Università di Roma
“Tor Vergata”
«Costituzionalizzazione di strumenti rivoluzionari della
lotta di classe» e «principio della necessità della
collaborazione» secondo Giuseppe Grosso[1]
SOMMARIO: I. Premesse.
– II. Costituzionalizzazione
di strumenti di lotta. – III. Conflittualità e
principio della necessità della collaborazione. – IV. Conclusioni. – Abstract.
Tra i
tanti meriti che si devono riconoscere a Giuseppe Grosso c'è, secondo
me, quello di aver avuto l'intuizione di cogliere l'ampia portata degli schemi
giuridici, degli istituti, elaborati nel corso della storia, in particolare
nell'àmbito del diritto romano, e di averli utilizzati “con
elasticità” nel ricercare soluzioni ai problemi attuali[2].
Sebbene
la storia non ripeta mai le stesse circostanze, osservava Grosso, in essa vi
è una costante: la sostanza dell'uomo, che dà la
possibilità di evidenziare la ricorrenza di tipizzazioni che creano
possibilità di confronti, anche se – precisava – individuate
e delimitate[3].
Il
parallelo tra l'organizzazione sindacale e il diritto di sciopero da un lato e
tribunato della plebe e l'intercessio dall'altro ne è un esempio[4].
Grosso era ovviamente consapevole che non si trattasse di istituti identici,
perché per ciascuna situazione storica ricordava che vi sono importanti
differenze, come in merito all'obiettivo della lotta, alla struttura e al
contenuto del mezzo di lotta, ai titolari dello stesso[5], ma
ha saputo coglierne il parallelismo e lo ha utilizzato per rispondere ai timori
manifestati rispetto al frequente[6]
ricorso, alla fine degli anni '40 del secolo scorso, allo sciopero e
soprattutto ai dubbi sulla compatibilità di questo con un ordine
democratico.
Gli anni
in cui Giuseppe Grosso coglieva ed utilizzava il parallelismo tra
l'organizzazione sindacale e il diritto di sciopero da un lato e tribunato
della plebe e l'intercessio dall'altro erano quelli successivi
all'entrata in vigore della nostra Costituzione, la quale prevede, agli artt.
39 [7] e 40 [8],
rispettivamente il sindacato e il diritto di sciopero.
L'introduzione
e la formulazione di questi articoli fu molto discussa. Tra i vari interventi
all'Assemblea Costituente ritengo siano da sottolineare quelli del romanista
Giorgio La Pira, che emergono dai resoconti sommari dei lavori della I
Sottocommissione nei giorni dell'11 e 15 ottobre 1946. In tale sede, egli aveva
affermato che i lavoratori non dovessero più essere considerati
«atomisticamente», che la qualifica di lavoratore fosse uno stato
giuridico[9], che
il diritto di sciopero fosse un diritto della persona e che non si potesse
“concretamente” sempre distinguere tra sciopero economico e
sciopero politico[10].
Negli
anni in cui Giuseppe Grosso rifletteva sul parallelismo tra intercessio e diritto di sciopero il
ricorso a quest’ultimo era particolarmente intenso. Per averne la
percezione basta leggere tra i tanti il titolo con cui il quotidiano “Il
popolo nuovo”[11]
riportava il dato dell'Istituto nazionale di statistica sugli scioperi nel
1949, e cioè: “Gli scioperi nel 1949 sono costati alla Nazione
oltre centotrenta milioni di ore lavorative”.
Forte
era quindi il timore per le conseguenze della costituzionalizzazione del
diritto di sciopero, strumento di lotta economica e in definitiva anche
politica[12], fino al punto che ne veniva
messa in discussione la compatibilità con un ordine democratico[13].
Negava
tale compatibilità Corrado Barbagallo, il quale, in particolare
nell'articolo “Scioperi e democrazia” pubblicato sul n. 5
della Nuova Gazzetta del Popolo del 6 gennaio 1950, utilizzava parole
dure rispetto alla democraticità dello sciopero, e quindi in merito alla
scelta di costituzionalizzare quest'arma di lotta.
Scriveva
Barbagallo: «scioperando, si mette periodicamente alla tortura un'intera
nazione, ossia gli avversari, gli amici, se stessi» e ancora:
«Checché se ne dica, la società è un corpo organico
(se così non fosse non avrebbe ragione di esistere!), e, se uno dei suoi
ingranaggi vitali cessa di funzionare, la sofferenza si propaga a tutti gli
altri organi, e in misura più grave ai più delicati tra
essi»[14].
Barbagallo
sosteneva l'antidemocraticità dello sciopero, perché esso
danneggia tutti, e soprattutto – affermava – «quelli che noi
diciamo popolo», proprio per questo sarebbe stato antidemocratico.
Riteneva lo «studioso di ceppo socialista»[15] che
il diritto di sciopero non sarebbe stato proprio né delle democrazie
progressive né di quelle popolari, ma piuttosto della democrazia senza
aggettivi, della democrazia borghese. Affermava ancora che i regimi democratici
non attuano violentemente riforme che possono avvantaggiare di poco alcuni e
danneggiare molto altri, ma piuttosto fanno in modo che ciascuna parte esponga
al pubblico e nelle sedi legislative, le proprie opinioni e i propri interessi.
Giuseppe
Grosso rispondeva prontamente a queste affermazioni, dando vita a quella che
Grosso stesso definì una «polemica giornalistica»[16]. Il
giorno successivo, infatti, il 7 gennaio 1950, usciva sul n. 6 del quotidiano Il
popolo nuovo un articolo di Grosso intitolato Diritto di sciopero.
In questo articolo egli utilizzava, anticipando in parte il contenuto del
saggio Il diritto di sciopero e l'intercessio dei tribuni della plebe,
il parallelo con il tribunato della plebe e con l'intercessio per
mostrare come l'organizzazione sindacale e lo sciopero non fossero in
contraddizione, né in una posizione di assoluta incompatibilità
con un ordine democratico.
Le
obiezioni di Giuseppe Grosso erano puntuali e precise. Egli osservava che i
sindacati, gli scioperi sono «realtà dei rapporti sociali del
mondo in cui viviamo»[17], che
«la forza di un ordine, e la democrazia è l'ordine per eccellenza,
sta nel comprendere, non nel negare, le forze reali che attraverso il contrasto
e la lotta promuovono lo sviluppo della vita»[18].
Conflittualità che promuove lo sviluppo, punto importante sul quale mi
soffermerò a breve. E riportava immediatamente il parallelismo con il
tribunato della plebe e l'intercessio tribunizia. Il tribunato della
plebe era -osservava Grosso- una magistratura rivoluzionaria
costituzionalizzata con il suo carattere rivoluzionario, che le avrebbe potuto
permettere di paralizzare la vita della res publica[19]. In
modo simile al tribunato, l'organizzazione sindacale sarebbe la «forza
poderosa» compresa nella Costituzione, espressione della lotta di classe
e, in modo simile all'intercessio, lo sciopero sarebbe «l'arma
formidabile che questa [l'organizzazione sindacale] ha nelle mani». La
costituzionalizzazione di questo strumento di lotta, osservava Grosso, in
polemico contrasto con Barbagallo, è «la forza e la
vitalità» dell'ordine democratico[20]. La
cura per l'uso insano che talvolta viene fatto di questo strumento non è
per Grosso la sua abolizione[21], ma,
come ha precisato Andrea Trisciuoglio[22], la
definizione di limiti.
L'intercessio
tribunizia, evidenziava Grosso, aveva una «diretta funzione
paralizzatrice», ma questa funzione non aveva impedito lo sviluppo di
Roma, perché come egli stesso precisava «fu proprio attraverso questa
lotta che si raggiunse l'assetto interno di una società in piena
espansione».
Il tribunato, infatti, caratterizzantesi essenzialmente come un
potere negativo, ha portato al raggiungimento di difficili obiettivi; si pensi
al pareggiamento tra patrizi e plebei. Lo scontro con l'imperium (e con
lo ius) avrebbe potuto essere sterile e paralizzante, invece condusse
spesso -sebbene in alcuni casi con lentezza- verso importanti risultati.
Ci potremmo chiedere, a partire dall'affermazione di Grosso, per
quale motivo, in che modo, il tribunato non abbia frenato lo sviluppo di Roma,
ma piuttosto abbia contribuito a darle «l'assetto interno di una
società in piena espansione».
Per cercare di rispondere è utile richiamare brevemente il
tribunato della plebe e i suoi caratteri.
I caratteri fondamentali del tribunato -che ne hanno determinato
la forza e quindi l'efficacia- sono da individuare oltre che nell'elezione da
parte dei concilia tributa plebis, nel potere dei tribuni e nel modo in
cui questa magistratura si relazionava, interagiva, con l'imperium.
I tribuni della plebe, che dovevano essere plebei[23],
erano eletti dai concilia tributa plebis. In realtà, molti sono i
dubbi e le ipotesi avanzate dalla storiografia sulle modalità di
elezione dei tribuni, almeno fino al 471 a.C., anno in cui il tribuno Publilio
Volerone propose un plebiscito per regolamentarne l'elezione[24]. Il
plebiscito Volerone prevedeva che l'elezione dei tribuni della plebe avvenisse
nelle assemblee plebee ordinate per tribù, i concilia tributa plebis[25].
I singoli poteri dei tribuni sono espressione della sacrosancta
potestas[26] e sono finalizzati a
difendere i plebei contro l'arbitrio dei magistrati patrizi (auxilii latio
adversus consules); in modo più specifico essi si concretizzano
nell'intercessio, nella coercitio e nello ius agendi cum
plebe.
Il tribuno era sacrosanctus[27].
