Sapienza-Università di Roma
ZACCHEO,
CAPO DEI PUBBLICANI DI GERICO,
E LA
PENA ROMANA DEL QUADRUPLO (CONTRO GLI USURAI) *
Sommario: 1. Luca
19.1-10. – 2. Zaccheo,
pubblicano di Gerico (e non solo). – 3. I pubblicani.
– 4. Zaccheo,
capo dei pubblicani. – 5. L’autoaccusa di Zaccheo. – 6. Il furto è colpa di
Zaccheo? – 7. Zaccheo, gli
usurai e il diritto romano.
Un brano del Vangelo di Luca
costituisce un passaggio importante per affrontare il discorso del
rapporto(-scontro) tra diritto e usura nel corso del I secolo d.C. nelle
province romane, con particolare riguardo alla Giudea[1].
Importante per due motivi: innanzitutto per le suggestioni, e non solo di
ordine religioso, che tale brano notoriamente suscita, e poi per il valore che
attraverso esso viene attribuito al diritto romano, pur in un contesto così
distante, sotto vari profili, da quello in cui tale diritto ha avuto origine.
Mi occuperò, quindi, di suggestioni e di valori, col proposito di approfondire,
in altra sede però, le conclusioni cui perverrò e le argomentazioni che
produrrò.
Orbene, si tratta di un brano
evangelico molto noto. Vi si racconta la storia del pubblicano Zaccheo,
descritto come un uomo di statura particolarmente bassa, ma animato dall’alto
desiderio di vedere Gesù nel suo transito sulle vie di Gerico; desiderio così
elevato da spingerlo ad arrampicarsi su un albero (un sicomoro), per fruire di
una visuale migliore. In verità è poi Gesù a richiamare l’attenzione di Zaccheo
per chiedergli di scendere dal sicomoro e di ospitarlo in casa sua. Il nostro
pubblicano, che non è solo tale ma è, per di più, il «capo dei pubblicani»,
mentre Gesù è ospite nella sua casa, compie una professione di fede e, facendo
ammenda delle sue colpe, così conclude: «[…] e se ho frodato qualcuno,
restituisco quattro volte tanto»[2].
Tra gli studiosi, sembra proprio che
solo i biblisti abbiano mostrato interesse per questo brano del Vangelo di
Luca; infatti, non v’è traccia di interessamento da parte dei giuristi, e
specialmente dei giusromanisti. E ciò desta in me un poco di meraviglia, perché
nel testo emergono profili giuridici di non poco rilievo; primo fra tutti la
“pena” del quadruplo che Zaccheo infligge a se stesso.
A proposito di questa pena, nel
“silenzio” dei giuristi sono appunto gli studiosi biblisti che chiamano in
causa il diritto romano: Zaccheo avrebbe applicato a se stesso non la Legge di
Mosè, o comunque le regole che si ricavano dai testi biblici e rabbinici[3],
ma norme più severe, riconducibili al diritto romano, addirittura allo ius civile Romanum. Infatti, è
sufficientemente noto ai più che il “quadruplo” è il contenuto della sanzione
che nel diritto (civile) romano era prevista per i casi di furtum manifestum, ove il ladro fosse stato, appunto, colto in
flagrante[4].
Comincio da Zaccheo. Molto poco
sappiamo di lui, al di là di quel che troviamo scritto nel Vangelo di Luca.
Antiche tradizioni narrano di una sua investitura, quale primo vescovo di Cesarea,
ad opera dello stesso Pietro, il primo degli Apostoli[5].
Ricordo che Cesarea era la sede del procuratore romano della Giudea fin
dall’età augustea e, quindi, era popolata in buona parte da cittadini romani,
ivi compreso il centurione Cornelio, soldato romano della coorte italica, primo
tra i non ebrei a ricevere lo Spirito Santo (sotto gli occhi dello stesso
Pietro) e, secondo antiche tradizioni, successore di Zaccheo quale vescovo di
Cesarea[6].
Queste informazioni, unitamente al fatto che Zaccheo è presentato nel Vangelo
di Luca non come un semplice pubblicano, ma come il loro “capo” e, per di più,
“ricco”, mi portano a credere che costui potesse essere cittadino romano[7].
Qualcuno ha anche scritto che il
diritto romano sarebbe nel Vangelo di Luca un fattore di conversione, e
l’episodio di Zaccheo lo dimostrerebbe[8].
Orbene, fin qui giungono gli studiosi
e gli esegeti delle Sacre Scritture. Ora, però, occorre dare conto di quali
sono le questioni cui può interessarsi il giurista romanista nell’analisi del nostro
brano evangelico. Direi che sono quattro; vediamole.
La prima questione attiene al fatto
che Zaccheo era un pubblicano. Dunque, chi erano i pubblicani?
I pubblicani erano quelle persone che
costituivano società per aggiudicarsi appalti, banditi da magistrati,
promagistrati e governatori, per l’esecuzione di opere pubbliche ed anche per
la riscossione delle imposte[9].
Occorre ricordare che la costituzione di una società avveniva tramite la
stipulazione di apposito contratto che fu introdotto nello ius (civile) Romanum attraverso lo ius gentium[10].
