Celso teorico del diritto *
Professore
aggregato di Diritto romano
Università di Sassari
* Celso teorico
del diritto (L’arte del diritto, 32), a cura di Luigi Garofalo, Jovene,
Napoli 2016, 288 pp. EAN: 9788824324687 - ISBN: 8824324681
Tra le recenti pubblicazioni,
si segnala l’opera collettanea Celso
teorico del diritto, a cura di L. Garofalo, Napoli 2016, per i tipi della
casa editrice Jovene. Nel volume si raccolgono sette saggi, frutto di ricerche
presentate in occasione dell’omonimo convegno, svoltosi a Torino, il 10 aprile
2015, «ideato e voluto – come sottolinea il curatore nella Presentazione – da Filippo Gallo». Scopo principale dell’incontro,
illustrato da Filippo Gallo in Obiettivi del Convegno (1 s.), è la
ricostruzione del ruolo di Celso in seno alla teoria del diritto; a questo
intento fanno da corollario due ulteriori obiettivi: «l’avvio e la promozione
di ricerche liberate dagli inavvertiti condizionamenti ideologici derivati
dall’influenza giustinianea, sia al livello storico che a quello della scienza
giuridica». A tal fine, Filippo Gallo invita
all’approfondimento della legum
permutatio giustinianea, la cui analisi comporterebbe «la revisione della
storia del diritto in Occidente», e dunque la piena conoscenza del diritto
attuale. Questa espressione, presente nella constitutio
Omnem 11 del 533, denuncia la profonda innovazione giustinianea in ambito
giuridico, con cui si produceva una netta separazione dalla tradizione del
diritto classico. Giustiniano, così, perfezionò l’iter, intrapreso già in
età postclassica, di affermazione dell’imperatore come unico interprete e fonte
di produzione del diritto, in tal modo sminuendo l’azione interpretativa della
scienza giuridica. La scelta normativa giustinianea è stata ignorata dalla
scienza romanistica, che, presupponendo la continuità del diritto giustinianeo
con il passato, non ha dato rilievo alle speculazioni celsine.
Tale
tematica è affrontata da Massimo
Miglietta nel saggio di apertura, Alle
origini della rimozione del pensiero celsino: la ‘legum permutatio’ giustinianea (3-61), il quale, in pieno
accordo con il pensiero di Gallo, evidenzia il carattere “rivoluzionario”
dell’intervento giustinianeo. Per l’Autore, far luce sugli effetti della legum permutatio giustinianea nelle
esperienze giuridiche successive è “compito immane”; Miglietta, perciò, concentra la sua indagine
sull’insegnamento del diritto, tema fondamentale in seno all’intervento
innovatore di Giustiniano. A tal fine, dopo l’analisi della costituzione Omnem, si offre un excursus degli
studi in materia, dalla Glossa di Accursio fino alla letteratura contemporanea.
L’A. constata come, a parte casi limitati, «l’esuberante testimonianza
rappresentata dal § 11 della const. Omnem»
(23) sia passata inosservata, e il testo sia stato considerato soltanto come
motivo retorico e propagandistico, privo di rilievi sostanziali. In realtà,
attraverso la riforma degli studi giuridici, Giustiniano non mirava a forgiare i giuristi, ma a
formare funzionari e tecnici del diritto, meri esecutori delle norme imperiali.
Questo snaturamento della figura del giurista emerge in particolare da I. 1.8,
dove, nella descrizione delle fonti di produzione del diritto, i prudentes sono relegati ai tempi andati:
«La lezione che veniva impartita ai Iustiniani
novi non poteva, dunque, essere più esplicita: nessuno di loro avrebbe
potuto aspirare a ‘conquistare’ la definizione di iurisprudens, né, a maggior ragione, a iura condere, trattandosi, rispettivamente, di funzione e di
attività ormai confinate entro un passato (ideologicamente) non più destinato a
rivivere» (45 s.). Eppure, nota Miglietta,
la Parafrasi greca delle Istituzioni di Giustiniano mostra ancora la vitalità
della scientia iuris; i giuristi,
infatti, intervennero talvolta a «contestare la validità ‘assoluta’ delle norme
imperiali». La cesura nei confronti della tradizione giuridica voluta da
Giustiniano, manifestata con il sintagma legum
permutatio, è confermata da Procopio
in Ἀνέκδοτα
11.1, il quale riferisce della volontà giustinianea di mutare interamente la
realtà, e di segnare ogni cosa con il proprio nome: «‘Legum permutatio – insegnamento del
diritto – cambiamento ([per]mutatio) del nome’ tornano, dunque, a
costituire un trinomio inseparabile nell’articolata (e, forse, non ancora
pienamente compresa) architettura giustinianea, il cui elemento unificante è
dato dalla voluta “cesura rispetto al passato”» (61).