Infatti, chiunque lo avesse offeso sarebbe incorso nella sacertas. L'inviolabilità trova il proprio
fondamento, dapprima, nel giuramento (iusiurandum) collettivo della
plebe, avvenuto nel 494 a.C. sul Monte Sacro[28], e
nel successivo giuramento, prestato da patrizi e plebei insieme, durante le caerimoniae
sacrificali[29]; in seguito,
all'inviolabilità religiosa si aggiunge quella per legge (con la lex
Valeria del 449 a.C.): et cum religione inviolatos eos tum lege etiam
fecerunt, sanciendo ut qui tribunis plebis, aedilibus, iudicibus decemviris
nocuisset, eius caput Iovi sacrum esset, familia ad aedem Cereris, Liberi
Liberaeque venum iret[30].
Senza l'immunità, anche l'intercessio, poderoso potere di veto,
contro gli atti del governo, non avrebbe potuto ottenere i risultati raggiunti.
I tribuni della plebe avevano il compito di difendere la plebe.
L'auxilii latio adversus consules, che -come osserva De Martino[31]- fu
il primo compito dei tribuni, era volto a proteggere il plebeo contro l'imperium
dei supremi magistrati. Tale auxilium «era l'espressione non
del diritto, ma della forza plebea»[32] e
serviva a difendere il singolo plebeo, i singoli cives contro il
magistrato patrizio[33]. L'intercessio
era il diritto di veto, per mezzo del quale il tribuno poteva opporsi agli atti
dei pubblici poteri[34]. L'intercessio,
che faceva leva sull'inviolabilità tribunizia, paralizzava l'imperium
in atto. Come osserva ancora De Martino[35], lo
scudo dell'immunità dei tribuni fu un geniale principio inventato dalla
plebe contro il potere patrizio. Con l'intercessio, «il
tribuno poteva vietare la leva dell'esercito e l'imposizione dei tributi, le proposte
di leggi, le elezioni, l'esecuzione di deliberazioni del senato e perfino la
convocazione dei comizi»[36]. La coercitio
era espressione della summa coercendi potestas, potere utile ai
tribuni anche per assicurare l'efficace esercizio dell'intercessio[37].
Grazie alla summa coercendi potestas i tribuni potevano procedere anche
contro gli ex magistrati per i fatti commessi durante la carica, potevano
comminare multe, ordinare il sequestro di beni, provvedere all'arresto di
qualsiasi cittadino, potevano infliggere condanne capitali[38]. Lo ius
agendi cum plebe consisteva nel potere dei tribuni di convocare e
presiedere i concilia tributa plebis e nel proporre rogationes volte
alla produzione di plebiscita. Lo ius agendi cum plebe
comportava, quindi, un potere propositivo, soprattutto se si considera che
prima della exaequatio dei plebiscita alle leges, i primi
potevano essere utilizzati come richieste ai consoli o al senato, perché
i comitia centuriata votassero un determinato provvedimento[39].
Il potere dei tribuni della plebe era fondamentalmente un potere
negativo. Essi non avevano l'imperium né gli auspicia[40].
Anzi, come ricorda Cicerone in De re publ. 2.58, i tribuni della plebe
furono istituiti contra consulare imperium[41].
Quelli a disposizione del tribuno della plebe erano strumenti (rivoluzionari)
di opposizione, di difesa, che «potevano fermare qualsiasi atto dei
pubblici poteri»[42].
Certamente, accanto al potere negativo del tribuno, vi era lo ius
agendi cum plebe, che da iniziale potere coinvolgente la proposta di
provvedimenti vincolanti per i soli plebei, avrebbe poi incluso il potere di
proporre testi aventi valore di legge (plebiscita) per tutto il populus[43].
Tuttavia non basta per spiegare come un potere essenzialmente
negativo sia riuscito a non frenare lo sviluppo di Roma, ma ad inserirsi in
esso. Si deve piuttosto sottolineare che la conflittualità tra patrizi e
plebei era interna allo ius[44] e
anche per questo dinamica e costruttiva. I tribuni della plebe, non avendo l'imperium,
il sommo potere di comando, si avvalevano, soprattutto nella fase iniziale[45], del
loro potere negativo per condurre i magistrati patrizi a proporre o a prendere
quei provvedimenti che ritenevano opportuni per la plebe prima e per tutto il populus
poi. Si pensi proprio all'intercessio, strumento di opposizione che
avrebbe potuto portare ad una “paralisi” del governo della res
publica.
La forza intrinseca della conflittualità, dello scontro
tra patrizi e plebei era stata già ben colta da Machiavelli[46], il
quale nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio osservava che
«la disunione della Plebe e del Senato fecero libera quella
repubblica». Proprio per questo coloro che consideravano negativamente
gli urti, gli scontri tra patrizi e plebei non si sarebbero resi conto, secondo
Machiavelli, che in questo modo avrebbero biasimato ciò che permise a
Roma di essere libera e -soprattutto- avrebbero enfatizzato più le grida
che scaturivano dai tumulti (come faceva in tempi più recenti Barbagallo[47]) che
gli effetti benefici che da questi prendevano vita[48].
Continuava Machiavelli osservando che a Roma quando il popolo voleva una legge
si vedeva «correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe,
partirsi tutta la plebe di Roma» o il popolo non dava il «nome per
andare alla guerra», così che per placarlo era necessario
accontentarlo in qualche cosa: in questo modo, mi sembra, si giungeva ad un
accordo, ad un compromesso che nasceva dalla necessità di una
collaborazione.
Nella persistenza del conflitto, il raggiungimento di importanti
obiettivi della plebe è stato spesso accompagnato da faticose
concessioni o rinunce dell'una o dell'altra parte o di entrambe. In alcuni casi
è stato anche importante l'intervento del magistrato patrizio, o del
senato per evitare la paralisi o l'ulteriore inasprimento del conflitto[49].
Diverse sono le testimonianze di tentativi che si possono citare (oltre
l'apologo di Menenio Agrippa), già dai primi anni della repubblica, di
evitare la disgregazione o la paralisi e ripristinare la concordia civium[50], ci
tengo a sottolinearlo, pur nella persistenza della conflittualità: si
pensi alla proposta nel 479 a.C. del console Cesone Fabio ai senatori di
distribuire alla plebe il territorio conquistato in guerra, nel modo più
equo possibile[51]. L'iniziativa del console,
che non ebbe seguito per l'opposizione dei senatori, nasceva dall'intento di
riportare la concordia tra patrizi e plebei, soprattutto considerando che questi
ultimi, stanchi del mancato seguito dato alla loro proposta di lex agraria,
utilizzavano, come strumento di contestazione, il rifiuto alla chiamata alla
leva; oppure si pensi al consenso dei tribuni all'arruolamento nel 457 a.C. (in
vista dell'imminente minaccia dell'esercito sabino), condizionato all'aumento a
dieci del numero dei tribuni, condizione a sua volta assoggettata a quella dei
patrizi che non fossero più rieletti gli stessi tribuni[52].
Avendo, poi, presente il piano più prettamente politico del conflitto
tra patrizi e plebei, sebbene sia difficile anche nelle rivendicazioni plebee
distinguere nettamente il profilo economico da quello sociale e politico[53], si
può citare da un lato la costante richiesta dei tribuni in merito
all'accesso dei plebei al consolato -accompagnata dall'intercessio verso
gli atti relativi alla leva- e dall'altro la ferma posizione dei patrizi di non
cedere a questa richiesta. Il compromesso nel 444 a.C., come testimonia Livio,
fu il tribunato militare con potestà consolare[54].
L'accordo (risultato della necessaria collaborazione), tra i
tribuni della plebe da una parte ed i magistrati patrizi, il resto del populus
e il senato dall'altra, fu spesso, ma non sempre, la soluzione per evitare la
paralisi, o come insegna ciò che avvenne dopo l'apologo di Menenio
Agrippa[55], per
evitare la disgregazione.
A proposito della secessione del 494 a.C., Grosso affermava che
«la tradizione romana poneva l'apologo di Menenio Agrippa, e cioè
il principio della necessità della collaborazione, alla base del
riconoscimento dell'arma di lotta plebea». Egli scandiva in modo preciso
come dalla secessione, dall'urto, dalla lotta, dal foedus fossero nati i
tribuni con il loro carattere rivoluzionario, con il riconoscimento della loro sacrosanctitas[56].
Per Grosso il principio della necessità della
collaborazione era quindi alla base, durante la secessione del 494 a.C.,
dell'accordo che legalizzava il tribunato della plebe[57], ma
allo stesso tempo implicitamente, almeno così mi sembrerebbe, costituiva
il punto di riferimento ultimo che avrebbe potuto permettere di disinnescare la
potenzialità distruttiva della disgregazione (o in caso di intercessio
della paralisi), orientandola verso la ricerca, non ovvia e scontata,
così come non sempre facile ed immediata, di un accordo[58].
D'altra parte, la consapevolezza implicita del principio della necessità
della collaborazione mi sembrerebbe riscontrabile anche nelle fonti. Tra gli
esempi che si possono citare, si pensi al praefectus urbis Q. Fabio, il
quale, nel 462 a.C. nel contrasto nato tra patrizi e plebei in seguito alla
proposta di Terentilio Arsa, come ricorda Livio (3.9.11), nel contrasto nato
tra patrizi e plebei in seguito alla proposta di Terentilio Arsa, avrebbe
pregato gli altri tribuni della plebe di considerare che la loro potestas
gli era stata conferita ad singulorum auxilium, non per la rovina di
tutti (non ad pernicionem universorum), quindi della Comunità, e
che loro erano stati creati tribuni della plebe, non nemici dei patrizi (tribunos
plebis vos creatos, non hostes patribus). Gli altri tribuni a questo
punto avrebbero agito su Terentilio Arsa. Oppure si pensi a quanto afferma
Dionigi di Alicarnasso, a proposito del contrasto tra patrizi e plebei, in
merito alla proposta dei tribuni della plebe di procedere alla stesura di leggi
certe che regolassero gli affari sia privati che pubblici[59], e
cioè che ad un certo punto tutti, anche sulla base degli spaventosi
presagi inviati dagli dei, sarebbero stati d'accordo sulla necessità di
abbandonare le reciproche accuse e di accordarsi nell'interesse della
Comunità[60], sebbene, come dimostrano
anche gli avvenimenti successivi, ciò non fosse semplice.
