Si pubblica, col consenso
dell’Autrice e dell’Editore, il Capitolo
secondo (Dalla prima alla seconda
modernità: verso nuovi modelli di giustizia – pp. 35-66) della monografia
di MARIA
ANTONIETTA FODDAI, Dalla decisione
alla partecipazione: giustizia, conflitti e diritti, Napoli, Jovene
editore, 2017, pp. X-240. ISBN 978-88-243-2510-3
Università di
Sassari
Dalla prima alla seconda
modernità: verso nuovi modelli di giustizia
Sommario: 2.1. Trasformazioni del diritto. – 2.2. Trasformazioni della giustizia. – 2.2.1. Giove, Ercole, Mercurio: i tre giudici. – 2.2.2. Modelli di giustizia dalla prima alla seconda modernità. – 2.2.3. Risolvere le controversie e «dire il diritto». – 2.3. Giustizia del diritto e senso di giustizia. – 2.4. Il movimento di accesso alla giustizia. – 2.4.1. Florence Project on Access to Justice. – 2.4.2. La «terza ondata»: gli strumenti alternative di risoluzione delle controversie.
«Il diritto sta cambiando e
noi continuiamo a parlarne con categorie vuote e desuete che non colgono i
problemi»[1].
Queste parole di Tecla Mazzarese rappresentano un tema ricorrente nei discorsi
sul diritto, che denuncia l’inadeguatezza delle categorie giuridiche a
rappresentare le sue trasformazioni e annuncia una nuova «crisi del diritto»[2].
Crisi paradossale, potremmo dire, perché l’esperienza ci mostra un diritto in
crescita, con una pluralità di attori e istituzioni che ne ridefiniscono i
contenuti, le pratiche e i confini. Il pluralismo delle fonti del diritto,
degli organismi nazionali e internazionali, il nuovo ruolo creativo assunto dai
giudici mostrano un diritto vitale e in continua trasformazione[3].
La crisi riguarda piuttosto la rappresentazione del diritto, indicato come un
modello razionale di ordine fondato sullo Stato sovrano e sulla sua legge[4].
Per questa ragione alcuni
studiosi hanno annunciato una rinnovata espansione del diritto, segnalata
dall’abbandono del carattere statuale e da una nuova dimensione sociale che
inaugura la ricerca di forme di partecipazione e pluralismo giuridico[5].
Per spiegare le complesse
dinamiche del mutamento in atto, Ost ricorre alla nota teoria di Kuhn, secondo
la quale l’evoluzione del progresso scientifico non avviene in modo progressivo
e graduale, ma attraverso bruschi cambiamenti che portano alla sostituzione di
un paradigma con un altro che offra un modello più adeguato di spiegazione e
regolazione della realtà[6].
Il paradigma, com’è noto, esprime una cornice di teorie e principi, intorno
alla quale si forma il consenso della comunità scientifica, perché rappresenta
un valido modello esplicativo della realtà e offre ai ricercatori le soluzioni
ai problemi che si presentano[7].
Quando il paradigma non è più in grado di contenere e spiegare determinati
fenomeni, né di offrire soluzioni adeguate ai problemi che da questi derivano,
entra in crisi, fino a quando non verrà sostituito da un nuovo e più adeguato
modello.
Secondo Ost, ci troviamo
nella fase di passaggio dal paradigma giuridico dominante, rappresentato
dall’immagine kelseniana della piramide che illustra il modello gerarchico
stato-centrico e positivista, a un nuovo paradigma concorrente, raffigurato
dall’immagine della rete, che coesiste col precedente[8].
Quella rappresentazione familiare e ordinata del diritto, che illustra un
sistema caratterizzato da coerenza, completezza e unità, si sfalda di fronte al
nuovo policentrismo delle fonti e alle nuove gerarchie mobili, definite
dall’attività interpretativa dei giuristi e dei giudici[9].
Alla logica gerarchica che prevede l’integrazione o l’esclusione, la rete
oppone la logica orizzontale della regolazione, fondata sulla negoziazione e la
continua ridefinizione degli equilibri tra i centri di produzione giuridica[10].
Nel modello giuridico
emergente, «lo Stato cessa di essere la fonte esclusiva della sovranità; la
volontà del legislatore non è più assunta come un dogma; le frontiere del fatto
e del diritto si confondono; i poteri interagiscono; i sistemi giuridici
s’ingarbugliano; la conoscenza del diritto, che ieri rivendicava la sua purezza
metodologica, si apre all’interdisciplinarità; la giustizia, infine, che il
modello piramidale si proponeva di ancorare a gerarchie assiologiche fissate
dalla legge, si coglie oggi in termini di bilanciamento di interessi e valori
tanto diversi quanto variabili»[11].
Abbandonata la dogmatica giuridica della modernità, il diritto si fa plurale,
negoziato, flessibile, mostrando la ricerca di nuovi spazi e nuove forme,
legittime ed efficaci, per l’azione politica[12].
Queste osservazioni,
tuttavia, non segnalano l’abbandono del modello piramidale a vantaggio di un
nuovo, e indeterminato, modello reticolare; quanto piuttosto il necessario
processo di elaborazione di un nuovo quadro teorico, in cui si valorizzano
alcuni elementi del modello giuridico kelseniano, come ad esempio la dimensione
verticale e multilivello del diritto, e si formulano buoni argomenti teorici
per spiegare e giustificare le trasformazioni in atto.
Anche la giustizia, intesa come strumento di realizzazione dei
diritti attraverso la risoluzione delle controversie, rivela una serie di
contraddizioni derivanti dalla crisi del modello stato-centrico e legalista. La
più macroscopica – per la nostra indagine - è quella che riguarda lo sviluppo
incoerente della giurisdizione. Con essa i giudici esplicano la duplice
funzione di risolvere le controversie e ‘dire il diritto’. Nelle attuali
trasformazioni della giustizia queste due attività, che nel modello dominante
appaiono indisgiungibili, conoscono un differente e contraddittorio sviluppo.
Da un lato assistiamo a una rinnovata espansione del ruolo
giurisdizionale: al diritto legislativo, eroso nella sua centralità dalla crisi
della sovranità statale, si va affiancando e sostituendo il «diritto
giudiziario», che ridisegna lo scenario del diritto globale contemporaneo[13]. I giudici infatti hanno assunto un ruolo centrale nel
processo di produzione del diritto, sia in ambito nazionale con il controllo di
costituzionalità delle leggi, e la ricomposizione della gerarchia delle fonti,
sia soprattutto in ambito internazionale, per la funzione svolta dalle corti a
cui è ormai affidata la costruzione del diritto[14].
Dall’altro lato si constata l’eclissi del processo giurisdizionale,
che non risponde alle aspettative sociali e si manifesta con la denuncia della
crisi dei sistemi di amministrazione della giustizia che attraversa, in misura
differente, Stati di diritto occidentali. Mentre la crisi del sistema
processuale mostra un’involuzione
della funzione di risoluzione delle dispute, il ruolo della giurisdizione
rivela un accresciuto potere nella produzione del diritto. La funzione di
risoluzione dei conflitti e la funzione di «dire il diritto», attraverso
l’applicazione delle norme dello Stato, corrispondono ad attività differenti,
che nel modello giuridico della modernità nascono in stretta relazione[15].
Questa è espressa dal requisito dell’imparzialità che impone che i conflitti
fra i cittadini vengano risolti attraverso norme derivanti da leggi generali e
astratte che garantiscono che casi uguali vengano trattati in modo uguale[16].
Le due funzioni, come vedremo, appaiono suscettibili di una lettura disgiunta
che apre nuove e interessanti prospettive di analisi. È in base a questa
distinzione che si potrebbe affermare che i giudici oggi sembrano rispondere
più alla domanda di diritto, che alla domanda di giustizia.
Se questo dinamismo illustra
la crisi dall’alto della piramide, dal versante dei ‘produttori’ del diritto,
non dobbiamo trascurare l’altro versante, quello che corrisponde alla base
della piramide e rappresenta la domanda di giustizia. In questa prospettiva, la
crisi della giustizia si manifesta con un sentimento crescente di disaffezione
e sfiducia verso il sistema giudiziale, caratterizzato da lentezza, eccessiva
onerosità e inadeguatezza nella tutela dei diritti e interessi. In questo
scenario complesso, negli ultimi trent’anni si registra un fenomeno imponente
di dimensioni transnazionali, della diffusione di pratiche di giustizia che
escludono il ricorso al giudice e orientano la soluzione della disputa verso un
accordo raggiunto dalle parti con l’aiuto di un terzo imparziale che media la
disputa.
In base alla teoria dei
paradigmi, descriveremo questi modi alternativi di giustizia – che d’ora in
avanti chiameremo ADR – come le anomalie che mettono in discussione il
paradigma dominante. E infatti, proprio come avviene nell’ambito della comunità
scientifica di fronte a un fenomeno che il modello non è in grado di comprendere
(nel senso di contenere e spiegare), di fronte agli ADR, la comunità giuridica
ha registrato reazioni di segno opposto, tendenti a bandire gli ADR dal sistema
di giustizia o a ricondurli, al prezzo di forzature concettuali, all’interno
delle categorie del paradigma. Fino a quando – continua la teoria di Kuhn – il
moltiplicarsi delle anomalie non provoca la crisi del paradigma dominante e
segnala la nascita di un nuovo modello che è in grado di ricomprendere e
regolare, secondo un diverso ordine di principi, i nuovi fenomeni.
