Vice-Presidente Emerito
della Corte Costituzionale
LA “FINANZIARIZZAZIONE” DEI MERCATI:
DAL “DEBITO” ALLA “GLOBALIZZAZIONE”
DELLA FINANZA E DELLA DISOCCUPAZIONE*
Sommario: 1. La finanziarizzazione dei mercati in generale. Le
teorie economiche di Keynes e quelle neoliberiste. Gli strumenti della cartolarizzazione,
dei derivati e ancora di altri titoli commerciabili. – 2. I
“colpi” messi a segno dalla finanza sul piano internazionale. – 3. I “colpi” messi a
segno dalla finanza sul piano europeo. – 4. I terribili “colpi”
messi a segno dalla finanza per quanto riguarda l’Italia. – 5. L’azione
svolta dalla finanza contro gli interessi italiani, utilizzando il
“diritto europeo”. – 6. La continuità
nell’asservimento della politica italiana ai voleri della finanza e della
cosiddetta “Europa”. – 7. Uscire dalla crisi attuando la
Costituzione.
La Storia insegna che il
benessere dei Popoli e delle Nazioni dipende dalla produzione di beni reali,
dalla massima occupazione, e dalla equa ripartizione dei beni. Finalità
in ordine alle quali gioca un ruolo importante il ben noto principio della
domanda e dell’offerta, secondo il quale il prezzo è funzione
della quantità delle risorse disponibili e dell’intensità
dei bisogni da soddisfare. Si tratta, in sostanza, di soddisfare bisogni reali
entro i limiti delle risorse effettivamente disponibili, indirizzando queste
ultime alla soddisfazione dei bisogni più urgenti, in modo da conferire
la massima “utilità” alla merce prodotta. Si evita
così lo spreco delle risorse e si assicura nel modo migliore il
benessere collettivo. In sostanza il benessere di un uomo singolo viene a
coincidere con l’interesse della Collettività.
Su questi principi si
fonda la “teoria Keynesiana”, secondo la quale, per ottenere il
benessere collettivo, e per uscire da eventuali crisi economiche, occorre far
ricorso a due strumenti indispensabili: la distribuzione del reddito alla base
della piramide sociale e l’intervento dello Stato (cioè del Popolo
nel suo complesso) nell’economia, per la realizzazione di grandi opere
pubbliche (per noi sarebbe indispensabile realizzare un’opera pubblica
che ponesse in sicurezza il nostro territorio, specie sotto l’aspetto
idrogeologico), le quali siano idonee a distribuire danaro su una vasta schiera
di lavoratori senza produrre altre merci da collocare sui mercati. E’
evidente, infatti che sono i lavoratori
i soggetti che si recano ai negozi, che
sono questi ultimi che chiedono merci alle imprese e sono le imprese che
assumono lavoratori e producono merci.
Questa teoria, che
è stata adottata da Roosevelt dopo la prima grande depressione degli anni
trenta e che ci ha concesso trenta anni di benessere dopo la seconda guerra
mondiale, è stata da tempo avversata da una folta schiera di economisti,
che hanno sempre saputo agire con grande attendismo e pragmatismo, e che si
sono ispirati con grande convinzione ai principi del
“neoliberismo”. Secondo quest’ultima teoria, è fonte
di benessere l’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi ed
è indispensabile che lo Stato (e cioè i Popoli) sia tenuto ben
lontano dall’economia. “Più mercato e meno Stato”
andavano ripetendo i nostri ultimi
governi di centro destra. Una vera “menzogna”, ma, si sa, le nostre
società, come afferma Vladimiro Giacché, vivono nella
“menzogna”, pubblicitaria e politica.
Appare subito evidente che
questa seconda teoria si fonda sul più sfrenato “egoismo”,
è contro il principio di “solidarietà” e,
soprattutto, è contro il principio di “eguaglianza
economica”, politica e sociale, sancito dall’art. 3 della nostra
Costituzione, che, non lo si dimentichi, è stata rivitalizzata dal voto
referendario del 4 dicembre 2016 e che, pertanto, richiede la sua immediata
applicazione.
La tesi neoliberista,
riportata in auge da Milton Friedman, con un libro (Storia della moneta degli
Stati Uniti d’America dal 1867 al 1960), uscito negli anni sessanta,
è stata fatta propria, dapprima da Pinochet, il quale ha privatizzato
tutto nel Cile, portandolo a una povertà mai prima sperimentata, poi
dalla Tacher, che ha aumentato a dismisura la differenza tra ricchi e poveri in
Gran Bretannia, poi da Reagan e dal suo successore Clinton, il quale ha
ottenuto lo stesso risultato della Tacher al punto che nelle ultime elezioni
gli elettori americani hanno preferito un repubblicano come Trump a una
democratica come la Hillary Clinton, moglie dell’ex Presidente, e
espressione degli interessi delle multinazionali e delle banche.