Come affermava Grosso in un intervento al convegno tenutosi a
Sassari nel 1971 “Forme di autonomia e diritto di resistenza nella
società contemporanea”, il potere negativo serve per ottenere
risultati positivi[61]. A
proposito della discussione tra Bobbio[62] e
Catalano[63] se lo sciopero fosse o meno
espressione di un potere negativo, Grosso osservava: «L'arma dello
sciopero è negativa, e naturalmente serve per ottenere dei risultati
positivi, come era negativa -scusate il richiamo del romanista- l'intercessio
dei tribuni della plebe, che era un diritto di veto, col quale però i
tribuni della plebe, opponendo il veto, fermavano tutto finché non
ottenevano quello che volevano ottenere. Quindi in sostanza lo strumento
negativo è sempre uno strumento negativo con valore positivo»[64]. Con
queste parole, a mio avviso, Grosso avvertiva, e rilevava implicitamente, che
gli strumenti negativi, per raggiungere risultati positivi, necessitano
dell'accordo, della collaborazione del “potere positivo”. Lo
strumento negativo, per riuscire ad avere un valore positivo, sfrutta la sua
potenzialità negativa, cioè la paralisi, per arrivare ad un
accordo, avvertito ad un certo punto come necessario, con l'altra parte, che
detiene il potere “positivo”. In questo modo il potere negativo
riesce ad avere un valore positivo. Anche lo sciopero non mira, come fine
ultimo, alla paralisi, ma ad ottenere risultati positivi attraverso la
paralisi.
La paralisi era il fine strumentale per il raggiungimento di un
determinato obiettivo (potere negativo con valore positivo, afferma Grosso),
quest'ultimo poteva essere concretamente, “positivamente”
realizzato con l'intervento di altri (i magistrati patrizi, il senato e il
resto del populus)[65].
Dunque la paralisi determinata dal potere negativo, per portare risultati
positivi e non rimanere sterile o addirittura nociva per la civitas, doveva
fare riferimento e leva, come sembrerebbe emergere da un'analisi ex post, su un
principio implicito condiviso, la salvaguardia della civitas, che
avrebbe condotto a riconoscere la necessità della collaborazione.
Proprio presupponendo questa logica, a me sembrerebbe possa
ulteriormente spiegarsi l'affermazione di Grosso che l'intercessio
tribunizia «non ha frenato lo sviluppo di Roma, ma si è inserita
nei termini di esso»[66].
L'intercessio dei tribuni della plebe, il diritto di
sciopero dei lavoratori non sono dunque in contrasto con l'ordine democratico,
ma ne sono un'importante espressione. Sono poteri che completano e difendono la
democrazia. I patrizi ed i plebei, i magistrati patrizi e i tribuni della
plebe, erano portatori di esigenze diverse e contrapposte all'interno della civitas,
tuttavia al fondo vi era la consapevolezza di entrambe le partes di una
finalità unitaria: la salvaguardia e l'espansione della civitas. La
costituzionalizzazione di strumenti rivoluzionari di lotta da un lato, il principio
della necessità della collaborazione dall'altro, spiegano in che modo il
potere negativo possa rendersi promotore -utilizzando le parole di Pugliese- di
«un maggiore equilibrio tra le forze sociali e un'ascesa
politico-economica del nostro Stato»[67]. Con
il riconoscimento del diritto di sciopero, la Costituzione italiana, come ha
osservato Pierangelo Catalano, ha «garantito al cittadino l'unico mezzo
effettivo, fino ad oggi, di esercizio diretto della sovranità, ed i
sindacati sono stati la linea di difesa articolata di tale potere»[68].
Alla luce di queste riflessioni mi sembrerebbe possa ritenersi
che Grosso, nell'utilizzare il parallelo tra l'intercessio e il diritto
di sciopero per rispondere all'affermata antidemocraticità di
quest'ultimo, ritenesse che lo sciopero non avrebbe paralizzato lo sviluppo del
Paese. Piuttosto, in modo simile alla funzione paralizzatrice dell'intercessio,
che non ha bloccato l'espansione della civitas romana in quanto
è stata uno strumento di pressione per arrivare ad ottenere quello che
il tribuno, la plebe voleva, spesso attraverso un accordo con l'altra parte del
populus e con i magistrati muniti di imperium, anche l'arma di
lotta “sciopero” avrebbe potuto essere utilizzata contro i datori
di lavoro e in generale contro il potere, anche politico, per esercitare
pressioni, inevitabilmente necessarie per far sentire
“negativamente” la voce del cittadino lavoratore. In questo modo lo
sciopero, potere negativo del cittadino lavoratore, può spingere chi
detiene il potere positivo verso l'accoglimento delle esigenze manifestate con
lo sciopero, ad esempio, può portarlo alla stipula o alla modifica di un
contratto collettivo, che ha «la funzione di composizione dei conflitti
collettivi e dunque di pacificazione sociale»[69],
almeno sulla questione al momento dibattuta[70]; o
ancora può portare il potere legislativo o esecutivo a prendere
provvedimenti in merito alle questioni contestate dai cittadini lavoratori in
sciopero e così permettere al cittadino lavoratore di partecipare
«alla organizzazione anche politica del paese» e alla funzione di
indirizzo politico[71].
Al termine del saggio Il diritto di sciopero e l'intercessio
dei tribuni della plebe, Grosso, come ho già detto, ricordava a chi
avesse voluto vedere il superamento della crisi sociale e politica di quegli
anni (gli anni 50 del secolo scorso) «in una semplice affermazione della
necessità di una collaborazione di classi» la circostanza che la
tradizione romana avesse collocato «l'apologo di Menenio Agrippa, e
cioè il principio della necessità della collaborazione, alla base
del riconoscimento dell'arma di lotta della plebe».
Secondo questa prospettiva, che condivido, non può
ritenersi sufficiente il principio della necessità della collaborazione[72].
Fondamentali, come aveva avvertito la plebe dopo la prima secessione, sono gli
strumenti che permettono ai tribuni della plebe di esercitare dentro la civitas,
ma in modo dialettico e anche conflittuale, il loro potere negativo. Lo
scontro, il conflitto, l'urto rendono spesso “concreta” la necessità
di un addivenire a patti tra due parti portatrici di interessi diversi, ma
all'interno di una comune organizzazione sociale[73].
Ciò può essere detto anche per lo sciopero, a proposito del quale
Di Vittorio, nel corso dei lavori costituenti, osservò che i
«lavoratori di oggi, e non soltanto in Italia, danno una prova
così manifesta di coscienza sociale elevata da non giustificare la
preoccupazione di non giungere a degli accordi in ogni caso». Lo sciopero
non può, quindi, essere considerato, come faceva Barbagallo, alla
stregua di uno strumento antidemocratico da eliminare, in quanto permetterebbe
ad uno degli ingranaggi di un corpo organico di cessare la sua funzione e
così arrecare sofferenza agli altri, ma piuttosto come lo strumento
democratico che dà la possibilità al cittadino lavoratore di
esercitare negativamente la sua sovranità per ottenere dei risultati
positivi.
Di Vittorio, infatti, nel sostenere la proposta di inserimento
nella Costituzione del diritto di sciopero, non solo ricordava che questo
è «intimamente legato al concetto pieno di democrazia»[74], ma
rispetto a chi manifestava preoccupazione per lo sciopero nei servizi pubblici
riteneva non giustificato il timore che i lavoratori non arrivassero in ogni
caso ad un accordo[75].
Il riconoscimento costituzionale del diritto di sciopero fornisce
al cittadino lavoratore lo strumento per ristabilire l'equilibrio delle
trattative[76] (così che si giunga
alla necessità di una collaborazione tra le parti e non ad una
sottoposizione di una parte all'altra) e allo stesso tempo per partecipare alla
organizzazione politica economica e sociale del Paese, per porsi, quindi, come
interlocutore nel dialogo istituzionale. Il diritto di sciopero è lo
strumento che permette al cittadino lavoratore di esercitare in modo diretto la
sovranità[77]. Come ha sottolineato
Catalano[78], l'interpretazione dell'art.
40 in connessione all'art. 3 comma 2 della Costituzione permette di considerare
il diritto di sciopero come lo strumento attraverso il quale il cittadino
lavoratore può partecipare «alla organizzazione anche politica del
paese» e alla funzione di indirizzo politico.
Per concludere, ritengo che le due espressioni di Giuseppe
Grosso, che ho riportato nel titolo di questo contributo
(«Costituzionalizzazione di strumenti rivoluzionari della lotta di
classe»[79] e «principio della
necessità della collaborazione»[80]),
esprimano due aspetti tra loro strettamente legati sia nell'esperienza romana
del tribunato della plebe e dell'intercessio sia in quella contemporanea
del sindacato e del diritto di sciopero. Il riconoscimento all'interno della civitas
del tribunato della plebe, potere negativo costituzionalizzato con la sua forza
rivoluzionaria, come spiega Grosso, aveva alla base un
“avvertimento”, il principio della necessaria collaborazione, e al
tempo stesso era lo strumento che rendeva effettiva, attraverso la minaccia
della paralisi determinata dall'intercessio, la collaborazione
dialettica e conflittuale tra ordini, perché dando voce al tribuno della
plebe dava alla plebe la forza di porsi come interlocutrice e quindi la
possibilità di raggiungere i suoi obiettivi. In modo simile, nel momento
in cui la Costituzione prevede e disciplina le organizzazioni sindacali e, in
particolare, il diritto di sciopero, istituzionalizza un potere negativo che
dà voce al cittadino lavoratore, ma allo stesso tempo -mi sembrerebbe-,
come emerge dai lavori della Costituente, consideri la possibilità che
l'esercizio di questo potere negativo possa condurre ad un accordo tra le parti
in conflitto[81]. In questo modo il
contrasto, la lotta, il conflitto possono promuovere lo sviluppo del Paese.