Come si vedrà nei prossimi
capitoli, il modo in cui gli ordinamenti giuridici hanno risposto alla
diffusione dei metodi alternativi di risoluzione delle dispute appare quindi
molto significativo per interpretare la crisi dell’attuale modello
giurisdizionale e i caratteri emergenti del nuovo, segnalati dalle politiche
elaborate dagli Stati per definire un’offerta di giustizia adeguata alle mutate
esigenze dei cittadini.
Anche nella giustizia
assistiamo quindi alla progressiva erosione di un modello, basato sul monopolio
statale del diritto e sul giudizio e alla emersione di un nuovo modello, ancora
da definire, ma già distinguibile in alcuni tratti, che si presenta fondato sul
pluralismo giuridico e su modalità consensuali di risoluzione delle dispute che
si affiancano al giudizio[17].
In un brillante scritto del
1991, Ost interpreta i cambiamenti dell’istituzione giudiziaria contemporanea
attraverso il ruolo dei giudici ed elabora tre modelli di riferimento.
Il primo è il giudice
jupiteriano, che corrisponde al modello piramidale incentrato sulla legge e sul
codice e che «continua ad essere insegnato nelle Facoltà di diritto»[18].
La sua immagine quasi sacrale, della bocca che pronuncia le parole della legge,
è rafforzata dai simboli del rito, che consiste in una rappresentazione
pubblica e si ripete secondo rigide forme prestabilite[19],
dell’abbigliamento, che esprime la distanza con i ‘laici’ che vi assistono, del
luogo, il Palazzo di giustizia, che deve essere differenziato e separato dal
mondo ordinario, e ha un ruolo fondamentale nel rafforzare e veicolare i
significati della giustizia[20].
A questa immagine della giustizia amministrata corrisponde il modello giuridico
classico, incentrato sul codice e strutturato in forma gerarchica, dal quale
derivano quattro corollari: il monismo giuridico, che identifica il diritto con
la legge[21], il
monismo politico che identifica la sovranità con lo Stato, una razionalità
deduttiva e lineare, che identifica l’interpretazione con la scoperta del
significato della disposizione, e una particolare concezione del tempo, che
identifica il futuro con l’idea di progresso[22].
Al «giudice jupiteriano»
succede il «giudice erculeo» che, oltre a svolgere il ruolo giudicante come il
suo predecessore, assume su di sé una molteplicità di nuovi compiti in
relazione alle rivendicazioni e ai cambiamenti sociali: egli esercita una
funzione di filtro, garantendo la produzione continua di nuovo diritto,
accogliendo nuove istanze e componendo gli interessi dei cittadini. L’immagine
che illustra il passaggio dallo Stato liberale ottocentesco a quello dello
Stato sociale del XX secolo in cui opera il giudice Ercole, è quella
dell’imbuto che canalizza le nuove istanze sociali nelle aule del Tribunale.
Come mostra la reazione del mondo giuridico statunitense all’ipertrofia
giuridica delle corti nella seconda metà del Novecento, il giudice comincia a
svolgere un ruolo di politica del diritto, che ridefinisce gli equilibri
sociali e incrina il mito del legislatore (più in ambito europeo che
statunitense). Al monismo legislativo si contrappone un sistema delle fonti del
diritto «che tende a destrutturarsi e a disarticolarsi» nel pluralismo delle
decisioni, a quello politico, rappresentato dallo stato sovrano, si affianca la
pluralità dei nuovi centri di potere. Alla catena logico-deduttiva della
razionalità giuridica, si affianca il tessuto dell’argomentazione. «Se il
giudice jupiteriano era un uomo di legge, Ercole si sdoppia in un ingegnere
sociale», conclude Ost[23];
ma né l’uno né l’altro dei modelli riescono a dar conto del cambiamento
giuridico in atto e del ruolo che il giudice è chiamato a svolgere. Il modello
che più gli si avvicina è quello di una divinità più modesta, che si limita a
favorire la comunicazione, portando i messaggi degli dei, Mercurio, il
comunicatore, il mediatore universale. La sua virtù non sta tanto nella
capacità di risolvere la controversia assumendo delle decisioni, quanto nella
sua capacità di stare nel conflitto, incanalando le ragioni e le emozioni delle
parti nelle vie della discussione razionale. Mercurio rappresenta una giustizia
ansiosa di avere una presa più energica sul reale, che comincia a sbarazzarsi
dei rituali del processo e della forma per avvicinarsi alle istanze sociali[24].
Lo stesso ruolo giudiziario ne risulta stravolto: invece di decidere la lite al
termine del dibattimento, come insegnano ancora i manuali di diritto
processuale e come continuiamo a immaginare secondo il modello del giudice jupiteriano,
il giudice viene spinto ad adottare decisioni «dallo statuto giuridico
incerto», come l’invio in mediazione delle parti in una causa di separazione, o
la nomina del consulente tecnico che avrà il compito di formulare una proposta
di conciliazione. Sono quelle decisioni, che Garapon definisce «sans dire droit»,[25]
in cui il compito del giudice sembra progressivamente venir meno a vantaggio
della delega alle parti e agli esperti della risoluzione della disputa.
L’elemento della decisione viene stemperato a vantaggio della ricerca comune di
una soluzione: «Il giudice cede inevitabilmente alla tentazione di occultare il
proprio imperium agli occhi degli
utenti della giustizia, inducendo questi ultimi a vedere nella decisione
definitiva non già un atto coercitivo, bensì, soprattutto, un atto di buon
senso»[26]. Ost non nega la difficoltà di tratteggiare il ruolo
che il giudice assume nelle attuali e inedite modalità di azione giuridica; a
differenza del giudice immaginato da Dworkin[27],
quello di Ost rappresenta ogni attore giuridico, quindi arbitro, mediatore,
avvocato che nella sua attività ermeneutica non privilegia la volontà del
legislatore, ma integra con altre fonti normative, come le convenzioni
internazionali, la giurisprudenza, i principi generali del diritto e la
dottrina. Una pluralità di attori giuridici, e una molteplicità dei livelli di
potere contribuiscono a disegnare il quadro contemporaneo della pratica della
giustizia.
Così come per il diritto, in
cui il paradigma emergente della rete non determina la sparizione di quello
stato-centrico, ma tratteggia un sistema complesso, composto da elementi
contraddittori, anche per la giustizia possiamo pensare a un quadro in cui i
tre modelli coesistono senza disegnare un ordine armonico, in cui i ruoli siano
ben definiti e correlati alle funzioni istituzionali, ma piuttosto un sistema
in cui nessuno dei modelli di azione giudiziaria prevale sull’altro.
È possibile, quindi,
ipotizzare il declino del modello ottocentesco, mostrato dal giudice che impone
una decisione fondata sulla legge, per rilevare l’emergere di quello
contemporaneo, raffigurato dal giudice «comunicatore» che media tra istanze
plurime, e che concepisce il processo giudiziario come un mezzo, tra gli altri,
per realizzare la giustizia.
Privato della sua funzione
esclusiva di interprete del diritto, il giudice contemporaneo, sottolinea
Macdonald, è diventato il garante degli accordi
e delle decisioni assunte da altri operatori giuridici, come gli arbitri e i
conciliatori: egli non è più colui che «dice il diritto», ma piuttosto colui
che garantisce e gestisce i «dits»
risultanti da altri processi, più o meno formali[28].
Sebbene non sia realistico
ipotizzare una forma di evoluzione lineare nella successione dei modelli, né
tantomeno proporre un’interpretazione univoca del fenomeno dell’amministrazione
della giustizia, secondo alcuni autori è possibile cogliere un modello
«emergente» di giustizia che corrisponde al cambiamento culturale in atto e può
essere designato come quello «modernità avanzata»[29].
Belley distingue tra un
modello di giustizia della prima modernità, nato col processo di unificazione
delle giustizie particolari alla fine del XIX secolo, dal modello della seconda
modernità, o modernità avanzata.
Il primo, definito anche
come modello «trionfante», presenta alcuni elementi che delineano il sistema
tradizionale di giustizia: innanzitutto il carattere aggiudicativo della giustizia,
incentrata sul processo e sul contraddittorio delle parti a cui segue una
decisione del giudice, assunta sulla base di norme di diritto; un meccanismo di
rappresentazione professionale, che vede le parti rappresentate dagli avvocati
e lo Stato rappresentato dal giudice; il carattere statale dell’offerta di
giustizia, che appare come una responsabilità esclusiva dello Stato sovrano,
sia in materia civile che penale. Infine il modello dominante di giustizia
presenta il carattere della differenziazione, espresso dalla forza dei simboli:
la giustizia si esercita in un luogo speciale, come il palazzo di giustizia;
secondo tempi propri, rappresentati dal calendario giudiziario; secondo un
preciso rituale, illustrato dal codice di procedura[30].
In maggiore o minore misura,
ciascuno di questi elementi viene messo in discussione nella pratica giuridica
contemporanea, che rivela i tratti del modello di giustizia della seconda
modernità, che viene definito anche come il modello «emergente».
Sia il giudizio, come
strumento adeguato di risoluzione delle controversie[31],
sia il ruolo degli avvocati e degli operatori giuridici[32],
sia la statualità della giustizia[33],
sia infine l’apparato simbolico e tecnico che la distanzia dalla società civile,
hanno perso il loro vigore esplicativo di fronte alla domanda sociale di
giustizia. «Come la società in generale – scrive Jean Guy Belley – anche la
giustizia civile è giunta allo stadio della modernità avanzata, o seconda
modernità. Questa richiede nuovi principi fondamentali che deriveranno da una
teoria generale ispirata da un diritto sociale e riflessivo, in rottura col
diritto statale e sovrano della prima modernità»[34].