La svolta concreta,
decisiva per “l’attuazione pratica” del pensiero
neoliberista, è consistita nel far circolare come moneta
“piena” (la moneta emessa dalla Banca centrale e accettata per
legge da tutti come l’unica moneta valida) i “titoli di
credito”, e in particolare i titoli del debito pubblico. In sostanza, si
è prima favorito la formazione del “debito” e poi si
è messo in commercio il debito stesso, attraverso vari strumenti finanziari,
tutti in contrasto con la Costituzione e con le disposizioni del nostro codice
civile, ma legittimati dal legislatore ordinario.
In Italia, ai fini della
formazione di un insostenibile “debito pubblico”, decisiva fu la
lettera del Ministro del Tesoro Andreatta a Ciampi, Governatore della Banca
d’Italia, con la quale si dispensava la Banca d’Italia
dall’obbligo di acquistare i buoni del tesoro rimasti invenduti. La
conseguenza immediata fu quella della necessità di rivolgersi al mercato
generale per la vendita dei nostri titoli pubblici, con l’effetto che il
mercato stesso fece arrivare i tassi di interesse (una volta stabiliti dal
Tesoro) fino al 25 per cento, caricandoci di un debito, non dovuto a spese
eccessive (l’Italia spende il 41 per cento del Pil per lo Stato sociale,
mentre la media europea è del 45 per cento), ma alla libere, e spesso
concordate, scelte della speculazione finanziaria. Sta di fatto, comunque, che
il nostro debito pubblico è quasi tutto formato dai tassi di interesse
che la speculazione finanziaria ha caricato sulle nostre spalle, e non , come
afferma la Merkel, dal fatto che abbiamo consumato più del necessario.
Il forte indebitamento
pubblico italiano ha, tuttavia, offerto al pensiero neoliberista, e, in
pratica, alle banche e alle multinazionali, una occasione d’oro per la
realizzazione dei loro fini.
Guadagnare sul debito,
anziché produrre beni o servizi, permetteva, infatti, di soddisfare il
bisogno di ottenere un guadagno immediato, che certamente era molto difficile
avere investendo in una impresa produttiva. E si sa, come osserva il Gallino,
che gli investitori sono “impazienti” e trovano molto più
appetibile un guadagno a breve termine, anziché attendere i lunghi tempi
necessari alla creazione di beni reali.
Di qui, il venir in essere
di alcuni “colpi di genio” (così afferma il Gallino) della
finanza cosiddetta “creativa”, che si è inventata
addirittura la “creazione del danaro dal nulla”.
E’ noto che le
banche, quando concedono un “prestito”, non danno al cliente del
danaro contante, ma iscrivono sul suo conto corrente che una certa somma
è a disposizione del cliente stesso. E qui viene in evidenza una, per
così dire, “furbizia” contabile che fa in modo che la banca
non solo non esborsi la somma prestata, ma addirittura faccia aumentare
“l’attivo di bilancio” per un importo pari alla somma data in
prestito. Il meccanismo è molto semplice: la banca, che, come detto, non
paga in contanti il prestito, iscrive nell’attivo del bilancio il suo “credito”,
pari alla somma prestata, e al passivo, non parla di “uscita”, ma
di “deposito a vista”, fa cioè apparire il suo esborso come
un deposito del cliente, che il cliente può, del resto, immediatamente
prelevare al bancomat o con un assegno. Il problema, per gli interessi della
banca, è il pagamento del debito alla scadenza stabilita, fatto che
diminuisce l’attivo dell’importo originariamente prestato, ma
è da tener presente che, da un lato non sempre il debitore paga, e
dall’altro l’attuazione del principio della “crescita
illimitata” fa in modo che la banca possa trovare subito un altro
debitore.
Ma c’è di
più. La finanza non si ferma a quanto sinora detto e decide di
“cartolarizzare” il suo credito (cioè il debito),
trasformandolo in un titolo commerciabile. Ciò, come si è
avvertito, è contro i principi della Costituzione e del nostro codice
civile (il quale, per impedire che un debito possa circolare come moneta,
impone, o “la consegna del titolo” (art. 2003 c.c.), o la
“girata” (art. 2008 c.c.), o “l’annotazione del nome
dell’acquirente sul titolo e nel registro dell’emittente”
(art. 2021 c.c.), tuttavia, come se i principi della Costituzione e le norme
del codice civile non valessero nulla, la legge n. 130 del 1999, ha ammesso la
trasformazione del credito, e cioè del debito, in un titolo
commerciabile, attuando la cosiddetta “cartolarizzazione dei diritti di
credito”. Come si nota, ci si è allontanati dal mercato reale e si
è dato vita a un mercato fittizio, nel quale si comprano e vendono, non
più merci e servizi, ma “titoli di credito” (cioè
“diritti astratti”), che circolano come moneta contante e fanno
aumentare a dismisura il valore dei capitali, è vero, con “moneta
fittizia”, ma che, per volere della legge, è considerata alla pari
della moneta “piena”. Il guaio è che il debitore può
anche non pagare e che, e questa è la conseguenza più grave, la
diffusione di tali strumenti finanziari altera in modo molto consistente la
“stabilità” dei mercati. Insomma alla
”realtà” dei beni e servizi” si sostituisce un vero e
proprio “gioco o scommessa” sul pagamento del debito, facendo
valere il gioco come “moneta piena”. Il che è ovviamente un
assurdo.