The article takes the moves from the two
expressions of Giuseppe Grosso quoted in the title to discuss the relationship between
the constitutionalization of class struggle instruments with the principle of
the need for collaboration. In particular, consideration is given to the Roman
experience of the plebeian tribunate and the intercessio and the contemporary experience of trade unions and the
right of strike.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Questo articolo costituisce il testo, ampliato
e corredato di note, della relazione tenuta alle “Segundas Jornadas
Ítalo-Latinoamericanas de Defensores Cívicos y Defensores del
Pueblo. Tribunado-poder negativo y defensa de los Derechos Humanos, en homenaje
al Profesor Giuseppe Grosso. Torino 8-9 settembre 2016”, i cui Atti sono
in corso di pubblicazione.
[2]
G. Grosso, Schemi giuridici ed
evoluzione sociale, in Rivista del diritto commerciale, 1946, I, 123
ss. (= ora in Id., Tradizione e
misura umana del diritto, Milano 1976, 67 ss., nonché in Scritti
storico giuridici, I, Storia diritto società, Torino 2000,
137 ss.); Id., Il
tradizionalismo dei giuristi, in Annali del Seminario giuridico
dell'Università di Catania 6-7, 1951-1953, 1 ss. (= in Id., Tradizione e misura umana del
diritto, cit., 35 ss., nonché in Scritti storico giuridici,
I, cit., 269 ss.); Id.,
Realtà giuridica effettuale e tradizionalismo giuridico, in Il
Diritto dell'economia 2.8, 1956, 895 ss. (= in Id., Tradizione e misura umana del diritto, cit., 62,
nonché in Scritti storico giuridici, I, cit., 364 ss.), ritiene
che il «tradizionalismo» sia un atteggiamento connaturato al
giurista. «Se il diritto opera attraverso tipicizzazioni e schematizzazioni,
se l'unità dello schema, e dell'ordine in cui esso si inserisce, si
afferma precisamente sopra la molteplicità e varietà dei fatti e
della vita, ne nasce una visione della continuità dello schema, pur nel
fluire del contenuto; ne viene quella tendenza, propria del giurista, a
cogliere l'unità e la continuità dell'ordine e degli schemi
giuridici, a cogliere come delle costanti …; quel tradizionalismo
giuridico che dà alla vicenda storica degli schemi e degli istituti giuridici
un ritmo ben diverso da quello intenso, rapido e pulsante dei fatti della vita.
Questo incontro di tradizione […] e diritto […], questo
tradizionalismo del giurista [...] rappresenta a mio avviso una componente
necessaria della conoscenza e dell'elaborazione del diritto […]. La
fertilità della mente giuridica nel far nascere schemi da schema, tutte
le applicazioni indirette […] si riconducono a questa legge di
continuità della tradizione nel diritto»; Id., Schemi giuridici vecchi e realtà nuova,
in Il Diritto dell'economia 5.4, 1959, 495 ss. (= [da cui in
seguito si cita] in Id., Tradizione
e misura umana del diritto, cit., 73 ss., nonché in Scritti
storico giuridici, I, cit., 458 ss.): «Gli schemi giuridici sono dei
valori di esperienza» e proprio in questo loro valore sta «la loro
forza di propulsione e la loro capacità di adattamento» (p. 76); Id., Schemi giuridici e
società nella storia del diritto privato romano. Dall'epoca arcaica alla
giurisprudenza classica: diritti reali e obbligazioni, Torino 1970, 1 ss; Id., Schemi giuridici e
società dall'epoca arcaica di Roma alla giurisprudenza classica: lo
sviluppo e la elaborazione dei diritti limitati sulle cose, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin 1972, 134 ss.; P. Catalano, Giuseppe Grosso con noi,
in Index 5, 1974-75, X, osserva: «“Concretezza” e
tradizionalismo dei giuristi romani, continuità delle
“Gastaltungsformen” del diritto romano, in adeguazione allo
sviluppo sociale, stanno al centro dell'ultima lezione del Grosso, tenuta a Vienna
il 25 ottobre 1973».
[3]
G. Grosso, Storia antica e
storia di oggi, in Rotary Club di Torino, Torino 1972, 1
dell'estratto (= in Id., Scritti
storico giuridici, I, cit., 959). Egli si chiedeva: «È
fantasia divagatrice il ricercare nella storia ricorsi e ragioni di confronto?
È opera creativa di artisti e poeti?» e si rispondeva la
«storia è vita, e la vita non ripete mai le identiche circostanze;
ma nella storia c'è una costante, e cioè la sostanza dell'uomo, nelle
sue possibilità, nelle sue aspirazioni, nelle sue reazioni e nei suoi
limiti; ed essa permette di cogliere il ricorrere di certe tipizzazioni e di
certe linee, spesso con ricchezza di varie possibilità di confronti,
sempre però individuate e delimitate».
[4]
G. Grosso, Il diritto di
sciopero e l'«intercessio» dei tribuni della plebe, in Rivista
italiana per le scienze giuridiche 6-7, 3a s., 1952-1953, 397 ss. (= [da
cui in seguito si cita] in Id., Tradizione
e misura umana del diritto, cit., 267 ss., in particolare 270,
nonché in Scritti storico giuridici, I, cit., 307); Id., Osservazioni su “la
funzione del giudice nella società contemporanea”, in Diritto
dell'economia 17.3, 1971, 279 (= in Id.,
Scritti storico giuridici, I, cit., 909).
[5]
G. Grosso, Il diritto di
sciopero, cit., 270: «ché anzi, per l'individualità di
ogni situazione storica, si può ben mettere in risalto la notevole
differenza; differenza nella posizione e negli obiettivi dei termini della
lotta; differenza nella struttura e nel contenuto del mezzo e nei titolari
della legittimazione all'uso di questo».
[6] Ho sfogliato i numeri del 1949 e 1950 dei
quotidiani “Il popolo nuovo” e “La Gazzetta del
Popolo” e molto frequenti sono gli articoli dedicati allo sciopero e
al ricorso a questo strumento di lotta.
[7] Art. 39 Cost. L'organizzazione sindacale
è libera.
Ai sindacati non può essere imposto
altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali,
secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che
gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità
giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro
iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria
per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
[9] Cfr. Commissione
per la Costituzione, III Sottocommissione, Resoconto sommario della seduta
di venerdì 11 ottobre 1946, 225: «Poiché si sta facendo
una Costituzione alla quale non si vuole dare il vecchio volto liberale o
liberista, ma un volto nuovo, è bene che un principio che esprima
quest'altro volto venga espresso in questa Costituzione. Mentre la concezione
liberale considera i lavoratori atomisticamente, nella nuova concezione
organica del lavoro la qualifica di “lavoratore” è uno stato
giuridico al quale si ricollegano diritti privati, diritti pubblici,
conseguenze giuridiche»; 229 «La Pira riafferma il principio che
l'associazione sindacale non è una qualsiasi associazione, ma diventa,
nella concezione moderna dello Stato, un elemento strutturale dell'ordinamento
sociale».
[10] Cfr. Commissione per la Costituzione, III
Sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di venerdì 11
ottobre 1946, 236: «La Pira è del parere che effettivamente il
diritto di sciopero è un diritto della persona, e che quindi esso vada
affermato in maniera più assoluta di quanto non faccia la formula proposta
dal Presidente. Dichiara, però, divergendo dall'onorevole Togliatti, di
ritenere che il diritto di sciopero vada in qualche modo limitato. Ricorda che
tutte le Costituzioni moderne pongono dei limiti a questo diritto. Il primo
progetto francese, per esempio, diceva: “Il diritto di sciopero è
riconosciuto a tutti nell'ambito delle leggi che lo disciplinano”.
Inoltre se si considera uno Stato socialista, in esso lo sciopero
automaticamente sparisce. Togliatti, Relatore, osserva che sparisce come
fatto. La Pira replica che lo sciopero resta come diritto, ma non viene
menzionato nella Costituzione. Lo sciopero è atto di rivendicazione, non
soltanto economica, ma politica. Man mano che si costruisce uno Stato adeguato
alle esigenze della classe lavoratrice, dando ad essa il posto che le spetta,
si attenua l'esercizio del diritto di sciopero in certi settori dove è
più vitale l'interesse pubblico». Su sciopero economico e sciopero
politico in La Pira cfr. P. Catalano,
Sovranità della multitudo e potere negativo: un aggiornamento,
in Studi in onore di G. Ferrara, I, Torino 2005, 650. M. Vari, Alcuni principi
costituzionali secondo Giuseppe Grosso. Antologia, in Tradizione
romanistica e Costituzione (diretto da L. Labruna e a cura di C. Cascione-
M.P. Baccari), I, Napoli 2006, 271.
[12]
G. Grosso, Il diritto di
sciopero, cit., 272, sottolinea come non si possa semplicemente distinguere
tra sciopero economico e sciopero politico, anche in considerazione del fatto
che non sempre si possa escludere un fine politico dal fine economico e
sociale.
[13]
C. Barbagallo, Autonomia sindacale,
in Nuova Gazzetta del Popolo, n. 9 del 11 gennaio 1949, 1 e Id., Scioperi e democrazia, in Nuova
Gazzetta del Popolo, n. 5 del 6 gennaio 1950, 1.