La difficoltà di ricondurre
un fenomeno estremamente fluido e differenziato in base ai differenti sistemi
nazionali all’interno di uno schema esplicativo, non impedisce agli studiosi di
cogliere alcuni aspetti significativi e ricorrenti nella pratica contemporanea
della risoluzione delle controversie[35].
Se quindi appare azzardato,
se non a prezzo di evidenti forzature, individuare i caratteri di un nuovo
modello di giustizia, più adeguato ai nuovi fenomeni che segnano la
postmodernità, tuttavia si possono osservare alcune tendenze nel funzionamento
attuale della giustizia. Tra queste emerge con chiarezza l’affermarsi di
procedure negoziali e conciliative, sia esterne al sistema statale di
amministrazione della giustizia, sia interne[36].
Stati Uniti, Canada,
Australia, così come la maggior parte degli Stati dell’Unione Europea[37],
hanno mostrato una tendenza allo sviluppo e alla diffusione di modi consensuali
di risoluzione delle controversie che hanno modificato radicalmente l’offerta
di giustizia, introducendo modi cooperativi di gestione delle dispute, nuovi
principi regolativi e competenze professionali.
Per interpretare i nuovi
fenomeni della giustizia e le contraddizioni che derivano dalla coesistenza dei
due modelli, Belley offre una chiave di lettura dei nuovi sistemi ibridi della
giustizia che consentono di superare le dicotomie giudiziale/extragiudiziale e
pubblico/privato nelle quali si è inceppato il dibattito giuridico e politico.
Egli distingue e separa, ai fini dell’analisi, le due funzioni che vengono
ascritte alla giurisdizione: quella di risoluzione dei conflitti e quella di
«dire il diritto»[38],
che possiamo chiamare anche di «orientamento sociale»[39].
In ogni decisione giudiziale
vi è un dispositivo e una motivazione. Generalmente, le parti e i loro avvocati
si interessano al primo, i giuristi e la società si interessano al secondo,
perché vogliono conoscere i significati e le scelte impiegati in quella
decisione. Con il primo si risolve il conflitto, col secondo si legittima, in
fatto e in diritto, la sua soluzione[40].
Nell’atto della decisione
possiamo cogliere quindi due distinte funzioni: prescrivendo determinate
azioni, il giudice «inserisce il suo intervento nella logica strumentale di
risoluzione dei conflitti»; motivando giuridicamente la sua decisione, il giudice
«esercita la funzione simbolica di “dire il diritto”, di “precisare la
comprensione pubblica di norme e valori ufficiali”»[41].
La funzione «strumentale» di
risoluzione dei conflitti e quella «simbolica» dell’esplicazione pubblica di
significati, sebbene si presentino strettamente connesse, sono logicamente
indipendenti, e possono essere analizzate in modo del tutto separato.[42]
Le due funzioni rispondono a distinti bisogni sociali che non vengono
soddisfatti in egual misura dalle istituzioni che compongono il sistema della
giustizia[43]. È
noto infatti che le competenze delle magistrature inferiori e superiori, così
come l’impiego di riti abbreviati o processi ordinari, rispondono a logiche
differenti e a un’implicita gerarchizzazione degli obiettivi della giustizia.
Considerando la funzione di
risoluzione dei conflitti, la distinzione fondamentale appare quella tra metodi
cooperativi, il cui principio è
quello di una ricerca consensuale della soluzione della disputa, e metodi competitivi, basati sulla vittoria di
una parte a danno dell’altra. Per usare le parole di Deutsch, tra i primi ad
impiegare questa terminologia in materia di risoluzione delle dispute, «in una
situazione cooperativa, gli obiettivi sono talmente legati che le parti nuotano
o annegano insieme, mentre in una situazione competitiva, se uno dei due nuota,
l’altro annega»[44].
La distinzione non può giustapporsi a quella
tra strumenti giudiziali ed extragiudiziali. Dei metodi competitivi fanno parte
infatti strumenti come l’arbitrato, ascritto alla famiglia dei metodi
extragiurisdizionali, mentre tra i sistemi cooperativi possiamo annoverare una
serie di procedure conciliative inserite nel sistema giurisdizionale.
Allo stesso modo andrebbe
superata l’erronea credenza che associa la giustizia statale al processo
giudiziario e quella privata a pratiche consensuali: volgendo un rapido sguardo
al panorama internazionale della giustizia, si può osservare la tendenza a
incrementare l’impiego di servizi consensuali di risoluzione dei conflitti sia
al di fuori del sistema giurisdizionale, sia al suo interno, adottando pratiche
di conciliazione affidate agli stessi giudici, o da questi delegate attraverso
la nomina di mediatori[45]
Altra anomalia che sfugge alla classificazione in uso è quella riguardante il massiccio
ricorso all’arbitrato in materia commerciale, che rappresenta l’esempio più
diffuso di una giurisdizione privata.
Opporre il modello
giudiziale a quello extragiudiziale insomma, falsa la rappresentazione
dell’attuale fenomeno degli strumenti di risoluzione delle controversie. Lo
stesso «formante giudiziario», nota Ferrarese, sembra riprodursi in una serie
di forme «atipiche e differenziate», che lo allontanano dalla ordinaria
configurazione del giudizio, per mostrarcelo diluito in forme ibride, «quasi-judicial», in cui si passa dalla
formula conciliativa a quella decisoria, senza soluzione di continuità, secondo
un processo graduale che non permette più di rappresentare il giudizio e
l’accordo come due distinte modalità di risoluzione delle controversie. È così
che si verificano «forme di annessione e inglobamento, in cui le procedure
informali non nascono in alternativa al percorso formale delle corti»[46],
ma si intrecciano con questo, come ad esempio è accaduto in Canada.
Il sistema giustizia si rivela
dunque molto più complesso e variegato di quanto non appaia dalle
interpretazioni dottrinali, poiché si avvale sia di strumenti cooperativi che
di pratiche processuali competitive per rispondere alla domanda sociale di
risoluzione delle controversie.
Adottando l’analisi di
Belley, la crisi della giustizia offre interessanti spunti di riflessione:
questa infatti si manifesta in modi e con logiche differenti a seconda che
riguardi la funzione risolutiva o quella di orientamento sociale: la prima
mostra la diversificazione degli strumenti e l’abbandono dell’ideologia
giudiziale, la seconda segnala l’abbandono di una lunga tradizione dogmatica dell’Occidente che ci induce ancora a
credere che «le procedure di decisione autoritaria, basate o meno su una forma
di contraddittorio come quella del processo, siano i vettori più efficaci della
funzione simbolica perché dispongono degli attributi del potere»[47]. Questa rappresentazione autoritaria dei
sistemi normativi si sfalda a contatto con i cambiamenti delle società
contemporanee, in cui assistiamo alla crisi di tutte le forme decisionali
fondate sull’autorità e alla crescente rivendicazione di autonomia e
partecipazione alle scelte pubbliche da parte dei cittadini[48].
Questo fenomeno suggerisce
di affrontare il tema della giustizia con uno sguardo differente, che passa dai
titolari della decisione delle dispute ai suoi destinatari. Come sottolinea Rocher,
esiste una concezione giuridica e una concezione sociale della giustizia, che
egli definisce come «cultura popolare della giustizia». Mentre la prima
corrisponde a quella elaborata dai giuristi e dai filosofi, la seconda deriva
dalle idee, aspirazioni e rappresentazioni della giustizia prodotte
dall’opinione pubblica, o coscienza collettiva[49].
Sebbene questa cultura della giustizia sia in stretta relazione con quella
elaborata dai giuristi ed espressa dal diritto, tuttavia presenta caratteri
diversi: è infatti una cultura plurale, che sarebbe più appropriato definire
come «cultura delle giustizie», che non viene ricondotta, a differenza da
quella elaborata dal diritto, a un’idea unitaria[50].
Questo pluralismo riguarda
un insieme di principi che sono in contraddizione – come il riconoscimento dei
meriti, la risposta ai bisogni, la tutela dell’eguaglianza e il rispetto delle
differenze – senza che vi sia alcun tentativo di sistematizzazione secondo un
ordine normativo. La ragione deriva dal secondo dei caratteri di questa
concezione sociale della giustizia, che viene elaborata senza fare ricorso al
principio di autorità, dal basso, attraverso lo scontro tra le pretese dei
gruppi e dei singoli, attraverso il confronto tra le denunce d’ingiustizia e le
risposte che a queste vengono offerte.
Le due giustizie esistono
dalla notte dei tempi: storicamente non vi è niente di nuovo in una concezione
popolare della giustizia differente da quella elaborata dal diritto e dallo
Stato: nella prima il senso di ingiustizia, personale e collettivo, ha un ruolo
determinante nel ridefinire cosa sia giusto, nella seconda, lo sforzo di
costruzione teorica della giustizia e di ciò che è giusto non lascia spazio
alla considerazione dell’ingiustizia e la allontana inevitabilmente dalla
realtà. Ma è in età contemporanea, con la democratizzazione del sapere e
l’accessibilità dell’informazione, che la cultura popolare della giustizia ha
acquistato una forza e razionalità tali da influenzare il diritto, che si apre
a nuove forme di conoscenza e normatività[51].
