Si pubblica, su proposta
dell’Autore (e consenso dell’Editore) il Capitolo I (Definizione e libertà di matrimonio – pp. 3-62) della Parte Prima
della monografia di RICCARDO ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano classico, II ed., Padova,
Wolters Kluwer CEDAM, 2014, pp. XII-472. ISBN 978-88-13-34144-2
Riccardo
Astolfi
Università di Padova
Definizione e libertà di
matrimonio
ABSTRACT del volume – Sommario
del capitolo I: 1. Definizione
di matrimonio. – 2. Libertà di sposare.
Il
matrimonio classico ha fondamento consensuale e struttura
negoziale. Come nel contratto di società, all’accordo iniziale dei coniugi si
accompagna la volontà successiva di ciascuno di essi di continuarlo nel tempo,
venendo meno la quale si ha divorzio, che può essere quindi anche unilaterale.
I coniugi si considerano tali, vi è cioè tra loro affectio maritalis, in quanto
intendono, con il loro rapporto, procreare ed educare figlio legittimi
(matrimonium iustum). Occorre però che abbiano la capacità giuridica (conubium)
e naturale (pubertas) di contrarlo e vi sia l’assenso dei loro patres familias
(Ep. Ulp. 5,2). Mancando uno di questi requisiti, il rapporto non è matrimonio:
non sono marito e moglie e i figli non sono legittimi (matrimonium iniustum).
Tuttavia la loro convivenza
è rilevante per il diritto, se non è venuta meno, anche in uno soltanto, l'affectio maritalis, cioè se
persiste in loro la volontà di essere marito e moglie. Il diritto la tutela
sino al punto di punire la donna per adulterio, qualora frequenti altri e può
accadere che aspetti patrimoniali del rapporto siano disciplinati ricorrendo
all'analogia con il fidanzamento se non addirittura con lo stesso matrimonio.
Ne consegue che il rapporto diviene automaticamente matrimonio valido al
sopravvenire del requisito mancante.
Divorzio è propriamente cessazione dell'affectio maritalis e quindi può verificarsi tanto se il matrimonium è iustum quanto se è iniustum. Augusto gli impose una forma, la dichiarazione doveva avvenire in presenza di sette testimoni qualificati, ma soltanto se scioglieva un matrimonium iustum. Il persistere dell'affectio maritalis anche nel matrimonium iniustum ne fa quindi un rapporto giuridico e lo differenzia dal concubinato, che è un rapporto di fatto, perché manca, appunto, dell'affectio maritalis. I concubini infatti non intendono avere figli legittimi.
I). La definizione di matrimonio per l’età
classica è quella di Modestino.
D.23.2.1
Mod.1 reg.180 Nuptiae sunt coniunctio
maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio[1].
È probabile che la definizione, la quale
vuole essere elementare, come mostra la natura dell’opera da cui proviene (Regulae), sia tralaticia. La
giurisprudenza classica l’avrebbe ricevuta da quella repubblicana e dalla
concezione che essa aveva del matrimonio quale istituto capace di far entrare
nella familia del marito non solo i
figli, ma anche la moglie, cioè del matrimonium
cum manu[2].
La manus infatti non contraddice
l’essenza del matrimonio, bensì l’accentua e per certi aspetti la completa,
compreso innanzitutto l’aspetto religioso, tanto più importante quanto più si
risale nel tempo, essendo in età arcaica il matrimonio romano un istituto di ius sacrum[3].
Per questo motivo la definizione può essere ricevuta dalla giurisprudenza
classica ed è suscettibile di un’interpretazione che l’adatta al mutare della
società e del diritto, compreso, è da credere, l’ultimo, quello di Giustiniano,
ragione per cui non sarebbe necessario supporvi alterazioni.
Se le parole coniunctio maris et feminae intendono mostrare che lo scopo del
matrimonio è la procreazione e la cura dei figli, esse indicherebbero come la
concezione del matrimonio romano e quindi la sua definizione abbiano fondamento
nel diritto naturale (qui, più avanti). Lo rivela, in modo particolare, l’uso
delle parole mas e femina invece di vir e uxor e l’impiego
della parola coniunctio. Lo scopo
rimane ancora in età classica, sebbene nella società si abbia per esso un
interesse minore rispetto all’età preclassica[4].
Augusto reagisce mediante la Lex Iulia et
Papia, riaffermando nei coniugi l’onere della procreazione. Lo segue la legislazione
successiva, favorendo, fra l’altro, i matrimoni tra persone ancora in età di
procreare (§ 45). Se diminiusce l’esigenza morale della procreazione, aumenta
quella di provvedere alla cura dei figli e a questo modo si accentua una
tendenza che in età preclassica è già del ius
sacrum[5].
Rimanendo la procreazione dei figli legittimi lo scopo finale e caratterizzante
il matrimonio, rimane in età classica anche l’uso di qualificare il matrimonio
con l’indicazione formale di questo scopo, precisando cioè che il matrimonio è
stato contratto liberorum quaerendorum
causa[6].
La clausola di stile è impiegata dal legislatore (ad esempio dalla Lex Aelia Sentia e probabilmente dalla Lex Iulia de mar. ord.: § 9), dai
privati (ad esempio nelle attestazioni richieste da queste due leggi: § 9)[7] e
naturalmente dalla giurisprudenza (ad esempio da Callistrato in D. 50.16.220.3)[8].
La procreazione e la cura dei figli è
quindi per il diritto lo scopo per il quale i coniugi instaurano fra loro una
comunanza di vita, cioè il consortium
omnis vitae. L’espressione continua a significare anche per l’età classica
comunione di vita in ordine a tutti i suoi aspetti: fisico (coabitazione),
religioso, patrimoniale e sociale (§ 47). Consortium
omnis vitae vuol dire inoltre che la comunione è costituita per continuare
durante tutta la vita dei coniugi. Il significato è certo per l’età
preclassica, in cui è diffusa la confarreatio,
matrimonio indissolubile almeno in alcune sue espressioni e forse tale in
origine. Durante quell’età, se il matrimonio è risolubile, esso è tuttavia
concepito quale rapporto tendenzialmente perpetuo. Sino al III sec. a.C. il
divorzio è infatti concesso soltanto al marito e in età risalente il ius sacrum punisce gravemente il marito,
se lo pratica fuori dai casi previsti e quindi, ancorché valido, divenga
illecito[9].
Ma anche quando il ius sacrum perde
di importanza e la pratica del divorzio si diffonde e si estende alla moglie,
il matrimonio repubblicano e classico continua a essere un rapporto
tendenzialmente perpetuo. Nel giudizio di restituzione della dote ha infatti
rilievo la circostanza che il ripudio sia giustificato oppure no (§ 52)e non
risulta apponibile al matrimonio un termine finale o una condizione risolutiva
(§ 15). L’eccezionalità e la gravità del divorzio è inoltre volutamente
sottolineata da Augusto con l’imposizione di una forma (§ 54).
La comunione dei coniugi viene
disciplinata tanto dal ius sacrum
quanto dal ius civile o laico che dir
si voglia. Il consortium omnis vitae ha
natura sacra e profana. Sembra questo il significato delle parole divini et humani iuris communicatio. Lo
è in età preclassica, quando al matrimonio si accompagna la manus e il ius sacrum disciplina la costituzione del rapporto coniugale,
associa la moglie alla religione familiare e gentilizia del marito, disciplina
la posizione che essa occupa nella casa coniugale e i poteri che su di lei ha
il marito, mentre il ius civile
regola l’attribuzione alla moglie del patrimonio, della casa, del nome e della
posizione sociale del marito[10].
Ma questo è ancora il significato, pur se quantitativamente diverso, che le
parole divini et humani iuris
conservano in età classica. Il matrimonio è diventato un istituto
prevalentemente laico e la manus si
dissocia normalmente dal matrimonio, ma è ancora il diritto sacro a stabilire
quando le nozze siano nefariae (§ 28)
e a determinare i compiti e le funzioni religiose di entrambi i coniugi. La
famiglia continua infatti a essere anche una comunità religiosa (§ 47)[11].
Lo ripete, nel 242, Gordiano, alla fine
dell’età classica, per trarne la conseguenza che la vedova non può essere
imputata del crimen expilatae hereditatis:
C. 9.32.4 pr. Gordianus A.Basso. Adversus uxorem, quae socia rei humanae atque
divinae domus suscipitur, mariti diem suum functi successores expilatae
hereditatis crimen intendere non possunt.
A questo modo, il dato naturalistico
della prima parte della definizione di Modestino (D. 23.2.1: nuptiae sunt coniunctio…) viene elevato
dalla seconda (consortium omnis vitae…) alla dignità di elemento costitutivo del
matrimonio, inteso quale istituto, nel contempo, del diritto positivo e della
religione. Si tratta del matrimonium
che altre fonti qualificano iustum,
come si è inteso mostrare con l’esegesi del passo[12].
II). La definizione di matrimonio di
Modestino, particolarmente celebrata nella tradizione romanistica, richiama le
altre del suo maestro Ulpiano. La prima è la seguente.
D.1.1.1.3 Ulp. 1 inst. 1909 (I.1.2.1) Ius naturale est, quod natura omnia animalia
docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae
in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit
maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum
procreatio, hinc educatio: videamus etenim cetera quoque animalia, feras etiam
istius iuris peritia censeri[13].
Le nozioni del testo relative al ius naturale sono espressioni della
cultura ellenistica e certamente non della sola giurisprudenza dei Severi. Per la
precedente epoca adrianea, ad esempio, basti ricordare Gaio a proposito del
furto e dell’adulterio della moglie[14].
In ordine al testo di Ulpiano sono stati fatti richiami innanzitutto ad
Aristotele[15],
ma anche a filosofi di influenza pitagorica[16],
a concezioni stoiche[17] e
persino neoplatoniche[18].
Dalla caratteristica propria del ius naturale, l’essere un ordinamento
comune a uomini e animali, Ulpiano trae la conseguenza (hinc) come sia un tale ordinamento a prevedere, tanto per gli uni
che per gli altri, maris atque feminae
coniunctio, quam nos matrimonium appellamus e quindi il procreare (procreatio) e allevare figli (educatio). Nos significa “noi uomini”, essendo il ius naturale appunto proprium
humani generis, anche se non esclusivamente[19].
La definizione che nel testo in esame
Ulpiano propone di matrimonium
corrisponde nella lettera e nella sostanza alla prima parte della definizione
di nuptiae dovuta a Modestino. Mostra
che la giurisprudenza romana riteneva avere il matrimonio, presso ogni popolo,
e quindi anche per i romani, un fondamento di ius naturale. Essa però riteneva anche che ogni popolo, compreso il
romano, lo potesse integrare e completare con altri elementi costitutivi,
secondo il proprio ordinamento statuale. Lo lascia intendere la stessa definizione
di Modestino, quando eleva la concezione naturalistica del matrimonio,
enunciata nella prima parte, a matrimonium
iustum, indicando, nella seconda, le conseguenze giuridiche e religiose che
tale ulteriore qualifica determina[20].
Nel suo secondo testo, anche Ulpiano
completa la definizione naturalistica di matrimonio contenuta nel primo,
indicando gli elementi con i quali il diritto dei romani la integra ed egli
possa quindi affermare che matrimonium
moribus legibusque nostris constat. Sia cioè, come si esprimono altre
fonti, iustum perché secundum ius civile. Le regole sono
tanto dovute alla consuetudine (mores),
quanto poste da organi istituzionali con potere normativo (leges).
D. 24.1.3.1 Ulp. 32 ad Sab. 2761 Videamus, inter quos sunt prohibitae donationes. Et
quidem si matrimonium moribus legibusque nostris constat, donatio non valebit.
Sed si aliquod impedimentum interveniat, ne sit omnino matrimonium, donatio
valebit. Ergo si senatoris filia libertino contra senatus consultum nupserit,
vel provincialis mulier ei, qui provinciam regit vel qui ibi meret, contra
mandata, valebit donatio, quia nuptiae non sunt. Sed fas non est eas donationes ratas esse, ne melior sit condicio eorum,
qui deliquerunt. Divus tamen
Severus in liberta Pontii Paulini senatoris contra statuit, quia non erat
affectione uxoris habita, sed magis concubinae.
Ulpiano si domanda quando divenga
applicabile il divieto delle donazioni fra coniugi (videamus…) e risponde che lo diviene quando il matrimonium è iustum,
attribuendo, se possibile, questo significato alla proposizione si matrimonium moribus legibusque nostris
constat. Infatti il giurista non ritiene sufficiente per il matrimonio la coniunctio maris et feminae, ma richiede
l’affectio maritalis. Nel rapporto
che Ponzio Paolino aveva avuto per tutta la vita con la sua liberta, vi era
stata coniunctio, ma non affectio uxoris, bensì concubinae. Perciò Settimio Severo si
pronunciò contro l’applicazione del divieto e delle sue conseguenze (divus…Severus…contra statuit). Decise per
la validità della donazione, non essendovi stato matrimonio, ma concubinato (in
argomento qui § 14). Ulpiano farebbe inoltre riferimento al matrimonium iustum, perché richiederebbe
anche il conubium per la sua
validità. Infatti considera valida la donazione (donatio valebit) pure nel caso in cui vi sia affectio maritalis, ma aliquod
impedimentum interveniat ne sit omnino matrimonium. Impedimentum avrebbe
significato generale e sarebbe da intendere divieto di contrarre matrimonio e
quindi impedirlo (qui § 22). La sanzione specifica però il significato generale
di impedimentum e distingue a seconda
ne sit omnino matrimonium oppure no.
Ulpiano porta esempi del primo caso, ricordando divieti che priverebbero i
coniugi del conubium. Esempi del
secondo potrebbero essere invece i divieti della lex Iulia et Papia: il matrimonium
è secundum ius civile, ma non secundum legem (qui § 35). Gli esempi di
Ulpiano nei quali mancherebbe il conubium
sono due. Il più importante è il divieto al funzionario provinciale di sposare
una donna della sua provincia (vel
provincialis mulier…). L’invalidità del matrimonio non sarebbe dovuta al
timore che il marito incute alla moglie (egli è terribilis: C.Th.3.6.1), ma alla sua carenza di conubium, come pare possibile
argomentare da ciò che stabilisce C.5,6,1 a proposito dell’analogo divieto
fatto al tutore di sposare la pupilla. Un conto è infatti il motivo politico
del divieto (tutelare la sposa) e un conto è la sua sanzione, cioè il mezzo
giuridico con il quale viene attuato il divieto (sottrazione del conubium al marito)[21].
L’altro esempio di Ulpiano è il divieto alla figlia del senatore di sposare un
liberto (ergo si senatoris filia…).
Contenuto nella lex Iulia del
mar.ordinibus, all’inizio ebbe anch’esso, come sanzione, la sola irrilevanza
nei confronti della legge, ma successivamente un’Oratio di Marco Aurelio e Commodo lo ripetè, aggravando la
sanzione: il matrimonium divenne iniustum anche in ordine al ius civile e si suole ritenere per
carenza di conubium. Lo confermerebbe
il suo avvicinamento al divieto imposto al funzionario provinciale[22].
Il testo continua, dando nella seconda
parte informazioni ulteriori sulla sorte della donazione: sed fas non est eas donationes ratas esse, ne melior sit condicio
eorum, qui deliquerunt. Poiché il testo non informa sulle conseguenze della
mancata ratifica della donazione, lo si ritiene corrotto[23].
La donazione fra coniugi trova la sua ragion d’essere nel rapporto
matrimoniale: avviene perché esso esiste o si crede che esista. Nei due esempi
di Ulpiano si è infatti ritenuto che vi sia stata affectio maritalis tra i soggetti della donazione. In entrambi i
casi probabilmente il donatario è il marito, perché la moglie riceve danno dal
matrimonio. Il marito approfitta delle sue ricchezze e del suo stato sociale e
ciò è vero sia per il funzionario provinciale che per il liberto: sono essi qui deliquerunt. Nonostante che il
matrimonio sia nullo, anzi proprio per questo, la donazione è valida e non è fas che essi raggiungano, magari
soltanto in parte, il loro scopo. Probabilmente il pretore soccorse e corresse,
quando potè, il ius civile (qui § 41
pag. 282). Tutto questo non avviene quando il rapporto dei soggetti della
donazione è concubinato, manca cioè fra di loro l’affectio maritalis e, come nel caso di Ponzio Paolino, sia l’uomo
che dona alla donna, sua liberta. La donazione è valida ed è fas che essa rimanga tale. Questo
infatti è il significato pregnante della decisione imperiale: divus tamen Severus… “contra” statuit,
la quale rafforza così la sostanziale genuinità anche della seconda parte del
frammento.
Le Istituzioni di Giustiniano hanno,
infine, la seguente definizione di matrimonio.
I. 1.9.1 Nuptiae autem sive matrimonium est viri
et mulieris coniunctio, individuam consuetudinem vitae continens.
La denominazione nuptiae autem sive matrimonium rivela il collegamento non solo con
D.1,1,1,3, come di solito si ritiene e dove si usa il termine matrimonium, ma anche con D. 23.2.1 che
impiega invece il termine nuptiae.
L’elemento naturalistico, mostrato dalla parola coniunctio, che compare in tutte e tre le definizioni, non è
accentuato, come nel Digesto, dall’impiego delle parole mas e femina, ma
limitato, per il rapporto umano, da quelle di vir e uxor. La individua vitae consuetudo non sarebbe
una innovazione, se si attribuisce al consortium
omnis vitae di Modestino il significato, qui proposto, di rapporto
societario di vita che ha la durata della vita stessa. Ne sarebbe soltanto una
accentuazione.
III). Modestino e
Ulpiano, nell’aggiungere agli elementi del ius
naturale quelli richiesti dal ius
civile, definiscono un matrimonium che
è iustum secondo l’ordinamento della civitas. L’indicazione specifica,
elementare ma completa, di quali debbano essere i requisiti fondamentali e
indispensabili del matrimonium iustum,
è contenuta in un passo importante dell’Epitome
Ulpiani.
Ep. Ulp. 5.2 Iustum matrimonium est, si
inter eos, qui nuptias contrahunt, conubium sit, et tam masculus pubes quam femina
potens sit, et utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes
eorum, si in potestate sunt.
L’Epitome
è opera apocrifa e postclassica[24],
ma la definizione di matrimonio che essa propone sarebbe quella conosciuta
dalla giurisprudenza dei Severi. Il passo in esame pare sicuramente di origine
classica[25],
anche se non molto felice nel modo in cui si esprime. Alla congiunzione
alternativa aut ne sarebbe stata
preferibile una copulativa[26],
ma con aut si vuole contrapporre con
evidenza il caso in cui il consenso dei coniugi è sufficiente al caso in cui
non lo è perché sono alieni iuris e
hanno bisogno dell’assenso paterno[27].
Il conubium, inteso quale capacità
giuridica di contrarre matrimonio, è concetto risalente[28] e
appare dommaticamente corretto il suo accostamento alla pubertà, intesa quale
capacità naturale a contrarre matrimonio, certamente pretesa anche in età
classica, se lo scopo del matrimonio continua a essere la procreazione[29].