[14]
C. Barbagallo, Scioperi e democrazia,
cit., 1, rispondendo alle affermazioni della Confederazione Generale del Lavoro
e «dei partiti di estrema sinistra» che sostenevano la
democraticità dello sciopero, osservava: «allorché quei
competentissimi si esprimono in tal senso, non debbono certo riferirsi alle
“democrazie progressive” o “popolari”, giacché
così fatte democrazie non concepiscono, non ammettono il diritto di
sciopero, e agli imprudenti che tentassero di risuscitarlo, sogliono far pagare
tanta audacia con la forca. Ma essi debbono riferirsi a quell'altra democrazia
senza aggettivi, a quella democrazia borghese, da cui, com'è naturale,
aborrono, ma che in singolari occasioni si compiacciono di invocare
appassionatamente. […] lo sciopero non colpirebbe tanto la classe degli
“sfruttatori”, contro cui esso è rivolto, quanto l'intero
corpo sociale e gli stessi suoi promotori. Se, invero, scioperano i tranvieri,
gli “sfruttatori” si affrettano ad andare in macchina, ma i poveri
diavoli debbono andare a piedi. […] Checché se ne dica, la
società è un corpo organico (se così non fosse non avrebbe
ragione di esistere!), e, se uno dei suoi ingranaggi vitali cessa di
funzionare, la sofferenza si propaga a tutti gli altri organi, e in misura
più grave ai più delicati tra essi. [...] se lo sciopero
danneggia tutti, e assai più quelli che noi diciamo popolo, esso, come
avverte anche l'etimologia della parola, risulta sicuramente antidemocratico.
[…] Ogni regime democratico […] rifugge dall'attuare violentemente
riforme, che giovano soltanto ad alcuni, e danneggiamento seriamente altri.
Esso, per sua natura ammette, richiede, anzi, che tutte le parti espongano al
pubblico, e nelle apposite sedi legislative, le loro opinioni, illustrino i
loro speciali interessi, facendo rilevare le ripercussioni, favorevoli o
contrarie, che vi esercita ogni riforma, ogni legge, ogni istituto sociale. Per
questo fatto le democrazie non consumano colpi di mano, non praticano azioni
extralegali, non vagheggiano regimi dittatoriali, siano esercitati dal basso o
dall'alto, ma lavorano a far sì che ogni spostamento di rapporti sociali
avvenga con la minor violenza di scosse, con la minore quantità di danni
possibile, con tutta la lentezza che il suo processo richiede, affinché
possa perdere per via le punte più irritanti e più dolorose. Da
tali precauzioni appunto deriva il carattere, scrupolosamente legale, che ogni
rivolgimento deve avere in democrazia. Or bene la pratica dello sciopero agisce
in senso perfettamente contrario. Movendo dalla grossolana constatazione dei
bisogni di una parte, anche se infinitesima, della società, essa non
esita a strappare con violenza la trama delicatissima dei rapporti sociali, a
infliggere agli altri, o a tutti, danni in certi casi irreparabili, purché
i bisogni di alcuni siano soddisfatti. Scioperare è, quindi, un atto di
violenza, è la insurrezione, è la rivolta cieca ed armata, anche
se in apparenza pacifica; non può essere, perciò, istituto
proprio della democrazia, nonostante che le costituzioni democratiche, in
momenti climaterici, per opportunità o per imprevidenza, ne abbiano
formulato il diritto in qualcuno dei loro articoli». Si trattava di un
monito non solo per i comunisti o filocomunisti ma anche per i liberali e i
democratici.
[19]
G. Grosso, Diritto di sciopero, cit., 1, precisamente osservava: «Roma
ha mantenuto per secoli, nella sua stessa costituzione, una magistratura
rivoluzionaria, costituzionalizzata nel suo stesso carattere rivoluzionario,
che le permetteva addirittura di arrestare la vita dello stato, il tribunato
della plebe; quando la repubblica è entrata in una vasta crisi, la
ragione di questa crisi non stava certo nell'esistenza del tribunato (e chi,
come Silla, ha cercato di limitarlo ha fatto un buco nell'acqua), ma in tutto
un complesso di fattori che hanno travolto e sommerso».
Per G.
Grosso, Lezioni di storia del diritto romano, 5a ed., Torino
1965, 86 e ss., la legalizzazione all'interno della civitas della
organizzazione rivoluzionaria plebea era avvenuta con un foedus
«sia pure con una certa elasticità, così che i tribuni
venivano accolti, nella loro posizione singolare di difensori della plebe,
colla qualifica di sacrosancti, cioè
dell'inviolabilità» (p. 87).
[20]
G. Grosso, Diritto di sciopero, cit., 1, più precisamente scriveva:
«La società moderna, retta in forme costituzionali, comprende
dentro di sé una forza poderosa, che è soprattutto espressione di
lotta delle classi che si affermano, l'organizzazione sindacale; lo sciopero
è l'arma formidabile che questa ha nelle mani. Legalizzarla nell'ordine
democratico significa esprimere la forza e la vitalità di questo;
è almeno per esso condizione di vita. E ciò del resto è
chiaro nei paesi a salda tradizione democratica».
[21]
G. Grosso, Diritto di sciopero, cit., 1, paragonava i rischi dell'abolizione
del diritto di sciopero all'amputazione di un organo vitale: «Se una
gamba minaccia la cancrena la si può amputare, ma non si può ad
un organismo amputare un organo vitale. Abolite il diritto sciopero,
paralizzate la libertà sindacale, e l'ordine democratico sarà
inesorabilmente leso, perché sarà colpita una realtà che
esso non può negare, ma deve comprendere».
[22]
A. Trisciuoglio, Relazione tenuta alle
“Segundas Jornadas Ítalo-Latinoamericanas de Defensores
Cívicos y Defensores del Pueblo. Tribunado-poder negativo y defensa de
los Derechos Humanos, en homenaje al Profesor Giuseppe Grosso. Torino 8-9
settembre 2016”, i cui Atti sono in corso di pubblicazione.
[23]
F. Stella Maranca, Il tribunato della
plebe dalla 'lex Hortensia' alla 'lex Cornelia', Lanciano
1901 [rist. anast. Roma 1967], 92; G.
Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982, 137.
[24] Su ciò, si veda E. Cocchia, Il tribunato della plebe e la sua
autorità giudiziaria studiata in rapporto colla procedura civile.
Contributo illustrativo alle legis actiones e alle origini storiche
dell'editto pretorio, Napoli 1917, ed. anast. Roma 1971, 30 e ss.; G. Niccolini, Il tribunato della
plebe, Milano 1932, 26 e ss., 33 e ss.; G.
Grosso, Lezioni di storia, cit., 89, anche nt. 1; F. De Martino, Storia della
Costituzione romana, I, 2a ed., Napoli 1972, 342 e ss., secondo il quale,
prima del plebiscito Publilio, probabilmente la plebe si sarebbe radunata in
proprie assemblee, senza ordinamento stabile, forse fuori della città.
È possibile -egli ritiene- che a queste assemblee partecipassero clienti
e sottoposti dei patrizi per cercare di concentrare i loro voti su candidati
più accomodanti (pp. 348-349); J.C.
Richard, Les origines de la plèbe romaine. Essai sur la
formation du dualisme patricio-plébéien, Rome 1978, 552 e
ss.; S. Tondo, Profilo di
storia costituzionale romana, I, Milano 1981, 175 e ss.
[25] L'importanza di questa innovazione proposta da
Volerone era stata ben sottolineata da Livius 2.56.3: Haud parva res sub
titulo prima specie minime atroci ferebatur, sed quae patriciis omnem
potestatem per clientium suffragia creandi quos vellent tribunos auferret. Su questa iniziativa, si
veda anche E. von Herzog, Geschichte
und System der römischen Staatsverfassung, I.1, Leipzig 1884 [rist. Aalen 1965], 159, il quale manifesta la
difficoltà a controllare l'esattezza o meno di questa motivazione; E. Cocchia, Il tribunato della plebe,
cit., 30 e ss.; G. Niccolini, Il
tribunato della plebe, cit., 37, sottolinea che l'intervento del plebiscito
Volerone «limitava il diritto di voto a coloro che stavano alla
dipendenza dei patrizi e assicurava la prevalenza ai plebei rurali, conferiva
alla plebe una maggiore potenza e dignità». F. De Martino, Storia della
Costituzione romana, I, cit., 349, «Il plebiscito di Publilius
Volero sottrasse l'elezione dei tribuni alla plebe non possidente,
riservandola solo ai tribules, cioè a coloro che erano iscritti
nelle tribù e vi avevano la sede e il fondo».
[26]
G. Lobrano, Il potere dei tribuni
della plebe, cit., 123 ss.,
contrappone la sacrosanctitas «fondamento e competenza del potere
dei plebei magistratus» agli auspicia «fondamento e
competenza del potere dei patricii magistratus» (p. 124); P. Catalano – G. Lobrano, Promemoria storico
giuridico, in Diritto @ storia 6, 2007 (http://www.dirittoestoria.it/6/Memorie/Tribunato_della_Plebe/Catalano-Lobrano-MMD-Anniversario-secessione-plebe.htm ), § I.4, secondo i quali «La sacrosancta
potestas dei tribuni plebis è garante della libertà
dei singoli cives dinnanzi al potere di governo dei magistrati patrizi
e, al contempo e indissolubilmente, è garante della obbedienza dei
magistrati patrizi alla volontà del popolo (leges publicae)».