Non vi è quindi niente di
casuale nella fiducia sociale diffusa verso le pratiche di giustizia informale,
verso i metodi consensuali di risoluzione delle dispute come la mediazione, che
si rivelano coerenti con una ricerca di giustizia aperta a nuovi valori, che
viene definita dall’intervento diretto delle parti e appare più rispondente ai
loro interessi.
L’incidenza di queste
istanze sociali sulla concezione giuridica della giustizia si manifesta nel
dibattito intorno all’accesso alla giustizia, che mette in relazione la
definizione sociale della giustizia con quella giuridica. Il tema dell’accesso,
generalmente ricondotto al diritto di agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti, assume una portata più ampia che si avvicina alla concezione
sociale della giustizia, in cui ‘rendere giustizia’ e ‘ottenere giustizia’ non
rappresentano due differenti aspetti del medesimo fenomeno giudiziario, ma
modalità potenzialmente diverse attraverso le quali si risolvono le dispute e
riaffermano i diritti.
Nella cultura popolare della
giustizia, ‘accesso’ non significa solo poter usufruire degli strumenti che lo
Stato mette a disposizione dei suoi cittadini che intendono risolvere i loro
conflitti, significa anche ridefinire cosa essi intendano per giustizia, e
quali rimedi effettivi le istituzioni offrano per eliminare o ridurre
l’ingiustizia. Insomma, l’accesso alla giustizia indica il modo in cui le
persone costruiscono, con l’aiuto del diritto, il loro, personale, senso di
giustizia.
Per questo appare opportuno
soffermarsi sul movimento di accesso alla giustizia che rappresenta una delle
risposte più rilevanti alla crisi del diritto e della giustizia in età
contemporanea. In tal senso l’espressione «accesso alla giustizia» indica un
movimento di pensiero e di riforme che, a partire dalla seconda metà del secolo
scorso, ha attraversato il mondo occidentale per la rivendicazione e la tutela
effettiva dei diritti[52].
Tra i suoi fautori non figurano solo giuristi, ma anche sociologi, antropologi,
psicologi che hanno teorizzato un approccio metodologico antidogmatico e
interdisciplinare ai temi della giustizia, intesa come possibilità, offerta a
tutti, di godere dei propri diritti. Piuttosto che soffermarsi sul contenuto
dei diritti e indagarne gli aspetti sostanziali, il movimento si è concentrato
sul ‘diritto ai diritti’, cioè su quelle condizioni di possibilità dei diritti
legate alla loro tutela e attuazione[53].
Il termine ‘accesso’ sta dunque ad indicare quelle condizioni preliminari di
equità che devono essere garantite a ciascuno perché possa formulare la domanda
di giustizia. Il termine ‘giustizia’ ha assunto diversi significati nel corso
dell’evoluzione del movimento, passando da quello giurisdizionale di
applicazione del diritto, a quello, come vedremo nei prossimi paragrafi, di
risoluzione del conflitto attraverso il diritto[54].
La giustizia non viene intesa solo come una pratica giudiziale di risoluzione
dei conflitti, volta all’attuazione e al riconoscimento dei diritti, ma come
una pratica sociale finalizzata alla loro efficacia, volta a ottenere un reale
miglioramento della vita delle persone attraverso il diritto. Riprendendo la
distinzione di Amartya Sen, possiamo dire che è la giustizia nyaya l’oggetto delle ricerche, degli
studi e delle iniziative di accesso alla giustizia. Secondo Mauro Cappelletti,
la sua importanza sta nel fatto che ha prodotto una «rivoluzione copernicana»
nella concezione del diritto. Si è passati da una concezione tradizionale
«tolemaica» in cui il diritto viene visto dal punto di vista dei suoi
«produttori» e del loro prodotto, come il legislatore e la legge, la pubblica
amministrazione e l’atto, il giudice e la sentenza, alla prospettiva dei suoi
destinatari, quelli che vengono chiamati, utilizzando la metafora mercantile, i
«consumatori del diritto e della giustizia», ovvero i cittadini, i gruppi e la
società nel suo insieme[55].
L’attenzione dei giuristi si
è soffermata sui meccanismi processuali e giurisdizionali che rappresentano una
condizione essenziale per l’effettivo godimento dei diritti[56].
Tutti quegli ostacoli di ordine economico, organizzativo e sociale che non
permettono di accedere alle forme di tutela, generando diseguaglianze sociali,
sono divenuti, nell’arco di cinquant’anni, oggetto di studi, analisi e riforme
che hanno riguardato principalmente gli aspetti processuali del diritto in
numerosi paesi[57].
I significati che
l’espressione racchiude possono essere incanalati in due grandi ambiti
tematici: il primo riguarda la concezione del diritto espressa, anche se non
esplicitamente teorizzata, dai teorici dell’accesso. Essi rifiutano il
dogmatismo derivato dal giuspositivismo formalista che, identificando il
diritto con le norme e esasperandone gli aspetti formali, ne ha abbandonato la
dimensione sociale; il secondo a quell’insieme di riforme che, in misura e con
intensità differente, hanno riguardato il diritto processuale della maggior
parte degli Stati occidentali.
La concezione teorica da cui
il movimento prende le mosse è quella espressa dalle teorie antiformaliste che
segnano il grande cambiamento nella cultura giuridica europea e statunitense
del secolo scorso. Sia il movimento del Diritto libero, che rivendica il nuovo
ruolo creativo dell’interprete e la dimensione sociale del diritto[58],
sia le dottrine del realismo giuridico americano che considerano l’efficacia
del diritto, piuttosto che la sua validità formale, il criterio della sua
vigenza, forniscono ai teorici dell’accesso alla giustizia la premessa per
formulare la loro proposta teorica[59].
Mentre le teorie giusrealiste esplorano l’ambito istituzionale del diritto,
indagando il ruolo del giudice nella sua funzione creativa di nuovo diritto[60],
il movimento estende la sua analisi da una prospettiva istituzionale a una
sociale del diritto, considerando tutti quegli elementi che fanno del diritto
una pratica sociale, inserita in una fitta rete di persone, istituzioni e
processi, attraverso i quali si sviluppa e si impone. I suoi teorici affermano
una concezione «contestuale» del diritto[61],
che ne considera l’efficacia in una triplice dimensione: quella dell’istanza
sociale a cui il diritto intende dare una risposta, quella della soluzione
giuridica individuata, sia dal punto di vista normativo, sia istituzionale, e
infine quella dei risultati sociali ottenuti[62].
L’analisi del giurista diventa più complessa, perché acquista una dimensione
realistica, come scrive Cappelletti, «[…] essa non si limita più ad accertare, ad
esempio, che per promuovere l’inizio di un processo, o per sollevare
un’impugnazione, si devono osservare certi precetti formali, ma implica altresì
un’analisi dei tempi richiesti per
ottenere il risultato voluto, dei costi
da affrontare, delle difficoltà anche
psicologiche da superare, dei benefici
ottenibili, ecc. A sua volta, l’analisi del diritto sostanziale non può più
limitarsi a prendere atto, ad esempio, del fatto che certe norme, magari a
livello costituzionale, proclamano l’esistenza di determinati obblighi o
diritti, o la protezione dell’ambiente o dei consumatori, o della salute, ma
deve estendersi a una visione critica degli strumenti offerti agli individui e
ai gruppi per rendere effettiva tale
protezione»[63].
Da ciò deriva il secondo dei
grandi ambiti tematici dell’accesso alla giustizia, quello delle riforme, volte
a ridurre le diseguaglianze sociali nascenti da ostacoli economici – che riducono l’accesso alla giurisdizione delle fasce
sociali disagiate – organizzativi –
che impediscono la tutela di interessi collettivi – e infine processuali – che impediscono
un’adeguata tutela dei diritti ricorrendo al solo strumento giurisdizionale.
Il movimento trova la sua
definizione e consacrazione, nella ricerca coordinata da Mauro Cappelletti, dal
titolo Florence Project on Access to
Justice, pubblicata nel 1978 e nota come la più ampia indagine svolta sul
tema dell’accesso alla giustizia[64].
Oltre a fornire un’imponente massa di dati empirici, relativi al panorama
mondiale dei sistemi di giustizia, l’opera definisce l’impianto teorico del
movimento attraverso un metodo interdisciplinare e l’analisi comparatista[65].
Nell’introduzione generale,
Cappelletti e Garth individuano nel concetto di «accesso alla giustizia» una
chiave di lettura della salute delle democrazie contemporanee. L’espressione
«accesso alla giustizia», indica due scopi essenziali dei sistemi giuridici,
attraverso i quali le persone possono rivendicare i diritti e risolvere le
controversie sotto gli auspici dello Stato: per il primo il sistema deve essere
ugualmente accessibile a tutti, per il secondo deve essere finalizzato a
risultati che siano individualmente e socialmente giusti. Sebbene gli autori
precisino che la ricerca si concentra sul primo dei due scopi, sottolineano la
stretta relazione tra i due: in un sistema orientato alla giustizia sociale,
come richiesto dalle democrazie contemporanee, vi deve essere un’eguale
possibilità, per tutti i cittadini, di rivendicare e tutelare i propri diritti[66].
Partendo dall’idea che le
regole e le tecniche processuali hanno una funzione sociale e che il processo
non deve essere concepito solo nella sua veste strutturale e formale, ma anche
come una pratica che ha un rilevante impatto sociale[67],
gli autori individuano tre «ondate», in successione cronologica, nel movimento
per l’accesso alla giustizia che segnalano il progressivo allontanamento dal
modello giudiziale e stato-centrico, enucleato dalla teoria generale del
diritto novecentesca.