Il commento del passo dell’Epitome Ulpiani è costituito dai tre
capitoli della prima parte di questo libro, dedicati, rispettivamente, al
consenso, al conubium e alla pubertà.
Qui si anticipa in parte quanto necessario per una illustrazione preliminare e
introduttiva del passo.
IV). Cominciando dal
consenso dei coniugi (qui nuptias
contrahunt…utrique consentiant),
i problemi che si pongono sono due: se esso dia vita a un negozio giuridico e
quale ne sia il contenuto. Prendendo in considerazione il primo, si è portati a
dargli una risposta positiva. Il matrimonio classico è un negozio giuridico che
trova il suo fondamento nel consenso dei coniugi. Il consenso è la volontà dei
coniugi di considerarsi tali e, come avviene ad esempio nella società, esso si
specifica, secondo quanto si mostra nel prosieguo del lavoro, in volontà
concorde di contrarre il rapporto giuridico o volontà iniziale e in volontà
unilaterale di continuarlo o volontà continua. Diversi aspetti accomunano il
matrimonio alla societas consensu
contracta, come si mostra qui, a suo luogo, nel § 11. Anche la società,
infatti, nasce con l’atto collettivo di costituzione e il socio vi fa parte
finché persevera nel suo intento, altrimenti recede dal rapporto sociale e ne
recede unilateralmente. In questa concezione del matrimonio il consenso
iniziale e quello continuativo assumono necessariamente un significato diverso
da quello loro attribuibile nell’ambito della concezione del matrimonio quale
rapporto di fatto. In quest’ambito, se un’analogia può farsi, è infatti quella
con il possesso. Anch’esso si acquista con un atto di volontà iniziale, lo si
mantiene con la volontà continua e lo si perde quando essa viene meno. Ma un
conto è, ovviamente, paragonare il matrimonio al possesso e un conto
considerarlo un rapporto giuridico di natura negoziale[30].
La volontà continua postula la volontà
iniziale: si può continuare soltanto ciò che si è iniziato. D’altra parte la
volontà iniziale è insufficiente. Se viene meno l’ostacolo che impedisce alla
volontà iniziale di dar vita al rapporto coniugale, esso comincia a esistere
nel momento in cui l’ostacolo viene meno anche se i coniugi ne ignoravano la
presenza, purché essi abbiano continuato a considerarsi tali. È quanto avviene
se i coniugi siano impuberi o privi di conubium
nel momento in cui sposano e acquistino la pubertà o il conubium successivamente. La
volontà di iniziare e continuare un rapporto coniugale occorre sia manifestata
e spetta all’ordinamento giuridico stabilire se la manifestazione debba oppure
no assumere una forma prestabilita; ma la debba assumere oppure no, la
struttura del rapporto matrimoniale rimane la stessa. Se occorre una forma alla
volontà iniziale ed essa la rispetti, è la volontà iniziale a costituire il
rapporto matrimoniale. Se è necessario dichiarare nel modo prescritto dal
legislatore che la volontà di continuare il rapporto matrimoniale è venuta
meno, è la cessazione di questa volontà che ha posto fine al rapporto.
Il matrimonio classico non è quindi un
rapporto di fatto, ma un rapporto giuridico costituito e continuato dalla
volontà dei coniugi. Voci[31]
scrive a questo proposito: «Non può essere definito di fatto l’istituto da cui
ha origine la famiglia legittima, con prole legittima. È certo che il
matrimonio ha in sé un momento di fatto, che è l’adempimento dei suo fine: ma
questo è di ogni atto o situazione, che abbia significato giuridico»[32].
La ricostruzione della disciplina
giuridica del matrimonio classico è stata influenzata in maniera determinante
dalla sua concezione quale rapporto di fatto. Però non sembra che la deductio della moglie nella casa del
marito sia essenziale alla contrazione del matrimonio, conoscendosi altri modi
per farlo (qui §§ 5-9) e potendosi ritenere che la contrazione avvenga persino
tra assenti (qui § 13). La convivenza è la regola, ma può ammettersi la
continuazione del matrimonio anche se i coniugi siano abituati o costretti a
vivere separatamente, purché sia certa e dimostrabile la continuazione dell’affectio maritalis. A tanto si sarebbe
giunti quando ad esempio la deportazione non impedì ai coniugi di considerarsi
tali (qui §§ 11; 12; 60). Del resto non si considerò mai necessaria la
consumazione per la validità del matrimonio (qui § 3). Infine l’abbandono della
casa del marito da parte della moglie e più in generale la separazione
personale dei coniugi è soltanto uno dei modi in cui può avvenire il divorzio.
Spesso ne è soltanto una conseguenza, essendo libera la forma dell’atto sino a
che Augusto non vi pose limiti (qui §§ 53 e 54) e potendo esso avvenire anche
tra assenti (qui § 55). La captivitas
classica scioglierebbe il matrimonio a causa della perdita del conubium nel prigioniero e non perché
cessi la convivenza coniugale, potendo
aversi il caso che essa continui durante la prigionia (§ 59).
V). Se si
interpreta il passo dell’Epitome Ulpiani
nel senso che il matrimonio abbia natura negoziale, diviene comprensibile
ammettere l’esistenza di vizi, quali la violenza (qui § 18) e l’errore,
eventualmente causato dal dolo (§ 19), oppure considerare il matrimonium nullo, cioè iniustum secondo la qualificazione dell’Epitome, quando manca il consenso dei
coniugi per la pazzia di uno di loro (§ 16), per simulazione (§ 17) oppure per
non essere adeguatamente manifestato nel modo in cui il diritto lo chiede (§§
5-12).
VI). La nozione
qui accolta del matrimonio classico quale rapporto giuridico e avente natura
negoziale è tuttora oggetto di critica sia sotto l’aspetto dommatico che
storico e non è certamente tradizionale la proposta di attribuire pari
importanza sia al consenso concorde dei
coniugi di dare inizio al rapporto sia alla volontà unilaterale di ciascuno di
essi di continuarlo nel tempo, essendo il primo di questi elementi negoziali
insufficiente, ma necessario al secondo, e quindi entrambi essenziali.
a) Nella edizione
definitiva (1951) della sua opera fondamentale sul matrimonio romano, Orestano
ha tracciato il processo secolare di formazione e quello relativamente recente
di declino della teoria contrattualistica, secondo cui il rapporto matrimoniale
ha natura obbligatoria e sorge da una manifestazione iniziale di volontà dei
coniugi, necessaria, ma di solito considerata anche sufficiente, al suo
esistere. Raramente infatti si ritiene il divorzio espressione naturale e
propria del matrimonio, consistente nella cessazione del consenso continuo
degli sposi a essere tali. È visto soltanto come atto opposto e contrario a
quello costitutivo, cui pone fine.
Orestano riconosce necessariamente
valore innovativo alla critica portata da Manenti alla concezione
contrattualistica. Pur attribuendo natura giuridica al rapporto matrimoniale,
Manenti, come è noto, nega che esso abbia un fondamento negoziale. Il
matrimonio viene costituito e attuato dalla convivenza degli sposi e continua a
rimanere sino a che essi vogliano comportarsi di fatto come tali. La teoria di
Manenti ebbe ed ha tuttora seguito specialmente in Italia[33].
Orestano ricorda e segnala sia la successiva tendenza dommatica ad accentuarne
l’elemento fattuale sino al punto di attribuire al matrimonio natura
possessoria e negargli quella di rapporto giuridico, sia la tendenza storica a
limitare queste strutture all’epoca classica e ridare attualità per l’epoca
successiva, e precisamente nell’ambito del diritto giustinianeo, alla
concezione negoziale, se non addirittura contrattuale, del matrimonio.
Pur riconoscendo valore innovativo alla
teoria di Manenti, Orestano la critica specialmente per l’estremismo cui
l’hanno portata alcuni seguaci e ristabilisce la natura del matrimonio quale
rapporto giuridico, cui dà vita, già in età classica, la volontà negoziale dei
coniugi. Tuttavia, specialmente in Italia, ha trovato notevole seguito la
dottrina e la ricostruzione storica elaborata nei decenni centrali del secolo
scorso da Volterra. Essa attualmente ha ancora grande rilievo e consenso, pur
rifacendosi, sostanzialmente, alla teoria di Manenti, di cui viene però
accentuata l’importanza dell’elemento volontaristico.
Volterra[34]
con i più rifiuta la concezione negoziale del matrimonio classico e l’esistenza
di un atto di volontà dei coniugi di darvi inizio. Conseguentemente rifiuta il
concetto di nullità e attribuisce al passo dell’Epitome Ulpiani un significato nettamente diverso da quello che qui
si propone. Considera il matrimonio una situazione di fatto, cioè un rapporto
coniugale fra un uomo e una donna, il quale viene a esistere per il diritto e
merita la qualifica di matrimonium iustum
se alla volontà continua dei coniugi di comportarsi come tali e all’assenso dei
loro patres familias si aggiunge il conubium reciproco e la pubertà. La
mancanza di uno di questi elementi determina l’inesistenza giuridica del matrimonium, qualificabile perciò come iniustum. L’inesistenza, per Volterra,
non deriva dalla nullità di un atto negoziale, ma dalla carenza, in una
situazione coniugale di fatto, dei requisiti voluti dal diritto.
Per limitarsi ai contributi attuali più
rilevanti e successivi a quello di Volterra, è necessario ricordare il
contributo di Robleda. Preferisce l’impostazione volontaristica di Orestano e
ne accoglie l’invito a riconoscere essenziale al matrimonio classico la natura
negoziale. Anzi, non gli è aliena l’intenzione di rifarsi addirittura alla
dottrina contrattualistica, riconoscendo alla promessa iniziale dei coniugi
valore non solo necessario, ma sufficiente per l’esistere nel tempo del
rapporto matrimoniale.
Robleda[35]
ammette tanto il matrimonio nullo quanto il matrimonio inesistente,
distinguendo le due figure, benché riconosca che la distinzione non ha
fondamento nella terminologia delle fonti romane[36].
Ci si potrebbe di conseguenza chiedere se la distinzione sia un riflesso di
quella canonistica fra matrimonium non
exsistens e matrimonium nullum.
Il matrimonio del pazzo, quello simulato e anche, per Robleda, quello estorto
con violenza sarebbero matrimoni inesistenti perché privi dell’affectio maritalis, cioè del consenso
dei coniugi e in questo egli ripete, sostanzialmente, Orestano[37],
almeno a proposito del matrimonio simulato[38].
Inesistente sarebbe anche il matrimonio dell’impubere, poiché non permette la procreazione,
fine essenziale, secondo Robleda, del matrimonio. L’affectio maritalis e la procreazione qualificano come matrimonio il
rapporto fra un uomo e una donna. Se mancano, non vi è matrimonio[39].
Se sono presenti e tuttavia il matrimonio non esplica effetti perché proibito,
allora esso non sarebbe inesistente, ma nullo. Lo è, secondo Robleda, il
matrimonio tra senatore e liberta o tra preside di una provincia e donna nata o
residente nella provincia da lui amministrata. Esplicherà effetti quando il senatore
o il preside cesseranno di essere tali, venendo meno il divieto[40].
Questi divieti sono sanzionati dalla
privazione del conubium nei
contraenti, cioè dalla mancanza di un elemento che l’Epitome Ulpiani considera essenziale per il matrimonio alla pari del
consenso e della pubertà dei coniugi. Perciò se si considera nullo il
matrimonio vietato per carenza di conubium,
dovrebbe essere considerato nullo anche il matrimonio privo di consenso dei
coniugi o della loro pubertà, cadendo a questo modo la diversità concettuale
fra inesistenza e nullità proposta da Robleda. Tanto più che se i coniugi
conseguono successivamente il conubium,
il matrimonio si convalida non perché l’atto di contrazione, prima nullo,
divenga ora efficace, come ritiene Robleda, ma perché è continuata la volontà
dei coniugi di rimanere tali. Se fosse cessata prima dell’acquisto del conubium, il matrimonio sarebbe rimasto
nullo a cominciare dal momento in cui fu contratto (qui § 11).
Ci si potrebbe chiedere se la differenza
tra nullità e inesistenza proposta da Robleda derivi dalla distinzione fra
diritto positivo e diritto naturale. Il conubium
sarebbe preteso dal diritto positivo e la sua mancanza determinerebbe la
nullità del matrimonio. L’intenzione dei coniugi di unirsi in matrimonio per
procreare figli sarebbe pretesa dal diritto naturale, ragione per cui la
mancanza del consenso e della pubertà determinerebbe l’inesistenza del
matrimonio. A questo modo la differenza tra nullità e inesistenza si
sposterebbe dalla struttura tecnica della sanzione alla natura giuridica della
norma che la commina. Un problema che non sembra però presente al redattore del
passo dell’Epitome Ulpiani, perché
pone tutti e tre i requisiti del matrimonio sullo stesso piano. D’altra parte
il problema così proposto dagli interpreti riceve dagli stessi soluzioni
contrastanti. Huber[41]
ad esempio ritiene che la carenza della pubertà non attenti all’esistenza del
matrimonio, ma ne determini soltanto la nullità, mentre distingue fra conubium di diritto naturale e conubium di diritto positivo. La carenza
del primo causerebbe l’inesistenza del matrimonio, la carenza del secondo
soltanto la nullità, che potrebbe, d’altra parte, essere evitata caso per caso
da una dispensa dell’autorità.
b) Nella
Pandettistica tedesca, la teoria contrattualistica ebbe, come è noto, quale
rappresentante autorevole Savigny, ma si direbbe abbia prevalso la concezione
opposta che è stata, ad esempio, di Hasse e di Puchta, secondo la quale il
matrimonio non è da considerarsi un rapporto giuridico, ma di mero fatto, ed è
a questa che sostanzialmente si
connette, in tempi più recenti, l’autorevole contributo di Levy, relativo al
matrimonio classico.
Attualmente Eisenring, ad esempio, in
una trattazione organica del matrimonio romano, pubblicata nel 2001, preferisce
seguire Orestano e attribuire invece al consenso dei coniugi un rilievo
fondamentale già in età classica . Continua però a dubitarne ed insiste per una
concezione prevalentemente fattuale del matrimonio ad esempio Giaro[42],
in un contributo apparso nel 2005. Nonostante una certa “giuridicizzazione” del
matrimonio dovuta soprattutto alla legislazione augustea, il matrimonio
continuerebbe ad essere riconducibile in via prevalente ai mores, categoria al contempo normativa e fattuale che ne disciplina
vari aspetti. Così avverrebbe in ordine, ad esempio, alle donazioni fra coniugi
e all’actio rei uxoriae.
Significativo il parallelo del matrimonio con il possesso, che finiscono
entrambi con la prigionia di guerra e non si acquistano automaticamente con il
ritorno in patria. La concezione fattuale del matrimonio assumerebbe
particolare evidenza nel divorzio, che è regola avvenga per facta concludentia e addirittura, se del caso, mediante la
contrazione di un secondo matrimonio. Comunque esso avrebbe sempre bisogno,
come la fine del possesso, di un processo fattuale esteso nel tempo, per
produrre efficacia.
L’assunto è sostenuto con una scelta
delle principali argomentazioni cui si è soliti ricorrere in proposito e
dubitando quindi del valore concludente che possono assumere, per l’età
classica, testi come quelli che pretendono l’impiego della forma augustea del
divorzio o che enunciano la regola, secondo la quale la consumazione non è
essenziale al matrimonio.
La regola è invece riconosciuta classica
e posta a base del saggio di Behrends[43],
apparso anch’esso nel 2005. Egli distingue un matrimonio preclassico, fondato
su una sessualità di ordine spirituale, perché conforme, come insegna la
dottrina stoica, al diritto divino della natura, da un matrimonio classico,
fondato invece su un puro consensualismo umano e conforme al diritto creato
dall’intelletto e dalla ragione nell’organizzare la struttura della città.
Ulpiano, commentando Sabino, darebbe
infatti notizia di una concezione originaria del matrimonio, nella quale il
coito avrebbe un rilievo giuridico essenziale. Ad essa il giurista ne
contrappone un’altra più recente, in cui si attribuisce invece funzione
decisiva al consenso dei coniugi e si nega che la consumazione del matrimonio
sia necessaria per contrarlo e viverlo nel tempo (D. 35.1.15; D. 50.17.30: qui
§ 3). Behrends vuole sabiniana la concezione più antica, perché ciò gli
consente di collegarla all’altra, dovuta alla scuola di Sabino, che pone a
fondamento della capacità negoziale la pubertà, esigendo addirittura un’inspectio corporis per accertarne la
presenza. Tutto questo in ossequio alla filosofia stoica, secondo la quale è la
natura, per sua essenza divina, che decide della capacità dell’uomo a creare
rapporti giuridici e quindi, con particolare evidenza, quello matrimoniale.
Ulpiano, nel contrapporle quella più recente, dovuta al consensualismo di
creatività razionale e umana, non la considera però del tutto inattuale, ma se
ne servirebbe, sia pure eccezionalmente, per moderare ad esempio gli effetti
negativi del matrimonio dei pazzi: non possono contrarlo, ma se lo diventano
dopo, e concepiscono, i figli cadono nella potestà del padre (D. 1.6.8 pr.: quasi voluntatis reliquiis in furiosis
manentibus). La provenienza sabiniana della regola sarebbe mostrata dalla
circostanza che Ulpiano confermerebbe in questo caso la continuità del
matrimonio dei pazzi, rifacendosi all’autorità di Giuliano, considerato di
solito un tardo seguace di Sabino (qui § 16).
Fra le conseguenze derivanti da questa concezione
stoica e sabiniana del matrimonio, Behrends segnala, ad esempio, il fondamento
che in esso trova la società coniugale, nucleo di una società di più vaste
dimensioni, quale la civitas (Cic. de offic. 1.75.53); l’onere del
matrimonio; il perseguimento dell’adulterio; la rilevanza che assume la domus mariti, sede della società
coniugale, nella deductio in domum della
sposa e nel suo abbandono da parte della stessa, volontario nel trinoctium e forzato nel ripudio;
pienamente giustificato, il ripudio, in caso di sterilità e quindi da
intendersi sempre, anche in altri frangenti, non quale separazione locale, ma
personale della donna dall’uomo. La supremazia del marito sulla moglie,
segnalata dall’essere, il domicilio coniugale, quello del marito, è giustificata,
secondo la teoria stoica, dall’essere suo il seme che egli depone nella donna.
Con la conseguenza che se la donna è sua moglie, i figli che ne nascono sono
del padre, patriarcale è necessariamente la famiglia che egli forma, e maschile
il legame di parentela che ne unisce i componenti.
