss.,
del quale, come detto, non condivido la complessiva impostazione, reputa la
notizia di un placet senatorio
espresso sui contenuti del ius iurandum
plebis assolutamente incoerente con i successivi sviluppi della lotta tra i
due ordini.
[58] La manualistica è concorde, nella sostanza, su
questo punto, dalla più risalente V. ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli 1977, 41, alle
espressioni più recenti A. PETRUCCI, Corso
di diritto pubblico, cit., 25.
[59] Mi pare interessante notare come tra i casi,
tramandati dalle fonti, di auctoritas
prestata dai patrizi, o meglio da quelli di loro parte del senato, F. DE
MARTINO, Storia della costituzione romana,
I, cit., 270 ss. e nt. 25, noto oppositore delle letture “concordatarie” dei
fatti del 494 a.C., inserisca il passo di Dionigi, 6.90.2. Questa circostanza
mi pare dia più di un elemento per ritenere che l’Autore, come chi scrive, la
intendesse quale strumento di approvazione di una delibera elettiva e non
normativa del concilium plebis, che,
se così non fosse, se cioè si accettasse la notizia della ratifica senatoria
delle leges sacratae, si negherebbe
alla radice la complessiva impostazione dell’Autore, facendo rientrare dalla
finestra quell’accordo che con lo screditamento del foedus si era cacciato dalla porta della storia romana
proto-repubblicana.