La prima, collocabile nel
secondo dopoguerra fino agli anni Settanta, riguarda la possibilità di fornire
assistenza legale anche ai cittadini non abbienti. A questa segue, a partire
dai primi anni Settanta, una seconda ondata di riforme, che riguarda la tutela degli
interessi diffusi, la cui rappresentazione in giudizio introduce una vera e
propria «metamorfosi» nella procedura civile[68],
tradizionalmente improntata ad uno schema individualistico: dalla tutela
individuale dei diritti si è passati al riconoscimento delle azioni collettive,
dall’idea di diritti individuali si è giunti al riconoscimento di diritti
appartenenti a gruppi e parti della società, per la tutela dei quali interi
gruppi, o classi di persone, sono legittimati ad agire in giudizio; tra gli
strumenti individuati, la class action
rappresenta uno dei più diffusi ed efficaci[69].
La terza ondata infine,
collocabile sul finire degli anni Settanta, consiste in un «access-to-justice approach», che si
concentra su quell’insieme di istituzioni e metodi, giudiziali ed
extragiudiziali, pubblici e privati, usati per regolare le controversie nelle
società contemporanee, che migliorano l’accesso alla giustizia[70].
In questa terza fase l’attenzione si sposta dal processo alla controversia,
dalle barriere che impediscono l’accesso alle Corti, ai limiti, propri anche
dello strumento processuale, che impediscono una reale tutela dei diritti e una
soddisfacente composizione degli interessi delle parti.
Basandosi sull’argomento
secondo cui i metodi di risoluzione devono differenziarsi in relazione alle
differenti tipologie di dispute[71],
Cappelletti e Garth individuano nei metodi alternativi di risoluzione delle
controversie, come ad esempio l’arbitrato, la mediazione e la conciliazione
delle parti, uno degli strumenti per migliorare l’accesso alla giustizia.
Mentre nelle prime due
ondate vi era un implicito orientamento normativo e giurisdizionale, visibile
sia negli strumenti individuati per l’assistenza legale, sia negli aspetti tecnico-giuridici
delle riforme per la tutela degli interessi collettivi, nella terza ondata si
coglie una diversa prospettiva giuridica, proprio in relazione ai differenti
metodi di composizione delle dispute, presentati come alternativi al processo,
e a un nuovo significato di giustizia, che Cappelletti definisce
«coesistenziale». «Essa può portare al riavvicinamento delle posizioni, a
soluzioni in cui non vi sono necessariamente un perdente ed un vincitore, ma
piuttosto una reciproca comprensione, una modificazione bilaterale dei
comportamenti»[72].
Per riferirci all’ipotesi
formulata da Ost, è proprio nella terza ondata che cominciano a manifestarsi
quelle ‘anomalie’, rappresentate dal ricorso agli strumenti
extragiurisdizionali, che il modello giuridico dominante non è in grado di
spiegare e integrare nei suoi principi. Ed è qui, nella terza ondata, che
possiamo cogliere il cambiamento del significato di ‘accesso alla giustizia’,
intesa non più come possibilità offerta a tutti di accedere alla tutela giurisdizionale
dei diritti, ma come possibilità, offerta a tutti, di risolvere le controversie
attraverso il diritto[73].
Negli stessi anni in cui si
sviluppava il progetto di accesso alla giustizia dell’Università di Firenze,
maturava negli Stati Uniti il grande movimento di riforma della giustizia, le
cui linee programmatiche vennero discusse e illustrate nel 1976, durante la Pound Conference dedicata all’analisi delle «Cause dell’insoddisfazione popolare nei
confronti dell’amministrazione della giustizia»[74]. Fu in quell’occasione che Frank Sander,
professore di diritto all’università di Harvard, illustrò una proposta per
migliorare la qualità del sistema giurisdizionale, destinata ad incidere
profondamente sulle future riforme del sistema processuale americano.
Considerando che ogni controversia è differente e pertanto anche i metodi di
risoluzione delle dispute debbono esserlo, Sander propose di alleggerire il
carico delle Corti ricorrendo a sistemi alternativi al processo ordinario, come
la mediazione o l’arbitrato[75]. Da qui nacque l’espressione «Alternative
Dispute Resolution Method», per indicare un sistema alternativo alla
giurisdizione dello stato che consentisse soluzioni soddisfacenti, rapide e
poco costose delle controversie[76]. Da quando Frank Sander la
pronunciò, la dottrina ha lavorato sulla parola «Alternative», per sostenere che i metodi consensuali, e tra questi
in particolare la mediazione, non devono essere considerati strumenti
alternativi al processo, che si pongono in contraddizione con i suoi principi,
ma come metodi adeguati a regolare determinate controversie, che si integrano
con gli altri strumenti giuridici, formando un sistema armonioso e complesso di
gestione delle dispute[77].
La «A» di «Alternative» è stata interpretata quindi come «Appropriate»,
per indicare un modello integrato di metodi di risoluzione delle controversie,
in luogo di uno bipolare, fondato sull’opposizione tra la giurisdizione dello
stato e meccanismi privati e informali[78].
Ma non tutti gli autori
condividono questa ipotesi interpretativa: «Appare per lo meno strano parlare
di “modi appropriati” – scrive Lafond – per designare le vie alternative»[79].
Sono i caratteri del conflitto, la situazione delle parti e le loro
disponibilità economiche che determineranno il carattere appropriato o meno del
modo di gestione della disputa. Né la mediazione, né il processo possono
infatti essere correttamente definiti come modi appropriati, prescindendo dalla
natura del conflitto: in alcuni casi la mediazione sarà appropriata, in altri
lo sarà il processo. Trasformare l’alternatività in adeguatezza equivale a
spogliare i modi consensuali dei propri caratteri distintivi, eliminandone la
specificità. Ma, come vedremo, nel prossimo capitolo, è proprio la loro
‘adeguatezza’ che permetterà di inglobare questi metodi nel sistema della
giustizia tradizionale.
In questi ultimi
quarant’anni, l’espressione «Alternative
Dispute Resolution» è stata impiegata sia per descrivere un insieme di
metodi di composizione delle controversie[80],
sia per alludere a un modello di giustizia più flessibile dei rigidi meccanismi
processuali e adeguato ai bisogni dei cittadini, sia infine per denotare un
fenomeno di proporzioni mondiali, che investe, in maniera più o meno omogenea,
America, Europa, Australia e Asia[81].
L’analisi comparatistica sul tema ne ha messo in luce elementi e obiettivi, che
permettono di avvicinare ordinamenti di common
law e di civil law in una comune
prospettiva di riforma dell’offerta di giustizia[82].
Ma, proprio perché si tratta di pratiche sociali che s’inseriscono in un
contesto di istituzioni, credenze e cultura, ciascuna si declina in modo
differente nei diversi sistemi giuridici. Accanto all’universalità, dobbiamo
dunque considerarne le differenze che suggeriscono grande cautela nella
riproduzione acritica di modelli e pratiche di mediazione da un luogo ad un
altro[83].
Sotto l’etichetta di ADR,
troviamo pratiche molto diverse, che talvolta gli stessi esperti accostano con
difficoltà[84]; si
va da sistemi eteronomi, come l'arbitrato, in cui un terzo, scelto dalle parti,
esprime una decisione vincolante sulla base di norme giuridiche, a sistemi
autonomi, come la conciliazione e la mediazione, in cui sono le parti, aiutate
da un terzo imparziale, a trovare la soluzione al conflitto che le divide[85].
Tuttavia vi sono alcuni
caratteri che ricorrono, in gradi diversi, in queste pratiche di gestione dei
conflitti: l’extragiurisdizionalità, l’informalismo delle pratiche[86]
la presenza di un terzo imparziale, che facilita o propone un accordo fra le
parti, la riservatezza che caratterizza gli incontri tra le parti e il
mediatore.
Ma non tutti i metodi
condividono questi caratteri: infatti non tutti sono informali, l’arbitrato ne
è il massimo esempio, e non tutti sono extragiurisdizionali, come mostrano le
forme definite court-annexed, o
endoprocessuali, che si sono sviluppate nell’ambito dell’attività delle corti[87].
Essi presentano piuttosto fra loro delle affinità o, per usare la celebre
espressione di Wittgenstein, ‘somiglianze di famiglia’[88].
Così, quando parliamo di ADR, non stiamo indicando un gruppo omogeneo in cui
tutti i membri presentano le stesse proprietà, ma piuttosto una famiglia di metodi
che ne mostrano, tutti in diversa misura, solo alcune e non altre.
A questi elementi, che ne
designano la struttura, dobbiamo aggiungere quelli che ne definiscono gli
obiettivi. Mentre il sistema processuale di risoluzione delle controversie
segue una logica binaria e competitiva, basata sull’idea di ragione e torto, di
vittoria e sconfitta, i metodi ADR seguono una logica cooperativa, che
privilegia la ricerca di soluzioni soddisfacenti per entrambe le parti, basate
sulla comunicazione e sul confronto degli interessi. Come ha notato Adler,
«nonostante l’ampia varietà di situazioni, c’è una somiglianza di base nella
struttura e ideologia di molte forme di ADR. Esse condividono un interesse
verso modi consensuali e non violenti di raggiungere gli accordi, in
opposizione a un metodo formale e avversariale di trattare i conflitti»[89].
In questi ultimi venti anni
la progressiva formalizzazione dell’arbitrato e il suo carattere ‘giudiziale’
lo hanno ulteriormente differenziato dai metodi ADR, tanto da indurre gli
studiosi e la stessa Unione Europea, come vedremo, a escluderlo dalla categoria[90].