E non è tutto. La
finanza, con la sua grande creatività, si inventa i
“derivati” . Questi, in origine, avevano, come suole dirsi, un
“sottostante” reale. Ad esempio, un contadino che voleva
assicurarsi un certo valore del suo raccolto, poniamo mille lire, stipulava un
contratto con un mercante nel quale si obbligava a dare tutto il suo raccolto
in cambio di mille lire. Se il raccolto era più abbondante, guadagnava
il mercante, se era meno abbondante, guadagnava il contadino. Insomma si
trattava di una forma di assicurazione, ma sempre fondata su un dato reale: lo
scambio tra il raccolto e mille lire. I “derivati”, invece,
prescindono da qualsiasi dato reale e consistono in una vera e propria
“scommessa”, che ha ad oggetto, non un bene reale, ma il valore di
mercato di un dato bene. In questa maniera, nota sempre il Gallino, chiunque
può acquistare un derivato avente per sottostante mille tonnellate di
minerali ferrosi, senza dover né vendere, né comprare un solo
chilo di essi. In sostanza le controparti sottoscrivono semplicemente un
contratto in base al quale una avrebbe ricevuto, e l’altra pagato, una
certa somma se la suddetta quantità di materiali avesse avuto un aumento
o una diminuzione di prezzo a una certa data. Insomma, con le cartolarizzazioni
e specialmente con i derivati, la “Borsa” cessa di essere un luogo
dove si scambiano beni reali e diventa puramente e semplicemente una “bisca”.
E’ da sottolineare inoltre che il valore del danaro creato dalle banche
private sovrasta di gran lunga quello emesso dalle Banche centrali (per noi
dalla BCE). Si calcola che nell’eurozona il danaro in circolazione creato
dal nulla si aggiri intorno al 92 per cento, mentre il suo ammontare
complessivo, secondo una stima del 2010, da ritenere ora superata, ammontava a
1,2 quadrilioni di dollari: 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo.
D’altro canto è da tener presente che, quando questa “crescita
illimitata” prima o poi finirà, perché non ci saranno
più debitori, interrompendosi così quel filo della crescita
determinato dall’aumento dell’indebitamento generale, la catastrofe
sarà certamente mondiale. Si pensi alle grandi banche piene di derivati,
i quali, in questo momento, assolvono al fine di “pareggiare i
conti”. Se queste banche si vedessero costrette a vendere questi titoli
puramente nominali, chi potrebbe acquistarli? E allora il default generale
potrebbe diventare inarrestabile. D’altro canto, l’inventività
della finanza pare non abbia limiti e altre fonti di creazione di danaro
fittizio sono state inventate: si pensi ai proget
bond, alla cartolarizzazione degli immobili da vendere, e così via
dicendo.
E si tenga inoltre
presente che, dopo la non convertibilità in oro del dollaro, dichiarata
da Nixon il 15 agosto 1971, è venuto meno l’ultimo ancoraggio
della moneta alla realtà. L’aver tolto la certezza che il valore
del dollaro (al quale erano collegate tutte le monete dei Paesi occidentali, a
seguito del Trattato di Bretton Wood del 1944, da noi ratificato nel 1947)
subisse soltanto le oscillazioni di mercato relative al metallo aureo, la
moneta cartacea, ora digitale, non ha alcun limite predeterminato e dipende
soltanto dal volere assoluto e sovrano del mercato generale.
La finanza è
così diventata, come ricordava oltre un decennio fa Massimo Luciani, il
vero “Antisovrano” del mondo. E’ la finanza, la quale
è l’unica realtà da considerare davvero “globalizzata”
(insieme con la generale disoccupazione), che ora detta regole alla politica e
ai Legislatori degli Stati nazionali o federali. E i Popoli, i quali hanno le
loro garanzie scritte nelle rispettive Costituzioni, si vedono impoveriti,
privati del lavoro e ridotti in schiavitù da questo perverso sistema
economico, niente affatto “produttivo”, come quello indicato da
Keynes, ma assolutamente “predatorio”, come voluto dalla idea unica
dominante del “neoliberismo”.