Nel saggio seguente, Francisco
Cuena Boy si occupa di Teorización
de la artificialidad del derecho: ‘ius est ars boni et aequi’ (63-129).
L’analisi prende avvio dalla dicotomia ars
– natura, emergente, in particolare,
dalla nota definizione celsina del diritto, conservata in D. 1.1.1 pr. (Ulpianus libro primo institutionum): Iuri operam
daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. est autem a iustitia
appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi. L’Autore, al fine di verificare se questa
distinzione abbia consistenza teorica, ripercorre alcune speculazioni odierne,
che, sebbene si fondino su prospettive differenti, considerano il diritto come
prodotto dell’azione volontaria dell’uomo, presupponendo l’esistenza della dicotomia
arte-natura. L’indagine, poi, si incentra diffusamente sulla ricostruzione di
Filippo Gallo, imperniata sulla formula celsina del ius, per cui il diritto è una ars,
astrazione artificiale finalizzata alla realizzazione del bonum et aequum, volta alla realtà senza alterazioni ideologiche. Cuena Boy avanza le proprie perplessità
rispetto a questa visione “atemporale” del diritto, e si incentra poi sul
momento storico in cui vive Celso, al fine di verificare il rapporto tra la
nozione di ius, offerta dal giurista,
e la realtà giuridica in cui egli vive. L’indagine ripercorre le varie
trasformazioni del diritto avvenute durante il Principato, quando, specialmente
sotto Adriano, si accentuarono le tendenze iniziate a partire dalla fine
dell’età repubblicana che portarono sia allo svilimento della volontà popolare,
con l’erosione del fondamento democratico del sistema giuridico, sia
all’affermazione della rilevanza di norme generali e astratte, rispetto alla
soluzione dei casi concreti. Questi orientamenti culminarono in età
giustinianea, quando la scienza giuridica fu completamente sottoposta al potere
imperiale; tuttavia, secondo l’Autore, l’inserimento della definizione celsina
del diritto nel Digesto dimostra la necessità della collaborazione dei giuristi:
«La pérdida de importancia teórica y práctica de la definición celsina del ius señalada por Gallo necesita acaso
este matiz. En
la nueva situación el emperador es formalmente el único artífice del derecho,
pero ello no elimina la necesidad material de ejercer el ars iuris con el auxilio o a través de los juristas» (110). Cuena Boy, inoltre, al fine di comprendere se, come
prospettato da Gallo, il bonum et aequum
sia l’unico criterio giuridico, esclusivo, autonomo e sufficiente, procede
all’analisi del rapporto tra questo e il iustum
(ovvero tra l’ars boni et aequi e la iustitia). La conclusone a cui addiviene
è che il criterio del bonum et aequum
non possegga un contenuto proprio, in quanto non è un principio, ma è soltanto
«un utensilio técnico que mide lo iustum
pero no lo determina» (128).
