DA ROMA ALLA TERZA ROMA
XXXVII SEMINARIO INTERNAZIONALE DI STUDI STORICI
Campidoglio, 21-22 aprile 2017
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Accademia Romena, Bucarest
ROMA, NUOVA ROMA: PROVINCE E ORDINAMENTI TERRITORIALI
ECCLESIASTICI
Sommario: 1.
Spazio
romano ed espansione cristiana. – 2. Strutture territoriali romane e
organizzazione della vita ecclesiale. – 3. Ordinamento provinciale romano e
ordinamento territoriale ecclesiastico. – 4. Provincia ecclesiastica e comunione. – 5. Comunione
e preminenze negli ordinamenti territoriali ecclesiastici. – 6. Ordinamenti
territoriali ecclesiastici e autorità imperiale. – 7. Le strutture
provinciali ecclesiastiche in Occidente. – 8. «Sedes
Imperii» e comunione delle Chiese. – 9. «Dove è il corpo, là si radunano le
aquile».
– 10. Il mysterium oltre il
territorio nell’Occidente tardo-antico. – 11. Collegialità sinodale ed ecumenicità
imperiale.
– 12. Vescovo di Roma, sollicitudo
omnium Ecclesiarum, imitatio Imperii.
Fin dagli inizi della diffusione del Cristianesimo,
l’articolazione istituzionale e amministrativa del territorio è aspetto che i
vertici della comunità ebbero ben presente, in quanto proprio il territorio
rappresentava il contesto in cui doveva trovare realizzazione il mandato del
Maestro: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e
fino agli estremi confini della terra»[1]. Non
a caso, nella seconda metà del II secolo, Ireneo (nato nell’asiana Smirne e
finito vescovo a Lione nelle Gallie) ritenne di dover espressamente rimarcare che
«grazie ai Romani», non soltanto «il mondo ha la pace», ma «noi senza paura
percorriamo itinerari di terra e navighiamo lungo le rotte marine, dovunque
vogliamo»[2]. In
effetti, era stato sulle strade e le rotte rese sicure dall’autorità romana che
Paolo aveva sviluppato i suoi itinerari attraverso l’intera area mediterranea:
si pensi al viaggio missionario che lo portò, insieme a Sila, sul suolo
continentale europeo, facendolo approdare a Neapoli, donde, percorrendo la Via
Egnatia, avrebbe raggiunto Filippi e Tessalonica, per proseguire poi alla volta
di Berea, Atene e Corinto[3]; ma
si pensi anche all’altro grande e successivo viaggio dell’apostolo, che da
Cesarea di Palestina lo avrebbe finalmente condotto a Roma, per discutere
nell’Urbe, quale civis romanus, la causa intentatagli dal Sinedrio di
Gerusalemme[4].
Le iniziative missionarie paoline ci attestano peraltro come la
diffusione dell’Evangelo, grazie alla rete viaria e al sistema di comunicazioni
operante nella prima età imperiale, abbia fin dall’inizio riguardato non
soltanto le grandi metropoli, ma anche i centri minori e i territori
circostanti: minacciati di lapidazione nella capitale della Licaonia, Iconio,
Paolo e Barnaba sono detti fuggire e predicare «a Listra e Derbe e nei dintorni
(τὴν περίχωρον)»[5]. Di
fatto, attorno al 112, vediamo il legatus pro praetore della Bitinia,
Plinio, comunicare al suo imperatore, Traiano, che «il contagio di questa superstizione
ha pervaso non soltanto le città, ma anche i villaggi e le campagne»[6]; e
attorno alla metà di quello stesso II secolo, nella sua I Apologia ad
Antonino Pio, Giustino espressamente ricorda come la celebrazione
dell’eucaristia domenicale veda il radunarsi dei credenti sia «nelle città»,
sia «nelle campagne»[7].