Si trattava, insomma, di un contratto di cui facevano ampio uso sia romani sia peregrini e che trovava la sua
disciplina nell’editto pretorio, e certamente anche in quello provinciale[11].
I giuristi romanisti sanno bene che i
pubblicani, anche quelli citati nei Vangeli – nei quali, peraltro, sono
numerosi i riferimenti all’odio nutrito verso di loro dagli ebrei[12]
– gestivano secondo regole precise gli appalti che si erano aggiudicati; regole
contenute in leges, che noi oggi
chiameremmo – e qui semplifico un po’ – “capitolati d’appalto”. Si trattava,
insomma, di norme (leges, appunto)
dettate dalla cd. “stazione” appaltante per la disciplina dell’esecuzione
dell’incarico. Di regola non si trattava di leges
rogatae, in quanto non erano proposte da un magistrato all’approvazione del
popolo romano[13], ma di leges datae, in questi casi meglio dictae, in quanto promanavano dalla
potestà dei magistrati che, in tal modo, disciplinavano unilateralmente materie
specifiche[14];
nell’ambito di questo tipo di leges,
erano dette generalmente censorie quelle che regolavano gli appalti (pubblici),
derivando la denominazione dalla generale (ed antica) competenza dei censori
circa l’organizzazione degli appalti stessi[15].
Non sappiamo molto sui contenuti di
tali leges, ma dalle fonti emerge
evidente l’attenzione con cui i romani si concentravano sugli appalti e sulle
loro regole di realizzazione e gestione; regole in cui erano previste forme di
tutela delle attività svolte dai pubblicani, ma anche forme di sanzione per le
loro attività illegittime ed illecite[16].
La seconda questione attiene alla
specificazione compiuta nel Vangelo di Luca circa la persona di Zaccheo; costui
è infatti definito dall’evangelista quale il «capo dei pubblicani».
Si tratta della traduzione italiana
dell’originale parola greca ἀρχιτελώνης[17],
tradotta a sua volta in latino con princeps publicanorum. Come è noto, il contratto di società tramite
il quale i pubblicani si organizzavano costituiva un’eccezione nel diritto
romano. Il contratto di società, di regola, non possedeva rilevanza esterna:
nei rapporti con i terzi, la responsabilità era del socio che aveva svolto
l’attività negoziale. La società dei pubblicani aveva invece progressivamente
“sviluppato” un proprio corpo che dava concretezza ad una complessa
articolazione; possedeva quindi, semplificando un po’, una sorta di
“personalità giuridica”[18].
A capo della società dei pubblicani erano coloro che tenevano i rapporti con
chi aveva commissionato l’attività che i pubblicani stessi si erano impegnati a
svolgere. Nel caso specifico di Gerico, al di là della rarità dell’uso della
parola ἀρχιτελώνης, si trattava, appunto, di Zaccheo[19].
Era lui che si rapportava direttamente con i romani; era lui che organizzava i
soci; era lui che “appariva” nei rapporti tra la società e la “stazione”
appaltante[20]. Come
ho già ricordato, la società non era un contratto che nasceva nel diritto
civile romano, ma era un contratto che nasceva nel diritto delle genti, che era
comunque una componente del diritto romano: il diritto dei romani, insomma, non
era solo quello esclusivamente proprio dei cittadini[21].
Vengo
alla terza questione, incentrata sulla colpa di Zaccheo. Come ho accennato poco
sopra, costui si sarebbe autoaccusato di furto e, perciò, avrebbe applicato per
sé la grave pena prevista nel diritto romano per il ladro colto in flagrante.
Luca,
per indicare questa colpevole attività, usa il termine ἐσυκοφάντησα,
che deriva dal verbo συκοφαντέω,
tradotto nella versione latina con defraudo
(defraudavi); i due verbi, greco e
latino, non sono però precisamente traducibili con “rubo”, ma con “estorco”,
“danneggio qualcuno attraverso l’inganno”, “angario”[22]. La colpa
di Zaccheo, quindi, non è tecnicamente presentata come un furto; nella stessa
traduzione italiana della CEI del 1971, per esempio, si legge «se ho frodato»[23].
C’è ancora da rilevare
che nell’editto pretorio, e quindi anche in quello provinciale, v’erano
speciali disposizioni relative agli illeciti compiuti dai pubblicani, contro i
quali erano comunque alternativamente esperibili le azioni ordinarie (di furto,
di rapina, etc.)[24]. Per ciò che concerne le appropriazioni, il
testo dell’azione pretoria prevedeva la pena del simplum, del doppio o, nei casi di violenza, del triplo[25]. Tracce di pene nel quadruplo sono invero
riconducibili a casi particolari, probabilmente disciplinati dalle leges (censorie)[26]. Merita considerazione, infine, il tema della
responsabilità del pubblicano per i fatti commessi dalla familia publicanorum; da menzionare, a tal proposito, nel titolo “de furtis” dell’editto, la disposizione
relativa ai delitti commessi dalla familia
publicanorum (v. D. 39.4.12.1), da intendersi come corpus servorum paratum vectigalis causa (per usare le parole di
Ulpiano in D. 50.16.195.3). Ciò mi porta a ritenere che Zaccheo, oltretutto
capo dei pubblicani, fosse consapevole del fatto che stava assumendo la
responsabilità anche per i fatti commessi da altri.