Tra gli ADR la mediazione occupa un posto centrale, sia per la maggiore
flessibilità delle sue pratiche, sia per la sua adattabilità a contesti e
ordinamenti giuridici diversi, sia infine per il modello di giustizia e di
ordine sociale che veicola. Possiamo definirla come «un procedimento in cui le
parti e i loro avvocati si incontrano con un mediatore neutrale, che ha il
compito di assisterle nella ricerca di una soluzione della controversia. Il
mediatore migliora la comunicazione tra le parti, le aiuta a manifestare più
chiaramente i propri interessi e a capire quelli dell’altra parte; saggia i
punti di forza e quelli di debolezza delle rispettive posizioni giuridiche, identifica
aree di possibile accordo e aiuta le parti a formulare ipotesi di soluzione su
cui ambedue possano concordare»[91].
La rapida diffusione della
mediazione ha suscitato un ampio e vivace dibattito che ha diviso il mondo
giuridico, sia negli Sati Uniti, sia in Europa. Oltre a coloro che ne hanno
sostenuto la validità giuridica[92]
e a quelli che ne hanno valutato positivamente la portata sociale[93],
sono numerosi gli studiosi che hanno guardato con diffidenza e sfavore
all’avvento dei metodi non giudiziali di risoluzione delle controversie. Negli
Sati Uniti, dove il fenomeno si è sviluppato fin dagli anni settanta, i metodi
ADR sono stati interpretati dai sociologi come uno strumento per creare nuovi
equilibri politici al di fuori delle garanzie costituzionali[94]
e dai giuristi come una palese violazione del principio di legalità[95].
Questi sistemi sono stati guardati come alternativi alla giustizia, più che al
processo: ‘corpi estranei’, inseriti nell’ordinamento allo scopo di alleggerire
il carico dei tribunali[96].
A tali critiche si è replicato in vari modi, che hanno privilegiato gli
argomenti dell’opportunità, dell’efficienza e della soddisfazione sociale,
senza tuttavia rivendicare per queste forme cooperative una vera e propria
dignità giuridica, giustificata dai principi dell’ordinamento.
Uno sguardo alla storia
degli Alternative Dispute Resolution ci permette di capire che le aspre
divisioni suscitate da questo strumento così ‘mite’ derivano da un’ambiguità
iniziale insita nelle funzioni che gli sono state assegnate e nel relativo
programma di giustizia che annuncia.
[1] T. Mazzarese, La
giustizia del diritto, Relazione presentata al XXX Congresso della Società
Italiana di Filosofia del diritto, «Limiti del diritto», Lecce, 15-17 luglio
2016. Cfr. F. Viola, che parla
delle «numerose res novae, che si
presentano come istanze emergenti all’interno del mondo giuridico e attendono
di essere adeguatamente metabolizzate dalla cultura giuridica contemporanea», Il futuro del diritto, Lectio magistralis, Università di
Palermo, 26 novembre 2012 (p. 1).
[2] Tra
l’ampia letteratura sul tema, cfr. T. Hagan,
The End of Law?,
Oxford, Basil Blackwell, 1984;
B. De Sousa Santos, Law: a Map of Misreading. Towards
a Postmodern Conception of Law,
in Journal of Law and Society, 14, 3,
1987, pp. 279-302; N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari,
Laterza, 2005₃; P. Rossi (a cura di), Fine
del diritto?, Bologna, Il Mulino, 2009;
M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica,
Torino, Giappichelli, 2008.
[3] S. Cassese, Eclissi o rinascita del diritto, in P. Rossi (a cura di), Fine del diritto?, cit., pp. 29-36.
[4] F. Ost - M. Van de Kerchove, De la pyramide au réseau. Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles,
Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, 2002. Ma si vedano le riflessioni di P. Prodi, Una storia della giustizia, Bologna, Il Mulino, 2000.
[5] M. La Torre, Cittadinanza e ordine politico. Diritti,
crisi della sovranità e sfera pubblica: una prospettiva europea, Torino,
Giappichelli, 2004, p. 83 ss.; F. Viola, Il Rule of Law e il
pluralismo giuridico contemporaneo, in M. Vogliotti
(a cura di), Il tramonto della modernità
giuridica, cit., 95-125; P. Grossi,
Ritorno al diritto, Roma-Bari,
Laterza, 2015, 29.
[8] Ost chiarisce l’uso improprio
della teoria nell’ambito delle scienze umane, in cui non esiste «quel consenso
forte e diffuso intorno a un paradigma che caratterizza, invece, le scienze
empiriche», tuttavia ne rivendica l’efficacia in relazione al modello giuridico
moderno, i cui caratteri sono universalmente riconosciuti, F. Ost, Dalla piramide alla rete: un nuovo paradigma per la scienza giuridica?,
in M. Vogliotti, (a cura di), Il
tramonto della modernità giuridica, Torino, Giappichelli, 2008, 29-48. (p. 32.)
[9] Cfr. B. Pastore, che riprende il paradigma della piramide e della
rete proposto da Ost, Interpreti e fonti
nell’esperienza giuridica contemporanea, Torino, Giappichelli, 2014, p.
XII; 25 ss. Si veda inoltre G. Pino,
La gerarchia delle fonti del diritto.
Costruzione, decostruzione, ricostruzione, in Ars Interpretandi, 2011, n. 16, 19-56.
[10] Si vedano le riflessioni di M. Barberis, Europa del diritto, Bologna, Il Mulino, 2008, sull’impiego del
paradigma della rete nella letteratura giuridica, che si presta meglio di
quello piramidale a definire alcuni aspetti del diritto comunitario. «[…] vi
sarebbero molte ragioni per abbandonare il modello piramidale a favore di un
modello a rete: se non fosse che il secondo è orizzontale, e tende ad
appiattire i rapporti fra norme giuridiche a un solo piano, mentre il primo è
verticale, e dunque si presta meglio a spiegare il carattere multilivello di
diritto statale, internazionale e comunitario» (p. 256). Per questo conclude
per un rovesciamento del modello piramidale che esclude l’idea di un modello
ordinato, ma permette di conservare una prospettiva verticale, esclusa dalla
rete (p. 297).
[12] Cfr. A. J. Arnaud, Le sfide della globalizzazione alla modernità giuridica, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica,
cit., 77-94 (p. 79).
[13] M.R. Ferrarese, La
globalizzazione del diritto: dalla «Teologia politica» al «diritto utile»,
in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica,
cit., pp. 49-76 (p. 59). Si veda inoltre per un’analisi politica della
centralità del giudiziario, Id., Magistratura, virtù passive e stato attivo,
in Democrazia
e diritto, 1997, n.1, 111-132.
[14] M. Delmas-Marty, Les forces imaginantes du droit (III). La
refondation des pouvoirs, Paris, Éditions du Seuil, 2007, 42 ss. B.
Pastore, Il diritto internazionale in un mondo in
trasformazione: verso un diritto giurisprudenziale?, in Ars Interpretandi, 2001, n. 6, 157-193.
Cfr. V. Ferrari, La giustizia come servizio. Centralità della
giurisdizione e forme alternative di tutela, in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Tarzia, Tomo I,
Milano, Giuffrè, 2005, 47-66.
[15] La funzione di risoluzione dei
conflitti e la funzione simbolica di «dire il diritto» sono due attività
diverse: la prima non è esclusiva del giudice, ma viene svolta anche da altre
figure, come l’arbitro e il conciliatore, la seconda riguarda l’applicazione
delle norme, anch’essa non esclusiva del giudice, ma condivisa con il ruolo
amministrativo, sul punto E. Castrucci,
Il problema dell’indipendenza e
dell’imparzialità della magistratura, in Studi senesi, 2011, n. 2, pp. 214-239.
[16] Cfr. sul punto le osservazioni
di I. Trujillo, sulla relazione
tra imparzialità e giustizia, Imparzialità,
cit., 29 ss.; sulla giurisdizione B.
Pastore, Decisioni e controlli tra
potere e ragione, Torino, Giappichelli, 2013, 61 ss.
[17] Cfr. S. Romano, L’ordinamento
giuridico. Studi sul
concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Firenze,
Sansoni, 1946₂; R. Macdonald, L’hypothèse du pluralisme juridique dans les sociétés démocratiques
avancées, in Revue de Droit
Université de Sherbrooke (R.D.U.S.), 2003, vol. 33, n.1-2, 135-152. Sul rinnovato interesse per la
teoria del pluralismo giuridico cfr. J.
Vanderlinden, Return to Legal
Pluralism: Twenty Years Later, in The
Journal of Legal Pluralism and Unofficial Law, 21, 1989, 149-157; F.
Viola, Il Rule of Law e il pluralismo giuridico contemporaneo,
in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica,
cit., 96-128; cfr. inoltre i saggi raccolti in V. Ferrari - P. Ronfani - S.
Stabile (a cura di), Conflitti e
diritti nella società transnazionale, Milano, FrancoAngeli, 2001.
[18] F. Ost, Jupiter, Hercule, Hermès: trois modèles du juge», in P. Bouretz (sous la direction de), La force du droit. Panorama
des débats contemporaines,
Paris, Éditions Esprit, 1991, 242.
[19] D. Kertzer, Riti e simboli
del potere, Roma-Bari, Laterza, 1989, che definisce il rito «un comportamento
simbolico ripetitivo e socialmente standardizzato […] esso segue delle sequenze
uniformi e notevolmente strutturate e si svolge in determinati luoghi e in
determinate occasioni, a loro volta dotati di uno speciale significato
simbolico», 9.