Come all’inizio si
accennava, non vale più la legge della domanda e dell’offerta,
come era nel “mercato di beni reali”, ma l’
“arbitrio” della finanza, completamente sovrana, in quanto
sottratta a qualsiasi controllo. E l’assurdo è che questo
predominio assoluto è stato decretato da leggi (beninteso
incostituzionali), emesse proprio dagli Stati nazionali e federali, i cui
Popoli ne subiscono oggi le conseguenze. I Popoli, tuttavia, cominciano a
prenderne coscienza. Abbiamo già citato la preferenza data dagli
Americani a Trump, anziché alla Clinton; possiamo aggiungere che non
sono senza significato l’uscita della Gran Bretannia dall’Unione
Europea, la vittoria in Italia del no al referendum costituzionale e, da
ultimo, la sconfitta nelle elezioni politiche tedesche dei partiti sinora al
governo e, in particolare, dei socialisti (passati all’opposizione, dopo
il tracollo), e della stessa Merkel, per la quale sarà molto difficile
formare un nuovo governo stabile. Insomma, in tutto il mondo si sta assistendo
a un divario sempre più insostenibile tra lavoratori e speculatori
finanziari, con la conseguenza di un generale impoverimento della grande
maggioranza dei cittadini. Ed è da tener presente, a questo riguardo,
che ciò che avviene sul piano mondiale tra ricchi e poveri, avviene
anche sul piano dei rapporti internazionali tra Stati, essendo chiaro che gli
Stati economicamente più forti assoggettano ai loro voleri gli Stati
economicamente più deboli. E’ quanto avviene, in Europa, tra
Germania e Francia da un lato e gli Stati del sud Europa (Grecia e Italia in
prima linea) dall’altro.
A questo punto sono da
sottolineare i vari “colpi” che la finanza, in consonanza al
pensiero del neoliberismo, “ha messo a segno”, in particolare per
quanto riguarda l’Italia, per trasformare la sua “falsa”
potenza economica in potenza “reale”, estromettendo gli Stati, e
quindi i “Popoli”, dall’economia, facendo
“privatizzare” i beni pubblici, facendo ritenere come essenziale al
mercato il principio, tutt’altro che solidaristico, della
“concorrenza”, e impossessandosi, nel contempo, dei più
importanti Istituti finanziari statali, europei e mondiali.
Sul piano internazionale,
uno strumento formidabile nella mani della finanza per potenziare il dominio
degli Stati economicamente più forti sugli Stati economicamente deboli
e, ovviamente, lo strapotere delle multinazionali e delle banche, (si pensi
agli Stati Africani e in genere agli Stati in via di sviluppo, o,
com’è per noi, agli Stati del sud Europa rispetto alla Germania,
alla Francia e all’Austria) è stato il WTO, l’Organizzazione
mondiale per il commercio. Questo organismo di carattere internazionale, cui
aderiscono 164 Paesi, promuove la globalizzazione dell’economia, la
liberalizzazione commerciale, la libera circolazione dei capitali in tutto il
mondo. E’ inoltre Organo per la risoluzione delle controversie ed ha il
potere (e qui sta la effettiva tutela dello strapotere degli Stati
economicamente forti) di concedere allo Stato che ricorre il “diritto di
ritorsione”. C’è da chiedersi: quale ritorsione può
mettere in campo uno Stato economicamente debole, se è in condizione di
netta inferiorità economica?
Altri efficienti strumenti
di carattere internazionale nella mani della finanza utile per favorire i
propri interessi, sono il FMI, Fondo monetario internazionale, e la Banca
mondiale per gli investimenti. Questi due organismi nacquero a seguito degli
accordi di Bretton Woods (entrambi videro la luce il 27 dicembre 1945). Il
primo doveva servire per promuovere la cooperazione monetaria internazionale, ma
si è completamente asservita agli interessi delle multinazionali, al
punto che il premio Nobel per l’economia Stiglitz ha formulato
l’icastica affermazione FMI = multinazionali. La seconda doveva servire
per la ricostruzione e lo sviluppo dei Paesi in difficoltà, ma
anch’essa si è asservita alle multinazionali, specialmente quelle
americane, e ha promosso dappertutto le “privatizzazioni”,
ingannando le attese della generalità dei cittadini.
Sul piano europeo, si deve
dire che la finanza ha messo a segno i maggiori obiettivi del neoliberismo,
perseguendoli con costanza e anche con rapidità davvero impressionanti.
L’intera vicenda della costruzione europea è stata seguita sin
dalle origini (si pensi al piano Delors) con la finalità precisa di
accentrare la ricchezza nelle mani di pochi e di far diventare i lavoratori
pura merce oggetto di scambio. E può dirsi che l’obiettivi
è stato pienamente raggiunto quando si è arrivati
al’adozione della “moneta unica”, cioè del
“cambio fisso”, lasciando inalterate e prive di qualsiasi
possibilità di allineamento le economie dei vari Stati. Di qui
l’enorme distacco che si è verificato tra gli Stati del nord Europa
(Germania, Francia, Austria Olanda) e i Paesi del sud Europa, come si è
già fatto cenno.
Per quanto riguarda
l’Italia, deve dirsi che, dopo l’assassinio di Aldo Moro, la
finanza ha usato il metodo già sperimentato sul piano internazionale (e
portato a termine per quanto riguarda la Grecia): ottenere la sottomissione dei
rappresentanti politici, in modo da ottenere il maggior numero possibile di
leggi favorevoli agli interessi delle multinazionali e delle banche e contrarie
agli interessi del Popolo italiano.