Quanto alla tradizione
culturale e giuridica cui apparteneva Zaccheo per nascita, è noto che per essa
le persone che facevan parte della categoria dei pubblicani erano considerate
alla stregua di impuri, come i briganti e gli usurai[27].
L’ultima questione
attiene proprio alla pena che Zaccheo infligge a se stesso a seguito della
dichiarata colpa. Si tratta davvero, nel caso specifico, della pena prevista
nel diritto (civile) romano per la punizione del fur manifestus, cioè del ladro colto in flagrante?
Innanzitutto, come ho
avuto modo di osservare sopra, sembra improbabile che tale sanzione sia stata
ricavata dagli scritti biblici e rabbinici, dai quali si desume che la pena del
quadruplo sanzionava solo lo specifico furto di bestiame (minuto).
Poi, con riguardo al
diritto romano, va ribadito che la pena del quadruplo (del valore della cosa
rubata) per il fur manifestus fu
introdotta dal pretore con il suo editto; in origine, cioè nella Legge delle
XII Tavole, le sanzioni previste erano consistite nella battitura (verberatio) e nel semiasservimento (addictio) del ladro e, in determinate
condizioni, finanche nella morte (v. Gaius, Inst.
3.183-209).
Originariamente, quindi,
la pena del quadruplo non concerneva casi di furto; infatti Catone, all’inizio
del II secolo a.C., aveva scritto che gli antenati, stimando peggior cittadino
l’usuraio rispetto al ladro, avevano stabilito nelle leggi che quest’ultimo
fosse condannato al doppio, l’usuraio nel quadruplo[28]. Tacito, all’inizio del II secolo d.C.,
scriveva che il limite del tasso dell’unciarum
faenus era stato imposto alle usure
già nella Legge delle XII Tavole[29]. Va detto, inoltre, che erano le stesse XII
Tavole a stabilire la sanzione del doppio per perseguire i furti non flagranti
(mentre, come ho già detto, erano disposti verberatio
ed addictio per il caso dei furti
flagranti)[30].
Pertanto, quella del
quadruplo è una sanzione che nelle fonti appare comminata all’usuraio molto più
anticamente che al ladro (colto in flagrante). E lo conferma Cicerone quando,
alla fine dell’età repubblicana e quindi più di cento anni dopo Catone, ancora
accostava agli usurai coloro che venivano condannati al quadruplo[31]. Insomma, nella percezione dei romani la
priorità della pena del quadruplo era associata agli usurai e ad essa, a causa
della gravità della colpa, erano state parametrate nel tempo tutte le
quadruplicazioni penali, riservate appunto ai casi più rilevanti di allarme
sociale[32]. Si metta altresì in conto che l’azione
diretta al perseguimento del quadruplo contro gli usurai era caratterizzata da
una legittimazione attiva generale, mentre l’azione di furto era azionabile da
chi avesse una legittimazione specificamente qualificata[33]. Nel caso di Zaccheo, invero,
non è chiaro con quali mezzi questi volesse dare attuazione ai propri
propositi. Si trattava di un generale “invito” ad agire (giudizialmente) contro
di lui? E su quali basi, supponendo che la condanna al quadruplo dovesse
seguire alla dimostrazione della flagranza del furto?
In verità, l’atteggiamento del pubblicano mi ricorda quel che il
giurista Gaio scriveva a commento del titolo edittale dedicato proprio ai
pubblicani, ove sosteneva l’assoluzione del pubblicano che fosse pronto a
restituire il maltolto[34].
Vengo ora alle
conclusioni.
Innanzitutto, a me
sembra chiaro che Zaccheo si infligge consapevolmente la pena prevista
originariamente nel diritto romano per l’usuraio. Peraltro, non pongo in dubbio
che il capo dei pubblicani di Gerico fosse cosciente della successiva
estensione della sanzione del quadruplo ad altri casi di illecito.
Ciò che appare meno
chiaro è quale sia stata la base normativa che ha ispirato l’iniziativa di
Zaccheo. La scelta – direi proprio – è contenuta in tre possibilità: la legge
delle XII Tavole, quindi il diritto civile dei romani; l’editto (provinciale)[35], quindi lo ius honorarium; la lex (censoria),
cioè il capitolato d’appalto per la riscossione delle imposte, e quindi la cognitio del praeses provinciae[36].
Ora, la disposizione
sul quadruplo contenuta nelle XII Tavole, come si è visto, non si riferisce
certo ai ladri, ma concerne gli usurai. Per ciò che riguarda il testo edittale
relativo al titolo “de publicanis”,
in esso non sembra esservi riferimento alla pena del quadruplo, pur essendovi
atti diretti a punire le appropriazioni (violente) e le esazioni illecite.
Tracce di pene rapportate a multipli superiori al doppio (ed al triplo)
appaiono, invece, nelle speciali norme che regolavano gli appalti, azionabili extra ordinem[37].