Però sarebbe lo stesso diritto naturale
che con il progredire del tempo e in conseguenza della necessaria
collaborazione della donna, ne fa, da oggetto, un soggetto del rapporto
matrimoniale, sì che esso, sotto l’aspetto della diversa natura sessuale dei
suoi componenti, diviene una civilis
simul et naturalis societas. Altri mutamenti radicali che sul finire
dell’età preclassica è il diritto naturale, secondo Behrends, a provocare,
sarebbero specialmente i seguenti. Esso libera il divorzio dall’arcaico
formalismo del diritto civile, attuandolo persino con la mera sostituzione di
un secondo matrimonio al primo. Attribuendo, il diritto naturale, alla donna
una personalità giuridica che la parifica all’uomo nella contrazione del
matrimonio, la perfezione della società coniugale giungerebbe sino al punto da
rendere comune il patrimonio familiare e quindi inconcepibili il dono e il
furto del coniuge. Toglierebbe inoltre alla domus
mariti l’importanza primaria attribuitale dal diritto arcaico, permettendo
che possa essere collocato anche altrove il domicilio coniugale.
Le generazioni della fine della
Repubblica opererebbero però una rivoluzione ideologica, demitizzando il
diritto naturale, posto dalla sapienza divina, e sostituendovi quello creato
dalla capacità razionale dell’uomo. Il rapporto matrimoniale trova ora
fondamento nei concetti giuridici di persona
e di consensus, riferibili con parità
a entrambi i coniugi. Conseguenza esemplare del capovolgimento dei valori sarebbe
anche la conservazione dell’individualità patrimoniale dei coniugi, i cui doni
reciproci verrebbero ora proibiti per non subordinare ad essi la continuazione
del rapporto coniugale, così come diverrebbe ormai concepibile il furto
reciproco dei coniugi. Nella contrazione del matrimonio, la deductio in domum perde del tutto
l’importanza preclassica: manca ad esempio nell’episodio di D. 23.2.6. Il
divorzio è facoltà paritaria di entrambi i coniugi ed è ormai definibile nella
sua essenza, quale diversitas mentium.
Lo conferma, in particolare, l’episodio di D. 24.1.64, anche se si deve
pretendere che la volontà di porre fine al matrimonio sia definitiva e quindi
durevole.
Il consenso libero, presente nel
matrimonio classico, trova corrispondenza e sostegno nel consensualismo della
città in cui vivono i coniugi. Ne deriva che il matrimonio è possibile soltanto
tra concittadini e che esso si scioglie per necessità, se uno dei coniugi è
fatto prigioniero.
VII). Le
considerazioni sino a qui svolte, tanto di natura storica che dommatica,
riguardano il primo degli elementi, che, stando a Ep.Ulp. 5,2, formano il
matrimonio, cioè il consenso dei coniugi, e hanno avuto lo scopo di accertare
la sua natura negoziale. Si tratta ora di stabilire quale ne sia il contenuto.
a) Il consenso
dei coniugi, che le fonti, sotto questo aspetto, qualificano di solito come affectio maritalis, ha per contenuto e
finalità la costituzione di un rapporto di vita comune, atto alla procreazione e
alla educazione di figli legittimi. I figli sono tali, iusti, se comuni e nati da un matrimonium
iustum secundum ius civile, cioè avente tutti gli altri requisiti richiesti
da Ep.Ulp. 5.2. L’affectio maritalis
è quindi l’intenzione di porre in essere e vivere un matrimonium iustum, perché capace di rendere iusti i figli che ne nascono.
Questa definizione di affectio maritalis è valida e rimane la
stessa sia che in concreto vengano poi ad aggiungersi oppure no anche gli altri
requisiti richiesti dall’Epitome Ulpiani
e quindi il matrimonium risulti
essere iustum oppure no. L’affectio maritalis è presente tanto nel matrimonium iustum che in quello iniustum. La diversità sta nella sua
realizzazione. Avviene nel matrimonium
iustum, manca in quello iniustum.
Nel primo i figli sono legittimi, non lo sono nel secondo. La presenza dell’affectio maritalis anche nel matrimonium iniustum lo distingue dal
concubinato, nel quale manca. I concubini non intendono infatti avere figli iusti.
L’affectio
maritalis, essendo la volontà di avere figli legittimi, impone alla donna
di averli soltanto dal marito. Qualora contravvenga a quest’obbligo, commette adulterium. Lo commette, se il matrimonium è iustum, ma lo commette anche se iniustum:
l’affectio maritalis è la stessa in
entrambi i casi. Quindi anche il matrimonium
iniustum dà vita a un rapporto giuridico, tutelato dal diritto criminale in
caso di adulterio della donna. Ne consegue che, a differenza del matrimonium iniustum, il concubinato è
un rapporto di fatto, perché manca dell’affectio
maritalis.
Il crimen
adulterii costringe la moglie ad avere figli soltanto dal marito, ma non la
obbliga ad avere figli dal marito. La facoltà del marito di avere figli dalla
moglie gli deriva dall’affectio maritalis.
Come si è detto, il crimen è
perseguibile per la sola circostanza che i coniugi intendono porre in essere un
matrimonium iustum, risulti poi il
matrimonio tale oppure no, causa l’eventuale deficienza di uno degli altri
requisiti chiesti dall’Epitome Ulpiani.
La differenza tra matrimonium iustum e
iniustum non ha quindi rilievo in
ordine alla delineazione concettuale del crimen,
che è sempre e soltanto un comportamento della donna contrario all’intenzione
di avere figli iusti, di averli
attualmente, nel caso di matrimonio, di averli in futuro, nel caso di
fidanzamento. La differenza tra matrimonium
iustum e iniustum ha rilievo
invece per quanto riguarda il procedimento che si attua nel perseguire il crimen, cioè in ordine all’accusatio proposta a questo scopo. Com’è
noto, se il matrimonium è iustum, l’accusatio del marito è privata e privilegiata, cioè avviene iure viri o mariti che dir si voglia; altrimenti è pubblica e non privilegiata,
avviene cioè iure extranei: l’accusatio può essere cioè proposta, oltre
che dal marito, anche da un extraneus.
Conseguentemente la qualifica di matrimonium
iustum o iniustum ha sia il
significato di matrimonium
corrispondente nei requisiti oppure no a quello delineato nel passo dell’Epitome Ulpiani, sia il significato di matrimonium tutelato, nella sua
inviolabilità, mediante la proposizione, in caso di adulterium, di un’accusatio
iure viri o iure extranei. Sembra
questo il significato di D. 48.5.14.1 e dei paragrafi che lo seguono
nell’importante frammento di Ulpiano.
Il matrimonio classico è propriamente
tale, se è capace di procreare figli legittimi. Questa infatti è la finalità
perseguita dai coniugi e l’oggetto della loro affectio maritalis. Quindi il matrimonium
iniustum, essendo incapace di darvi attuazione, è un matrimonio mancato,
cioè nullo appunto iure civili, come
del resto lo qualificano le fonti, e non infrequentemente. È però un
matrimonio, per dir così, in potenza, perché diviene automaticamente tale, cioè
acquista validità civile, se all’affectio
maritalis si aggiungono i requisiti mancanti ma voluti dall’Epitome Ulpiani. Tipico è il caso in cui
la sposa consegue la pubertà. Anzi può avvenire, come in questo caso, che la
disciplina del matrimonium iniustum
trovi fondamento nella analogia con la promessa di matrimonio, cioè con il
fidanzamento, se non addirittura con lo stesso matrimonio. Ciò mostra e
conferma che il matrimonium iniustum
non è un rapporto di fatto.
Il matrimonium,
il quale sia iniustum,cioè invalido iure civili, causa l’assenza di uno dei
requisiti, diversi dall’affectio
maritalis, richiesti dall’Epitome
Ulpiani, può essere anche illecito. Talvolta i suoi autori sono puniti con
sanzioni di natura personale o patrimoniale. L’incesto, ad esempio, è
perseguito quale crimen; il tutore
che sposa la pupilla prima del rendimento dei conti, commette reato extra ordinem, è dichiarato infame e
indegno di succederle; l’indegnità è prevista anche per l’alto funzionario che
sposa una donna della sua provincia. Inoltre la nullità del matrimonio può dar
luogo al crimen stupri, se l’honestas della donna, rimasta nubile, lo
imponga. La circostanza che, nonostante la nullità del matrimonio, nessuno
possa avere un rapporto con lei, tranne il marito, non implica, per se stessa,
che questo rapporto sia sempre lecito al marito. In tutti questi esempi, come
si mostra qui a suo luogo (§§ 26; 31; 32 e già in questo paragrafo), il matrimonium è nullo, e quindi iniustum per carenza di conubium nel marito, e inoltre egli è
punito, e anche gravemente, per aver contravvenuto al divieto di sposare.
A questo modo, quando il matrimonio non
solo è invalido ma anche illecito, si crea una situazione iniqua, se non
addirittura illogica, per la donna. Non può sposare né l’uomo che ha scelto, né
altri. A tanto porta l’affectio maritalis
che l’ha legata a chi non è divenuto suo marito e che ancora la lega, a
causa del perdurare della tutela che il diritto criminale ha imposto alla sua
volontà di averlo per sposo. Può essere che si voglia continuare in questa
situazione nell’attesa che cessi, se possibile, la causa sia dell’illiceità del
rapporto sia della nullità del matrimonio e da quel momento marito e moglie
comincino automaticamente a divenire tali per il diritto. È il caso, già
ricordato come esempio, dell’alto ufficiale sposato a una donna della sua
provincia. Egli acquista il conubium
uscendo di carica ed è significativo osservare come le fonti constatino e
pretendano nei coniugi la presenza e la continuazione sino a quel momento dell’affectio maritalis, perché i coniugi
possano essere considerati effettivamente tali. Ma è da credere che il diritto
classico, quando non si voleva o, come nel caso, ad esempio, dell’incesto, non
era possibile che ciò avvenisse, abbia concesso anche alla donna la facoltà di
non considerarsi più moglie e quindi di sottrarsi al divieto di frequentare e
sposare altri.
b) Si insiste nel
ritenere il matrimonium iniustum un
rapporto giuridico. Se lo è, è perché in esso continua, come si è detto, l’affectio maritalis, tutelata nel suo
persistere, dalla proponibilità dell’accusatio
adulterii. Ne consegue che se si deve ammettere la risoluzione del
rapporto, essa avviene per il venir meno dell’affectio maritalis e ciò anche su iniziativa della donna. L’effetto
dell’atto risolutivo è limitato alla sottrazione della donna al crimen adulterii. Non si può non
riconoscere che la struttura dell’atto, nella sostanza, sia la stessa del
divorzio quando il matrimonium è iustum. Non però, a quanto sembra, in
ordine alla forma. La impose Augusto, nella lex
Iulia de adulteriis, stabilendo che il divorzio avvenisse alla presenza di
un numero determinato di testimoni qualificati, altrimenti il matrimonio
conservava validità ed efficacia e la donna, risposando, commetteva adulterio
(qui § 54). Questa forma, è da ritenere, non sarebbe stata necessaria, quando
il matrimonio era invalido e la donna, contraendone un secondo, volesse evitare
di commettere adulterio. Certamente non lo era nel caso in cui a divorziare
fosse il marito. Lo lascerebbe intendere D. 48.5.44(43) Gai. 3 ad l. XII tab., la cui esegesi è qui a
pag. 384. Nella fattispecie proposta da Gaio il matrimonium è iustum, ma
il marito, divorziando, non si attiene alla forma voluta dalla legge. La moglie
ne contrae un secondo, invalido perché continua il primo, ma non commette adulterio.
Questo significherebbe che il marito, divorziando informalmente, aveva posto
fine all’affectio maritalis, anche se
il matrimonio continuava in forza del diritto e per volontà della legge. Se il
divorzio informale produceva questo effetto quando il matrimonium era iustum, a
maggior ragione l’avrebbe potuto produrre quando il matrimonium era iniustum.
Quindi si sarebbe ritenuto opportuno imporre una forma al divorzio soltanto se
il matrimonium era iustum e ne venissero perciò risolti ,
con la cessazione dell’affectio maritalis,
tutti gli effetti personali e patrimoniali, in quanto possibile.
Stando a queste considerazioni, il
divorzio sarebbe sempre, nella sua essenza, il venir meno dell’affectio maritalis per volontà anche di uno
soltanto di chi la nutre, con la conseguente liberazione della donna dalla
punibilità per adulterio, se tiene un comportamento contrario all’affectio maritalis. Questo, tanto se il matrimonium sia oppure no iniustum. A tale effetto si
aggiungerebbero, in quanto possibile, tutti gli altri, risolutivi di ogni
aspetto, personale e patrimoniale, del rapporto, se il matrimonium è iustum.
Prima di Augusto la forma del divorzio era libera e non vi era differenza,
sotto questo aspetto, fra matrimonium
iustum oppure no. La lex Iulia de
adulteriis la impose, ma soltanto se il matrimonium
era iustum. L’importanza della
volontà dei coniugi di divorziare e i criteri per accertarla rimasero però gli
stessi. La forma dell’atto fa soltanto presumere che la volontà del suo
contenuto sia vera, seria e definitiva.
c) La natura e le
proprietà del matrimonium iniustum
permettono di individuare quelle che caratterizzano, e quindi differenziano, il
concubinato dal matrimonium iustum
oppure no. Il concubinato è un rapporto di vita in comune, abituale e continuo,
anche se non tendenzialmente perpetuo, tra un uomo e una donna (qui § 14). Esso
è caratterizzato in via negativa dall’assenza, nei conviventi, dell’affectio maritalis, presente invece
tanto nel matrimonium iustum che iniustum. Il concubinato infatti non ha
per finalità costitutiva la procreazione di figli legittimi, tanto meno
l’attitudine e la capacità di renderli tali, pur se i genitori siano entrambi
liberi. Se quindi manca dell’affectio
maritalis, esso è, come si è già detto, un rapporto di fatto e tale rimane
anche quando i requisiti di dignità personale dei concubini avvicinano il loro
rapporto al matrimonio[44].
In questo caso, come nel matrimonio, la concubina può unirsi soltanto al
compagno, pena l’accusa di adulterio, sia pure proponibile iure extranei. Se procrea figli, li deve procreare soltanto al
convivente. Però continua sempre a mancare, nei genitori, la volontà di averli
quali figli legittimi. Infatti il crimen
adulterii assicura la legittimità dei figli, purché questa sia l’intenzione
dei genitori. Altrimenti si limita a imporre alla concubina un comportamento
eguale, per dignità, a quello di una sposa.
Finora si è detto del concubinato tra
persone libere. L’essere un rapporto di fatto, consente che si possa avere per
concubina anche la propria schiava (§ 14 pag. 131). Ne è una conseguenza e una
conferma.
VIII). Si passa
all’esame delle testimonianze fondamentali di Ulpiano riguardanti la
proponibilità dell’accusatio adulterii
e quindi costituenti le prove dell’esistenza e della natura del matrimonium iniustum , oggetto delle
precedenti riflessioni. Si comincia dalla seguente testimonianza.
D. 48.5.14.1 Ulp. 2 de adult. 1947 Plane sive iusta uxor fuit sive iniusta,
accusationem instituere vir poterit: nam et Sextus Caecilius ait, haec lex ad
omnia matrimonia pertinet, et illud Homericum adfert: nec enim soli, inquit,
Atridae uxores suas amant. Οὐ μόνοι φιλέουσ’ ἄλοχους μερόπων ἀνϑρώπων Ἀτρεῖδαι[45].
La uxor
iniusta non è la concubina, come alcuni ritengono. Del suo tradimento
Ulpiano ha detto nel paragrafo precedente. Il testo conferma l’opinione,
secondo la quale l’affectio maritalis
è presente anche nel matrimonium iniustum
e perciò il marito può accusare la moglie di adulterio anche in questo caso. Tace
però sulla natura della sua accusa. Vi è chi l’intende avvenga iure viri, anche se il matrimonium sia iniustum. Lenel, ad h.l.,
respinge giustamente questa interpretazione, correggendo il testo con
l’aggiunta di iure extranei dopo accusationem. Si starebbe discorrendo
non dell’accusa iure viri, certamente
proponibile quando la uxor è iusta, ma dell’accusatio iure extranei: il marito la può proporre in due casi:
quando la uxor è iniusta e quando è iusta,
ma sia trascorso il tempo prescritto per la proposizione dell’accusatio iure mariti.
Lenel completa il commento del testo di
Ulpiano citando due passi della Collatio:
4.5.1 di Papiniano (Pal. 2 col. 932
n.5) e 4.4.1 di Paolo (Pal. 1 col.
942 n.3). Essi informano che quando il marito propone l’accusatio iure extranei in entrambi i casi previsti, cioè perché l’uxor è iniusta o perché è iusta,
ma è scaduto il tempo di proporre l’accusatio
iure mariti, quando cioè il marito propone l’accusa pubblica di adulterio,
egli la può proporre anche se per regola generale non potrebbe, perché ei opponetur infamia vel quod libertinus rem
sestertiorum triginta milium aut filium non habuit. Lo insegna Papiniano
nel XV libro dei Responsa, in un
testo corretto nella sostanza e quindi anche nella forma, a proposito di un
caso di matrimonium iniustum: la
moglie era priva di conubium, perché peregrina. Papiniano giustifica
l’attribuzione di questa facoltà eccezionale al marito, in quanto propriam iniuriam persequenti (Coll. 4.5.1). Paolo, nel liber singularis de adulteris, estende
espressamente l’insegnamento di Papiniano al caso seguente. Il marito, come
quello di Papiniano, è, per regola generale, incapace di proporre un’accusa
pubblica. In caso di adulterio ha soltanto quella iure viri, ma i termini per la proposizione sono scaduti non per
sua colpa. Potrà eccezionalmente proporre quella iure extranei (Coll.
4.4.1).
Si ritiene che l’attribuzione al marito
dell’accusatio iure extranei nel caso
di matrimonium iniustum sia dovuta a
una interpretazione estensiva della lex
Iulia de adulteriis da parte della giurisprudenza e viene spiegata a questo
modo la menzione, nel passo di Ulpiano, di Africano, discepolo attento, com’è
noto, agli insegnamenti di Giuliano. L’ipotesi è soltanto tale, ma non pare del
tutto priva di fondamento. L’importanza sicuramente innovativa del contributo
di Papiniano in ordine al caso specifico da esso previsto, sembra indicata dal
richiamo fattone da Paolo, a scopo di applicazione estensiva.
Il paragrafo esaminato del passo di
Ulpiano prevede il caso in cui il matrimonium,
tale per la presenza nei coniugi dell’affectio
maritalis, sia iniustum per la
carenza di uno degli altri requisiti richiesti, per la sua validità, da Ep.Ulp.
5.2 e, tra questi, il conubium,
stando all’interpretazione di Lenel, che richiama Coll. 4.5.1. Anche un successivo paragrafo del medesimo frammento
esemplifica figure di matrimonium
iniustum per carenza di conubium
nei coniugi[46].
D. 48.5.14.4 Ulp. 2 de adult. 1947 Sed et si ea sit mulier, cum qua incestum commissum est,
vel ea, quae, quamvis uxoris animo haberetur, uxor tamen esse non potest,
dicendum est iure mariti accusare eam non posse, iure extranei posse.