Gli ordinamenti territoriali romani sono percepibili in
filigrana, oltre che nella primitiva espansione missionaria cristiana, anche
nel successivo organizzarsi delle comunità. A tale riguardo risulta alquanto
indicativo il lessico dell’epistola sinodale che, nell’Autunno del 254,
Cipriano di Cartagine e un folto gruppo di vescovi indirizzarono al prete
Felice della Chiesa di Léon e Astorga e al diacono Lelio della Chiesa di
Mérida, i quali, a nome dei vescovi Felice e Sabino, si erano rivolti alla sede
cartaginese. In merito all’istituzione di un nuovo vescovo, così i presuli
raccolti a Cartagine si espressero: «All’incirca in tutte le provincie ... per
divina prescrizione e disciplina apostolica ... in vista delle ordinazioni ...
tutti i vescovi viciniori della medesima provincia si radunano insieme»[8]. «Fere per prouincias uniuersas», «episcopi eiusdem prouinciae proximi»: è
evidente come l’ormai consolidata struttura amministrativa provinciale e il
relativo termine – alla metà del III secolo – siano divenuti talmente familiari
agli abitanti dell’Impero da spingere i vescovi a definire le proprie relazioni
collegiali con esplicito riferimento alle circoscrizioni territoriali
dell’Impero.
Ma non soltanto le circoscrizioni territoriali risultano
costituire un quadro di riferimento per le relazioni tra i vescovi; le
strutture civili appaiono rilevanti anche nella progressiva definizione della
funzione di presidenza all’interno dell’episcopato.
Dalla documentazione offertaci da Eusebio in merito alla
questione quartodecimana, che travagliò le Chiese alla fine del II secolo,
possiamo ricavare alcune interessanti indicazioni in merito alle forme di
organizzazione dell’episcopato. Oltre al fatto che sia stato il vescovo romano
a prendere l’iniziativa (non del tutto felice, in verità) di stimolare gli
altri episcopati a pronunciarsi sulla questione, si osserva che, mentre tra i
vescovi del Ponto la presidenza appare riconosciuta in forza dell’anzianità nel
ministero, in altri ambiti, come l’Acaia o l’Asia, l’ufficio di presidenza
risulta svolto dai vescovi delle città amministrativamente preminenti. Se
corretta è l’indicazione eusebiana relativa all’episcopato di Palestina,
proprio in tale territorio la forza attrattiva dell’ordinamento civile appare
con assoluta evidenza: a presiedere l’episcopato sta infatti il vescovo di
Cesarea Marittima, avendo a fianco a sé il vescovo della Città Santa.
In quel contesto la Chiesa egiziana parlò per tramite delle
Chiese palestinesi. In effetti fino a quel momento in Egitto sussisteva un
unico vescovo, il papa di Alessandria, ordinato dai suoi presbiteri[9]; e ci
si può domandare se proprio l’esperienza di generale mobilitazione degli
episcopati, suscitata dall’iniziativa di Vittore di Roma, non abbia concorso a
spingere il papa alessandrino Demetrio ad avviare l’insediamento di vescovi in
altre parti della “provincia” egiziana[10].
Questi dati mostrano – io credo – quanto sia fuorviante, anche
per quanto riguarda le istituzioni ecclesiastiche, configurare il momento
costantiniano come una svolta. Gli episcopati si erano venuti organizzando in
un contesto romano, e ne condividevano i criteri istituzionali già prima di
Costantino. Con Costantino le modalità di esercizio della collegialità
episcopale non mutarono, semplicemente furono esattamente definite le
competenze con riferimento al territorio. Gli indefiniti «vescovi viciniori»,
di cui parlava Cipriano, divengono «tutti i vescovi esistenti nella provincia»,
come si esprime la normativa canonica di Nicea.
In effetti il concilio Niceno del 325, oltre a definire – su impulso
diretto di Costantino – la formula paradigmatica dell’ortodossia trinitaria[11],
venne a fissare una normativa canonica, fondamentale per la successiva vita
istituzionale delle Chiese cristiane. In particolare i cann. 4 e 5
fissavano definitivamente il concetto di provincia ecclesiastica (ἐπαρχία
/ provincia), assegnavano al suo interno l’ufficio di presidenza al vescovo
della metropoli, delineavano le competenze dell’episcopato provinciale e le
procedure da seguire in merito alle elezioni episcopali, imposero regolari
riunioni sinodali due volte nel corso dell’anno per dirimere eventuali
contenziosi e ricorsi[12].