Orbene, quanto avrebbe
potuto conoscere delle XII Tavole un pubblicano della Giudea sotto l’impero di
Tiberio? Non credo molto, anche se questi era probabilmente cittadino romano. E
quanto, invece, avrebbe potuto conoscere dell’editto e del “capitolato”?
Ovviamente, a ragione del suo lavoro, molto.
Ecco, allora, ove è da
ricercarsi la specifica base normativa della sanzione che Zaccheo applica a se
stesso.
Peraltro, non era
certo inconsueto che nelle province fossero introdotte normative specifiche per
la limitazione degli interessi e per la repressione dell’usura. Si pensi
infatti, nell’ultimo secolo della repubblica, all’editto di Lucullo nella
provincia Asia (72-
A questo punto mi
sento di avanzare un’ipotesi: nella Giudea, intorno al 30 d.C., nell’editto e
nelle norme disciplinanti la riscossione delle imposte, era stabilita la pena
del quadruplo per gli usurai e probabilmente per i pubblicani che avessero
illecitamente esatto somme di denaro o, in qualche modo, frodato la “stazione
appaltante”[39]. Quella pena del quadruplo che, fin da età
antichissima, era inflitta all’usuraio che avesse estorto illecitamente una
somma di denaro che non gli spettava.
Dalle parole di
Zaccheo a me sembra evidente che l’antica pena comminata agli usurai aveva
varcato e continuava a varcare non tanto il pomerio di una città, quale Roma,
quanto piuttosto i limiti del diritto civile dei romani, entro i quali era nata
circa cinquecento anni prima. Insomma, la gravosa pena del quadruplo inseguiva
gli usurai dovunque si trovassero.
[Un evento culturale, in quanto ampiamente
pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente
anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di
questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai
promotori del X Seminario di studi “Tradizione Repubblicana Romana”, dal
curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]
* Relazione presentata
nella Sessione del 16 dicembre 2016 [“CONTRO L’USURA: DEBITO E CORTE
INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA”] del X Seminario di studi "TRADIZIONE REPUBBLICANA ROMANA", organizzato dall’Unità
di ricerca “G. La Pira” di Sapienza-Università di Roma e del Consiglio
Nazionale delle Ricerche, diretta dal professore Pierangelo Catalano, con il
patrocinio di Roma Capitale. Roma – Sede del CNR.
[1].
Luca 19.1-10 (nella traduzione italiana approvata dalla CEI, la Conferenza
Episcopale Italiana, nella edizione del 1991 sulla base del testo cosiddetto
“editio princeps” del 1971): «[1] Entrato in Gerico, attraversava la città. [2]
Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, [3] cercava di
vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era
piccolo di statura. [4] Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un
sicomoro, poiché doveva passare di là. [5] Quando giunse sul luogo, Gesù alzò
lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a
casa tua”. [6] In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. [7] Vedendo ciò,
tutti mormoravano: “È andato ad alloggiare da un peccatore!”. [8] Ma Zaccheo,
alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai
poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. [9] Gesù
gli rispose: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è
figlio di Abramo; [10] il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a
salvare ciò che era perduto”».
[2]
Le parole tra caporali sono tratte dalla chiusura di Luca 19.8, nella
traduzione italiana. Ecco lo stesso testo nella originale versione in lingua
greca: … καὶ εἴ
τινός τι ἐσυκοφάντησα,
ἀποδίδωμι
τετραπλοῦν.
Ecco la traduzione in lingua latina: … et
si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum.
[3]
In Es. 22.3-5 è prescritta la pena
del doppio nel caso di furto («Il
ladro dovrà dare l’indennizzo: se non avrà di che pagare, sarà venduto in
compenso dell’oggetto rubato. Se si trova ancora in vita e ciò che è stato
rubato è in suo possesso, si tratti di bue, di asino o di montone, restituirà
il doppio»). In Lev. 5.21-24 è
stabilita la pena del simplum
aumentata del quinto nei casi di furti e frodi («Il Signore parlò a Mosè dicendo: “Quando qualcuno peccherà e
commetterà un’infedeltà verso il Signore, perché inganna il suo prossimo
riguardo a depositi, a pegni o a oggetti rubati, oppure perché ricatta il suo
prossimo, o perché, trovando una cosa smarrita, mente in proposito e giura il
falso riguardo a una cosa in cui uno commette peccato, se avrà così peccato, si
troverà in condizione di colpa. Dovrà restituire la cosa rubata o ottenuta con
ricatto o il deposito che gli era stato affidato o l’oggetto smarrito che aveva
trovato o qualunque cosa per cui abbia giurato il falso. Farà la restituzione
per intero, aggiungendovi un quinto, e renderà ciò al proprietario nel giorno
in cui farà la riparazione”»). In Prov. 6.30-31, con riferimento al furto, è addirittura minacciata
una sanzione pari a sette volte il valore della cosa rubata («Non si disapprova un ladro, se ruba per
soddisfare l’appetito quando ha fame; eppure, se è preso, dovrà restituire
sette volte»). La pena del quadruplo era prevista esclusivamente in Es. 21.37, ma solo come sanzione per il
furto di bestiame minuto («Quando
un uomo ruba [...] un montone e poi lo sgozza o lo vende, darà come indennizzo
[...] quattro capi di bestiame minuto per il montone»);
cfr. II Sam. 12.4-6 («Un
viandante arrivò dall’uomo ricco e questi, evitando di prendere dal suo
bestiame minuto e grosso quanto era da servire al viaggiatore che era venuto da
lui, prese la pecorella di quell’uomo povero e la servì all’uomo che era venuto
da lui. Davide si adirò contro quell’uomo e disse a Natan: “Per la vita del
Signore, chi ha fatto questo è degno di morte. Pagherà quattro volte il valore
della pecora, per aver fatto una tal cosa e non averla evitata”»).