Segue, poi, La dottrina dell’azione in D. 44.7.51 di
Luigi Garofalo (131-151),
indagine dedicata all’unica definizione giurisprudenziale nota di actio, che è offerta da Celso in un frammento
tramandato da D. 44.7.51 (Celsus libro
tertio digestorum): Nihil aliud est
actio quam ius quod sibi debeatur, iudicio persequendi. Si tratta di una
nozione «gravida di implicazioni sul piano dogmatico» (133), la cui unicità
dimostra l’esistenza, intorno al concetto di azione, di un dibattito dottrinale
a cui partecipò Celso. Non si ha notizia di tale discussione poiché
Giustiniano, in I. 4.6 pr. (actio autem
nihil aliud est, quam ius persequendi iudicio quod sibi debetur), diede
valore soltanto alla definizione celsina, utilizzando una variante circolante
dall’età postclassica. La definizione celsina di actio era espressione della unità del fenomeno giuridico; la
visione unitaria si spezzò quando, in età moderna, si teorizzarono i diritti
soggettivi, e il diritto processuale fu posto in posizione subalterna: «Era
così rotta, irreversibilmente, l’unità del diritto, un bene prezioso consegnato
alla posterità dalla giurisprudenza romana» (134). Si distinsero, così, le
norme sostanziali (primarie) da quelle processuali (secondarie), generando il
cosiddetto “problema dell’azione”. Nel dibattito odierno si ricorre
frequentemente a un richiamo al pensiero celsino, ma, sottolinea l’Autore, in
tal modo «si riporta nei binari della dicotomica concezione dell’azione
sviluppatasi ben dopo l’esaurirsi dell’esperienza giuridica romana tanto
quest’ultima quanto il pensiero di Celso, finendo così per comprimere le
potenzialità espressive dell’una e dell’altro» (138). Al fine di ricostruire il
significato originario della nozione di actio
celsina, «senza indulgere alle sollecitazioni provenienti dall’odierna dottrina
attenta al problema dell’azione» (138), Garofalo
procede, come premessa, a illustrare due convinzioni diffuse in letteratura,
influenzate dal dibattuto problema dell’azione. Secondo la communis opinio, i prudentes
non avrebbero considerato l’azione come rappresentazione del diritto
soggettivo, ma al contrario, quest’ultimo sarebbe stato la proiezione dell’actio. L’Autore, tuttavia, rinviene in
tale convincimento «la forzatura insita nel riscontrarvi l’indefettibile
presenza della situazione soggettiva sostanziale» (141). L’altra idea diffusa
in letteratura nega che i Romani disciplinarono il potere di adire il
magistrato, ma per l’Autore, tale esclusione «presuppone l’adesione a
un’interpretazione in chiave sostanziale della definizione di azione risalente
a Celso» (142). Garofalo procede
poi all’analisi dei testi in cui si riporta la definizione celsina di azione.
Dalla lettura di D. 44.7.51, emerge come, secondo il giurista romano, l’actio è il potere di ottenere qualcosa
attraverso il vittorioso esercizio di un’iniziativa giudiziale. Questo qualcosa
è indicato dalla locuzione quod sibi
debeatur che, per l’Autore, possiede un contenuto ampio, potendo racchiudere
sia la prestazione, sia il quantum
indicato nella sentenza di condanna: «La dottrina veicolata da D. 44.7.51 non
si lascia quindi intrappolare nelle coordinate delle due grandi teorie che,
rispetto all’azione, sono state messe a punto nella modernità» (148). In I. 4.6
pr. la definizione celsina presenta, rispetto al frammento tramandato nel
Digesto, una piccola, ma rilevante, variante; qui si trova debetur in luogo del debeatur
celsino che induce «a identificare l’azione nel potere di ottenere attraverso
il processo, non più formulare e bipartito, ciò che è effettivamente, e non più
eventualmente, dovuto dal convenuto» (149). Secondo la visione innovativa di
Celso, l’actio integrava un potere a
sé stante e spettava «a chiunque avesse ottenuto dal magistrato la formula con
cui proseguire nell’iniziativa processuale intrapresa, a prescindere dall’esito
finale della stessa, determinato dal giudice» (150), mentre, per Giustiniano,
il quale offriva una lettura sostanziale, l’azione rappresentava un mezzo a difesa
dei diritti soggettivi: «il debetur
che vi compare in luogo del debeatur
tradiva e falsava il senso di quella ricalcata, ritenuta comunque preferibile
rispetto ad altre a rilevanza sostanziale con ogni probabilità reperibili nella
produzione della giurisprudenza classica, votate dunque all’oblio, per la sua
pregnante breviloquenza» (151).