Del primo atto conforme ai
voleri della finanza e contrario agli interessi del popolo italiano, la lettera
di Andreatta a Ciampi del 12 febbraio 1981 abbiamo già parlato. E’
ora di fare cenno invece alla legge 30 luglio 1990, n. 218, nota come legge
Amato-Carli, e al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, i quali dettero
impulso alla “privatizzazione” delle “banche pubbliche”
italiane e eliminarono la “separazione” tra banche commerciali e
banche di investimento. Fu un colpo gravissimo contro la ricchezza nazionale,
non solo perché tolse ingiustificatamente al Popolo la
“proprietà collettiva” delle Banche pubbliche, ma anche
perché fu penalizzato l’investimento in attività produttive
di beni e servizi e si favorì l’investimento in “prodotti
finanziari”, facendo in modo che il danaro (reale o fittizio) servisse
non più alla produzione di beni reali, ma ad acquistare altro danaro,
non importa se “pieno” o “fittizio”.
Le privatizzazioni
proseguirono con il decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella
legge 8 agosto 1992, n. 359, che trasformò in SPA l’INA,
l’ENI, l’ENEL e l’IRI, in pratica tutto il patrimonio
economico in proprietà degli Italiani. Come si legge nel libro di Bruno
Amoroso e Nico Perrone, “Capitalismo predatore: come gli USA fermarono i
progetti di Mattei e Olivetti”, «le privatizzazioni riportarono
l’Italia alle condizioni del dopoguerra: uno Stato minore nel contesto
globale, che poteva essere utile in tante situazioni, ma che doveva restare in
posizione subordinata. Protagonisti di questa stagione di svendita del
patrimonio industriale e bancario pubblico e del risparmio degli Italiani sono
stati: Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, Lamberto Dini, Romano Prodi e
Mario Draghi, che hanno approfittato di una crisi del governo Andreotti per
realizzare le indicazioni che venivano dalla finanza internazionale. In quella
fase un ruolo di portaborse, osservatore e referente di altri poteri,
spettò anche a Mario Monti, fino al ruolo di protagonista assegnatogli
da quegli stessi poteri nella politica italiana».
Usurpata agli Italiani la
proprietà pubblica delle industrie, restavano i beni in
“proprietà collettiva demaniale” del Popolo italiano. A
privatizzarli, cioè a sottrarli alla proprietà dei cittadini
italiani, ci pensò il governo Berlusconi. L’art. 19 della legge 5
maggio 2009, n. 42, previde il trasferimento a Regioni, Province e Comuni, dei
demani statali idrico, marittimo e minerario, e gli articoli 2 e 3 del decreto
legislativo 28 maggio 2010, ampliando le previsioni della legge (con eccesso di
delega sanzionabile dalla Corte costituzionale), decretò la
“privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico” e la sua
“alienabilità” a privati, stabilendo che la semplice
iscrizione dell’immobile nel decreto producesse la sua trasformazione in
“bene disponibile”. In tal modo, sono diventati alienabili anche
tutti i beni artistici e storici costituenti il patrimonio culturale degli
Italiani.
Quanto ai “servizi
pubblici essenziali”, basti pensare che sono state privatizzate (con la
prospettiva di probabile svendita) le Ferrovie dello Stato (con legge 17 maggio
1985, n. 210), le Poste italiane (con decreto legge 1 dicembre 1993, convertito
nella legge 29 gennaio 1994, n. 71) e l’elenco, lo si creda, potrebbe
continuare a lungo.
E’ altresì da
sottolineare, per quanto riguarda invece i “servizi pubblici
locali”, che, dopo il referendum del 2011, il quale ha sancito
l’obbligo della pubblicità di detti servizi e, in particolare del
servizio idrico integrato, il governo Berlusconi, con l’art. 4 del
decreto legge 13 agosto 20011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre
2011, ha reintrodotto “la gestione concorrenziale” dei servizi in
parola (escludendo quello dell’acqua), e che, tuttavia, la Corte costituzionale,
con sentenza 17 luglio 2012, n. 199,
ha annullato detta norma rilevando “la sua coincidenza rispetto a
quella abrogata dal voto popolare, e sottolineando che “l’intento
abrogativo riguardava pressoché tutti in servizi pubblici locali di
rilevanza economica”. Ciò non ostante molti sono gli enti pubblici
territoriali che affidano i servizi a gestioni private.
E’ poi da porre nel
dovuto risalto il decreto legge n. 1 del 20 gennaio 2012, convertito nella
legge 24 marzo 2012, n. 27, emesso dal governo Monti per la
“liberalizzazione” delle attività economiche mediante
l’abrogazione delle norme che prevedano “limiti, licenze, nulla
osta, ecc.” , per l’inizio di una attività economica,
nonché delle norme che prevedano “divieti o restrizioni”
allo svolgimento di dette attività.