[27]
Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, II.1, 3a ed., Leipzig 1887 [rist. anast. Graz 1952], 301 e ss.; C. Gioffredi, Il fondamento della “tribunicia
potestas” e i procedimenti normativi dell'ordine plebeo, in Studia
et documenta historiae et iuris 11, 1945, 63 e ss.; F. De Martino, Storia della Costituzione romana, I,
cit., 358-359; F. Serrao, v. Legge
(Diritto romano), in Enciclopedia del diritto, XXIII, 1973, 803 e
ss. (= [da cui si cita in seguito] in Id.,
Classi partiti e legge nella repubblica romana, Pisa 1974, 27 ss.); G. Lobrano, Il potere dei tribuni
della plebe, cit., 121 e ss. Si è soliti ritenere che solo con la lex
Valeria Horatia del 449 a.C. vi sarebbe stato il riconoscimento da parte
della res publica delle prerogative plebee. Tuttavia Lobrano, anche
sulla base di Livius 3.55.6 ss., osserva: «Semplicemente, pure con
l'intervento della lex publica post-decemvirale, è la sacrosanctitas
fondata sul vetus ius iurandum plebis (si noti plebis) del 494
a.C. che assegna al tribunato la propria collocazione istituzionale nel sistema
religioso-giuridico repubblicano romano secondo gli iuris interpretes. I
quali, evidentemente, non erano sensibili a quella esigenza di logica giuridica
che imponeva invece al Mommsen di limitare la sua trattazione della
magistratura tribunizia esclusivamente ai diritti concessi alla plebs
“von der Gemeinde”. Il valore della sacrosanctitas sarebbe,
quindi, probabilmente meglio colto anche dai moderni se il 'pregiudizio
statualista' non facesse velo. … Da una parte si ha la sacrosanctitas,
fondamento e competenza del potere dei plebei magistratus che erano i
tribuni della plebe e, dall'altra, gli auspicia, fondamento e competenza
del potere dei patricii magistratus. E se i tribuni plebis mai auspicato
creantur, mai i patricii magistratus sono ritenuti sacrosancti.
… Piuttosto, si tratta di una contrapposizione tra 'specializzazioni' di
un medesimo (del populus Romanus) patrimonio religioso-giuridico: il sacer-sanctus
e l'augurium-auspicium». Su ciò, cfr. anche R. Fiori, Homo sacer. Dinamica
politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996,
297 e ss.; L. Garofalo, Sulla
condizione di homo sacer in età arcaica, in Studia et
documenta historiae et iuris 56, 1990, 237 ss. (= in Id., Studi sulla sacertà,
Padova 2005, 28 ss.); Id. Biopolitica
e diritto, Napoli 2009, 49 e ss.; E.
Tassi Scandone, Leges Valeriae de provocatione. Repressione
criminale e garanzie costituzionali, Napoli 2008, 267 ss.
[28] Livius 3.33.3: Sunt qui duos tantum in
Sacro monte creatos tribunos esse dicant, ibique sacratam legem latam. Su
ciò, Cfr. F. De Martino, Storia
della Costituzione romana, I, cit., 341, 343-344, 358; P. Catalano – G. Lobrano, Promemoria storico
giuridico, cit., § 2.
[29] Dionysius Hal. 6.89.2 e 4. Cfr. R. Fiori, Homo sacer, cit., 294 e ss.;
314 e ss.; F. Zuccotti, Il
giuramento collettivo dei cives nella storia del diritto romano, in
Fides Humanitas Ius. Studi in onore di Luigi Labruna, VIII,
Napoli 2007, 6125 ss.; Id., Giuramento
collettivo e leges sacratae, in Studi per Giovanni Nicosia, VIII,
Milano 2007, 526 ss.
[33]
G. Niccolini, Il tribunato della
plebe, cit., 99 e ss., considera l'auxilium successivamente alla lex
Hortensia un «carattere fondamentale» del tribuno, un
«soccorso che egli reca ormai così ai plebei come ai patrizi, non
solo ai privati, ma anche ai magistrati stessi, e si esprime specialmente nel
termine prohibere, impedire cioè che un atto ritenuto dannoso o
illecito si compia o che da un atto compiuto derivino dannose
conseguenze»; S. Tondo, Profilo
di storia costituzionale romana, cit., 166 e ss.; F. Càssola-L. Labruna, nel paragrafo dedicato a I
tribuni della plebe, in A.A.V.V., Lineamenti di storia del diritto
romano (sotto la direzione di M. Talamanca), Milano 1989, 177 ss.; F. Serrao, Secessione e giuramento
della plebe al Monte Sacro, in Index 35, 2007, 21 (= in Diritto @
Storia 7, 2008 [ http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Serrao-Secessione-giuramento-plebe-Monte-Sacro.htm ], § 5), il quale precisa che ai tribuni
della plebe venne riconosciuta la funzione di auxilium ferre alla plebe,
«intesa nella sua totalità e nei suoi singoli componenti, mediante
l'esercizio di un forte potere negativo, espressione della resistenza
all'egemonia patrizia, nei confronti degli organi e magistrature della
città»; L. Polverini,
Il tribunato della plebe, in Il pensiero politico. Rivista di storia
delle idee politiche e sociali, Anno XL n. 2, 2007, 364.
[34]
G. Grosso, Lezioni di storia,
cit., 89. Relativamente al rapporto tra auxilii latio e intercessio,
cfr. G. De Sanctis, Storia dei
romani, II, 2a ed., Firenze 1960, 26; W.
Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des römischen Kriminalverfahrens
in vorsullanischer Zeit, München 1962, 29, nt. 81 e pag. 88, nt. 328; J. Bleicken, Das Volkstribunat der
klassischen Republik, 2a ed., München 1968, 5; M. Bianchini, Sui rapporti fra «provocatio»
ed «intercessio», in Studi in onore di Gaetano
Scherillo, Milano 1972, 93 e ss.; R.
Lambertini, Sull'origine e la natura dell'intercessio
tribunizia, in Tradizione romanistica e Costituzione, I, cit., 613 e
ss.; Id., Aspetti
“positivo” e “negativo” della sacrosancta potestas
dei tribuni della plebe, in Diritto @ Storia 7, 2008 ( http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Lambertini-Positivo-negativo-potestas-Tribuni-plebe.htm ), § 4, ritiene che la «pratica
dell'auxilii latio a difesa del plebeo minacciato […] dà
vita a questo generale potere di intercessio». Sul rapporto tra intercessio
tribunizia e intercessio collegarum cfr. Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., 268-269, secondo il quale: «Die Intercession
ist in das Leben getreten als eine Consequenz der Collegialität und deren
wesentlicher praktischer Ausdruck; insofern ist sie entstanden mit
Einführung der Republick und zwar zunächst als Intercession der
gleichen Gewalt gegen die gleiche», e in modo simile E. von Herzog, Geschichte und System
der römischen Staatsverfassung, I.1, cit., 149, quando a proposito
dell'intercessio tribunizia precisa «mit denjenigen Modifikationen
der Einsprache des Kollegen gegen Kollegen, welche die Natur der Sache mit sich
brachte»; si veda anche pag. 150; G.
Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit., 62 e ss.; R. Lambertini, Sull'origine e la
natura dell'intercessio tribunizia, cit., 613
e ss., in particolare, 627 e ss.; Id.,
Aspetti “positivo” e “negativo” della sacrosancta
potestas dei tribuni della plebe, cit., § 8.
[36]
F. De Martino, Storia della
Costituzione romana, I, cit., 353-354, sottolinea anche come inizialmente
l'intercessio fosse utilizzata in merito alla leva e alla ripartizione
dell'ager publicus. Su questo importante compito-potere dei tribuni, si
veda anche G. Niccolini, Il
tribunato della plebe, cit., 34.
[37]
G. De Sanctis, Storia dei romani,
II, cit., 26; F. De Martino, Storia
della Costituzione romana, I, cit., 361.
[38]
F. Stella Maranca, Il tribunato della
plebe, cit., 105; F. De Martino,
Storia della Costituzione romana, I, cit., 361 e ss.; R. Lambertini, Aspetti
“positivo” e “negativo” della sacrosancta potestas
dei tribuni della plebe, cit., § 3.
[39] In questo senso G. Floris Margadant, El tribunado de la plebe: un gigante
sin descendencia, in Index 7, 1977, 173, sulla base di Dionysius
Hal. 10.31.3, relativo alla richiesta plebea di distribuzione della zona detta
dell'Aventino. Sulla considerazione di una parte della storiografia antica del
potere propositivo dei tribuni, cfr. G.
Grosso, Appunti sulla valutazione del tribunato della plebe nella
tradizione storiografica conservatrice, in Index 7, 1977, 157 ss.
[41] Cicero, De re publ. 2.58: Nam cum
esset ex aere alieno commota civitas, plebs montem sacrum prius, deinde
Aventinum occupavit. Ac ne Lycurgi quidem disciplina tenuit illos in hominibus
Graecis frenos; nam etiam Spartae regnante Theopompo sunt item quinque, quos
illi ephoros appellant, in Creta autem decem, qui cosmoe vocantur, ut contra
consulare imperium tribuni plebis, sic illi contra vim regiam constituti.
[42]
G. Grosso, Lezioni di storia,
cit., 89; in modo simile F. De Martino,
Storia della Costituzione romana, I, cit., 353-354, secondo il quale:
«L'intercessio poteva paralizzare la vita dello Stato. Ciò era
possibile in quanto il nerbo delle forze politico-militari era plebeo e senza
l'adesione od almeno la passiva acquiescenza di esse non era consigliabile per
il governo patrizio intraprendere alcuna azione. Il patriziato aveva mantenuto
il monopolio delle magistrature e si era assicurato il controllo del comizio,
ma al di sopra della costituzione patrizia si poneva la plebe ed i patres
non avevano una forza politica sufficiente per dominarla. Così l'intercessio
divenne un pauroso potere costituzionale».
[44] Sulla conflittualità tra patrizi e
plebei come «fattore dinamico di sviluppo istituzionale interno al ius»,
vd. R. Cardilli, Leges fenebres,
ius civile ed 'indebitamento' della plebe: a proposito di Tac. Ann.
6.16.1-2, in Studi in onore di Antonino Metro (a cura di C. Russo
Ruggeri), I, Milano 2009, 389-390: «La 'conflittualità' tra
patrizi e plebei viene, ad un certo momento -prima col fallito tentativo del Decemvirato,
poi con le leggi Valerie Orazie del 449 a.C.- 'istituzionalizzata'. Essa, lungi
dal rappresentarsi quale conflitto tra 'ordine' (diritto) e 'disordine'
(fatto), diviene un forte fattore dinamico di sviluppo istituzionale interno al
ius». Più in generale sulla conflittualità tra
classi e sulla cooperazione cfr. P.F.