[20] A. Garapon, Del
giudicare, Milano, Raffaello Cortina, 2007 (Bien juger. Essai sur le rituel judiciaire, Paris, 2001), 201 ss.
in particolare il cap. I, dedicato a «Lo spazio giudiziario»; si veda inoltre
il volume di J. Resnik - D. Curtis,
interamente dedicato alla rappresentazione iconografica e architettonica della
giustizia, Representing Justice. Inventions, Controversy, and Rights in City-States and
Democratic Courtrooms, New Haven and London, Yale University Press, 2011.
[21] Sul concetto di legalismo e
logicismo, cfr. L. Lombardi Vallauri,
Saggio sul diritto giurisprudenziale,
Milano, Giuffrè, 1975, 201 ss.
[27] R. Dworkin, L’impero del diritto,
Milano, Il Saggiatore,
1989 (Law’s Empire,
1986), p. 294 ss. Ost precisa che il giudice Hermes
richiamato da Dworkin si differenzia dal proprio per almeno due caratteri: il primo
è che si tratta di un giudice; il secondo è che risponde a un’ideologia
legalista, perché giudice interpreta la legge in funzione della volontà del
legislatore, Jupiter, Hercule, Hermès:
trois modèles du juge, cit., 244.
[28] R. Macdonald - A. Law, Le juge et le
citoyen: une conversation continue, in A.
Riendeau (sous la direction de),
Dire le droit: pour qui et à quel prix?, Montréal (Québec), Wilson &
Lafleur, 2005, 5-21 (12-13).
[29] J.
G. Belley, Une justice de la seconde modernité: proposition des principes généraux
pour le prochain code de procédure civile, in McGill Law Journal, 2001, n. 46, 317-372 (336-337); 336.
[30] J.
G. Belley, Une justice de la seconde modernité: proposition des principes généraux
pour le prochain code de procédure civile, cit., 336-337. Sulla funzione simbolica svolta
dal processo, A. Garapon, Del giudicare, cit.; O. Chase, Gestire i conflitti. Diritto,
cultura, rituale, Roma-Bari, Laterza, 2009, (Law, Culture and Ritual: Disputing Systems in Cross-Cultural Context,
New York, 2007), 136-148.
[31] Macdonald, R., L’Hypothèse du pluralisme juridique dans les
sociétés démocratiques avancés, cit., 135-153.
[32] Macfarlane J., The New Lawyer: How
Settlement is Transforming the Practice of Law, Vancouver, University British
Columbia Press, 2008.
[33]Auerbach J. S. Justice Without Law?, New York-Oxford, Oxford University Press,
1983; P. Noreau, La justice est-elle soluble dans la
procédure? Repères
sociologiques pour une réforme de la justice civile, in Les Cahiers
de droit, 1999, vol. 40, 33-56.
[36] In
tal senso si esprimono OST e VAN DE KWERCHOVE, De la pyramide au réseau. Pour une théorie dialectique du droit,
cit., 106.
[37]
Cfr. per una visione d’insieme, N. Alexander
(ed.), Global Trends in Mediation,
second edition, Alphen an der Rijn (NL), Kluwer Law International, 2006.
Anche
gli Stati asiatici presentano sistemi consensuali di risoluzione delle
controversie molto radicati e diffusi, tuttavia le radici culturali che ne
giustificano la grande diffusioni ed efficacia sono differenti e meritano una
trattazione specifica, sul punto si veda M. Taruffo,
Dimensioni transculturali della giustizia
civile, in Rivista di diritto e
procedura civile, 2000, n. 4, 1047-1084, ora in Id., Sui confini,
Bologna, Il Mulino, 2002, 11-52; G. Cosi,
Modelli culturali e sistemi di gestione
dei conflitti, in Id., Scritti sulla mediazione, Milano,
Giuffrè, 2007, 148 ss.
[40] P. Comanducci, Ragionamento
giuridico, in M. Bessone - E.
Silvestri - M. Taruffo (a cura di), I
metodi della giustizia civile, Padova, Cedam, 2000, 79-136; D. Canale, Il ragionamento giuridico, in G. Pino
- A. Schiavello - V. Villa (a cura di), Filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 2013, 316-351.
[41] J.G. Belley, Une justice de la
seconde modernité, cit., 325-326; si vedano le riflessioni di E. Castrucci, Il problema dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura,
cit., 220 ss.
[42] È quello che propongono W. M. Landes e R. A. Posner, interpretando la giustizia secondo il paradigma
del mercato e ipotizzando l’industria privata dei servizi giudiziari, Adjudication as a Private Good, in Journal of Legal Studies, 1979, n. 8,
235-284.
[43] Cfr. M.R. Damaška, I volti
della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, Bologna,
Il Mulino, 1991.
[45] V. Varano, L’altra
giustizia: i metodi alternativi di soluzione delle controversie nel diritto
comparato, Milano, Giuffrè, 2007.
[46] M.R. Ferrarese, Formante
Giudiziario e mediazione. Confluenze e differenze, in N. Trocker - A. De Luca (a cura di), La mediazione civile alla luce della
Direttiva 2008/52/CE, cit., 1-11 (5).
[48] «Il diritto sta evolvendo da un
diritto “imposto” verso un ordine “negoziato”: la produzione delle norme
giuridiche assume un carattere sempre più “partecipativo”, discostandosi dalla
natura autoritaria che caratterizzava la modernità giuridica», così A. J. Arnaud, Le sfide della globalizzazione alla modernità giuridica, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica,
cit., 77-94. (79).
[49] G. Rocher, Le droit et la justice: un certain regard
sociologique, in Cahiers du Droit,
2001, vol. 42, n. 3, 873-882 (877-878).
[50] Cfr. l’analisi di C. Perelman, La giustizia, cit., che, nell’elaborazione del concetto di
giustizia, considera l’esistenza di almeno sei formule che corrispondono alle
concezioni più usuali della nozione di giustizia, rilevando che «queste formule
sono inconciliabili», p. 28. Cfr. inoltre sull’analisi di Perelman e la
contraddittorietà del concetto di giustizia L.
Lombardi Vallauri, Corso di
filosofia del diritto, Padova, Cedam, 1981, 213 ss.
[52]
Cfr. per un approccio istituzionale al tema, che illustra lo sviluppo delle
riforme negli Stati Uniti e l’attuale «shameful
gap between our rethorical committment and daily practices concerning access to
justice», D.L. Rhode, Access to Justice, Oxford, Oxford
University Press, 2004, 5.
[53] Per un’analisi dei diritti
fondamentali sull’applicazione giudiziale del diritto, si veda T. Mazzarese, Diritti fondamentali e neocostituzionalismo. Un inventario di problemi,
in Id. (a cura di), Neocostituzionalismo e tutela
(sovra)nazionale dei diritti fondamentali, Torino, Giappichelli, 2002,
1-69. Si veda ivi, M. Taruffo, Diritti fondamentali, tutela giurisdizionale
e alternative, in T. Mazzarese
(a cura di), Neocostituzionalismo e
tutela (sovra)nazionale dei diritti fondamentali, cit., 189-205, che
distingue, dal punto di vista del processualista, tra diritti sostanziali e diritti processuali, 189.
[54] Cfr. A. Osti, Teoria e
pratica dell’accesso alla giustizia. Un raffronto tra ordinamento nazionale e
ordinamenti esteri, Milano, Giuffrè, 2016, che definisce l’accesso alla
giustizia come «la possibilità per ogni essere umano di accedere agli
strumenti, generalmente giurisdizionali, predisposti dall’ordinamento, posti a
tutela dei propri diritti e/o interessi». In tale accezione potrebbe essere
configurato come un diritto fondamentale «funzionale», il cui scopo è quello di
garantire altri diritti, anche fondamentali, 11.
[55] M. Cappelletti, Dimensioni
della giustizia nelle società contemporanee, Bologna, Il Mulino, 1994, 100.
[56] M. Cappelletti, voce Accesso
alla giustizia, in Enciclopedia delle
scienze sociali, Treccani, 1988, http://www.treccani.it/enciclopedia/accesso-alla-giustizia_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali)/ .
[57] M.
Cappelletti - B. Garth, Access to Justice: the Worldwide Movement to Make Rights Effective. A
General Report, in M. Cappelletti
(ed.), Access to Justice. A World Survey,
Milano-Alphen aan der Rijn, Giuffrè-Sijthoff, 1978, vol. I, book 1, 6.
[58] L. Lombardi Vallauri, Saggio
sul diritto giurisprudenziale, cit.; si veda inoltre Id., voce Diritto libero, in Digesto
delle Discipline Privatistiche, Sez. Civile, VI, Torino, Utet, 1990.
[59] K. Lewellyn, nel saggio considerato come il manifesto
programmatico del realismo giuridico americano, Some Realism about Realism, in Harvard
Law Review, 1931, vol. 44, n. 8, 1222-1264, tenta una sistematizzazione
delle tesi del realismo, in nove punti. Tra questi segnaliamo il punto otto, che
si sofferma sugli effetti del diritto, particolarmente rilevante per i teorici
dell’accesso alla giustizia «An
insistence on evaluation of any part of law in terms of its effects, and an
insistence on the worthwhileness of trying to find these effects», 1237.
[60] G. Tarello, Il realismo
giuridico americano, Milano, Giuffrè, 1962; S. Castignone - M. Ripoli
- C. Faralli (a cura di), Il diritto come profezia. Il realismo
americano: antologia di scritti, Torino, Giappichelli, 2002.