Il quarto contributo, Celso teorizzatore di criteri ermeneutici:
un collaboratore ‘malgré soi’ della ‘legum permutatio’ giustinianea (153-164,
con Postilla bibliografica a
164-166), di Cosimo Cascione, mira
a ricostruire i criteri interpretativi celsini. L’Autore evidenzia l’apporto
originale di Celso in seno alla giurisprudenza romana, in quanto tale
originalità, infatti, appare una rilevante evenienza sia al fine di rileggere
la “bio-bibliografia” del iurisperitus adrianeo,
sia per cogliere appieno il ricorso ai principi celsini in età giustinianea. Cascione, nel delineare la figura di
Celso come “teorizzatore di criteri ermeneutici”, chiarisce che il
giurista era fondamentalmente un pratico, il quale, solo dopo l’analisi del
singolo caso, era capace di effettuare sintesi teorica e di congegnare
strumenti interpretativi. In età giustinianea vi fu un ampio ricorso all’opera
di Celso, in virtù delle sue abilità, «la grande chiarezza, la capacità di
infondere certezza attraverso l’uso della parola, attraverso giunture che
sembrano quasi formulate come delle regulae,
degli appigli di sicurezza teorica che sembrano a priori e che, invece, il giurista manifesta dopo aver risolto il
caso pratico» (157). L’analisi del titolo 1.3 del Digesto, in materia di
interpretazione della lex, dove di
conservano sette frammenti del giurista adrianeo, mostra le modalità del
ricorso giustinianeo alla riflessione celsina: i compilatori estrapolarono
riflessioni brevi e generali, con tutta probabilità, relative a problemi
pratici, inserendole in luoghi che esulavano dai contesti originali. In D. 1.3,
così, si trasmutò il pensiero celsino; in particolare, il richiamo alla voluntas legis, locuzione presente in
due frammenti del giurista, fu inteso nel Digesto come “la personificazione
della legge” nella figura dell’imperatore: «Triboniano porta Celso a favore
della permutatio legum, lo rende
ostaggio dell’ideologia della legislazione giustinianea, ‘malgré soi’
naturalmente» (164).
Nel saggio successivo, Lo ‘ius controversum’ quale espressione
dell’artificialità del diritto romano (167-231), Antonio Palma fa luce sulla “controversialità”
dell’esperienza giuridica di Roma antica, nel periodo antecedente “alla
progressiva legum permutatio”. La communis opinio, relativamente alla
sfera processuale, intende l’operato dei giuristi come attività nomopoietica,
riservando al iudex privatus,
destinatario ultimo del diritto giurisprudenziale, un ruolo ancillare. Secondo
l’Autore, la natura controversiale del diritto romano non si deve imputare
soltanto all’attività culturalista della giurisprudenza, ma anche alla prassi
giudiziale: «da un’analisi non ideologica delle fonti, la creazione del diritto
non appare ricollegabile esclusivamente al responsum
del singolo giurista – per quanto autorevole – ma deve essere collegata agli
esiti finali elaborati nella fase apud
iudicem delle controversie giudiziarie, instaurate in molti casi sulla base
di un dato parere giurisprudenziale, ma risolte sempre con una sententia» (192). L’analisi delle fonti,
oltre a far emergere l’ampia discrezionalità del iudex privatus, mostra il rapporto tra i giudicanti e la
giurisprudenza: «il giudice era colui che governava l’aspetto nomopoietico del
processo romano in rapporto al quale i prudentes
rappresentavano autorevoli coprotagonisti» (219). L’accoglimento da parte del
giudice del responsum in sede di
sentenza, inoltre, concorreva a fondare l’auctoritas
del singolo giurista, poiché «costituiva la vera prova della competenza tecnica
del giureconsulto da cui proveniva il parere ed è senz’altro un elemento di
notevole rilevanza nel riconoscimento di una maxima auctoritas agli occhi della comunità cittadina. Il valore e
la fortuna del responso potevano eventualmente accrescersi qualora questo non
restasse isolato ma vi convergessero altri pareri concordi, consolidando una communis opinio che avrebbe facilitato
la pronunzia del giudice» (225).