Il frammento prende in considerazione i divieti
matrimoniali che derivano dal particolare rapporto personale che può
intercorrere fra marito e moglie e considera come tipico ed esemplificativo il
rapporto di parentela o di affinità che dà luogo a incesto (sed et ea sit mulier, cum qua incestum commissum
est). Il divieto è formulato con riferimento alla persona: non si deve
sposare una donna che sia parente o affine entro un certo grado. Il divieto è
completato dall’indicazione delle conseguenze negative derivanti dalla sua
inosservanza: il matrimonio è invalido e la donna non diviene moglie (ea, quae…uxor…esse non potest). Si tace
o, meglio, si dà per implicita la sottrazione ai nubendi della capacità di
contrarre matrimonio, cioè la privazione del conubium, benchè in questo stia propriamente la sanzione del
divieto e la causa dell’invalidità del matrimonio.
Lo mostra Gaio. Anch’egli enuncia il
divieto e la conseguente impossibilità di nozze tra parenti: inter eas personas quae parentum
liberorumque locum inter se optinent, nuptiae contrahi non possunt (Gai.
1.59). Però spiega perché anche per il diritto queste persone non possono
sposare: sono prive addirittura di conubium:
nec inter eas conubium est (ibid.)[47].
Se questa è la sanzione giuridica, da qui la conseguenza: ergo si quis nefarias atque incestas nuptias contraxerit neque uxorem
habere videtur neque liberos (Gai. 1.64).
Il matrimonio è invalido, ma la
presenza, anche in questo caso, dell’affectio
maritalis fa di esso un matrimonium
iniustum, cioè l’affectio maritalis
è tutelata penalmente mediante accusatio
iure extranei, qualora la donna contravvenga ad essa e commetta adulterio.
La presenza, anche se non attuata in un matrimonio valido, dell’affectio maritalis è provata dalle
parole di Ulpiano riferentesi alla donna incestuosa: ea, quae…uxoris animo haberetur.
Nel testo in esame la proibizione di
contrarre un matrimonio incestuoso è l’esempio speciale di una categoria
generale di divieti matrimoniali, cioè tali per cui, come si esprime Ulpiano, ea, quae quamvis uxoris animo haberetur,
uxor tamen esse non potest. Sono, è da credere e a somiglianza del rapporto
incestuoso, matrimoni nei quali è presente l’affectio maritalis ma non tutti gli altri elementi richiesti dall’Epitome Ulpiani; sono matrimoni
invalidi, qualificabili come matrimonia
iniusta, tutelati penalmente, in caso di adulterio della donna, da un’accusatio iure extranei, come informa
espressamente il testo in esame.
Il matrimonio incestuoso è invalido per
carenza di conubium. Gli si possono
aggiungere altre tre figure di matrimonio invalido per lo stesso motivo, di cui
due già esaminate commentando D. 24.1.3.1, cioè il divieto fatto al funzionario
provinciale di sposare una donna della sua provincia e il divieto imposto alla
figlia del senatore di sposare un liberto. Più in generale, i divieti imposti
ai senatori e agli appartenenti all’ordine senatorio dalla lex Iulia et Papia e che un’Oratio
di Marco Aurelio e Commodo avrebbe ripetuto, sostituendo la sanzione della
nullità del matrimonio alla sua mera irrilevanza nei confronti della legge. La
terza proibizione è quella fatta al tutore di sposare la pupilla, proibizione
che per natura e disciplina si avvicina a quella imposta al funzionario
provinciale, come del resto si è già rilevato commentando sempre D. 24.1.3.1.
Anche nel caso del tutore infatti lo scopo della norma è la tutela della donna,
cioè questa volta della pupilla, raggirata dal tutore che cerca, mediante il
matrimonio, di sottrarsi all’obbligo di renderle i conti. Ma l’invalidità del
matrimonio non trova la sua causa giuridica nel dolo del tutore, ma nel mezzo
più drastico e certo della sottrazione del conubium
al tutore: egli l’acquista soltanto con il rendimento dei conti (C. 5.6.1).
Il regime della nullità del matrimonio si accompagna a quello dell’indegnità
successoria del tutore. Questo significa che la pupilla può succedere per
testamento al tutore, ma non il tutore nel testamento della pupilla: i beni gli
sono confiscati. Non esiste cioè fra di loro il regime della capacitas, che riuscirebbe a spiegare
perché la pupilla succeda al tutore, ma non perché il tutore sia incapace di
succedere alla pupilla. Esiste il regime dell’indegnità, che colpisce
naturalmente il solo contravventore, cioè il marito. La moglie gli succede, ma
non come tale. Infatti il testo tratta della sola successione testamentaria.
Tutto questo vale anche nel caso in cui sia il funzionario provinciale a
sposare una donna della sua provincia[48].
Ep.Ulp. 5.2 considera iniustum non solo il matrimonium privo di conubium, ma anche quello in cui manca
il consenso del pater familias della
sposa e la sua pubertà. È improbabile che Ulpiano, scrivendo in generale di un
matrimonio in cui la donna è colei quae,
quamvis uxoris animo haberetur, uxor tamen esse non potest, intenda
comprendervi anche questi due casi. L’esempio direttivo infatti che egli
propone è quello di un matrimonio privo di conubium,
qual è il matrimonio incestuoso, e tratta dei casi in cui la sposa sia priva
del consenso paterno o di pubertà in due distinti e successivi paragrafi del
medesimo frammento[49].
Il primo è il seguente.
D. 48.5.14.6 Ulp. 2 de adult. 1947 Si quis uxorem suam velit accusare dicatque eam
adulterium commisisse antequam sibi nuberet, iure viri accusationem instituere
non poterit, quia non, cum ei nupta est, adulterium commisit. Quod et in
concubina dici potest, quam uxorem quis postea habuit, vel in filia familias,
cuius coniunctioni pater postea concessit.
Non si può perseguire iure viri il tradimento perpetrato dalla
moglie prima del matrimonio, neppure se essa era la concubina o mancasse
soltanto il consenso del suo pater
familias. Il problema è se il tradimento potesse venir perseguito iure extranei. Di solito si ritiene lo
potesse, se l’uonione precedente alla valida contrazione del matrimonio era
concubinato o la sposa mancasse soltanto del consenso del pater familias[50].
I possibili rapporti esistenti fra
l’uomo e la donna al tempo in cui fu commesso adulterio sono tre. Il primo è un
rapporto di fatto, privo dell’affectio
maritalis, perché precedente alla contrazione del matrimonio (dicatque eam adulterium commisse antequam
sibi nuberet). Non è quindi neppure un matrimonium
iniustum, quale potrebbe essere, ad esempio, il matrimonium dell’impubere in
domum deducta. Inoltre non è un rapporto di convivenza abituale e continua,
cioè un concubinato, come lo è, invece, la seconda figura di rapporto proposta
da Ulpiano (…et in concubina…).
Anch’esso infatti manca dell’affectio
maritalis, essendo stato contratto prima delle nozze (concubina…quam uxorem postea habuit) e quindi neppure in questo
caso si tratta di matrimonium iniustum.
Lo sarebbe nella terza ipotesi, quando manca il consenso del pater familias della sposa, ma non è per
caso che Ulpiano affianca questa ipotesi alle due precedenti, se si tiene conto
di quale poco valore aveva, già per se stessa, la volontà di una filia familias a contrarre matrimonio.
Spesso la figlia decideva di sposare soltanto se era certa del consenso paterno
(qui § 20). L’accostamento del concubinato a un simile matrimonio, che poteva
non essere tale per mancanza di una sicura affectio
maritalis nella sposa, e, sopra tutto, l’accostamento del concubinato a un
rapporto di fatto non abituale e continuo, confermano che Ulpiano considera
pure il concubinato un rapporto di fatto[51].
Ulpiano tratta del secondo caso, il
matrimonio con la sposa impubere, nel § 8 di D. 48.5.14. Il frammento è qui
riprodotto e studiato nell’esame unitario dell’argomento (§ 43). La fanciulla è
condotta, come sposa, nella casa del marito prima dei 12 anni, dove commette
adulterio e rimane, compiendovi l’età legale e divenendo moglie anche per il
diritto (coeperitque esse uxor). L’accusatio non può essere iure viri, perché quando commise
adulterio il matrimonium era iniustum. La deductio in domum mariti mostra l’esistenza dell’affectio maritalis, ma l’età non è
quella legale (non poterit iure viri
accusari ex eo adulterio, quod ante aetatem commisit). La fanciulla viene
equiparata a una fidanzata , cui il diritto non chiede la pubertà. Settimio
Severo e Caracalla pretesero che anche l’adulterio della fidanzata fosse
perseguibile, sia pure soltanto iure
extranei (D. 48.5.14.3). Per analogia la norma poté così essere estesa al
caso in esame (quasi sponsa poterit
accusari ex rescripto divi Severi).
Il testo mostra già tutte le
caratteristiche fondamentali della disciplina riservata alla fattispecie. Il
matrimonio dell’impubere è nullo (mox
apud eum aetatem excesserit coeperitque esse uxor)[52].
Però ha tutti gli elementi, compresa, in primo luogo, l’affectio maritalis, per convalidarsi automaticamente al
raggiungimento della pubertà della sposa. Nel frattempo il rapporto non è di
fatto, ma di diritto. Lo è in ordine al diritto criminale, ai fini della
punizione dell’adultera iure extranei,
come tutti gli altri matrimonia iniusta.
Ma in questo caso lo è anche per il diritto privato, in forza, ancora una
volta, della sua analogia con il fidanzamento (cfr. qui in particolare ad
esempio D. 12.4.8; D. 24.1.32.27) e addirittura, in un caso, con lo stesso
matrimonio (D. 27.6.11.3).
A questo modo Ulpiano, nel suo
importante frammento, ha preso in considerazione tutte le cause che secondo
Ep.Ulp. 5.2 possono dar luogo a un matrimonium
iniustum, benché sia presente l’affectio
maritalis. Si pose inoltre il problema quale natura avesse l’accusatio adulterii, se iure viri o iure extranei quando il matrimonium
non fosse iustum secundum legem Iuliam et Papiam. Fu discusso in proposito e
fu deciso che non aveva rilievo che il matrimonium fosse iustum oppure no per la lex
Iulia et Papia. Contava soltanto che lo fosse per il ius civile e quindi l’accusatio
dovesse avvenire iure mariti anche se
il matrimonium, iustum secundum ius civile, non lo fosse secundum leges (D. 48.5.25.3). In altri termini, il matrimonium secundum o contra leges non ha una fisionomia propria,
ma costituisce una figura particolare di matrimonium
secundum ius civile e sarà iustum
oppure no secondo i criteri e la disciplina stabiliti dall’ordinario e generale
ius civile. Ulpiano fece sua questa
opinione e osservò che a questo modo il matrimonium
iustum secundum ius civile veniva tutelato nella pienezza del suo valore
persino, ad esempio, nel caso in cui il marito avesse infranto i divieti della lex Iulia et Papia, sposando, benché ingenuus, una donna che si era
prostituita (volgaris) e con la quale
avrebbe potuto avere un rapporto non matrimoniale senza essere punito per stuprum (D. 48.5.14.2 Ulp. 2 de adult. 1947). Il motivo è infatti il
seguente, come il giurista spiega e conferma nel successivo § 3: quia neque matrimonium qualecumque…violare
permittitur. Ulpiano aggiunge che il padre poteva di conseguenza godere dei
benefici che gli derivavano dall’aver figli, benché non quaesiti secundum leges (Vat.
frag. 168 Ulp. lib.sing. de excus.)[53].
Eccezionalmente la configurabilità del crimen adulterii e la relativa accusatio furono ammesse anche
nell’ambito di due rapporti mancanti dell’affectio
maritalis e lo fu a causa, si suole ripetere, dell’analogia che essi
presentano con il matrimonio. Sono, come si è già ricordato, il fidanzamento e
il concubinato. Le ragioni di questa estensione sono però diverse nei due casi.
Nel fidanzamento l’affectio maritalis non è presente e attuale, ma futura e oggetto di
promessa. Questo però ha fatto sì che, nella sua evoluzione storica, il
fidanzamento romano, da promessa, sia progressivamente divenuto, per quanto
possibile, anche prefigurazione e inizio di un matrimonio futuro[54].
È perciò comprensibile che a un certo momento del processo evolutivo si sia
ammessa la configurabilità dell’adulterium
anche nell’ambito del fidanzamento. Però avvenne piuttosto tardi, quando già da
tempo si era cominciato a estendere al fidanzamento aspetti della disciplina
del matrimonio. Inoltre, nel caso in esame, l’estensione fu dovuta all’autorità
imperiale: un rescritto di Settimio Severo e Caracalla. L’accusatio del fidanzato non avrebbe potuto essere se non iure extranei e forse si è dovuto
attendere che tale specie di accusatio
fosse introdotta e sufficientemente elaborata dalla giurisprudenza in ordine al
matrimonium iniustum.
D. 48.5.14.3 Ulp. 2 de adult. 1947 Divi Severus et Antoninus rescripserunt etiam in
sponsa hoc idem vindicandum, quia neque matrimonium qualecumque nec spem
matrimonii violare permittitur[55].
La giustificazione (quia…) non è degli imperatori, ma di Ulpiano. Nel paragrafo
precedente aveva dichiarato inviolabile persino il matrimonio con una
prostituta. Quindi il rapporto matrimoniale in quanto tale non poteva non
essere tutelato anche quando era oggetto soltanto di una promessa. Però, come
insegna Ulpiano sempre nel paragrafo precedente a quello ora in esame, deve
essere tutelata l’inviolabilità non di qualsiasi matrimonio, sia pure anche con
una prostituta, ma di un matrimonium
iustum, cioè tale per il ius civile[56].
La ragione di avvicinamento dell’affectio maritalis promessa a quella
attuale ha natura soggettiva. L’estensione del regime dell’adulterium al concubinato ha invece una ragione obiettiva: dipende
dall’analogia, nella sua struttura, con quella del matrimonio. Il concubinato,
infatti, manca dell’affectio maritalis.
È, come il matrimonio, un rapporto di vita comune e abituale, anche se non
tendenzialmente perpetuo, tra un uomo e una donna, però non con la stessa
finalità del matrimonio, di procreare cioè figli legittimi. Tuttavia occorre,
nel concubinato, la presenza di un ulteriore requisito, sempre di natura
obbiettiva, che non gli è essenziale, ma che l’avvicina ulteriormente, quando
c’è, al matrimonio: la dignità sociale del rapporto derivante da quella
personale della donna, cui spetta la qualifica di matrona, e che essa non perde, contraendolo. L’esempio tipico è
quello della liberta, che si unisce in concubinato al proprio patrono.
D. 48.5.14
pr. Ulp. 2 de adult. 1947 Si uxor non
fuerit in adulterio, concubina tamen fuit, iure quidem mariti accusare eam non
poterit, quae uxor non fuit, iure tamen extranei accusationem instituere non
prohibebitur, si modo ea sit, quae in concubinatum se dando matronae nomen non
amisit, ut puta quae patroni concubina fuit.
Il testo informa che quando nell’ambito
del concubinato è configurabile il crimen
adulterii, l’accusatio avviene
soltanto iure extranei. Benché la
concubina sia, anzi debba essere, una donna che conserva la qualifica di matrona, perché possa venir punita a
causa del suo adulterio, il rapporto di vita che il suo compagno ha con lei non
costituisce stuprum ai sensi della lex Iulia de adulteriis (qui § 14).
IX). L’esame qui condotto
di D. 48.5.14 permetterebbe la seguente considerazione finale in ordine al suo
significato storico. La motivazione di D. 48.5.14.3 dovuta a Ulpiano e secondo
la quale neque matrimonium
qualecumque…violare permittitur avrebbe infatti un rilievo storico
importante, se si ammette essere stata la giurisprudenza, con l’aiuto della
legislazione imperiale, a estendere la configurazione dell’adulterium oltre i limiti iniziali della lex Iulia de adulteriis e cioè alle figure di matrimonium iniustum, al fidanzamento e quindi al concubinato.
L’intento del diritto sarebbe stato quello di accentuare la tutela giuridica ed
etico-sociale di questi rapporti, riconducendoli tutti, per quanto possibile,
all’archetipo del matrimonium iustum.
Il processo storico si svolgerebbe cioè nel senso di valorizzare ulteriormente
questo istituto, sino al punto di considerare valido il matrimonio, anche se
contrario alla lex Iulia et Papia.
X). Nell’ambito del
matrimonium iniustum, il padre dei
figli che eventualmente ne nascono, iniusti
e quindi non legati al genitore da un rapporto di agnatio, è tuttavia certus.
Lo rende tale più che la stabilità del rapporto con la loro madre, la
perseguibilità per adulterio della donna, cioè, ancora una volta, l’affectio maritalis che lega i genitori.
Pure dei figli nati nell’ambito di un rapporto di concubinato si suole dire che
hanno un pater certus, ma in questo
caso lo è non per una ragione giuridica, bensì di fatto, cioè per la continuità
e la pubblicità del rapporto sociale che lega i loro genitori. A questa ragione
di fatto si aggiunge quella giuridica, limitatamente ed eccezionalmente al caso
in cui il concubinato sia parificato al matrimonio e perseguito l’adulterio
della concubina.
Stando a un testo di Gaio, importante in
argomento, l’assenza di un pater certus sarebbe
di solito la caratteristica negativa dei filii
vulgo concepti o quaesiti.
Gai. 1.64 Ergo si quis nefarias atque
incestas nuptias contraxerit, neque uxorem habere videtur neque liberos: itaque
hi, qui ex eo coitu nascuntur, matrem quidem habere videntur, patrem vero non
utique: nec ob id in potestate eius <sunt, se tales> sunt, quales sunt
hi, quos mater vulgo concepit: nam et hi patrem habere non intelleguntur, cum
is etiam incertus sit; unde solent spurii filii appellari vel a Graeca voce
quasi σποράδην concepti vel quasi sine
patre filii.
a) Il testo si
divide in due parti. La definizione di hi,
quos mater vulgo concepit è nella seconda: sono coloro che vengono
considerati, e aggiungerei dal diritto, non avere un padre (hi patrem habere non intelleguntur);
tanto più che di fatto non si sa con certezza chi esso sia: così interpreterei
la frase del testo che attira una particolare attenzione: cum is etiam incertus sit. Gaio aggiunge, a maggior chiarimento,
che nel parlar comune questi figli sono chiamati di solito spurii (unde solent spurii
filii appellari) e ne spiega il significato sia richiamando l’etimologia
comune alla espressione greca che si impiega per designarli, sia di conseguenza
osservando che è come se fossero addirittura stati concepiti senza un padre (vel quasi sine patre filii).
A volte si attribuisce a questa
definizione un valore assoluto, che invece per Gaio non ha. Come risulta dalla
prima parte del testo, egli limita la sua attenzione alla patria potestas e afferma che i figli incestuosi non vi sono
sottoposti, perché addirittura non hanno un padre per il diritto (habere videntur patrem…non utique), così
come non l’hanno i filii vulgo concepti
(tales sunt quale sunt hi, quos etc.)
e quindi neanche per questi può esservi una patria
potestas. Per avere una conferma che la definizione di Gaio non ha valore
assoluto basta ricordare, a proposito degli impedimenti matrimoniali, D.