Entrando nello specifico delle illecite sottrazioni imputabili a gabellieri ed
esattori in generale, negli scritti rabbinici la conversione perfetta di tali
rei era considerata molto difficile da raggiungere, e comunque comportava la
restituzione del maltolto alle persone danneggiate, a cui andava aggiunto un
quinto del valore della sottrazione (cfr. specialmente il sopra riportato Lev. 5.21 ss. e Num. 5.6-7); a tal proposito, v. O. Michel,
telènhj,
in Theologisches Wörterbuch zum Neuen
Testament, VIII, Stuttgart 1964-1969, 101 ss. (trad. ita. Grande Lessico del Nuovo Testamento,
XIII, Brescia 1981, 1090 ss.).
[4]
Circa l’origine edittale della pena del quadruplo per il furto flagrante,
introdotta quindi in età successiva (e non di poco) rispetto alle più antiche
regole sul furto contenute nella Legge delle XII Tavole (della metà del V
secolo a.C.), v. Gaius, Inst. 3.189: poena manifesti furti ex lege XII tabularum
capitalis erat. nam liber uerberatus addicebatur ei, cui furtum fecerat; utrum
autem seruus efficeretur ex addictione an adiudicati loco constitueretur,
ueteres quaerebant. in seruum aeque uerberatum animaduertebatur. sed postea
inprobata est asperitas poenae, et tam ex serui persona quam ex liberi
quadrupli actio praetoris edicto constituta est. Cosa debba intendersi per furtum manifestum, è spiegato
diffusamente dallo stesso Gaio in Inst.
3.184; mi limito a riportare la generale definizione, con la quale il giurista
introduce il tema: manifestum furtum
quidam id esse dixerunt, quod dum fit, deprehenditur.
[6]
Circa la discesa dello Spirito Santo sopra Cornelio e la sua famiglia, v. Att. 10. Nel Martyrologium Romanum, la commemorazione di San Cornelio è fissata
al 20 ottobre. Su Cornelio, v. F. Bechtel, Cornelius,
in C.G.
Herbermann (a cura di), Catholic Encyclopedia, IV, 1908, 375. Su Cesarea, v. la
corrispondente voce in Paulys
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaf, III.1, 1897, 1291
ss., nonché la stessa voce, curata da L. Gramatica
e A. Pernice, in Enciclopedia Italiana, IX, 1931, 879.
[7]
Mi limito ad osservare che Augusto procedette a tre censimenti universali in
quarantadue anni, le cui risultanze ci sono note grazie alle Res gestae, 8. Nel 28 a.C. furono
registrati quattromilionisessantatremila cittadini romani; nell’8 a.C. ne
furono registrati quattromilioniduecentotrentamila; nel 14 d.C. risultarono
quattromilioninovecentotrentasettemila cittadini romani. Il secondo censimento
evidenzia un incremento di centosessantasettemila cittadini in venti anni, pari
al 4%. Il terzo censimento fa registrare un incremento di settecentosettemila
cittadini in ventidue anni, pari addirittura al 17%. Nulla di eccezionale che
il capo dei pubblicani di Gerico abbia ottenuto la cittadinanza. Mi sovviene,
all’uopo, il serrato dialogo (che riporto nell’originale greco e nelle
traduzioni latina ed italiana) tra Paolo di Tarso e Claudio Lisia, comandante
della coorte di Gerusalemme, a proposito di acquisto della cittadinanza romana:
προσελθὼν δὲ ὁ
χιλίαρχος εἶπεν
αὐτῷ· Λέγε mοι, σὺ
Ῥωmαῖος εἶ; ὁ δὲ ἔφη·
Ναί. ἀπεκρίθη
δὲ ὁ χιλίαρχος·
Ἐγὼ πολλοῦ
κεφαλαίου τὴν
πολιτείαν
ταύτην ἐκτησάmην.
ὁ δὲ Παῦλος ἔφη·
Ἐγὼ δὲ καὶ
γεγέννηmαι (Accedens autem tribunus, dixit illi: Dic mihi si tu Romanus es? At ille
dixit: Etiam. Et respondit tribunus: Ego multa summa civitatem hanc consecutus
sum. Et Paulus ait: Ego autem et natus sum) («Allora il tribuno si recò da
Paolo e gli domandò: “Dimmi, tu sei cittadino romano?”. Rispose: “Sì”. Replicò
il tribuno: “Io, questa cittadinanza l’ho acquistata a caro prezzo!”. Paolo
disse: “Io, invece, lo sono di nascita!”») (Att.