Drucker, The New Society. The Anathomy of the
Industrial Order, New York 1949, 109 ss.; L.A. Coser, The Functions of Social Conflict,
Glencoe, 1956, 9 ss.; R. Dahrendorf,
Class and Class Conflict in Industrial Society, London 1959, trad. it. Classi e conflitto di classe nella
società industriale, I
e II, Bari 1977, 181 ss.; 325 ss.; 359; P.
Catalano, Diritti di libertà e potere negativo (Note per
l'interpretazione dell'art. 40 Cost. nella prospettiva storica), in Studi
in memoria di Carlo Esposito, Padova 1973, 2040 e ss., in particolare ntt.
236 e 237.
[45] Agli strumenti di resistenza, infatti, si
è poi affiancata la forza dei plebisciti, il cui vigore è andato
ad aumentare con il riconoscimento dell'equiparazione alle leges.
[46] Machiavelli, poi, come osserva P. Catalano, Tribunato e resistenza,
Torino 1971, 37, con la «portata rivoluzionaria» del suo pensiero
ha ispirato Rousseau e Babeauf.
[49] Si pensi all'intervento del console Tito
Quinzio e del senato nella vicenda di Publilio Volerone, riportata da Livius
2.56.
[50] Sebbene il ripristino della concordia civium
fosse spesso sentito come necessario, il suo raggiungimento era comunque spesso
ostacolato. Si pensi agli avvenimenti riportati da Livius 4.43.3-12; questi
testi mostrano l'ostinazione rispettivamente dei patrizi e dei plebei
nell'avanzare le loro proposte, senza la “capacità” di
giungere ad un compromesso attraverso il quale si sarebbe potuta ristabilire la
concordia. In particolare su questo aspetto: Livius 4.43.11 … Quin
illi, remittendo de summa quisque iuris, mediis copularent concordiam, 12 patres
patiendo tribunos militum pro consulibus fieri, tribuni plebi non intercedendo
quo minus quattuor quaestores promiscue de plebe ac patribus libero suffragio
populi fierent?
[51] Livius 2.48.1 Igitur non patrum magis quam
plebis studiis K. Fabius cum T. Verginio consul factus neque belli neque
dilectus neque ullam aliam priorem curam agere quam ut, iam aliqua ex parte
inchoata concordiae spe, primo quoque tempore cum patribus coalescerent animi
plebis. 2. Itaque principio anni censuit, priusquam quisquam agrariae
legis auctor tribunus existeret, occuparent patres ipsi suum munus facere,
captivium agrum plebi quam maxime aequaliter darent: verum esse habere eos
quorum sanguine ac sudore partus sit. Cfr. F.
Serrao, Lotte per la terra e per la casa a Roma dal 485 al 441 a.C.,
in Legge e società nella repubblica romana (a cura di F. Serrao),
I, Napoli 1981, 64 e ss.
[52] Livius 3.30.5 Is metus perculit ut scribi
militem tribuni sinerent, non sine pactione tamen ut, quoniam ipsi quinquennium
elusi essent parvumque id plebi praesidium foret, decem deinde tribuni plebis
crearentur. 6. Expressit hoc necessitas patribus; in modo excepere ne
postea eosdem tribunos viderent. Tribunicia comitia, ne id quoque post bellum
ut cetera vanum esset, extemplo habita. Cfr. F. Serrao, Lotte per la terra, cit., 122-123, anche nt. 176.
[53] A proposito della secessione sul Monte Sacro, R. Fiori, Homo sacer, cit., 310-311,
osserva: «E infatti, leggendo le fonti, si avverte che quello che la
plebe desidera non è ancora, come più tardi avverrà, la parità,
ma la partecipazione, politica ed economica, alla cosa pubblica …
Le rivendicazioni plebee, perciò, non sono distinguibili come
costituzionali da una parte ed economiche dall'altra: simili dicotomie sono
riletture moderne di un problema che per i Romani era unitario, perché
il plebeo, nel momento in cui avvertiva la fame, era consapevole anche del
fatto che qualcosa che gli spettava gli era negato, e combatteva per la sua caro
politica, giuridica, economica, sociale, cosmica».
[54] Cfr. Livius 4.6.8 Per haec consilia eo
deducta est res, ut tribunos militum consulari potestate promiscue ex patribus
ac plebe creari sinerent, de consulibus creandis nihil mutaretur; eoque
contenti tribuni, contenta plebs fuit. Per la posizione di Grosso su questo
cfr. Lezioni di storia, cit., 105. I plebei, secondo una parte
della tradizione (cfr. Dionysius Hal. 10.58.4), già con il secondo
decemvirato legislativo avevano avuto accesso ad una magistratura suprema.
[55] Dionysius Hal. 6.83-89; Livius 2.32.12 e
2.33.1. Una diversa interpretazione del ruolo dell'apologo di Menenio Agrippa
è proposta da L. Bertelli, L'apologo
di Menenio Agrippa: incunabulo della «Homonoia» a Roma?,
in Index 3, 1972, 224 ss., secondo il quale nella tradizione sulla secessio
sarebbe possibile rinvenire due strati. Uno più antico relativo al
problema del nexum e uno più recente relativo al conflitto tra
patrizi e plebei e alla concordia ordinum (p. 227). La prospettiva
più recente, quella appunto della concordia ordinum, avrebbe poi influenzato
il rimaneggiamento della tradizione più antica: 226-227: «Se
leggiamo spassionatamente l'apologo, risulta chiaro che esso non soltanto
rinvia ad una situazione di subordinazione della plebe rispetto al patriziato,
ma cerca anche di giustificarla con il parallelo biologico: le membra infatti,
negando la loro collaborazione allo stomaco, cadono in una condizione di
deperimento. Noi non sappiamo quale fosse la versione originale dell'apologo di
Menenio, ma se il suo modello deve essere recuperato dall'analoga favola
esopica, questa parla chiaramente della necessità della subordinazione a
un'autorità investita legittimamente del potere»; 228.
Sull'apologo di Menenio Agrippa cfr. anche W.
Nestle, Die Fabel des Menenius Agrippa, in Klio 21, 1927,
350 ss.; A. Momigliano, Camillus
and Concord, in The Classical Quarterly 36, 1942, 111 ss. (= in Id., Secondo contributo alla storia
degli studi classici e del mondo antico, Roma 1960, 101 ss.); L. Peppe, Studi sull'esecuzione
personale, I, Debiti e debitori nei primi due secoli della repubblica
romana, Milano 1981, 46 ss.; R. Fiori,
Homo sacer, cit., 307 ss. (con indicazione di ulteriore bibliografia); G. Poma, Le secessioni della plebe
(in particolare quella del 494-493 a.C.) nella storiografia, in Diritto @ Storia 7, 2008 (http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Poma-Secessioni-plebe-storiografia.htm ), § 2 e 3; L. Labruna, Secessio, Res publica: riconsiderazioni,
in Festschrift für Rolf Knütel zum 70. Geburtstag, Heidelberg
2009, 639 ss. A me sembrerebbe che dall'apologo di Menenio Agrippa si ricavi
che il conflitto può giungere ad una paralisi che deve essere risolta
con una necessaria collaborazione. La collaborazione necessaria che emerge dal
discorso di Menenio Agrippa non fa venir meno la conflittualità tra
patrizi e plebei, anzi dalla secessione delle plebe nasce il tribunato della
plebe, che in seguito al giuramento della plebe (cfr. G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit.,
121 e ss. su Livius 3.55.6 e ss.) entra istituzionalmente nel sistema
religioso-giuridico repubblicano romano.
[56] Così G.
Grosso, Il diritto di sciopero, cit., 270; in modo simile Id., Lezioni di storia, cit., 86
ss.
[57]
G. Grosso, Lezioni di storia,
cit., 87, secondo il quale pur ammettendo che «l'origine del tribunato si
debba ricercare nell'atto rivoluzionario della plebe che l'ha creato; che la
plebe si impegnasse per giuramento a difendere la inviolabilità dei
propri tribuni … tutto ciò non toglie che a un certo punto, di
fronte alla minaccia di disgregazione che ciò portava, si sia venuti a
patti, e che l'assunzione e legalizzazione, nella civitas, di questa
organizzazione plebea sia avvenuta precisamente mediante la solennità di
un foedus, sia pure con una certa elasticità, così che i
tribuni venivano accolti, nella loro posizione singolare di difensori della
plebe, colla qualifica di sacrosancti, cioè
dell'inviolabilità». Ciò sarebbe dedotto in particolare da
Livius 2.33.1 Agi deinde de concordia coeptum, concessumque in condiciones
ut plebi sui magistratus essent sacrosancti, quibus auxilii latio adversus
consules esset, neve cui patrum capere eum magistratum liceret.
[58]
G. Grosso, Lezioni di storia,
cit., 84, scrive: «il processo che deve portare alla fusione
nell'unità della civitas, si opera attraverso una lunga e dura
lotta, in cui la plebe rinsalda, per l'assalto alla cittadella delle genti
patrizie, la propria organizzazione, e l'arma estrema è quella della
secessione, cioè della rottura dell'unità, e mezzo di superamento
l'accordo, e si legalizza la posizione rivoluzionaria del diritto di veto, e la
plebe può essere definita uno stato nello stato. Il processo della
fusione e della unità si opera cioè attraverso una esasperazione
della dualità».
[60] Dionysius Hal.10.2.2-10.3.1. Dionigi di
Alicarnasso ricorda che nella circostanza del conflitto tra patrizi e plebei
circa l'approvazione della legge Terentilia fosse piovuta carne dal cielo e che
l'interpretazione di simili presagi non fosse semplice, tanto che si dovette
ricorrere ai libri sibillini, secondo i quali il conflitto interno avrebbe poi
fatto scaturire una lotta con i nemici esterni. Il popolo, quindi, informato
del rischio che si correva avrebbe iniziato a far sacrifici, anche per
conservare la pax deorum.