23.2.14.2 Pap. 35 ad ed., il quale
insegna che nec vulgo quaesitam filiam
pater naturalis potest uxorem ducere. Si riconosce cioè che una filia vulgo quaesita può avere un padre
certo di fatto e tale anche per il diritto, così che i due non possono
contrarre fra loro matrimonio. Inoltre il testo qualifica naturalis il pater e
quindi naturalis non potrà non essere
qualificata anche la filia[57].
Il testo di Papiniano, oltre a provare
che la definizione di Gaio ha un ambito di applicazione non assoluto, permette
di meglio intendere l’affermazione di Gaio, secondo la quale il padre del
figlio vulgo conceptus è incertus. È una incertitudo non solo di fatto, come qui è stata appunto intesa, ma
anche del tutto irrilevante al fine di delineare il concetto giuridico di filius vulgo conceptus, perché, come
insegna Papiniano, si può talvolta conoscere con certezza chi ha avuto, sia
pure occasionalmente, un figlio. Gaio cioè intende soltanto ricordare che di
solito non si conosce il padre del filius
vulgo conceptus.
Il concubinato, per sua natura, è un
rapporto continuo e pubblico; quindi i figli che ne nascono hanno un padre che
di fatto è conosciuto da tutti, è certus
come l’intende Gaio. Perciò si è soliti contrapporre i figli nati da
concubinato ai figli vulgo concepti e
preferibilmente qualificare i primi come naturales[58].
Ma ancora una volta basta l’insegnamento di Papiniano (D. 23.2.14.2) per
accertare l’attribuzione della qualifica di filius
naturalis anche al filius vulgo
conceptus. Si può anzi ritenere che non vi sia nessuna sostanziale
differenza tra i figli nati da concubinato e i figli vulgo concepti, quali li definisce Gaio, se non quella, ma è
soltanto una differenza di fatto, che i primi hanno un pater certus, mentre i secondi di solito non l’hanno, anche se però
lo possono avere[59].
La distinzione e la contrapposizione tra figli di concubini e figli occasionali
non è del diritto classico, ma di quello successivo, a cominciare da quando
Costantino, in odio al concubinato, tolse ai primi, ma non ai secondi, la
capacità di ricevere per atto gratuito dal padre, cui negò anche l’arrogabilità
dei figli (C.Th. 4.6.2, a.336, mutila). Pure la tendenza a riservare ai nati da
concubinato la qualifica di naturales
non è classica. Valentiniano III, nel definire i liberi naturales fa riferimento appunto a coloro che sono procreati
nell’ambito di una coniunctio legitima,
ma sine honesta celebratione matrimonii
(C.Th. 4.6.7, a. 426)[60].
b) Venendo alla
prima parte del testo di Gaio, il giurista indica le sanzioni comminate quando
si contrae un matrimonio incestuoso: esso è invalido. Il contravventore non ha
né moglie né figli legittimi (neque
uxorem habere videtur neque liberos). Però Ulpiano informa che se la moglie
commette adulterio, ciononostante viene punita (D. 48.5.14.4 studiato in questo
paragrafo a pag. 28). Qui il matrimonium
è definibile come iniustum. Per
quanto riguarda i figli, essi, benché iniusti,
hanno una madre, cui sono legati da un rapporto di cognatio, ma non hanno padre, cui essere legati da un rapporto di agnatio (matrem quidem habere videntur, patrem vero non utique). Quindi non
sono nella sua potestà (nec ob id in
potestate eius sunt). Però, tenendo conto che la loro madre è punibile, se
adultera, la paternità del loro genitore è certa: hanno un pater certus ed è il diritto a garantirlo come tale. Ciononostante,
lo si è già posto in evidenza, Gaio li equipara ai filii vulgo concepti (tales
sunt, quales sunt hi quos mater vulgo concepit), benché questi figli, se
eccezionalmente possono anch’essi avere un pater
certus, lo sarà per una ragione di fatto, e non mai per la ragione di
diritto che vale per i nati nell’ambito di un matrimonium iniustum.
Se ne potrebbe arguire che nel matrimonium iniustum, come il marito ha
una moglie, nel senso che essa non lo deve tradire, così di conseguenza e per la
stessa ragione egli ha dei figli. Non sono in sua potestà, perché il matrimonio
è nullo iure civili, però gli
sarebbero egualmente di giovamento, se Gaio, nel caso dell’incesto, lo punisce
togliendoglieli e paragonandolo al padre di figli vulgo quaesiti. L’incestuoso, oltre a contrarre un matrimonium iniustum per carenza di conubium, è punito quale autore di un crimen. Ma vi sono altri casi analoghi,
nei quali chi contrae un matrimonium
iniustum viene anche punito con sanzioni penali. Non sarebbe perciò fuori
luogo ritenere che pure in questi casi il padre, benché abbia figli certi, non
possa goderne e trarre così vantaggi dal suo comportamento criminoso. A tanto
porterebbe, occorre sottolinearlo ancora una volta, l’affectio maritalis e il concetto di matrimonium iniustum. Non il concubinato, perché manca di affectio maritalis e quindi, anche se il
pater è certus, lo è soltanto per ragioni di fatto. Farebbe probabilmente
eccezione il caso in cui il concubinato sia eccezionalmente paragonato al
matrimonio[61].
Un possibile vantaggio che un padre
trarrebbe dall’avere filii iniusti
sembra essere quello di esonerarlo dal gerire una tutela e dall’esercitare la
funzione di giudice.
Vat.frag. 194 Ulp. lib. sing. de officio praet. tutelaris 2108 Iusti autem an iniusti
sint filii non requiritur; multo minus in potestate nec ne sint, cum etiam
iudicandi onere iniustos filios relevare Papinianus libro V quaestionum
scribat.
Stando al passo di Gaio, i figli iniusti sarebbero i figli nati da un matrimonium iniustum[62].
Se non vi fosse questa limitazione, si dovrebbe ammettere che per Ulpiano
qualsiasi figlio illegittimo esonerava il padre dalle sue funzioni, anche se
nato da concubini[63] o
vulgo conceptus. Vi è perciò chi ha
pensato, e fra questi anch’io, precedentemente, a figli iniusti secundum legem Iuliam et Papiam, purchè iusti secundum ius civile[64].
Ma se si trattasse di questi figli, essi sarebbero nella potestà del padre,
mentre Ulpiano esclude che i figli di cui parla debbano esservi sottoposti.
Infatti osserva che secondo Papiniano, se hanno rilievo dei figli iniusti, che non sono, in quanto tali,
nella potestà del padre, tanto meno avrà rilievo la circostanza che, se iusti, siano nella sua potestà (non requiritur in potestate nec ne sint, cum
etiam…iniustos filios relevare Papinianus…scribat). La circostanza di avere
figli in potestà oppure no, perché morti non in guerra (bello amissi) o dati in adozione, contava, in questioni del genere.
Ad esempio il console che li aveva era preferito al collega nell’assunzione per
primo dei fasces (Gell. n.a. 2.15.4)[65].
Secondo Lenel[66],
Papiniano sta trattando del testamentum
inofficiosum e della successione dei legittimari, ma è insegnamento
tradizionale[67]
che nella categoria rientrino i figli iniusti
soltanto se si tratta di succedere alla madre e non anche al padre, benché egli
se ne servirebbe, a quanto sembra, per sottrarsi all’onere di essere giudice in
questa materia.
La circostanza che Ulpiano senta il
bisogno di richiamarsi all’autorità di Papiniano per sostenere che anche i figli
iniusti possano esonerare il padre
dal gerire una tutela, mostrerebbe che la sua opinione non era certa e
assoluta. I Compilatori giustinianei hanno inserito nel Digesto la
testimonianza di Modestino (D. 27.1.2.3 Mod. 2 excus.), che invece richiede la legittimità dei figli, e hanno
omesso quella di Ulpiano[68].
XI). Nell’ambito del
matrimonium iustum il requisito
soggettivo dell’affectio maritalis
trova, secondo Ep.Ulp. 5.2, il suo necessario completamento in quello obiettivo
del conubium, nel senso che l’intenzione
dei coniugi di unirsi in matrimonio per avere figli legittimi secondo
l’ordinamento della civitas, riceve
attuazione soltanto se l’ordinamento della civitas
riconosce loro la capacità di contrarlo. Il termine conubium può avere significato generale. L’ha nella definizione,
relativa al marito, di Ep. Ulp. 5.3: conubium
est uxoris iure ducendae facultas, in cui iure conferma che la moglie deve essere tale per l’ordinamento
della civitas (in arg. qui § 22). Conubium ha significato generale quando le
fonti informano che manca agli schiavi ed è soltanto dei cives, ragione per cui lo si perde quando con la prigionia di
guerra si diviene schiavi del nemico. È questa facoltà generale di contrarre
matrimonio che la civitas assicura a
ciascun cittadino e ne tutela la libertà di impiego[69],
sino al punto che Augusto rispetta la validità di un matrimonio anche se
contrario ai divieti delle sue leggi. Come spiega Ulpiano, deve essere tutelato
qualecumque matrimonium, anche se
contratto con una prostituta (D. 48.5.14.2). Perciò la lex Iulia et Papia non toglie il conubium al contravventore. Il termine conubium di Ep. Ulp. 5.2 ha invece, come si è detto, un significato
particolare, quello di giudizio della civitas
sul matrimonio che si intende contrarre, concedendo o negando ai coniugi la
facoltà relativa. Perciò, quando nel singolo caso essa nega il conubium, il rapporto che i coniugi
contraggono mediante la loro affectio,
pur essendo rilevante per il diritto, non assurge, per la civitas, alla dignità del matrimonio e non genera figli legittimi.
Sembra doversi ritenere che il conubium
manchi ogni volta che il matrimonio è vietato dalla civitas e lo sia anche quando essa lo vieta punendo, inoltre, il
coniuge che l’ha contratto con sanzioni personali e patrimoniali. Tipico il
caso in cui si commetta incesto. Pure in questa ipotesi la nullità iure civili del matrimonio non deriva
dalla sua illiceità, ma dalla conseguente sottrazione del conubium al contravventore. È l’ordinamento della civitas a stabilire se e quando dalla
illiceità del matrimonio segua per il contravventore anche la perdita del conubium. Nel caso, ad esempio, in cui
non si rispetta il tempus lugendi i
coniugi hanno tuttavia il conubium e
il matrimonio è valido iure civili.
Commentando il passo di Ulpiano (D.
48.5.14) si è indicato quando le fonti impediscono il matrimonio, privandolo
espressamente del conubium: il
matrimonio del romano con una peregrina,
il matrimonio incestuoso, quello proibito all’alto funzionario di una
provincia, cui si collega, per analogia, il matrimonio del tutore con la
pupilla. A questi casi può aggiungersi il matrimonio proibito alla liberta che
abbia divorziato dal patrono senza il suo consenso[70].
Le considerazioni ora svolte giustificano l’opinione comune che manchi il conubium anche nei matrimoni proibiti ai
senatori e all’ordine senatorio dall’Oratio
di Marco Aurelio e Commodo. Verrebbe meno il conubium anche nel matrimonio di chi è fatto prigioniero dal
nemico.
XII). In sintesi, la concezione
generale del matrimonio, elaborata in questo paragrafo, introduttivo ai
successivi e che ne vorrebbero essere prova ed espressione, sarebbe la
seguente. Esso troverebbe fondamento nel consenso dei coniugi e la sua
struttura sarebbe negoziale, ricordando quella del contratto di società, pur
essendone sostanzialmente diverso per contenuto e finalità. All’accordo
iniziale dei coniugi di contrarre il rapporto, si accompagna la volontà
unilaterale e successiva di ciascuno di essi di continuarlo nel tempo e quindi
la facoltà del singolo coniuge di porvi fine con il divorzio. Il legislatore
classico, nell’età augustea, impone una forma al divorzio, ma non ne lede la
sostanza consensuale, poiché la forma dell’atto fa soltanto presumere che la
volontà del contenuto sia vera, seria e definitiva. Si respinge quindi la
concezione del matrimonio quale rapporto di fatto. Esso ha natura giuridica e,
come si è detto, essenzialmente consensuale, nell’ambito del quale la
convivenza dei coniugi è un modo solito, ma non necessario, di esprimere la
loro intenzione di essere tali e di continuare a vivere quali coniugi. Diviene,
per correlazione, una forma frequente, ma soltanto abituale, specialmente alla
donna,quella di porre fine al matrimonio ponendo fine alla convivenza
domestica.
Tutto questo per quanto riguarda la
struttura negoziale del matrimonio. Passando al contenuto dell’atto, cioè alla
volontà dei suoi autori o affectio
maritalis, qui la si è concepita quale intenzione dei coniugi di porre in
essere un matrimonio che permetta loro di procreare ed educare figli legittimi,
cioè di porre in essere un matrimonium
iustum. Così definita, essa costituirebbe il fondamento per giustificare la
conseguente nozione non solo di matrimonium
iniustum, in caso di invalidità civile del matrimonio, ma di concubinato,
di divorzio, che consiste appunto nel venir meno dell’affectio, e, in definitiva per intendere, almeno a mio parere, la
finalità istituzionale ed essenziale del matrimonio classico: procreare ed
educare figli legittimi, distinguendosi, a questo modo, il matrimonio, da
qualsiasi altro rapporto personale tra uomo e donna.
Se essi convivono abitualmente, il
rapporto è concubinato quando manca l’affectio
maritalis, cioè l’intenzione di avere figli legittimi, altrimenti, se
presente, si ha matrimonium. Esso
sarà iustum oppure no a seconda che,
oltre l’affectio maritalis, siano
presenti oppure no gli altri requisiti chiesti da Ep. Ulp. 5.2. Se iniustum, è la loro assenza, e non
quella dell’affectio maritalis a
impedire appunto l’attuazione della stessa, invalidando iure civili il matrimonio e provocando l’illegittimità dei figli.
Tant’è vero che se il requisito mancante cessa di esserlo, ad esempio la sposa
raggiunge la pubertà, automaticamente il matrimonium
diviene iustum e i figli
successivamente procreati sono legittimi. L’affectio
maritalis, essendo la volontà di avere figli legittimi, impone alla moglie
di averli soltanto dal marito. Di conseguenza l’affectio maritalis viene tutelata penalmente anche quando il matrimonium è iniustum: la moglie commette adulterium,
se frequenta uomini diversi dal marito e si crea, fra loro, un rapporto
giuridico, il quale può avere rilievo oltre che per il diritto criminale, anche
per quello privato. Ad esempio la disciplina del matrimonio dell’impubere è
analoga, sia pure con limiti, a quella del fidanzamento, se non addirittura del
matrimonio. Inoltre, soltanto ammettendo la persistenza dell’affectio maritalis nel matrimonium iniustum, si può
distinguerlo, come si è detto, dal concubinato, che resta un rapporto di fatto
in conseguenza della mancanza di tale affectio
e quindi permette si possa avere per concubina anche la propria schiava.
In origine la tutela criminale dell’affectio maritalis mediante la punizione
dell’adulterio della moglie fu imposta dalla lex Iulia de adulteriis al solo matrimonium
iustum. Successivamente la giurisprudenza, confortata dall’autorità
imperiale, la estese a ogni ipotesi di matrimonium
iniustum: per carenza di conubium,
della pubertà della sposa o dell’assenso del pater familias al matrimonio. Lo scopo non fu tanto quello di dare
rilievo giuridico a situazioni coniugali di fatto, favorendo, in materia,
l’autonomia negoziale dei privati, ma quello di attribuire a tali situazioni
una disciplina giuridica severa, avvicinandola, per quanto possibile, a quella
del matrimonium iustum. Si spiega
così come tale severità colpì anche il fidanzamento, che per se stesso è già un
rapporto giuridico e nel quale l’affectio
maritalis è soltanto promessa, e il concubinato, che rimane un rapporto di
fatto, anche quando la condizione sociale dei concubini l’avvicina al
matrimonio, poiché continua a mancare dell’affectio
maritalis.
Il matrimonium
iniustum può essere per se stesso proibito e illecito. Più volte si è fatto
l’esempio dell’incesto, perpetrato mediante l’affectio maritalis che lo costituisce quale matrimonium iniustum. Il crimine priva i coniugi del conubium, e questa è la conseguenza
civile della contravvenzione, e inoltre vi è deportazione e confisca di dote e
donazione, e queste sono le sanzioni penali della contravvenzione. La moglie è
punita per l’eventuale adulterio, a completamento del regime ordinario del matrimonium iniustum.
Del tutto diversa è la disciplina
riservata ai matrimoni proibiti dalla lex Iulia et Papia. La contravvenzione
rende il matrimonio irrilevante nei confronti della legge, ma non toglie il conubium ai contravventori, del cui
matrimonio si giudicherà secondo le regole ordinarie del ius civile e lo si riterrà valido oppure no in base a tali regole.
Se anche nel matrimonium iniustum l’affectio
maritalis dà luogo a un rapporto giuridico tra coniugi, tutelato dalla
punibilità dell’adulterio della moglie, essi vi possono porre termine ponendo
fine all’affectio maritalis, cioè divorziando.
La moglie è così nelle condizioni di sposare un altro. Il divorzio ha
certamente questo contenuto quando il matrimonium
è iustum, però nell’ambito di un
effetto più ampio, anzi generale. Quello di porre fine a ogni rapporto
personale e patrimoniale fra i coniugi, in quanto possibile. Perciò Augusto gli
impose una forma, che non fu ritenuto necessario estendere allo scioglimento
del matrimonium iniustum. Però il
rilievo fondamentale attribuito nell’uno e nell’altro caso alla volontà dei
coniugi rimane il medesimo. Lo si è già ripetuto: la forma del divorzio fa solo
presumere che la volontà di procedervi sia vera, seria e definitiva.
L’affectio
maritalis del matrimonium iniustum
fa sì che il pater, anche se soltanto
naturalis, sia giuridicamente certus, poiché la moglie è punita per
l’eventuale adulterio. Non così nel concubinato, perché privo di affectio maritalis: se il padre è certus, lo è soltanto di fatto, causa la
solita pubblicità del rapporto. Ci si potrebbe chiedere se lo sia anche per una
ragione giuridica, quando il concubinato è avvicinato al matrimonio e si
punisce l’adulterio della concubina. Ovviamente non è certus il pater del vulgo quaesitus, a differenza della
madre. Vi sarebbero testimonianze che il figlio abbia esonerato il pater naturalis, certus però per una ragione giuridica, dall’onere ad esempio di
gerire una tutela e di sedere come giudice.