22.27-28).
[8]
D. Abignente, Conversione morale nella fede. Una riflessione etico-teologica a partire
da figure di conversione del vangelo di Luca, Roma-Brescia 2000, 70 ss.
[9] È
nota la definizione di pubblicani data da Ulpiano in D. 39.4.1.1 (tratta dal
commento all’editto): publicani autem
sunt, qui publico fruuntur (nam inde nomen habent), sive fisco vectigal pendant
vel tributum consequantur: et omnes, qui quod a fisco conducunt, recte
appellantur publicani (v. anche lo stesso Ulpiano in D. 39.4.12.3, tratto
anch’esso dal commento all’editto: publicani
autem dicuntur, qui publica vectigalia habent conducta). V. altresì la
definizione data da Gaio nel commento all’editto provinciale (in D. 50.16.16): eum qui vectigal populi Romani conductum
habet, "publicanum" appellamus. Nam "publica" appellatio in
compluribus causis ad populum Romanum respicit: civitates enim privatorum loco
habentur.
[10]
Mi limito a citare M. Talamanca, La “societas”.
Corso di lezioni di diritto romano (edizione postuma a cura di Luigi
Garofalo), Padova 2012, passim.
[11] O. Lenel,
Das Edictum perpetuum, Leipzig 1907,
4 e 9. Sull’editto “de publicanis”,
si vedano il recente testo di A. Torrent,
El titulo “de publicanis” y el “genus provinciale” (Cic., ad Att. 6, 1, 15). Reflexiones sobre el “edictum provinciale”, in Rivista di diritto romano, XIV, 2014, e quello, meno recente, di L.
Maganzani, Pubblicani e debitori
d’imposta. Ricerche sul titolo edittale de publicanis, Torino 2002, passim.
[13]
Ricordo la definizione di lex (generalis) data dal giurista Ateio
Capitone in età augustea: Lex est
generale iussum populi aut plebis rogante magistratu (Gellio, Noc. Att. 10.20.2).
[14]
Su lex rogata-data, v. lo studio di
F. Serrao sulla legge nel diritto
romano, certamente datato ma altrettanto certamente insuperato, in Enciclopedia del Diritto, XXIII, Milano
1973, 794 ss. Su lex dicta, mi
sembrano qui sufficienti le brevi note in F. Vallocchia,
Lex Metilia fullonibus dicta. Studi su una legge ed una categoria
produttiva, in AA.VV., Legge e società nella
repubblica romana (a cura di F. Serrao), II, Napoli 2000, 341 ss., cui mi permetto di rinviare.
[15]
Nelle fonti si riscontrano denominazioni varie. Oltre a lex censoria, per cui vedasi Gaius, Inst. 4.28, v. esemplarmente Ulpiano in D. 47.8.2.20, nel quale
appare lex vectigalis. Su censori ed
appalti pubblici, mi limito a citare un testo che, pur lacunoso ed impreciso,
costituisce pur sempre un buon compendio: S. Castan
Perez-Gomez, Regimen juridico de
las concesiones administrativas en el derecho romano, Madrid 1996.
[16]
Gaio, in un passo delle Istituzioni, scrive chiaramente che il pubblicano può
prendere un pegno contro il debitore insolvente: … item lege censoria data est pignoris capio publicanis vectigalium
publicorum populi Romani adversus eos, qui aliqua lege vectigalia deberent
(Gaius, Inst. 4.28). È noto che
nell’editto pretorio era contenuto un titolo espressamente dedicato ai
pubblicani; v., infatti, l’inscriptio
del testo contenuto in D. 39.4.5 pr., attribuito allo stesso Gaio: ad edictum praetoris urbani titulo de
publicanis.
[17]
Tale vocabolo non risulta attestato altrove, mentre qualche menzione, pur in
fonti greco-romane tarde, si registra per il verbo ἀρχιτελwνšw; v. O. Michel, telènhj,
cit., 98 nt. 105 (trad. ita. cit., 1082 nt. 105).
[18] V. Gaio in D. 3.4.1 pr.: neque societas neque collegium neque
huiusmodi corpus passim omnibus habere conceditur: nam et legibus et senatus
consultis et principalibus constitutionibus ea res coercetur. Paucis admodum in causis concessa sunt
huiusmodi corpora: ut ecce vectigalium publicorum sociis permissum est corpus
habere. Da notare che questo testo è stato tratto dal commento
all’editto provinciale e che le società dei pubblicani avevano grande diffusione
nelle province.
[19]
Come ho già osservato sopra, l’uso della parola ἀρχιτελώνης
è rarissimo, segno che non si trattava di un termine tecnico. Esemplarmente, il
manceps, cioè colui che nelle società
publicanorum più antiche stipulava il
contratto con l’appaltatore, è tradotto in greco con la parola ¢rcènhj;
v. A. Steinwenter, v. manceps, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaf,
XXVII, 1928, 987 ss. È probabile che nella Giudea del tempo vi fossero varie
società appaltatrici, una per ogni distretto, facente capo ad una città ed a
Gerico pare che venissero riscossi i dazi sulle merci introdotte dalla Perea; a
tal proposito, v. O. Michel, telènhj,
cit., 98 (trad. ita. cit., 1082 s.). Quindi, Zaccheo sarebbe stato forse un
daziere e le sue “frodi” si sarebbero forse concretizzate in false denunce (v. infra l’uso del verbo
συκοφαντέω) circa le merci
trasportate (e non). Si tratta di semplici supposizioni; nulla di più.