[65] V. Denti nel suo commento all’opera, la definì un «disegno
illuministico», per la spinta progettuale e il dichiarato intento riformatore
che caratterizzano le analisi giuridiche, Accesso
alla giustizia e Welfare State (a proposito del Florence Access to Justice
Project), in Rivista trimestrale di
diritto e procedura civile, 1982, 618-626.
[66]
M. Cappelletti - B. Garth, Access to Justice: the Worldwide Movement to Make Rights Effective. A
General Report, in M. Cappelletti
(ed.), Access to Justice. A World Survey,
cit., vol. I, book
1, 6.
[67] Cfr. sul tema V. Denti, Sistematica e post-sistematica nella evoluzione delle dottrine del
processo, in Rivista critica di
diritto privato, 1986, IV, 1, 469-492.
[68]
Cfr. M. Cappelletti, La protection d’intérêts collectifs et de
groupe dans le procès civil (Métamorphoses
de la procédure civile), in Revue internationale
de droit comparé, 1975, 571-597.
[69] Per un’analisi della class action e la sua introduzione in
Italia, si veda S. Patti, Class action e azione risarcitoria
collettiva: analogie e differenze, in A. Bellelli
(a cura di), Dall’azione inibitoria
all’azione risarcitoria collettiva, Quaderni
della rivista di diritto civile, Padova, Cedam, 2009, 11-19; E. Ferrante, La via italiana alla «class action» fra interesse di classe e regole
ostruzionistiche per le adesioni (Nota a App. Torino 30 giugno 2016), in Giurisprudenza italiana, 2017, fasc.
1, 66-71.
[70]
M. Cappelletti - B. Garth, Access to Justice: the Worldwide Movement to
Make Rights Effective. A General Report, cit., 49.
[71]
«This approach recognizes the need to
relate and adapt the civil process to the type of dispute», così M.
Cappelletti - B. Garth, Access to Justice,
cit., 52; 65-87.
[73] Fortemente critica la tesi di U. Mattei, Access to Justice. A Renewed Global Issue?, in Electronic Journal
of Comparative Law, vol. 11, n. 3 (December 2007), http://www.ejcl.org , 1-25, che
ritiene che sia proprio il cambiamento di significato dell’espressione «Access to Justice» a nascondere
un’operazione politica di riduzione delle tutele a vantaggio del rafforzamento
del potere dei gruppi economicamente più influenti. In
sostanza l’ampliamento dell’accesso ai metodi di risoluzione implica la
limitazione dell’accesso al processo e alle sue garanzie: «The birth of the ADR
industry, and the development of a professional class of mediators, not
necessarily trained in the law and serving the interests of harmony and
non-adversary social control, had transformed the issue of access to
justice, by limiting as much as possible access to courts of law», 3.
[74] A. L. Levin - R. R. Wheeler, The
Pound Conference: Perspectives on Justice in the Future. Proceedings of the
National Conference on the Causes of Popular Dissatisfaction with the
Administration of Justice, St. Paul, Minnesota, West Publishing Co., 1979.
[75] F.
E. Sander, «A second way of reducing the judicial caseload is to explore
alternative ways of resolving disputes outside the courts, and it is to this
topic that I wish to devote my primary attention», Varieties of Dispute Processing, in A. L. Levin - R. R. Wheeler,
The Pound Conference, cit., 65-87 (66).
[76]
S. Roberts - M. Palmer, Dispute Processes, ADR and the Primary Forms of Decision Making,
Cambridge, Cambridge University Press, 2005, 46.
[77] Particolare
interesse riveste la posizione critica di Laura Nader, secondo cui esiste «uno
specifico raggruppamento di credenze che indico con il termine “ideologia
dell’armonia” e che opera come sistema di controllo culturale, limitando il
dibattito sulla legalità e sulle sue alternative».
Le forze vive del diritto. Un’introduzione all’antropologia giuridica.
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. 2003, 99.
[78]
C. Menkel-Meadow, Mediation, Arbitration, and Alternative
Dispute Resolution (ADR), in N. J. Smelser
- P. B. Baltes (eds.), International Encyclopedia of the Social § Behavioral
Sciences, Oxford, Elsevier Science Ltd., 2001, 9507-9512. «The term ‘appropriate’ dispute resolution is used to express the idea
that different kinds of disputes require different kinds of processes»
(9507). Cfr. P. Adler, The Future of Alternative Dispute
Resolution: Reflection on ADR as a Social Movement, in S. Engle Merry - N. Milner (eds.), The Possibility of Popular Justice, A Case Study of Community Mediation
in the Unites States, The University of Michigan Press, USA, 1993, 68.
[79] P. Lafond, L’accès à la justice civile au Québec. Portrait général,
Cowansville (Québec), Éditions Yvon Blais, 2012, 172.
[80] A.
J. Arnaud - J. P. Bonafé-Schmitt, Alternative (Droit) – Alternative (Justice), in Dictionnaire encyclopédique de théorie et de
sociologie du droit, 2a ed., Paris, LGDJ,
1993, 13-15.
[81] R.
Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, vol. I, The American Experience, New York, Academic Press, 1982; J. S. Auerbach, Justice Without Law?, New York-Oxford, Oxford University Press,
1983. In prospettiva
comparatistica cfr. N. Alexander
(ed.), Global Trends in Mediation,
cit.
[82] V. Varano (a cura di), L’altra
giustizia, cit. Si veda inoltre M. Taruffo,
Dimensioni transculturali della giustizia
civile, in Rivista trimestrale di
diritto e procedura civile, 2000, n. 4, 1047-1084, ora in Id., Sui confini, Bologna, Il Mulino, 2002, 11-52.
[84] Per questa ragione M. Palmer e S. Roberts hanno definito ADR come una «fugitive label», Dispute Processes, ADR and the Primary Forms
of Decision Making, cit., 3.
[85] Sulla distinzione tra sistemi
autonomi ed eteronomi di risoluzione delle controversie cfr. F. P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Rivista trimestrale di diritto e procedura
civile, 2005, vol. 58, 4, 1201-1220. Tra i metodi ADR, distinguiamo
strumenti eteronomi, in cui la soluzione della controversia è decisa da un
terzo imparziale scelto dalle parti, e strumenti autonomi, in cui sono le parti
stesse, alla presenza del terzo, a risolvere la loro controversia. Ai due
estremi di una scala ideale possiamo collocare l’arbitrato, che rappresenta il
massimo grado di eteronomia, e la mediazione/conciliazione che esprime il
massimo grado di autonomia. Nell’arco decrescente che va dall’arbitrato alla
mediazione vengono convenzionalmente collocati numerosi metodi, tra cui l’Early Neutral Evaluation, il Mini Trial, la med-arb, solo per citarne alcuni. Per un’analisi ampia e
dettagliata dei metodi ADR cfr. M. Cicogna
- G. Di Rago, G. N. Giudice, La conciliazione commerciale, Santarcangelo di Romagna, Maggioli,
2005, 40 ss.
[86] Pone l’accento su questo aspetto
F. P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, cit., 1209:
distinguendo tra conciliazione e arbitrato egli sottolinea come «il mancato
rispetto delle regole nel procedimento conciliativo non possa costituire
ragione di invalidità dell’accordo raggiunto dalle parti», a differenza
dell’arbitrato in cui i vizi di forma costituiscono causa di impugnazione per
nullità.
[87] G. De Palo - G. Guidi,
Risoluzione alternativa delle
controversie (ADR) nelle corti federali degli Stati Uniti, Milano, Giuffrè,
1999, 7.
[88] Per usare la celebre espressione
di L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trichero, Torino, Einaudi, 1974 (Philosophische Untersuchungen, a cura di
G.E.M. Anscombe e R. Rhees, Oxford 1953), §§ 65-67,
46-47.
[89]
P.S. Adler, The Future of Alternative Dispute Resolution: Reflections on ADR as a
Social Movement, cit., 67.
[90]
Cfr. J. R. Sternlight, Is Binding Arbitration a Form of ADR: an
Argument That the Term Has Begun to Outlive Its Usefulness, in Journal of Dispute Resolution, 2000, n.
1, 97; L. Cominelli, La risoluzione delle dispute, Milano,
FrancoAngeli, 2012, 97-111.
[91]
Si tratta della definizione fornita dalla Corte distrettuale federale di New
York, Rule 83.11(a), Local Rules of the
United States District Courts for the Southern and Eastern Districts of New
York, cit. in O. Chase, Gestire i conflitti. Diritto, cultura
rituali, Roma-Bari, Laterza, 2005, 112.
[92]
Tra questi si segnala L. Fuller, Mediation: Its Forms and Functions, in Southern California Law Review, 1971,
44, 305-339; L. Fuller - K.I. Winston, The Forms and Limits of Adjudication, in Harvard Law Review, 1978, 92, 2, 353-409; F.P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, cit.; R. Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, vol. I, cit.
[93] R.
Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, vol. I, cit.; J.
P. Bonafé-Schmitt, La médiation. Une justice douce, Paris,
Syros Alternatives, 1992; J. Faget,
Éloge du fluide. Une lecture
socio-politique de la médiation, in C. Eberhard
- G. Vernicos (sous la direction de), La quête anthropologique du droit,
Paris, Éditions Karthala, 2006, 351-368.
[94]
L. Nader, The A.D.R. Explosion – The Implications of Rhetoric in Legal Reform,
in Windsor Yearbook of Access to Justice, 1988, vol. 8, 269-291. Vedi infra.