In questo mare di
“privatizzazioni” si è inserito l’intervento del
cosiddetto “diritto europeo”, che ha avuto ad oggetto, non solo le
materie per le quali l’Italia aveva consentito a
“limitazioni” della propria sovranità, ma l’intera
“politica economica” italiana, imponendoci, non solo il rispetto
dei limiti di Maastricht (che la Commissione, con atteggiamento altamente
opaco, non ha fatto valere nei confronti della Francia, la quale sfora
costantemente il limite del 3 per cento imposto dal Trattato di Maastricht fino
al 4,7 per cento, e della Germania,
la quale ultima non solo non ha rispettato per 5 anni il limite del 3 per cento
di indebitamento, ma non ha mai dichiarato il suo surplus commerciale, che ora rasenta il 9 per cento del Pil), ma
anche l’obbligo di osservare la “parità di bilancio”,
impedendoci in tal modo qualsiasi possibilità di ripresa economica.
Questo obiettivo è stato raggiunto per tredici anni, dal 1 gennaio 1999
al 6 dicembre 2011, mediante l’applicazione del “Regolamento del
Consiglio n. 1466/97” (un atto legislativo di secondo grado rispetto ai
Trattati), che, in aperta violazione del Trattato di Maastricht, e quindi
illegittimamente, fissava per gli Stati in difficoltà, tra i quali
l’Italia, l’obbligo del “pareggio di bilancio”.
Insomma, mentre l’art. 104 c) del Trattato garantisce agli Stati membri
di indebitarsi nell’anno fino al 3 per cento, il Regolamento ha stabilito
lo 0 per cento. Un atto, dunque, chiaramente eversivo, la cui
illegittimità è stata, per così dire, rafforzata dal
successivi Trattato di Lisbona, il quale, nell’art. 126, ha riprodotto
testualmente il citato art. 104 c) del Trattato di Maastricht sull’Unione
Europea. Il successivo Regolamento n. 1175/2011, accertata la
“erroneità” del Regolamento n. 1466/97, lo ha abrogato. Ma
immediatamente si è dato spazio a provvedimenti costituenti applicazione
anticipata del “fiscal compact”, il quale, non solo ribadisce, ma
aggrava il vincolo della parità di bilancio e rende ancora più
stridente il contrasto con l’art. 126 del Trattato di Lisbona sul
funzionamento dell’Unione Europea. Si tenga ben presente che il fiscal
compact è un Trattato governativo di diritto internazionale e non ha
alcun potere di intervenire sulla materia di un Trattato Europeo, poiché
le norme contenute in questi ultimi possono essere modificate soltanto con la
procedura prevista dall’art. 48 del Trattato di Lisbona. Ad aumentare la
confusione, il fiscal compact dichiara di volersi applicare solo se conforme ai
Trattati europei. Dunque, il “fiscal compact” è
“inapplicabile”. Ciò non ostante se ne pretende
l’osservanza.
Da sottolineare che, oltre
al comportamento opaco della Commissione Europea, hanno agito illegittimamente,
cioè fuori della loro specifica competenza puramente finanziaria, sia il
Fondo Monetario Internazionale, sia la BCE. , le quali hanno chiesto ogni forma
di riforme dal contenuto “marcatamente politico”. Nello spazio di
un anno sono stati redatti e approvati patti e trattati, che ricordano,
come dice il Gallino, un vero “colpo di Stato a rate”.
Il 25 marzo 2011 è stipulato, su
proposta di Francia e Spagna, il “Patto euro plus”, che promuove la
realizzazione di una maggiore “competitività”.
Il 4 novembre 2011, il
Commissario all’economia europea, Olli Rehn, invia una
“lettera” al Nostro Ministro dell’economia contenente
perentorie prescrizioni di intervento strutturale, le quali vengono fedelmente
eseguite dal subentrato governo Monti in modo davvero impressionante. Questo
governo provvede infatti ad allungare l’età del pensionamento e la
tendenziale abolizione delle pensioni di anzianità; sposta l’onere
fiscale del lavoro ai consumi e alle proprietà immobiliari; fissa le
caratteristiche che avrebbe dovuto presentare la riforma del lavoro, introdotta
nel marzo 2012 dalla Ministra del lavoro Elsa Fornero; provvede alla
modernizzazione della pubblica amministrazione, ivi comprese le misure per
ridurre il personale, quali la mobilità obbligatoria, il part-time, la
revisione dell’organico.
Il 13 novembre 2011, su
proposta della Commissione, entra in vigore una versione aggiornata del Patto
per la stabilità (introdotto in Italia con l’art. 28 della legge
n. 448 del 1998, finanziaria per il 1999), denominata “Six-Pack”,
in quanto comprendente cinque disposizioni regolative e una direttiva. Con tale
provvedimento vengono stabilite dettagliatamente le
“penalità” da comminare ai Paesi che non rispettano i limiti
riguardanti il deficit di bilancio e i piani da porre in opera per ridurre,
nell’arco di un ventennio, a non più del 60 per cento del Pil
l’ammontare del debito, nonché una procedura di voto
“rovesciata” (le sanzioni vengono inflitte automaticamente a meno
che una maggioranza qualificata di Stati membri voti contro). Tempo concesso
per farlo: dieci giorni.