Infine l’affectio maritalis trova il suo necessario completamento nella
concessione o nella negazione ai coniugi, da parte della civitas, del conubium,
cioè della capacità di avere figli legittimi tramite matrimonio. In caso di
divieto matrimoniale, è l’ordinamento della civitas
a stabilire se sia sufficiente privare i coniugi del conubium, aggiungervi sanzioni personali o patrimoniali (ad es.
incesto) o limitarsi a queste (ad es. mancato rispetto del tempus lugendi).
XIII). Si è dato conto
precedentemente di ricostruzioni storiche e dommatiche del matrimonio classico
diverse da quella ora sintetizzata. Resta da esaminare quella, rilevante per la
sua attualità, di Fiori[71],
di cui peraltro sono già stati doverosamente riferiti vari aspetti. Egli[72]
conclude l’esegesi di D. 48.5.14 pr.-4 Ulp 2 de adult. proponendo una quadripartizione delle unioni
matrimoniali: a) iusta uxor, accusatio iure
mariti (D. 48.5.14.1); b) iniusta uxor, accusatio iure extranei
del marito con i privilegi di Coll.4.5.1; c)
uxor volgaris, matrimonio proibito
dalla lex Iulia et Papia, accusatio del marito iure extranei, probabilmente senza
privilegi (D. 48.5,14.2); d) donna quae uxor esse non potest, accusatio del
marito iure extranei, verosimilmente
senza privilegi (D. 48.5.14.4). Segue poi una bipartizione delle unioni
concubinarie a seconda che la dignitas
della donna (concubina del patrono) consenta oppure no all’uomo di accusarla iure extranei, se adultera.
Il testo di Ulpiano consentirebbe invece
soltanto una bipartizione delle unioni matrimoniali: uxor iusta o iniusta,
cioè matrimonium iustum oppure no. La
uxor volgaris di D. 48.5.14.2 è una uxor iusta, dovendosi giudicare della
validità dei matrimoni proibiti dalla lex
Iulia et Papia secondo i criteri ordinari del ius civile. Quindi l’accusatio
del marito avviene iure viri[73].
Colei quae uxor esse non potest di D.
48.5.14.4 è, come la donna incestuosa, una uxor
iniusta, essendo il suo matrimonio privo di conubium[74].
I privilegi di Coll. 4.5.1 sembrano estensibili a ogni ipotesi di matrimonium iniustum previsto dal testo
di Ulpiano, con probabile eccezione dell’accusatio
iure extranei del concubino.
Trattando del conubium, Fiori[75]
distingue ancora fra matrimonio e concubinato. Per quanto riguarda il
matrimonio, esamina criticamente il rilievo che vi assume il conubium, enumerando i casi in cui le
fonti e l’opinione comune lo richiamano.
Comincia con la lex Iulia de mar.ord. e ricorda il divieto di matrimonio fra
senatore e liberta, distinguendo, come egli fa in prosieguo, la disciplina
prima e dopo l’Oratio di Marco
Aurelio e Commodo. Prima, è uno dei divieti della lex Iulia, che più volte gli consente di classificare contra legem o ‘illegittimi’ i matrimoni
da essa proibiti. Si è però già rilevato che non costituirebbero propriamente
una categoria a sé, dovendosi giudicare di essi secundum ius civile. Dopo l’Oratio,
il divieto di matrimonio fra senatore e liberta e, più in generale, a quanto
sembra, i matrimoni proibiti dalla lex
Iulia et Papia all’ordine senatorio, non sono più soltanto irrilevanti nei
confronti della stessa, ma invalidi iure
civili per carenza, secondo ammissione comune, del conubium: costituiscono dei matrimonia
iniusta. Fiori invece dichiara addirittura che in questi casi «non vi è in
assoluto alcuna unione», pur ammettendo la repressione dell’adulterio, come nel
matrimonio dell’impubere, che egli richiama, osservando però che il suo
fidanzamento è valido, mentre l’Oratio
lo dichiara nullo. Ma ciò dipende dalla natura del divieto matrimoniale.
L’impubere è destinato a sposare, quando cessa di esserlo. La liberta e il
senatore, in quanto tali, no. Quindi è inutile che si fidanzino. A proposito
della lex Iulia de mar.ord. Fiori
menziona anche il divieto per la liberta divorziata dal patrono di sposare
altri. Se lo fa, il matrimonio è dichiarato nullo iure civili dalle fonti espressamente per carenza di conubium. Proprio perché lo è, la
giurisprudenza discute se e in che limiti continui quello con il patrono.
Circa il matrimonio fra liberi e
schiavi, Fiori osserva giustamente che esso non è tale, ma contubernium. Le fonti tuttavia negano sia matrimonio per carenza
di conubium[76].
A proposito del divieto del tutore di
sposare la pupilla e dell’alto ufficiale di sposare la donna della sua
provincia, si è già riferito, valutando criticamente l’opinione di Fiori circa
la causa dell’invalidità del matrimonio, commentando qui, in questo paragrafo,
D. 48.5.14.4 [77].
Per Fiori la causa sarebbe un «vizio del consenso» della sposa, e non la
carenza di conubium nello sposo.
Anche il matrimonio incestuoso non
sarebbe, secondo Fiori, una figura di matrimonium
iniustum per carenza di conubium,
ma un’altra ipotesi in cui «non vi è in assoluto nessuna unione», al pari del
matrimonio fra senatore e liberta posteriore all’Oratio imperiale. La valutazione critica di questa ricostruzione è
stata fatta, anch’essa in questo paragrafo, commentando D. 48.5.14.4 e Gai.
1.64 [78].
Sarebbe invece anche per Fiori una
figura di matrimonium iniustum per
carenza di conubium l’unione del
cittadino romano con una peregrina.
Fiori nega correttamente che il matrimonium dell’impubere sia iniustum per carenza di conubium e osserva come il conubium esiste e il matrimonio sia
valido iure civili nel caso in cui
non si rispetti il tempus lugendi.
Concludendo (e lasciando da parte il contubernium), anche il ordine al conubium la dicotomia, a seconda della
sua presenza o assenza, sarebbe soltanto fra matrimonium iustum e iniustum.
Accanto al matrimonium iustum non
potrebbero aversi, come invece propone Fiori, tre altri tipi diversi di
matrimonio: iniustum (ossia contrario
allo ius civile), ‘illegittimo’
(ossia contrario alle leges), e
nullo, usando la sua nomenclatura.
Trattando del concubinato, Fiori nega
qualsiasi rilievo al conubium non
perché il conubium sia proprio del
matrimonio, ma perché nel concubinato manca l’affectio maritalis e soltanto nel matrimonio la moglie partecipa
alla dignitas del marito,
condividendone i mutamenti. Sembra invece che se il conubium è capacità di contrarre matrimonio, essa non possa non
esserne un requisito essenziale. Fiori lo nega, perchè, come si è visto,
ritiene, ma non pare a ragione, che vi siano matrimoni nei quali non si darebbe
rilievo al conubium: quello ad
esempio dell’incestuoso, del tutore con la pupilla, e del funzionario con la
donna di provincia. Se quindi il conubium
è proprio del matrimonio, esso non appartiene al concubinato perché il
concubinato non è matrimonio, cioè perché, come alla fine anche Fiori
riconosce, nel concubinato manca l’affectio
maritalis. Circa la condivisione della dignitas
del marito da parte della moglie, che sarebbe requisito esclusivo del
matrimonio, si può osservare che ciò avviene anche nel concubinato, quando ad
esempio la liberta assume la dignità di mater
familias, se concubina del patrono. Inoltre le fonti negano dignità al
concubinato e la sua equiparazione al matrimonio, se la concubina perde la sua,
unendosi a chi le è inferiore.
Anche nell’esaminare la condizione dei
figli, Fiori ripropone, accanto al concubinato, la quadripartizione dei
matrimoni in: iusti, iniusti, illegittimi e inesistenti.
Riconosce però che, almeno in ordine ai figli, il matrimonio illegittimo non
avrebbe una autonomia giuridica propria, potendo i figli che ne nascono essere iusti secundum ius civile. Insiste,
invece, sulla figura del matrimonio inesistente. Lo sarebbe il matrimonio
incestuoso, perché Gai. 1.64 equipara i figli in esso procreati ai vulgo concepti. Probabilmente la gravità
del crimine non priva il matrimonio incestuso della qualifica di matrimonium iniustum. Priva soltanto il
padre dei benefici che i figli iniusti
gli potrebbero procurare: è come se non li avesse procreati (spurii). Fiori infatti avrebbe ragione
nel ritenere che, almeno secondo alcuni giuristi (Ulpiano e Papiniano), i figli
iniusti possano esonerare il padre
dal gerire ad esempio una tutela o dall’ufficio di giudice, proponendo questa
interpretazione di Vat.frag.194. In conclusione, anche in ordine alla
condizione dei figli, le figure di matrimonia
si ridurrebbero alle solite due: matrimonium
iustum e iniustum.
Al concubinato, distinto in due parti a
seconda della sua dignitas, che può
avvicinarlo al matrimonio, e alle figure di matrimonio proposte da Fiori, egli
aggiunge i rapporti duraturi che non costituirebbero né matrimonio, né
concubinato, perché i soggetti non vorrebbero né l’uno né l’altro. Si potrebbe
però dubitare che tali rapporti non costituiscano neanche concubinato. Perché
lo siano, non è necessario che i costituenti lo vogliano. È sufficiente che
essi non vogliano il matrimonio, oltre, naturalmente, all’assenza di stuprum.
Tutte queste relazioni stabili
rientrerebbero, secondo Fiori, nella definizione di matrimonio proposta da
Modestino. Sarebbe onnicomprensiva, e non limitata al matrimonium iustum. Sembra invece che lo sia proprio perché il
giurista lo definisce divini et humani
iuris communicatio. Infatti, come si è notato, Gordiano, nell’ambito di un matrimonium necessariamente iustum, si rifà a questa communicatio per escludere che possa
commettere il crimen expilatae
hereditatis la moglie, quae socia rei
humanae et divinae domus suscipitur (C. 9.32.4 pr.).
Nell’ambito di tutti questi rapporti,
coniugali perché stabili, Fiori deve concludere indicando quale sia l’elemento
che distingue il matrimonio. Lo fa, individuandolo nell’honor matrimonii, cioè nella condivisione della dignitas tra marito e moglie. Quindi
nelle manifestazioni esteriori della dignitas,
coessenziali al matrimonio e presenti, in modo particolare, nelle cerimonie
nuziali e nell’abbigliamento della uxor.
L’honor
matrimonii è certamente una manifestazione necessaria ed essenziale dell’intenzione
dei coniugi di essere tali. Esso non avrebbe però bisogno di imporre
necessariamente un abbigliamento speciale alla moglie, né una forma rituale
alle nozze (qui §§ 7; 8; 11; 12). Circa la condivisione della dignitas tra marito e moglie Fiori
scrive come sia questo «scopo – verrebbe da dire questa causa – che trasforma il generico consenso in affectio maritalis, distinguendo il matrimonio da tutti gli altri
tipi di unione stabile». Ma si può dubitare che lo scopo precipuo del
matrimonio romano sia quello di consentire ai coniugi la condivisione della dignitas. L’honor matrimonii è una manifestazione del consenso coniugale e non
il suo contenuto e qui è sembrato che il contenuto del consenso, cioè lo scopo
dell’affectio maritalis, consista nel
procreare ed educare figli legittimi. Lo scopo, assente nel concubinato, è
presente nel matrimonium iniustum e
attuato in quello iustum.
Il matrimonio, quale è stato qui definito e identificato
negli elementi costitutivi, è considerato in età classica oggetto di scelta
discrezionale da parte dell’individuo, sottoposta a limiti soltanto
nell’interesse della collettività organizzata a stato, essendo il matrimonio,
secondo la nota definizione di Cicerone (de
off. 1.17.54), principium urbis et
quasi seminarium reipublicae. Bisogna infatti distinguere i limiti che alla
libertà di sposare vengono portati per soddisfare un interesse pubblico da
quelli portati per soddisfare un interesse privato.
Per quanto riguarda i primi, è propria
della civiltà romana e sin dall’età preclassica la concezione secondo la quale
costituisce un onere del cittadino provvedere all’incremento demografico della res
publica mediante la contrazione del matrimonio e la procreazione di figli.
Il principio etico-sociale e politico si traduce in norme di diritto pubblico e
privato, cui viene necessariamente dato rilievo nel ricostruire la disciplina
del matrimonio durante la monarchia e la repubblica[79].
Per quanto riguarda il principato, il diritto è caratterizzato, sotto questo
aspetto, dalla promulgazione delle leggi matrimoniali augustee e dalla
successiva legislazione complementare, le cui norme, essenziali per la
delineazione della disciplina del matrimonio classico, saranno richiamate ai
loro luoghi nel corso di questo lavoro. Va tuttavia sin da ora rilevato come
siano qualificanti, nel contesto degli interventi autoritativi, la lex Iulia de mar. ord. del 18 a.C.,
completata dalla lex Papia Poppaea
nuptialis del 9 d.C. (lex Iulia et
Papia)[80],
con le quali Augusto, rinvigorendo i principi etico-sociali della repubblica,
persegue con sanzioni severe chi non sposa e non ha figli, impone divieti e
limiti nella scelta del coniuge e pretende una rigorosa condotta morale nelle
relazioni familiari, ricorrendo anche alle sanzioni penali della lex Iulia de adulteriis, pur essa, a
quanto sembra, del 18 a.C.
Per quanto riguarda i limiti posti alla
libertà matrimoniale al fine di soddisfare interessi privati, in età classica
si accentua invece il principio della loro illiceità, già presente negli ultimi
secoli della repubblica. Prendendo ora in considerazione la libertà di
contrarre matrimonio (per la libertà di scioglierlo cfr. § 52), il diritto
classico conferma l’invalidità della sponsio
con la quale si obbligano i fidanzati a contrarre matrimonio, secondo quanto
aveva stabilito Roma, prima fra le città del Lazio, almeno dal II sec. a.C. in
poi[81].
Il diritto classico ne rafforza infatti l’invalidità riconoscendola anche alla stipulatio con la quale si promette il
pagamento di una somma di denaro a titolo di pena in caso di rifiuto del
matrimonio. Così stabilisce la giurisprudenza dei Severi[82],
informando però che l’invalidità della stipulatio,
considerata contra bonos mores, è soltanto
pretoria, come è da credere che lo sia quindi stata anche la sponsio con la quale si prometteva la
stessa contrazione del matrimonio[83].
Sembra anzi che il diritto ufficiale di Roma abbia trovato difficoltà
nell'avversare la promessa contrattuale di matrimonio. Certamente trovò
difficoltà nel Lazio in cui, sino al 90 a.C., i giudici, applicando il diritto
locale, non ancora sostituito dalla cittadinanza e dal diritto romano (Gell.
4.4.3), solevano condannare chi rifiutava il matrimonio. Lo conferma la storia
della stipulatio poenae. La prassi di
inserirla nel contratto di fidanzamento è ancora attuale ai tempi dei Severi[84].
Esisteva persino l'abitudine, testimoniata da Celso, di promettere con stipulatio del denaro per farsi sposare:
mi prometti cento, se ti sposo? La condizione della stipulatio poenae è formulata negativamente: mi prometti cento, se
non mi sposi? Nel caso di Celso, la condizione è positiva. Però la limitazione
della libertà matrimoniale è praticamente la stessa. Celso consigliava il pretore
di invalidare sempre la stipulatio
con cui, promettendo denaro al futuro coniuge, se ne comprava il consenso.
Consigliava inoltre il pretore di invalidarla subito, mediante denegatio actionis. Non vi è neppure un
caso, per quanto raro, osserva il giurista, in cui lo scopo perseguito con una
simile stipulatio sia lecito. Le
preoccupate raccomandazioni del giurista lasciano però capire quanto radicata
fosse la prassi che egli combatte. Il testo di Celso è il seguente.
D. 45.1.97.2 Cels.26 dig. 222 "Si tibi nupsero, decem
dari spondes?" Causa cognita denegandam actionem puto, nec raro probabilis
causa eiusmodi stipulationis est. Item si vir a muliere eo modo non in dotem
stipulatus est.
Il frammento è divisibile in due parti.
Nella prima (sino a stipulationis est)
è fatto il caso in cui una donna, mediante stipulatio,
si faccia promettere dei soldi da un uomo, se essa lo sposerà: si tibi nupsero, decem dari spondes? Lo
scopo della donna è quello di ottenere del denaro, quale corrispettivo del
proprio consenso alle nozze. Secondo Celso, non potrebbe darsi neppure un caso,
per quanto raro, in cui lo scopo perseguito dalla donna mediante una simile stipulatio sia consentito (nec raro probabilis causa eiusmodi
stipulationis est). Ogni uomo ha diritto di sposare anche se non paga.
Perciò, se la creditrice, insoddisfatta, chiede al pretore di esperire l'actio ex stipulatu nei confronti del
debitore, il magistrato è in grado di risolvere la questione subito, in iure, respingendo la richiesta e
rifiutando l'azione (denegandam actionem
puto). Questa è l'opinione personale di Celso (puto), la quale non è vincolante o almeno Celso non la considera
tale. Spetta al pretore, nella sua discrezionalità, accoglierla o respingerla e
giudicare se sia lecito a una moglie costringere il marito a pagarla perché
l'ha sposato. Lo stesso Celso avverte che il magistrato deve decidere mediante causae cognitio (causa cognita). In quella sede giudica sull'opportunità di
disattendere l'editto e il ius civile,
negando l'actio ex stipulatu alla
creditrice. La causae cognitio è
perciò necessaria. Ma è anche sufficiente. Permette subito al pretore, se
decide che lo scopo della stipulatio
è illecito, di sanzionare l'illiceità mediante denegatio actionis. Il pretore non ha bisogno di nominare un
giudice, concedendo l'actio ex stipulatu
all'attore e l'exceptio doli al
convenuto, come può avvenire in casi analoghi.
Esaminata la prima parte del frammento,
si passa alla seconda. Celso vi propone il caso in cui sia l’uomo a farsi
promettere dalla donna, mediante stipulatio,
una somma di denaro, se la sposerà, e si faccia promettere questa somma non a
titolo di dote (si vir a muliere eo modo
non in dotem stipulatus est). Secondo Celso, ogni donna, come ogni uomo, ha
sempre il diritto di sposare e non le si può chiedere di pagare per esercitare
questo diritto. Perciò la stipulatio
che impone al coniuge di pagare l’altro perché l’ha sposato è illecita e lo è
sempre, chiunque sia il coniuge che pretende di essere pagato, si tratti della
moglie o del marito. La procedura consigliata da Celso è perciò la stessa della
prima parte del frammento. Il pretore decide mediante causae cognitio se ritiene illecito che il marito si faccia pagare
dalla moglie per averla sposata. Se lo ritiene illecito, è in grado di risolvere
subito la questione, impedendo al marito di agire contro la moglie per ottenere
il denaro promessogli[85].