[61] G. Grosso, Intervento, in Studi sassaresi, III, Autonomia
e diritto di resistenza, Milano 1973, 414.
[62]
N. Bobbio, La resistenza
all'oppressione, oggi, in Studi sassaresi, III, cit., 30 e 31, mette
in discussione l'inclusione della resistenza passiva (in cui si può
comprendere lo sciopero) nella denominazione di potere negativo, che per lui
è potere di veto (cfr. p. 244): «se è vero che sia l'uno
sia le altre possono essere considerate forme di esercizio di potere
impeditivo, altro è impedire che una legge, un comando, un ordine, o
comunque una decisione, venga ad esistenza (potere di veto), altro è
renderlo inefficace dopo che è venuto ad esistenza sottraendovisi, senza
contare che vi sono forme di resistenza passiva, come lo sciopero, il
boicottaggio, ecc. che non consistono in una disobbedienza alla legge. Inoltre,
il potere di veto si risolve generalmente in una dichiarazione di
volontà [...] mentre la resistenza passiva consiste in comportamenti
commissivi o omissivi. Il potere di veto è generalmente
istituzionalizzato, cioè dipende da una norma secondaria autorizzativa
[...]; mentre le varie forme di resistenza passiva nascono fuori dal quadro
delle istituzioni vigenti, anche se alcune di esse vengono poi in un secondo
tempo istituzionalizzate. Il potere di veto è di solito esercitato al
vertice [...]; la resistenza passiva, alla base. Il potere di veto è
spesso il residuo di un potere duro a morire; la resistenza passiva può
essere la prima avvisaglia di un potere nuovo. Il potere di veto serve di
solito alla conservazione dello status quo; la resistenza passiva mira
generalmente al mutamento».
[63]
P. Catalano, Intervento, in Studi
sassaresi, III, cit., 225 e ss., il quale concorda con Bobbio sulla
opportunità di distinguere tra potere negativo e resistenza, ma ritiene
«che la distinzione debba essere leggermente diversa».
[64]
G. Grosso, Intervento, in Studi
sassaresi, III, cit., 414. Grosso osservava come in quegli anni (inizio
degli anni '70) vi fosse confusione sui due aspetti negativo e positivo dello
sciopero, perché i sindacati, rispetto alle riforme del Governo,
utilizzavano lo sciopero «non più solo come arma che viene usata
al momento buono per ottenere quel risultato, ma quasi come strumento ordinario
programmato, per cui oggi -questo lo dico come osservazione obbiettiva- pare
che all'inizio di ogni mese si programmi il numero di scioperi che in quel mese
si devono fare, questo modo in cui si usa lo sciopero costituisce una pressione
costante nei confronti del Parlamento, che dà ai sindacati un
potere». Grosso temeva che la confusione da lui avvertita potesse
successivamente confluire in una forma corporativa o in una forma di dittatura
sindacale e, comunque, osservava che il Parlamento e i partiti su questo
influenti, in conseguenze del ricorso a queste modalità di sciopero non
procedessero in modo organico, ma piuttosto rispondessero alle diverse richieste
in modo settoriale. La preoccupazione di Grosso era alimentata dalla
consapevolezza che «sullo sfondo c'è l'ombra grifagna, o da una
parte o dall'altra, del pericolo di quello che è lo Stato totalitario,
nel quale poi riprende il sopravvento il partito; se ciò avviene, il
partito unico, o che sia di un colore o che sia dell'altro, nello Stato
totalitario schiaccerà completamente il sindacato e schiaccerà
proprio quelle forme spontanee di resistenza che nel sindacato si
manifestano».
[65] Si pensi all'ammissione dei plebei al
consolato, avvenuta nel 367 a.C. F. De
Martino, Storia della Costituzione romana, I, cit., 384, sebbene
con riserve, propende «per la tesi che non vi furono leggi in senso
tecnico, cioè approvate dal comizio centuriato». Esclude si sia
trattato esclusivamente di un plebiscito e precisa che si «trattò
di un accordo fra tribuni e Senato, forse sulla base di un plebiscito, ma la
fonte giuridica della nuova costituzione non fu il plebiscito, fu la
deliberazione senatoria e la prassi che negli anni seguenti si venne
formando». C. Cascione, Studi
di diritto pubblico romano, Napoli 2010, 56 ss., il quale non esclude che
per la lex Licinia Sextia de consule plebeio, come in precedenza per la lex
Canuleia, il problema dell'impossibilità per i tribuni di presentare
e far votare rogationes davanti ai comizi centuriati fosse
«aggirabile sotto il profilo politico attraverso la cooperazione di un
magistrato patrizio».
[66]
G. Grosso, Il diritto di
sciopero, cit., 267 e ss. Come ha puntualmente osservato P. Catalano, Diritti di
libertà e potere negativo, cit., 2042 n. 237, la prospettiva di
Grosso sull'apologo di Menenio Agrippa era diversa da quella espressa su La
civilità cattolica da B.
Palomba, Lo sciopero degli operai, in La Civiltà
cattolica 3, 1865, serie 3a, 668 ss., che, insieme ad altra parte della
dottrina, leggeva solo in chiave di collaborazione tra patrizi e plebei
l'apologo di Menenio Agrippa, senza scorgerne o comunque sottolinearne il
legame con il riconoscimento del tribunato della plebe, tanto che nelle pagine
iniziali del contributo Palomba appare fortemente scettico rispetto al ricorso
allo sciopero.
[68]
P. Catalano, «Potere
negativo» e sovranità popolare, in I cattolici italiani nei
tempi nuovi della Cristianità (a cura di G. Rossini), Roma 1967, 834
ss.
[69]
G.C. Perone, L'azione sindacale
negli stati membri dell'Unione europea, Roma 1995, 143. Chiare su questo le
parole di P. Calamandrei, Significato
costituzionale del diritto di sciopero, in Rivista giuridica del lavoro,
1952, I, 222 (= in Id., Opere
giuridiche, III, Napoli 1968, 456): «Lo sciopero si presenta
così, nel suo aspetto puramente sindacale, come un mezzo di coazione
psicologica collettiva adoperato dai lavoratori per ristabilire nella fase
precontrattuale l'equilibrio economico delle trattative, e per indurre la
controparte a prendere in considerazione le condizioni da loro reclamate: in
quanto lo sciopero raggiunge il suo scopo, il suo epilogo è la
stipulazione di un nuovo contratto, che mette fine al conflitto collettivo.
Ma lo sciopero tende poi ad uscire dal terreno
sindacale, in cui funziona, si potrebbe dire, come “metodo di coazione
psicologica precontrattuale” e ad allargarsi nel campo politico, fino a
diventare, col mito dello sciopero generale, strumento di lotta rivoluzionaria
per la conquista dello Stato.
In ambedue queste espressioni, sciopero
sindacale e sciopero politico, il ricorso allo sciopero implica in ogni caso la
sfiducia dei lavoratori nei meccanismi giuridici dello Stato
“borghese”».
[70]
G. Pera, v. Sciopero (dir.
Cost. e lav.), in Enciclopedia del diritto, XLI, 1989, 703, il quale
osserva che «lo sciopero veniva considerato in funzione della
regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro, era il momento della lotta
ai fini della stipulazione del contratto; il quale contratto a sua volta,
almeno momentaneamente, poneva fine al conflitto collettivo di lavoro, come un
provvisorio armistizio nell'eterna lotta tra capitale e lavoro».
[71] Interessante anche il ruolo del sindacato
all'interno dello Stato comunità proposto da G.C. Perone, Partecipazione del sindacato alle funzioni
pubbliche, Padova 1972, 210: «Il sindacato, se nell'attuale sistema
costituzionale resta fuori degli organi dello Stato-persona (e anche degli
organi parlamentari), non è fuori dello Stato, ma, per positivo
riconoscimento costituzionale, forma una delle espressioni dello
Stato-comunità. E agendo nell'ambito di questo entra in relazione, pur
senza esserne assorbito, con le istanze dell'apparato statale, influenzandone
sensibilmente le attività (anche quella legislativa) con gli strumenti
che l'ordinamento gli assegna in ragione della sua natura di centro dello
Stato-comunità».
[72] Come risulta dai lavori dell'Assemblea
costituente, Commissione per la Costituzione, III Sottocommissione, Resoconto
sommario della seduta di giovedì 24 ottobre 1946, 249, Colitto,
invece, proponeva di non inserire nella Costituzione il diritto di sciopero, in
quanto «tutte le controversie potrebbero essere definite in un clima di
collaborazione dalle associazioni contrapposte, facendosi, ove occorra, ricorso
ad arbitrati».
[73] Sull'effetto positivo del compromesso nello
scontro tra classi, cfr. F. De Martino,
Storia della Costituzione romana, I, cit., 360, il quale, partendo dal
principio dell'unanimità, riteneva che questo fosse
«indispensabile ed a maggior ragione, allorché entravano in giuoco
le classi» e sottolineava il ruolo del compromesso nella consolidazione
della res publica: «Il fatto che la repubblica, almeno fino
all'età della crisi, prosperò e superò guerre aspre e
pericoli di varia natura, sempre fondata su tale principio, dimostra che il
compromesso, anziché minare la forza dello Stato, la consolidava».
[74] Cfr. Commissione per la Costituzione, III
Sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di giovedì 24
ottobre 1946, 251.
[75] Cfr. Commissione per la Costituzione, III
Sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di giovedì 24
ottobre 1946, 252, osservava di non comprendere «perché una
società democratica, per garantire la continuità di tali servizi
dovrebbe ricorrere alla coazione e non fidare invece nella certezza di redimere
tutte le vertenze che potrebbero sorgere per via pacifica».
[76]
P. Calamandrei, Significato
costituzionale del diritto di sciopero, cit., 222 (= in Id., Opere giuridiche, III, cit.,
456).
[77]
P. Catalano, «Potere
negativo» e sovranità dei cittadini nell'età tecnologica,
in Autonomia cronache 6, febbraio 1969, 26.