[20]
Sulla struttura della società dei pubblicani, v. M. R. Cimma, Ricerche sulle
società di publicani, Milano 1981, 70 ss. e 103 ss.
[21]
Ricordo l’inizio delle Istituzioni di Gaio (riportato nei Digesti di
Giustiniano in D. 1.1.9), ove è espressamente indicata la “composizione” del
diritto di cui si serve il popolo romano: (Gaius, Inst. 1.1) Omnes populi, qui
legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum
iure utuntur: nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius
proprium est vocaturque ius civile, quasi ius proprium civitatis; quod vero
naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque
custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur. Populus
itaque Romanus partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utitur.
[22] A
tal proposito, si vedano C.-H. Hunzinger,
συκοφαντέω, in Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament,
VII, Stuttgart 1964, 759 (trad. ita. Grande
Lessico del Nuovo Testamento, XII, Brescia 1979, 1456 ss.) e Thesaurus linguae Latinae, v. defraudo, 373, 22. Nel Thesaurus si fa riferimento ad un passo
di Plauto, in cui defraudo è
utilizzato nella stessa accezione che appare nella traduzione latina del testo evangelico di Luca (v. Plautus, Asin. 91-95).
[23]
Nella successiva edizione CEI del 2010, invece, la traduzione riporta «se ho
rubato». Mi permetto di dissentire da quest’ultima traduzione per i motivi
esposti supra, nel testo.
[24]
V., infatti, Ulpiano in D. 39.4.1.2 (dixerit
aliquis: quid utique hoc edictum propositum est, quasi non et alibi praetor providerit
furtis damnis vi raptis? Sed e re putavit et specialiter adversus publicanos
edictum proponere) ed in D. 39.4.1.4 (unde
quaeritur, si quis velit cum publicano non ex hoc edicto, sed ex generali vi
bonorum raptorum, damni iniuriae vel furti agere, an possit? Et placet posse,
idque pomponius quoque scribit: est enim absurdum meliorem esse publicanorum
causam quam ceterorum effectam opinari), entrambi tratti dal commento
all’editto.
[25]
Ulpiano in D. 39.4.1 pr. (tratto dal commento all’editto): praetor ait: " quod publicanus eius publici nomine vi ademerit
quodve familia publicanorum, si id restitutum non erit, in duplum aut, si post
annum agetur, in simplum iudicium dabo. Item si damnum iniuria furtumve factum
esse dicetur, iudicium dabo. Si
id ad quos ea res pertinebit non exhibebitur, in dominos sine noxae deditione
iudicium dabo". V. anche Gaio in D. 39.4.5.1, tratto dal commento al titolo “de publicanis” dell’editto pretorio: quaerentibus autem nobis, utrum duplum totum
poena sit et praeterea rei sit persecutio, an in duplo sit et rei persecutio,
ut poena simpli sit, magis placuit, ut res in duplo sit. Per il triplo, v.
Paolo in D. 39.4.9.5: per vim vero
extortum cum poena tripli restituitur.
[26]
V. un testo di Paolo in D. 49.14.45.13, tratto dall’opera sulle sentenze, in
cui è descritta la vicenda del conduttore del fondo fiscale convenuto in
giudizio per il quadruplo; ritengo probabile che i conduttori dei fondi fiscali
fossero organizzati anche come società di pubblicani: conductor ex fundo fiscali nihil transferre potest nec cupressi
materiam vendere vel olivae non substitutis aliis ceterasque arbores pomiferas
caedere: et facta eius rei aestimatione in quadruplum convenitur.
[28]
Cato, de re rust. praef.: maiores nostri sic habuerunt et ita in
legibus posiverunt: furem dupli condemnari, foeneratorem quadrupli. Quanto
peiorem civem existimarint foeneratorem quam furem.
[29]
Tacitus, ann. 6.16: primo duodecim tabulis sanctum ne quis unciario
faenore amplius exerceret. In Fontes
Iuris Romani Antejustininani (a cura di S. Riccobono),
I, Leges, Firenze 1968, 61, la norma
relativa all’usura è inserita nell’ottava Tavola, subito dopo le disposizioni
relative al furto. È noto che Livio (7.16) riconduceva invece ad una lex Duilia Maenia del
[30] Gaius, Inst. 3.190: nec manifesti
furti poena per legem XII tabularum dupli inrogatur, eamque etiam praetor
conseruat.