Gastone
Cottino, in Artificialità del
diritto e sua formazione consuetudinaria tra diritto romano ed età di mezzo:
divagazioni di un commercialista (233-247), muove dalla ricostruzione della
legum permutatio. L’Autore dichiara
di essere conscio «della dubbia legittimazione di un commercialista ad
intromettersi in un dibattito tra studiosi di diritto romano», ma rileva come
le riflessioni di Filippo Gallo «vanno oltre l’hortus conclusus di una singola materia» (233). Cottino rinviene nella riforma della legum permutatio elementi di continuità,
poiché Giustiniano «si appropriava della tradizione romanistica classica, per
piegarla all’ideologia autoritaria ed accentratrice dell’imperatore, in un
ambiguo gioco di convivenze tra conservazione e rottura, di rifrazione tra
passato e presente» (235). Alla luce di questo “rapporto dialettico tra
discontinuità e continuità”, al fine di «evitare una visione monocromatica
degli eventi ed indebite trasposizioni» (237), l’Autore, poi, rivolge la sua attenzione all’avvento società
mercantile nell’età di mezzo, Pur riconoscendo il carattere innovativo della
comparsa della società mercantile, Cottino
sottolinea gli elementi di continuità con il passato: «Sicché, se è
indubitabile che nel grande laboratorio dell’età di mezzo si fabbricò un diritto
nuovo, anzi nuovissimo, è altrettanto indubitabile che ciò avvenne senza alcuna
remora ad avvalersi spregiudicatamente del ‘vecchio’ là dove esso offriva un
lessico giuridico e strumenti concettuali utili per meglio organizzare, e
mettervi ordine, il cantiere nonché materiale per strutturare i nuovi istituti,
rielaborandoli ed adattandoli spesso con spericolate operazioni di cosmesi»
(238). In tale periodo storico si fece ricorso alla tradizione del diritto
romano «per voltar pagina, e ciò in maniera particolarmente traumatica ma non
casuale proprio nei confronti del diritto giustinianeo»; un caso esemplare di
tale tendenza è rappresentato dal «ruolo della consuetudine come fonte del
diritto: totalmente svalutata e svilita da Giustiniano ed invece elemento
centrale nella formazione del diritto commerciale» (239). Tra gli esempi che
mostrano l’apporto della tradizione giuridica romana nel processo di formazione
della lex mercatoria, Cottino ricorda l’affare di cambio, la
società commerciale e il «suo prototipo, e progenitore della società in nome
collettivo, la compagnia» (245).
Chiude l’opera Filippo Gallo, con il saggio rivolto al
Valore perdurante dei criteri del ‘bonum
et aequum’ (249-272), in cui illustra “le più gravi conseguenze”, in seno
alla scienza giuridica occidentale, causate dalla legum permutatio giustinianea. Con la sua riforma, Giustiniano
diede carattere autoritario alle norme, e cancellò la riflessione celsina
sull’artificialità del diritto e i criteri, ad esso attinenti, del bonum et aequum. L’Autore individua gli
esiti “più devastanti” di tale rimozione nella teoria della purezza del
diritto, ideata da Hans Kelsen, che non considera la natura artificiale del
diritto quale prodotto umano. Gallo
sottolinea come, a tutt’oggi, non sia stata recuperata la teorizzazione celsina
dell’artificialità del diritto, unitamente ai criteri del bonum et aequum, anche nell’esperienza giuridica italiana, dove
perdura «la visione del legislatore ritenuto onnipotente, libero cioè da
qualsivoglia vincolo, salvo il rispetto per l’apposita procedura prescritta per
l’emanazione delle norme costituzionali» (256 s.). L’Autore procede, poi,
all’analisi esegetica di norme particolarmente significative, l’art. 12 comma 2
delle Disposizioni sulla legge in
generale premesse al Codice civile, e i Principi
fondamentali della Costituzione. Nella prima disposizione si prescrive il
ricorso a principi generali per sopperire alle lacune normative: «Sul punto il
legislatore italiano ha superato lo stesso Giustiniano, il quale, pur avendo
orgogliosamente affermato la validità delle leges
poste per il presente ed ogni evo futuro, previde che in avvenire si sarebbero
presentati nuovi fatti e situazioni bisognosi di disciplina legislativa» (260).
Nei Principi fondamentali enunciati
nella Costituzione Italiana, non si menziona l’importante criterio della
ragionevolezza, mentre si pone quello dell’eguaglianza sul medesimo livello
degli altri principi, senza stabilire alcuna gerarchia; del resto, nota Gallo, i criteri della proporzionalità,
o eguaglianza proporzionale, e quello della ragionevolezza, e i rapporti tra
loro intercorrenti, sono stati ignorati dalla scienza giuridica occidentale.
Nell’esperienza giuridica romana, invece, prima della legum permutatio, al fine di soddisfare rilevanti bisogni umani, si
fece ricorso, a tali criteri attraverso l’azione del pretore, in piena sintonia
con la riflessione giurisprudenziale, come dimostra in particolare Gaius, Inst. 4.116 e 126-129. Il recupero della
teorizzazione celsina, e dei suoi criteri connessi, in virtù del suo carattere
universale, consentirebbe – ammonisce l’Autore – «di rendere i diritti positivi
vigenti e le posizioni giuridiche dominanti in Occidente più aderenti alla
realtà e, quel che più conta, alle effettive esigenze umane» (266).