Il 2 febbraio 2012 gli
ambasciatori dei Paesi dell’eurozona, sotto la regia del Consiglio
europeo, firmano il Trattato che istituisce il Meccanismo Europeo di
Stabilità (MES), il quale ha il compito di dare prestiti agli Stati
membri in difficoltà a
condizioni durissime.
Il 9 febbraio 2012 la
Commissione europea, la BCE e il Fondo monetario Internazionale inviano al
governo greco un “Memorandum di intesa sulle politiche economiche”,
da adottare quali condizioni per ricevere assistenza finanziaria.
Il 2 marzo 2012,
venticinque Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea firmano un
“Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governante
nell’Unione economica e monetaria”, denominato “fiscal
compact”, con il quale viene stabilito l’obbligo del pareggio di
bilancio da recepire nella legislazione ordinaria o costituzionale di ogni
Paese membro, nonché l’obbligo di ridurre il debito al 60 per cento
del Pil con un ritmo di un ventesimo l’anno. Per l’Italia si
tratterebbe di 50 miliardi l’anno. Il meccanismo di verifica
dell’adempimento di questi obblighi e l’erogazione delle misure
punitive è completamente automatico fino all’eventuale intervento
della Corte di giustizia europea. A valutare, soppesare e decidere è la
Commissione. Lo svuotamento del processo democratico è clamorosamente
evidente, visto che la decisione è rimessa a organi non eletti dal
Popolo. L’Italia ha proceduto con la massima celerità a far propri
i gravosi impegni derivanti dai documenti sopra richiamati. Ed è merito
del governo Monti se ci siamo assunti tante e autolesioniste
responsabilità, addirittura ponendo in Costituzione (e non usando la
legislazione ordinaria, come pure era previsto da questo trattato
internazionale) il principio del “pareggio del bilancio”,
attraverso una modifica costituzionale approvata dal Parlamento il 18 aprile
2012. “c’è da chiedersi – osserva il Gallino –
se qualcuno dei parlamentari italiani che hanno approvato questi diversi
impegni avesse una vaga idea di quale perdita di sovranità economica e
politica ciò avrebbe comportato, ovvero quale ferita rappresenti per la
democrazia. Questo cedimento è imperdonabile, poiché l’Italia,
e con essa gli altri Stati in difficoltà, si sarebbero dovuti accordare
nel far valere l’illegittimità del fiscal compact, come sopra
visto, e comunque resistere, con dignità e senza escludere possibili
alternative, alle prese di posizione della Commissione, della BCE e del FMI”.
L’elencazione delle
sciagurate azioni della Commissione Europea, della BCE e del FMI naturalmente
non finiscono qui. Basti pensare che il Parlamento europeo, senza che nessuno
dei nostri rappresentanti facesse una obiezione, ha approvato il TTIP (Trattato
internazionale tra Stati Uniti e Unione Europea), poi accantonato da Trump, in
base al quale gli investitori e commercianti americani che incontrano ostacoli
in disposizioni costituzionali o legislative del Paesi membri
dell’Unione, come avviene nelle disposizioni che tutelano la salute o
l’ambiente, hanno diritto al risarcimento dei danni, determinato da un
arbitro nominato dagli stessi investitori e commercianti. Altro sciagurato
trattato è il CETA (trattato fra il Canada e l’Unione Europea),
anch’esso approvato dal Parlamento europeo e ora in corso di ratifica
presso il nostro Parlamento, che sostanzialmente ripete le disposizioni del
TTIP, mettendo al posto dell’arbitro una Commissione arbitrale nominata
dai Paesi interessati e concedendo all’Italia 110 marchi di fabbrica
sulle migliaia e migliaia che esistono.
In questa complessa e
inestricabile situazione, le leggi emesse dal Parlamento e molto spesso
approvate con la richiesta di fiducia da parte del governo, continuano a fluire
di buona lena. Si pensi allo Sblocca Italia del governo Renzi, che ha concesso
a una azienda petrolifera stranera tutto il petrolio sottostante al nostro territorio
terrestre e marittimo, producendo incalcolabili danni all’ambiente, alla
salute e alla economia; ha consentito l’applicabilità del
principio del silenzio assenso anche in zone vincolate; ha sottoposto i
Soprintendenti al potere dei Prefetti. Si pensi al Jobs Act dello stesso
governo, che ha ridotto i lavoratori a merce di scambio, cancellando i diritti
conquistati con decenni di lotta, si pensi alla riforma della pubblica
amministrazione, sempre del governo Renzi, che ha cancellato il Corpo forestale
dello Stato, con la conseguenza che nel 2017 gli incendi estivi hanno superato
del 700 per 100 gli incendi dell’anno precedente. E, certamente
l’elencazione non finisce qui. Le sciagure prodotte da leggi
costituzionalmente illegittime continuano a ritmo serrato e diventa
difficoltoso anche annoverarle.