[31]
Cicerone nell’orazione in Q. Caecilium
(7.24), riferiva espressamente che con la parola quadruplator si indicava la persona che avesse conseguito la quarta
parte del patrimonio del reo, a seguito della condanna, intervenuta sulla base
della sua accusa, per avere praticato l’usura ad un tasso superiore rispetto a
quello stabilito nelle leggi: Alii dicunt
quadruplatores esse eorum reorum accusatores qui convicti quadrupli damnari
soleant, ut aleae aut pecuniae gravioribus usuris feneratae. Cfr. Ps. Asc. ad Cic. in div. 7.24 (194 ed. Stangl):
Quadriplatores delatores erant criminum publicorum, in qua re quartam partem de
proscriptorum bonis quos detulerant consequbantur. Alii dicunt quadriplatores
esse eorum reorum accusatores qui convicti quadrupli damnari soleant, aut aleae
aut pecuniae gravioribus usuris foeneratae quam pro more maiorum aut eiusmodi
aliorum criminum. Circa il tema dei quadruplatores,
si vedano particolarmente F. De Martino,
I “quadruplatores” nel “Persa” di Plauto,
in Labeo, I, 1955, 32 ss., e C. Cracco Ruggeri, Leggi sociali e “quadruplatores” nella Roma postannibalica, in Labeo, XLVII, 2001, 349 ss.
[32]
Ulpiano, in D. 47.8.4.7, spiega la pena del quadruplo con la gravità del fatto
(edictum propter atrocitatem facti
quadrupli poenam comminatur).
[33]
Per una rassegna bibliografica sull’usura nel diritto romano, mi permetto di
rinviare a F. Vallocchia, Rassegna bibliografica sulle usurae, in
F. Vallocchia (a cura di), Un manoscritto inedito di Emilio Albertario
sulle “usurae” in diritto romano, Napoli 2016, XXIX ss.
[34]
Gaio in D. 39.4.5 pr.: hoc edicto
efficitur, ut ante acceptum quidem iudicium restituta re actio evanescat, post
acceptum vero iudicium nihilo minus poena duret. Sed
tamen absolvendus est etiam qui post acceptum iudicium restituere paratus est. È appena il caso di osservare
che per Gesù è sufficiente la professione fatta da Zaccheo perché questi vada
assolto: «Gesù gli rispose: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché
anch’egli è figlio di Abramo; il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e
a salvare ciò che era perduto”» (Luca 19.9-10).
[35]
Noto che sono numerosi i riferimenti alle XII Tavole operati da Gaio nel suo
commento all’editto provinciale ed è appena il caso di ricordare che tra le
opere di Gaio v’è un commento alle XII Tavole. In O. Lenel, Das Edictum
perpetuum, cit., 374 ss., il titolo “de
publicanis”, inserito nella terza parte dell’editto con il numero XXXII, è
composto da tre gruppi di atti: “quod
publicanus vi ademerit”, “quod
publicanus illicite exegerit”, “de
vectigalibus”.
[36] Cfr.
il chiaro riferimento alla cognitio
del praeses fatto da Ulpiano in D.
47.9.2 pr., tratto dall’opera sull’ufficio del proconsole: si expilatae hereditatis crimen intendatur, praeses provinciae
cognitionem suam accommodare debet: cum enim furti agi non potest, solum
superest auxilium praesidis. Nelle fonti appaiono riferimenti alla maggiore
severità di procedure extra ordinem
da espletarsi verso i pubblicani. Esemplarmente, v. Paolo in D. 39.4.9.5,
tratto dall’opera sulle sentenze: quod
illicite publice privatimque exactum est, cum altero tanto passis iniuriam
exsolvitur. Per vim vero extortum cum poena tripli restituitur:
amplius extra ordinem plectuntur: alterum enim utilitas privatorum, alterum
vigor publicae disciplinae postulat.
[37]
V. esemplarmente Ulpiano in D. 48.13.8.1, tratto dall’opera sull’ufficio del
proconsole, in cui è prevista una varia articolazione di pene, fino al
quadruplo, dipendente da un editto imperiale e probabilmente rimesse alla cognitio del praeses, minacciate a chi abbia svolto attività illecite nelle
miniere di Cesare: si quis ex metallis
Caesarianis aurum argentumve furatus fuerit, ex edicto Divi Pii exilio vel
metallo, prout dignitas personae, punitur. Is autem, qui furanti sinum
praebuit, perinde habetur, atque si manifesti furti condemnatus esset, et
famosus efficitur. Qui autem aurum ex metallo habuerit illicite et conflaverit,
in quadruplum condemnatur.
[38]
Le vicende sono ampiamente note. V. Plutarco, Luc. 20.3 e Cicero, ad Att.
5.21 e 6.2. Per la bibliografia rimando ai testi citati supra, in materia di usura.
[39]
V. esemplarmente il caso di chi abbia frodato il fisco e della sua condanna al
quadruplo, come esposto da Ermogeniano in D. 49.14.46.9: si multi fisco fraudem fecerint, non ut in actione furti singuli
solidum, sed omnes semel quadrupli poenam pro virili portione debent. A tal
proposito, ricordo che la Giudea era una provincia imperiale ed è quindi
probabile che le entrate tributarie fossero destinate al fisco e non
all’erario. Tracce di pene commisurate al quadruplo del valore dei beni estorti
con inganno sono rinvenibili anche in alcuni papiri egizi, per cui vedasi R. Taubenschlag, The Law of Greco-Roman Egypt in the Papyri: 332 b.C.-640 a.C.,
Warszawa 1955, 553.