Oltre che mediante un atto inter vivos, la libertà di contrarre
matrimonio può essere limitata con una disposizione mortis causa. Durante la repubblica era lecito limitare anche in
via assoluta la libertà matrimoniale altrui. Un testatore, ad esempio, poteva
validamente disporre un legato a favore di una persona, di solito la moglie,
condizionandolo alla circostanza che non risposasse. È vero che la struttura
della disposizione la rendeva inutilizzabile: si poteva essere certi che il
destinatario non si sarebbe sposato soltanto alla sua morte e quindi la
condizione si sarebbe avverata e il legato avrebbe prodotto effetti quando il
destinatario non avrebbe più potuto goderne. Ma si rimediò al difetto fingendo
che la condizione si avverasse subito. Quinto Mucio consigliò di consegnare
immediatamente il legato al destinatario, ma consigliò anche di invitarlo a
promettere mediante stipulatio che
l’avrebbe restituito, se si fosse sposato. Questa cautela prese il nome da chi
l’aveva suggerita e fu chiamata cautio
Muciana[86].
Si poteva inoltre disporre un legato a favore di una persona a condizione che
questa sposasse attenendosi al parere di un arbitro. Se l’arbitro era contrario
al matrimonio, il legato rimaneva senza effetti. La disposizione avrebbe dovuto
rimanere priva di effetti anche nel caso in cui l’arbitro fosse venuto a morire
prima di dare il suo parere: ad esempio fosse premorto al testatore. Servio
consigliò di non arrivare a una conseguenza così assurdamente rigorosa. Se il
legatario si sposava, egli aveva fatto quanto stava in lui perché la condizione
si avverasse. Era il fato, cioè la premorienza dell’arbitro, a impedire
l’avveramento della condizione. Perciò Servio ritenne conforme a equità
consegnare egualmente il legato al destinatario nel giorno delle nozze,
fingendo che la condizione si fosse puntualmente avverata[87].
Augusto con la lex Iulia et Papia corregge il diritto della repubblica, ponendo
limiti alla facoltà dei privati di attentare alla libertà matrimoniale mediante
disposizioni a causa di morte[88].
Bisogna distinguere l’ipotesi in cui
destinatario della disposizione sia il coniuge o sia un estraneo. Se è una persona
diversa dal coniuge la legge considera illecita la condizione cui la
disposizione sia subordinata e che tenda a impedire al destinatario qualsiasi
matrimonio[89].
La disposizione può essere una heredis
institutio[90],
un legato[91]
o, è da credere, di altra natura. La condizione illecita si ha per non scritta:
il lascito esplica gli effetti che produrrebbe se il destinatario avesse
adempiuto alla condizione[92].
Lo stesso è da dirsi se alla disposizione è apposto un modus (arg. da D. 35.1.71.1).
Il primo presupposto della regola è che
la disposizione limiti la libertà di contrarre matrimonio. È lecita ad esempio
la disposizione con la quale si provvede ai bisogni di una vedova, sinché
rimane tale (D. 33.1.22). Il secondo presupposto è che si limiti la libertà del
destinatario della disposizione. Perciò se si dispone un legato a favore di
Tizio a condizione che la vedova del disponente non risposi, Tizio non
conseguirà il legato, se la vedova risposa[93].
Occorre inoltre che si limiti la libertà nel senso di proibire il matrimonio.
Infatti è lecita la disposizione con la quale si favorisce il matrimonio del
destinatario (D. 35.1.72.4) o lo si induce addirittura a contrarlo con la
persona indicata dal testatore[94].
Bisogna, infine, che la proibizione sia assoluta. Infatti è consentito indurre
una persona a evitare un certo matrimonio o a evitare il matrimonio con
chiunque, all’infuori del coniuge scelto dal testatore, purché il partito sia
conveniente[95].
La diversità del nuovo regime classico
rispetto alla precedente disciplina repubblicana è mostrata con evidenza in un
testo di Papiniano.
D. 35.1.72.4 Pap. 18 quaest. 272 “Si arbitratu Titii Seia
nupserit, heres meus ei fundum dato”. Vivo Titio etiam sine arbitrio Titii eam
nubentem legatum accipere respondendum est eamque legis sententiam videri, ne
quod omnino nuptiis impedimentum inferatur. Sed si Titius vivo testatore
decedat, licet condicio deficit, quia tamen suspensa quoque pro nihilo foret,
mulieri succurretur.
Papiniano riesamina la fattispecie già
oggetto di considerazione da parte della giurisprudenza repubblicana: lego un
fondo a Seia, se sposa secondo il parere di Tizio. La soluzione che egli
propone è però diversa da quella repubblicana, perché tiene conto della norma
introdotta dalla lex Iulia et Papia.
Papiniano coglie esattamente la sostanza della norma, quando scrive che essa
non vuole si privi totalmente una persona della libertà matrimoniale (eamque legis sententiam videri, ne quod
omnino nuptiis impedimentum inferatur). Infatti quando si subordinano le nozze
al consenso di un arbitro, si toglie ai nubendi ogni facoltà di decidere
liberamente. Perciò la condizione «se Seia sposa secondo il parere di Tizio» è
illecita nella parte in cui fa riferimento all’arbitrio di Tizio. Questa parte
è come se non fosse scritta (pro nihilo
foret) e la condizione si riduce al solo matrimonio di Seia: se si sposa,
avrà diritto al legato. Ne deriva che se Tizio sopravvive al testatore, Seia
conseguirà il legato anche se l’arbitro si è opposto al suo matrimonio (vivo Titio etiam sine arbitrio Titii eam
nubentem legatum accipere respondendum). Ne deriva inoltre che se l’arbitro
non può consentire, perché è premorto al testatore, il giorno del matrimonio
Seia avrà egualmente diritto al legato (si
Titius vivo testatore decedat… mulieri succurretur). Anche Servio, lo si è
visto, arrivava a quest’ultima conclusione, ma per un’altra via: fingeva che la
condizione si fosse avverata. Papiniano, invece, dichiara espressamente che la
condizione è mancata (licet condicio
deficit). Ciononostante il legato è efficace, perché la condizione, nella
parte in cui fa riferimento all’arbitrio di Tizio, è illecita e quindi come non
apposta (quia tamen suspensa quoque pro
nihilo foret)[96].
La lex
Iulia et Papia, considerando illecita la disposizione m.c. soltanto se toglie in assoluto la facoltà del destinatario di
contrarre matrimonio, considera valida la disposizione con la quale si
favorisce il matrimonio del destinatario con una persona indicata, se del caso,
dallo stesso disponente. Tuttavia la giurisprudenza classica non vi vede una
limitazione della libertà matrimoniale del destinatario e una contraddizione
con l'invalidità pretoria della stipulatio
con la quale si infligge una sanzione pecuniaria a chi rifiuta di sposare una
persona scelta dallo stipulante. Un conto infatti è favorire la formazione di
una famiglia mediante un contributo patrimoniale, in conformità alla politica
demografica della lex Iulia et Papia,
e un conto punire, usando del proprio giudizio, chi rifiuta di formarsi una
famiglia con la persona scelta da altri. Lo spiega ancora una volta Papiniano,
in un testo la cui ultima parte, se non ha lezione certa, è però
sostanzialmente corretta.
D. 35.1.71.1 Pap. 17 quaest. 264 Titio centum relicta sunt
ita, ut Maeviam uxorem quae vidua est ducat: condicio non remittetur et ideo
nec cautio remittenda est. Huic sententiae non refragatur, quod, si quis
pecuniam promittat, si Maeviam uxorem non ducat, praetor actionem denegat:
aliud est enim eligendi matrimonii poenae metu libertatem auferri, aliud est ad
testamentum certa lege invitari.
Il modus
imposto al legatario di sposare Mevia è lecito: la lex Iulia et Papia non lo considera pro non scripto (condicio non
remittetur). Quindi la stipulatio
con la quale il legatario promette all'erede di sposare Mevia, se gli sarà
consegnata la somma legata, è lecita e valida anche per il ius honorarium (nec cautio
remittenda est). Il ius honorarium
non considera invece lecita e valida la stipulatio
con la quale si promette la stessa somma qualora non si contragga matrimonio
con Mevia (praetor actionem denegat).
Lo stipulante intende infatti punire chi non contrae matrimonio e togliergli la
libertà di decidere minacciandolo con una sanzione pecuniaria (aliquid est enim eligendi matrimonii poenae
metu libertatem auferri). Invece il testatore intende provvedere il
legatario di quanto gli è utile per contrarre matrimonio (aliud est ad testamentum certa lege invitari). Non vuole punirlo ma
arricchirlo. Se una disposizione fosse presa per punire chi non sposa, essa
sarebbe poenae nomine relicta e
quindi nulla iure civili[97].
Finora si è presupposto che la persona
cui il testatore con una disposizione limita la libertà matrimoniale non sia il
coniuge. Se lo è, la condizione di restare vedovi (condicio viduitatis) rimane lecita e la disposizione valida anche
dopo la lex Iulia et Papia. La
condizione di vedovanza si adempie sicuramente soltanto alla morte del coniuge
superstite: si ha perciò bisogno di ricorrere ancora alla cautio Muciana. Il coniuge superstite, lo si è visto, ottiene
subito il lascito, ma promette con stipulatio
di restituirlo, se sposa. La lex Iulia et
Papia riconosce lecita la condicio viduitatis, perché vuole
rispettare il desiderio del coniuge superstite di mantenersi fedele alla memoria
del defunto. Ma se egli non intende farlo, la lex Iulia et Papia non
solo non ha motivo di ostacolarlo, ma ha anzi interesse a favorirlo. Perciò
stabilisce che se si risposa entro un anno, può conseguire subito e
definitivamente il lascito. Quindi, vigente la lex Iulia et Papia, se il coniuge superstite sposava entro l'anno,
conseguiva il lascito per non più restituirlo; se non si sposava entro l'anno,
conseguiva egualmente il lascito, ma lo doveva restituire passando a nuove
nozze. Il matrimonio entro l'anno diveniva così la condizione, verificandosi la
quale la legge permetteva al lascito di esplicare effetti definitivi in testa
al coniuge superstite. Da qui un pericolo: il coniuge superstite poteva essere
indotto al matrimonio non dalla volontà di perseguire gli scopi naturali, cioè
la procreazione, ma dal desiderio di conseguire definitivamente il lascito: il
che avrebbe frustrato gli intenti della legge. Perciò essa stabilì che quando
il coniuge superstite sposava entro l'anno, doveva giurare di farlo quaerendorum liberorum causa. Il
giuramento veniva imposto anche se erano nati figli dal matrimonio precedente
(Nov. 22.43).
La vedova doveva rispettare il tempus lugendi. Non si conosce il
rapporto fra tempus lugendi e l'anno
stabilito dalla lex Iulia et Papia.
Non si conosce cioè da quando cominciava a decorrere questo anno e se
coincideva in parte o non coincideva affatto con il tempus lugendi. In ogni caso non vi è nessun motivo per supporre
che la lex Iulia et Papia non abbia
tenuto conto, nel fissare l'anno, del tempus
lugendi. Ne tiene conto, ad esempio, quando stabilisce per la vedova una vacatio legis di un anno, prorogata poi
a due (Ep. Ulp. 14)[98].
La disciplina era la stessa tanto per il
vedovo che per la vedova, anche se la condicio
viduitatis era solitamente prevista per le donne[99].
La disposizione cui la condicio
viduitatis era apposta poteva dar luogo a successione universale (D.
36.1.67.1), ma di regola si trattava di quella che dava luogo a una successione
a titolo particolare: tipico il legato di usufrutto[100].
Sposando entro l'anno e giurando, la donna conseguiva subito e definitivamente
soltanto quello che avrebbe conseguito, se avesse adempiuto alla condizione: tantum… beneficium legis ex legato concessum
esse mulieri intellegendum est, quantum haberet, si condicioni paruisset[101].
Presupposto per l'applicazione della regola era che il testatore intendesse
limitare la libertà matrimoniale del coniuge superstite. Non era questo il
caso, se, ad esempio, egli provvedeva ai bisogni della vedova fino a che non si
fosse risposata (C. 6.40.3.2). Occorreva, inoltre, che il destinatario del
lascito fosse il coniuge superstite: era lecita la disposizione a favore di un
estraneo condizionata alla vedovanza della moglie del testatore[102].
Occorreva, infine, che il testatore intendesse imporre al coniuge superstite
una vedovanza assoluta e definitiva. Era lecito, ad esempio, impedire alla
vedova di trascurare i figli ancora piccoli per passare a nuove nozze, ma non
si poteva imporle di rimanere vedova sino a che vi fossero figli in vita[103].
In questo paragrafo si è sempre
attribuita ad Augusto e alla lex Iulia et
Papia la disciplina della condicio
viduitatis imposta al coniuge superstite e vigente durante il principato.
Per l'esattezza il Digesto parla genericamente di lex, senza precisare quale sia. Il Codice invece specifica che si
tratta di una lex Iulia miscella.
Comunemente si considera l'aggettivo miscella
corrispondente, nel significato, all'aggettivo satura: una legge, cioè, che disciplina non un solo argomento, ma
più, come appunto la lex Iulia de mar.
ord. Ragione per cui è antica e diffusa l'opinione che sarebbe stata questa
legge a introdurre la disciplina della condicio
viduitatis imposta al coniuge superstite e per completamento anche quella
regolante la condicio viduitatis
imposta all'estraneo. Pure le Novelle menzionano una lex Iulia miscella, ma spiegano l'aggettivo miscella supponendo, probabilmente per ignoranza, che si tratti di
una legge fatta approvare da un improbabile Iulius
Miscellus, menzionato qui per la prima e unica volta.
[1] Sul testo AA.VV., La definizione essenziale giuridica del
matrimonio 1980 con bibl.; adde Triantaphyllopoulos, Mélanges Deliyanninomos 1991, 53; per la
genuinità del testo in part. Robleda, Matrimonio 59. Nel seguito ulteriori
citazioni bibl.
[2] Albertario, Studi di
dir. rom. 1,183. Ne dubita ad es. Rizzelli,
Studi Grelle 2006, 220 n. 31, che
invece sottolinea il rapporto con Plut. coniug.praecepta
34 a proposito della concezione del matrimonio quale consortium omnis vitae.
[4] Tale è il parere comune della
romanistica moderna. Una rassegna bibl. esemplificativa in Robleda, Matrimonio 63. Per il perseguimento dell’onere della procreazione
nella legislazione e nella giurisprudenza classica cfr. Astolfi, Lex, passim
(per una sintesi Cap. XVII).
[6] In arg. Peter, RIDA 38,
1991, 285 con citazione di fonti giuridiche e no. Per l’età preclassica Astolfi, Matrimonio 11.
[7] L’attestazione può anche essere
giurata. Ciò avviene in età preclassica, quando il censore richiedeva che il
censito giurasse uxorem se liberorum quaerendum gratia
habiturum (Gell. 4.3.2; cfr. anche Gell. 4.20.3; Cic. de orat. 2,64,260; Liv. ep. 59).
Così avveniva in età classica. Una Lex
Iulia, probabilmente quella de mar.
ord., consentiva alla vedova, cui il marito avesse lasciato un legato a
condizione che non risposasse, di conseguire la disposizione se giurava di
contrarre matrimonio liberorum
procreandorum causa (§ 2): cfr. C. 6,40,2 e 3; Nov. 22,43 e 44; Astolfi, Lex § 46.
[8] Di conseguenza è comunemente
respinto il sospetto di itp. di questo testo avanzato da Biondi, Il diritto romano cristiano 3, 1954, 77.
[10] Astolfi, op. loc. citt.;
Franciosi, La famiglia romana 2003, 170 dissente sul rilievo qui attribuito al
ius civile in età arcaica.
[11] Castello, La
definizione di matrimonio secondo Modestino, Atti Colloquio
romanistico-canonistico (febbraio 1978), in Utrumque ius 4, 1979, 267 insiste sugli aspetti religiosi delle
cerimonie nuziali, benché non le ritenga essenziali alla contrazione del
matrimonio.
[12] Attribuiscono invece alla
definizione un contenuto tendenzialmente generale, onnicomprensivo di qualsiasi
rapporto stabile fra un uomo e una donna, ad es. Quadrato, Index 38,
2010, 250 (compreso il concubinato: 237); Fiori,
BIDR 105, 2011, 227. Ma Gordiano,
come si è visto (C. 9.32.4 pr.) si rifà alla divini et humani iuris communicatio di Modestino per escludere,
nell’ambito di un matrimonium
necessariamente iustum, che possa
essere imputata del crimen expilatae
hereditatis la vedova quae socia rei
humanae atque divinae domus suscipitur.
[14]
Gai. 3.194; cfr. Giaro, in
AA.VV., Marriage: Ideal-Law-Practice,
Procedings of a Conference held in Memory of H. Kupiszewski, Warsaw 2005,
98.
[16] Apollonio di Tiana: cfr. Mantello, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di
Paolo 1993, 70.
[19] Non quindi ai soli cives romani. Così ad es. Marotta, in AA.VV., Testi e problemi del giusnaturalismo romano
2007, 597.
[20] Pure Quadrato, op.cit.
224-230 conclude l’esame di D.1.1.1.3 negando che Ulpiano faccia riferimento al
solo matrimonium iustum. Si avvale a
questo scopo anche di Theoph. par.
1.2pr.
[22] Qui § 36. I testi che ripetono e
confermano la nullità assoluta del matrimonio della figlia del senatore sono
elencati nella nota 227 di pag. 264: cfr. in particolare D.23,2,27;
D.23,2,16pr.; D.24,1,3,1; D.1,9,9; D.23,2,34,3; quelli relativi al matrimonio
del funzionario provinciale nella nota 149 di pag. 227: cfr. in particolare
D.23,2,63; D.24,1,3,1; D.23,2,17. Quadrato,
op.cit. 232 ritiene che con la
proposizione si aliquod impedimentum
interveniat ne sit omnino matrimonium, Ulpiano allude in generale a un
“matrimonio imperfetto, solo perché inficiato da qualcosa”.
[23] Forse volutamente a opera dei
Compilatori, che sulla sorte della donazione nei matrimoni proibiti si avvalgono
delle disposizioni generali di una costituzione di Teodosio I (C.5,5,4). Gia Mommsen, ad h.l., si era lamentato della lezione del testo e Lenel, Pal. ad h.l. ha tentato di migliorarla, ponendo un punto
interrogativo al termine della frase quia
nuptiae non sunt. Ulteriore bibl. sul testo qui § 41, nota 255 di pag.
283.
[27] Sembra perciò eccessivo supporre
con Solazzi, Scritti 2, 404 che nell’originale classico, modificato
dall’epitomatore postclassico, si contrapponesse il caso in cui il consenso
degli sposi era necessario, perché sui
iuris, al caso in cui non lo era, perché la sposa si trovava in potestà del
padre. Sulla questione cfr. qui § 20.
[29] Gaudemet, Iustum
matrimonium, RIDA 2, 1959, 321 ritiene la definizione dell’epitomatore postclassico
un accostamento non rigorosamente corretto dei presupposti richiesti dal
matrimonio classico.