A ciò si aggiunga
che, svendute le banche e le industrie. Stiamo svendendo persino tutto il
nostro territorio. Abbiamo svenduta l’isola più bella
dell’Arcipelago della Maddalena, l’isola di Budelli, sono in vendita
il Monte delle Tofane e il Monte Cristallo sopra Cortina d’Ampezzo, sono
state vendute quasi tutte le isole della Laguna Veneta, ampi tratti di spiaggia
in corrispondenti alberghi costriti o da costruire, tutti i Fari marittimi
(dieci dei quali li ha acquistati la Germania), sono stati svenduti una
quantità incredibile di immobili artistici e storici appartenenti allo
Stato o a Enti pubblici territoriali. Solo per fare qualche esempio, sono stati
svenduti la Zecca monumentale di piazza Verdi a Roma a Cinesi e la Casina
Valadier situata al Pincio di Roma a uno sceicco arabo (quest’ultima per
appena 16 milioni di euro. E chi voglia saperne di più veda
l’elenco degli immobili da vendere accuratamente custodito
dall’Agenzia del Demanio. Intanto anche immobili artistici e storici sono
passati in enorme quantità in mano straniera. A Roma l’Hotel
Excelsior è in mano Araba, il Grand Hotel di piazza Esedra in mano
Cinese, l’Eden in mano inglese, il Flora, che ha cambiatio nome, in mano
francese, ed è inutile proseguire nell’elencazione.
Siamo allo stremo delle
forze. Il governo si arrabatta per la prossima legge di stabilità,
mentre incombe sulle nostre spalle, con lo spauracchio delle terribili sanzioni
punitive, l’obbligo imposto dal “fiscal compact” di accantonare
il 20 per cento del Pil per “diminuire” (si fa per dire!) il
debito, che è salito sempre più in alto, non ostante tutto.
Alla base, non lo si può invero
nasconderlo, c’è la vigenza del sistema economico neoliberista di
carattere predatorio, che ci porta alla più nera miseria. Lo dimostra il
fatto che, nel mondo, come ha precisato Stiglitz, sono cresciute le economia
che hanno seguito i principi keynesiani comportanti l’intervento dello
Stato come protagonista dell’economia, come la Cina, l’India e la
Polonia, mentre sono caduti nel disastro economico quei paesi che hanno seguite
le indicazioni di carattere neoliberiste propugnate dal FMI, come il Senegal e
l’Argentina, nonché, in Europa, gli Stati del sud, e in
particolare la Grecia (ormai completamente destabilizzata dal punto di vista
economico) e l’Italia. L’Italia, tuttavia, ha ancora una
possibilità per salvarsi: attuare la Costituzione, specie quella
economica, rivalutata dal voto referendario del 4 dicembre 2017, contrastando,
innanzitutto, l’attuazione del “fiscal compact”, il quale,
come visto, è illegittimo, non solo alla luce della Costituzione
italiana, ma anche alla luce dei Trattati Europei. E, comunque, si tenga
presente che in caso di contrasto tra questi ultimi e la Costituzione, è
la Costituzione che deve prevalere. La giurisprudenza costituzionale italiana
(come dichiarato, per la Germania, dalla Corte costituzionale tedesca) ha
sempre praticato il principio
cosiddetto dei “contro limiti”, per cui non può darsi
ingresso nell’ordinamento giuridico italiano a una norma che contrasti
con i diritti umani sanciti in Costituzione. E, per fortuna, la lungimiranza
dei nostri Costituenti ha anche previsto, per così dire, un potere di
governo del Popolo, al quale, come si è detto, spetta di
«partecipare all’organizzazione politica economica e sociale del
Paese» (art. 3, comma 2, Cost.), secondo il principio di
sussidiarietà previsto dal citato quarto comma dell’art. 118 Cost.
E si tenga altresì presente che, come prima detto, oltre a un
consistente movimento di pensiero tra gli intellettuali di tutto il mondo, si
sta affermando anche nei Popoli il convincimento di dover voltare pagina di
fronte all’attuazione del pensiero unico dominante neoliberista. Dunque,
non saremo soli. Ci accompagnerà la piena consapevolezza di essere
Nazione Europea nel vero senso della parola, e di essere portatori, ad opera
della nostra Costituzione, «di inderogabili doveri di solidarietà
sociale» (art. 2 Cost.)[1].
[Un
evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende
impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati.
Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione
“Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori
del X Seminario di studi “Tradizione Repubblicana Romana”, dal
curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]
* Relazione presentata nella Sessione del 16 dicembre 2016
[“CONTRO L’USURA: DEBITO E CORTE INTERNAZIONALE DI
GIUSTIZIA”] del X Seminario di studi "TRADIZIONE
REPUBBLICANA ROMANA", organizzato dall’Unità di ricerca
“G. La Pira” di Sapienza-Università di Roma e del Consiglio
Nazionale delle Ricerche, diretta dal professore Pierangelo Catalano, con il
patrocinio di Roma Capitale. Roma – Sede del CNR.
[1]
Per la bibliografia, rinvio ai due miei testi: Il territorio bene comune degli Italiani e Gli inganni della finanza”, Ed. Donzelli, Roma,
rispettivamente del 2014 e del 2016.