[32] Continua esemplificando: «la
proprietà non è un istituto di fatto solo perché il proprietario usa della sua
cosa, né varrebbe una vendita, da cui le parti escludessero la consegna della
cosa».
[33] Recentemente ad es. Giunti, Consors vitae 2004, passim
insiste sulla necessità che la moglie resti nel domicilio coniugale (cfr. qui
ad es. § 3 note 14 e 21; § 12 note 112; 115; 116; 130; § 52 nota 3; § 53 nota
29; pure Sanna, Matrimonio e altre situazioni matrimoniali
nel diritto romano classico 2012, specialmente pagg. 57 ss.; 75 ss.,
considera essenziale la convivenza dei coniugi, con particolare riferimento al
matrimonio dei prigionieri (qui § 59). Cfr. ancora Giunti, Studi Guizzi
2, 2013, 879, che intende mostrare la compatibilità storica e dommatica della
concezione del matrimonio quale res facti
con la regolamentazione giuridica in particolare della lex Canuleia e delle leggi matrimoniali di Augusto.
[36] Nega in generale la distinzione
ad es. Di Paola, Contributi ad una teoria dell’invalidità e
della inefficacia in dir. rom. 1966, 12; 72; 86, criticando l’opinione
diversa di Mitteis, Röm. Privatr.bis auf die Zeit Diokletians 1, 1908,
249.
[39] Matrimonio (a.1970) 100 n. 114: “Lo mismo que en el caso de
matrimonio ante pubertatem, en que defecta el fin: filiorum procreandorum causa”.
[40] D. 23.2.27; D. 23.2.65.1; Huber, Ehekonsens 117 vi aggiunge il matrimonio con l’impubere (D. 23.2.4):
nullo, diviene efficace al compimento della pubertà.
[42] Problemi romani e problemi romanistici in tema di matrimonio, in
AA.VV., Marriage: Ideal-Law-Practice,
Procedings of a Conference held in Memory of H. Kupiszewski, Warsaw 2005,
83 ss.
[43] Nella Raccolta cit. nella nota
precedente, 7 ss., dal titolo Sessualità
riproduttiva e cultura cittadina. Il matrimonio romano fra spiritualità
preclassica e consensualismo classico. Nella medesima Raccolta, 235 ss,. un
excursus sul rilievo del consenso nel
matrimonio secondo la romanistica moderna, tracciato da Zablocki, Consensus
facit nuptias.
[46] Fiori, op. cit. 210
ss. ne dubita, perché Ulpiano avrebbe già trattato di queste ipotesi nel
precedente § 1 del frammento. Per la verità il § 1 tace delle cause per cui il
matrimonio è invalido; e la possibile interpretazione di Lenel, che tra di esse
possa esservi la carenza del conubium,
non esclude a priori che l’argomento
venga esaminato specificatamente nel successivo § 4. Opinione diversa ha Sanna, op. cit. 150. Essa ritiene che i matrimonia iniusta menzionati da Ulpiano nel § 1 del frammento non
siano quelli carenti di conubium,
perché l’uxor è peregrina. Il giurista scrive dopo che Caracalla ha concesso la
cittadinanza e quindi il conubium ai peregrini. Sarebbero matrimonia iniusta perché, ad esempio,
vietati, come quelli del successivo § 2, dalla lex Iulia et Papia. Questo però non impedirebbe che i matrimonia del § 4 del frammento siano iniusta per carenza di conubium, sia pure a causa di una
ragione diversa dall’essere i coniugi peregrini.
[47] Con le parole di Gai.1.59 nuptiae contrahi non possunt si indica
il crimen incesti e con le parole conubium non est l’essere il matrimonium iniustum per carenza di conubium. Fiori, op. cit. 210
ritiene che sia piuttosto la prima di queste due proposizioni a indicare con
proprietà e per importanza la causa della nullità del matrimonio incestuoso, anzi
dell’inesistenza stessa di una simile unione, la quale non potrebbe essere
qualificata neppure come matrimonium
iniustum. Infatti Gai.1.64 parificherebbe i soli figli nati da questa
unione addirittura a quelli vulgo
concepti (cfr. ancora op. cit.
220; 224). Si può però osservare come in Coll.
6.2.1 sia recisa l’affermazione che la causa di invalidità è la carenza di conubium: inter parentes et liberos cuiuscumque gradus sint, conubium non est.
Inoltre, lo si è già osservato, vi sono altri casi in cui un matrimonium è qualificabile come iniustum, benché i suoi contraenti siano
inoltre puniti con sanzioni penali. Infine non si può escludere che anche i
figli nati da queste unioni siano, secondo Gaio, parificabili ai filii vulgo concepti o spurii che dir si voglia (qui pag. 37).
[48] Non così Fiori, op. cit. 219
e chi lo segue. Come nel caso del funzionario provinciale, anche nel caso del
tutore, se un vizio inficia il matrimonio non sarebbe, secondo Fiori, la
carenza di conubium, ma riguarderebbe
la corretta formazione della volontà della sposa; inoltre Fiori osserva che si
potrebbe dubitare dell’invalidità del matrimonio, perché la moglie avrebbe la capacitas di succedere al marito. In
argomento si rimanda qui al § 32 e in particolare, ancora una volta, alla nota
169 di pag. 234. Le fonti che confermano la nullità del matrimonio del tutore
sono enumerate nella nota 163 di pag. 232; cfr. in particolare D. 23.2.66 pr.;
D. 25.2.17 pr.; D. 48.5.7; C. 5.6.6 pr.; C. 5.16.7. Un’ultima ipotesi di
adulterio commesso durante un matrimonio invalido per carenza di conubium è quello della sposa captiva. Ne tratta Ulpiano nel § 7 di D.
48.5.14. Il ius postliminii concesso
eccezionalmente alla donna tornata in patria ridà validità al suo matrimonio
anche durante la prigionia e quindi consente al marito di perseguire
l’adulterio addirittura iure viri. Il
tutto è riprodotto e studiato qui nell’esame unitario della materia (§ 59).
[49] Invece ad es. Fiori, op. cit. 211 non esclude nel testo di D. 48.5.14.4 già un
riferimento al matrimonio dell’impubere e Sanna,
op. cit. 168 a quello mancante
dell’assenso del padre della sposa.
[50] Cfr. ad es. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis 1997, 197 con bibl. Non manca chi ritiene
potesse essere proponibile addirittura un’accusatio
iure viri e si discutesse in proposito: così Sanna, op. cit.
166.
[52] Lo confermano in particolare i
testi citati nella nota 23 di pag. 294: ad es. D. 12.4.8; D. 24.1.65; D.
36.2.30; D. 23.1.9; D. 24.1.32.27; D. 42.5.17.1.
[53] L’esegesi degli ultimi due passi
di Ulpiano qui citati è approfondita nel § 35, pagg. 256-259, dove si esaminano
anche interpretazioni diverse da quella ora proposta. Ad es. Fiori, op. cit. 206 ammette che i figli, iniusti secundum leges, possano essere iusti secundum ius civile; però al marito sarebbe sempre negata l’accusatio iure civili. Contraria
l’opinione di Sanna, op. cit. 101: i figli iniusti secundum leges sarebbero sempre
illegittimi, ma l’accusatio del
marito avverrebbe sempre iure viri. Per
entrambi quindi, sia pure in termini opposti, la disciplina del matrimonium contra leges non
coinciderebbe con quella del ius civile.
[56] Il testo tace sul punto se l’accusatio fu iure viri o iure extranei.
Un prudente equilibrio fra le due concezioni del fidanzamento classico
(promessa e prefigurazione del matrimonio) suggerisce sì l’incriminazione per
adulterio, però con il limite dell’accusatio
iure extranei. Lo confermano D. 48.5.14.8; Coll. 4.6.1. Per sostenere invece che in età classica l’accusatio avveniva iure viri si cita D. 48.5.12.7 e C. 9.9.7. Ma nel primo testo non
vi è adulterio: sposando un uomo diverso dal proprio fidanzato si risolve
implicitamente il fidanzamento (qui § 29 pag. 219). Anche nel secondo testo non
vi è adulterio, perché la fidanzata subì violenza (…violatam virginem…puella violata). L’iniuria, quale crimen,
sarebbe perseguibile dal fidanzato extra
ordinem (Astolfi, Fidanzamento 126; Botta, Legittimazione, interesse ed incapacità all’accusa nei publica iudicia
1996, 362 con bibl.).
[57]
Diversa interpretazione del passo in Meyer,
Der römische Konkubinat nach den
Rechtsquellen und den Inschriften 1895, rist. 1966, 38.
[58] Cfr. in particolare Luchetti, La legittimazione dei figli naturali nelle fonti tardo imperiali e
giustinianee 1990, 11 con bibl. Ivi alla nota 2 di pag. 3 l’elenco delle
fonti giurisprudenziali in cui l’aggettivo naturalis
indica un rapporto di parentela.
[59] Lo confermerebbe (cfr. Stiegler, Studi Biscardi 4, 495; Sodalitas.
Studi Guarino 7, 3198) D. 38.10.7 Scaev. 4 reg. Privignus etiam is est,
qui volgo conceptus, ex ea natus est quae postea mihi nupsit, aeque et is qui, cum
in concubinatu erat mater eius, natus ex ea est eaque postea alii nupta sit.
Di contrario avviso Fiori, op. cit. 224 n. 157, il quale però vi
respinge giustamente ogni sospetto di interpolazione.
[61] Al testo di Gaio sono state date
interpretazioni contrastanti. Da segnalare quelle di Mispoulet, Du nom et de
la condition de l’enfant naturel romain, in AHDFE 9, 1885, 32 e nota 1, il quale ritiene che Gaio conforti la
regola classica della assoluta irrilevanza dei figli illegittimi nei confronti
del padre. È come se il padre non li avesse procreati (tales sunt quales etc.). Opposta l’interpretazione di Fiori, op. cit. 224. Legge nel testo di figli spurii, quasi vulgo concepti e quindi non di identità, ma di sola
parificazione fra questi e gli incestuosi. La parificazione sarebbe dovuta
eccezionalmente alla “mostruosità” dell’unione dei genitori, con la
conseguenza, come si è già rilevato, che il loro rapporto non sarebbe
qualificabile neppure come matrimonium
iniustum, ma rientrerebbe nella categoria dei matrimoni inesistenti,
mancando in assoluto qualsiasi unione (op.
cit. 209; 220).
[62] Così Fiori, op. cit.
225. Egli affianca al testo di Ulpiano uno di Paolo, tratto da quarto libro del
commento all’Editto (D. 2.4.5), dove si legge che la madre evita sempre la in ius vocatio del figlio, etiam in volgo conceperit, mentre il
padre soltanto si est, quem nuptiae
demonstrant. Fiori è del parere che in questo testo niente impedisce di
ritenere che le nuptiae siano tanto iustae che iniustae. Ma, a dire il vero, niente vi è, almeno mi sembra, per
ritenere il contrario e dare ragione a Gide, da lui citato (NRHDFE 4, 1988, 226 n. 170), che
limitava la menzione delle nuptiae a
quelle iustae. Tanto è necessario, se
l’intenzione del giurista è quella di porre in evidenza la differenza fra cognatio e agnatio, rapporti di sangue che in caso di procreazione hanno, come
manifestazioni estreme, l’uno la procreazione casuale, l’altro quella
giustificata soltanto da nuptiae che
non possono essere se non iustae.
[64] Ho pensato, cioè, a quei figli
cui si riferisce, invece, Vat. frag.168, qui commentato a pag. 256. Così ad es.
Corbett, The roman Law of Marriage 1930, 39 n. 1; Nardi, La reciproca
posizione successoria dei coniugi privi di conubium 1938, 29 n. 2; Solazzi, Scritti 4, 83 n. 8; 363, che suppone la caduta delle parole secundum legem Iuliam et Papiam.
[68] In argomento Viarengo, L’excusatio tutelae nell’età del Principato 1996, 68 con bibl. Vi è
chi ritiene che in Vat. frag. 168 Marco Aurelio e Lucio Vero fossero del parere
di Modestino. Tuttavia gli imperatori avrebbero negato che i figli, iusti secundum ius civile, dovessero
esserlo anche secundum legem Iuliam et
Papiam. L’esegesi del passo è qui, come si è segnalato, a pag. 256.
[73] Sul testo cfr. le considerazioni
precedenti di questo paragrafo e in modo particolare quelle del § 35.
[74] Qui, in questo paragrafo,
l’esegesi del passo a pagg. 28 ss. Il frammento non prenderebbe in
considerazione anche il matrimonio dell’impubere come invece Fiori ritiene:
cfr. qui, in questo paragrafo, nota 49.
[77] Pagg. 28 ss.; ivi i rinvii
specifici ai §§ 31 e 32, ove gli argomenti sono trattati organicamente, con
rilievi, nelle note, allo scritto di Fiori.
[83] D. 45.1.134 pr. Paul. 15 resp.; sul testo bibl. in Bartocci, Spondebatur pecunia aut filia 2000, 67 n. 150. Paolo concede l'exceptio doli al convenuto mediante actio ex stipulatu. Quindi anche la denegatio prevista da Papiniano in D.
35.1.71.1 è il mezzo processuale con il quale pretore paralizza l'actio ex stipulatu. La parte finale di
D. 45.1.134 pr. (quia inhonestum visum
est…) proclama in via generale l'illiceità di ogni vincolo penale alla
libertà di matrimonio. Può darsi sia itp. (cfr. Voci, Le obbligazioni
romane 1969, 174), ma se lo è, lo è per ragioni formali. Per la classicità
anche Cerami, in AA.VV., L’eccezione di dolo generale 2006, 162.
[85] L’esegesi ora proposta del passo
di Celso diverge da quella corrente (cfr. Cerami,
La concezione celsina del ius 1958,
53 con bibl., cui adde Sacconi,
Ricerche sulla stipulatio 1989, 135; Giaro, ZSS 108, 1991, 488 n. 9). Se ne veda una critica in Astolfi, ZSS 111, 1994, 444; Fidanzamento
48. Qui ci si limita a osservare quanto segue. Nella seconda parte del passo di
Celso, in cui è la donna a promettere, la questione di fatto, quale sia lo scopo
della stipulatio, è data per risolta:
non la costituzione di dote, ma l’acquisto del consenso alle nozze.
Conseguentemente Celso non può proporre al pretore se non una questione di
diritto: la liceità dell’acquisto del consenso alle nozze. Ma se Celso propone
una questione di diritto nella seconda parte del passo, non può non proporla
anche nella prima, dove a promettere è l’uomo e l’unico scopo a essere
perseguito è l’acquisto del consenso alle nozze. I due casi, le due parti del
testo sono unite da item, che sta
appunto a indicare come ciò che vale per un caso, per una parte del testo,
valga anche per l’altro. Non attribuisce a item
questo significato Metro, in
AA.VV., L’eccezione di dolo generale
2006, 407 n. 43. Perciò insiste nel ritenere che in ordine alla stipulatio della prima parte del testo
il pretore non risolva una questione di diritto, creando, causa cognita, una norma di ius
honorarium. Si limiterebbe a risolvere una questione di fatto, accertando
la finalità della fattispecie e applicandole, di conseguenza, una norma di ius civile: l’illiceità della stipulatio sarebbe civile e non
pretoria. Sul testo cfr. anche Ferretti,
Le donazioni tra fidanzati nel dir.rom.
2000, 24.
[86] Voci, Dir. ered. rom.
2, cit., 604, cui si rimanda anche per il problema della estensione della cautio Muciana a disposizioni diverse
dal legato.
[87] D. 35.1.28 pr.; D. 30.54.1, ove
sembra sia andata perduta la proposizione reggente Servius ait. Questo tipo di adempimento fittizio di condizione era
applicato da Trebazio alla manomissione: D. 40.7.39.4; Voci, op. cit. 2,
598.
[88]
Astolfi, Lex,
cap. VIII con bibl.; adde Dajczak, in Estudios de Historia del Derecho Europeo, Homenaje al prof. G. Martinez
Diaz 1, 1994, 119.
[92] D. 35.1.72.4. Quindi se, ad
esempio, oltre alla condizione illecita è apposto un termine, occorre attendere
la scadenza del termine: D. 35.1.72.5.
[93] C. 6.40.1. Però, se il legatario
è parente della vedova o l’abbia addirittura in potestà, può ostacolarne il
matrimonio. Papiniano reputa illecito il legato, perché disposto al fine di
conseguire fraudolentemente questo risultato (D. 35.1.79.4).
[94] A meno che questa persona non
possa essere sposata per ragioni obiettive: D. 35.1.63.1; D. 35.1.71.1; C.
6.25.1; C. 6.25.2 pr.
[96] Papiniano applica la regola,
secondo la quale la condizione illecita, o parte di essa, pro non scripta habetur. Non può, perciò, considerare il legato in causa caduci, quando l’arbitro Tizio
premuore al testatore. Lo afferma invece il Solazzi,
SDHI 6, 1940, 165; Scritti 6, 542. Conseguentemente sono
privi di fondamento i sospetti di profonde alterazioni da lui nutriti in ordine
a D. 30.54.1 e D. 35.1.8 pr. Data l’esegesi ora condotta di D. 35.1.72.4 è
sicuramente da respingersi la ricostruzione fattane da Beseler, ZSS 45,
1925, 448. Sul testo anche Donatuti,
SDHI 3, 1937, 140; Studi 625; Cosentini, Condicio
impossibilis 1952, 109; Masi,
Studi sulle condizioni nel dir. rom.
1966, 236 n. 33.
[97] Gai. 2.243; Forzieri Vannucchi, Studi sull'interpretazione giurisprudenziale
romana 1973, 7 con bibl.; altra in Bartocci,
op. loc. citt. (n. 83).
[98] Non sembra giustificato dubitare
delle notizie fornite in proposito da Nov. 22.43. Invece Krüger, Mélanges Girard 2.8 ss. muta l’anno ivi menzionato in biennio e Humbert, Le remariage à Rome 1972, 165 immagina che, iniziato il tempus lugendi, la donna avesse un anno
di tempo non per sposare, ma per giurare che avrebbe sposato quarendorum liberorum causa, una volta
trascorso l'anno. L'ipotesi di Humbert rende inoltre difficile la comprensione
dei testi del Digesto che prevedono l'acquisto del lascito con il matrimonio
della vedova oppure costringe in certi casi a ritenerli addirittura
interpolati. Sulla condicio viduitatis
cfr. anche Mette-Dittmann, Die Ehegesetze des Augustus 1991, 136.
[101] D.
35.1.74 Pap. 32 quaest. 1
ad l. I. et P.
369. Una particolare applicazione della regola può vedersi in D. 35.1.100 Pap.
7 resp.
[103] D. 35.1.62.2 Ter. Clem. 4 ad l. I. et P. 14. La decisione è di
Giuliano. Non sembra che D. 35.1.8 fornisca elementi sufficienti e sicuri per
supporre un contrasto di opinioni fra giuristi. Per un approfondimento del
regime classico e per il regime giustinianeo della condicio viduitatis cfr. Astolfi,
Lex, § 46; Studi sul matrim. 255.