In quello stesso concilio, nel can. 7, con riferimento alla provincia di Palestina, si stabilì
all’interno della gerarchia episcopale una fondamentale distinzione tra «onore»
(τιμή / honor) e «dignità» (ἀξίωμα / dignitas, ossia il concreto esercizio della
funzione di presidenza), nel caso specifico confermando l’onore, che «la consuetudine
e l’antica tradizione» assegnavano al presule della Città Santa, e riservando
la dignità metropolitica al vescovo di Cesarea[13].
Se consideriamo quest’insieme di disposizioni alla luce di
quanto osservato in merito alle modalità di attuazione della comunione tra le
Chiese prima di Costantino, non possiamo che riconoscere la reale continuità
della normativa canonica della Chiesa imperiale rispetto a quanto l’aveva
preceduta: riferimento al territorio provinciale, principio metropolitico
nell’assegnazione della presidenza, carattere collegiale dell’ordinazione
episcopale erano aspetti già ampiamente consolidati; anche la terna episcopale
degli ordinanti, che prima del can. 4 niceno
era stata esplicitata nel 314 dal concilio di Arles nel can. 20 [14], trova
attestazione già alla metà del secolo III nella lettera del vescovo romano
Cornelio al collega Fabio di Antiochia in riferimento all’ordinazione del
proprio rivale Novaziano[15].
Che la provincia ecclesiastica non sia un imprigionamento delle
istituzioni ecclesiali entro strutture ad esse estranee, ma rifletta un’osmosi
armonica, determinatasi spontaneamente e giunta a maturazione con la
legislazione d’età costantiniana, è mostrato in modo assai eloquente dal significato
che a tale istituzione assegna un concilio svoltosi ad Antiochia in anni di
poco successivi al concilio Niceno. Nel can. 9 antiocheno la territorialità romana, in effetti, appare
trasfigurarsi in ambito ecclesiale, al cui interno l’articolata comunione tra
le Chiese trova compiuta manifestazione e l’unità del collegio episcopale
ricompone organicamente l’autorità primaziale con la sinodalità: «Ciascun
vescovo ... non osi prendere
alcuna iniziativa oltre il territorio di sua competenza senza aver interpellato il presule della metropoli, e per parte
sua il metropolita nulla compia senza il consiglio degli altri con-sacerdoti»[16]. Forse sul finire del secolo IV tale
interpretazione dell’ordinamento territoriale ecclesiastico sarebbe stata
ripresa dal can. 34 degli Apostoli,
che ne venne segnalando il fondamento trinitario: «I vescovi ... non agiscano
mai senza l’assenso del primate, ma anch’egli chieda il consenso di tutti, e
così vi sarà unanimità e Dio sarà glorificato, per mezzo del Cristo, nello Spirito
Santo»[17].
Oltre a regolare l’istituto della provincia ecclesiastica, il
concilio Niceno nel suo can. 6,
segnala l’esistenza, nella comunione delle Chiese, di tre eminenti sedi, i cui
presuli «per antica consuetudine» sono dotati di particolari prerogative
nell’esercizio della presidenza sopra i rispettivi episcopati: si tratta delle
sedi di Roma, di Alessandria e di Antiochia[18].
Merita segnalare come tale preminenza ecclesiastica corrispondesse a una
preminenza delle tre città, che era consolidata da tempo nell’ecumene romana,
trovando attestazione fin da Giuseppe Flavio[19].
Questa attenzione alle figure apicali della comunione delle
Chiese si sarebbe successivamente espressa in strutture ecclesiastiche sempre
più articolate e complesse, con corrispondenza più o meno stretta ai
macro-ordinamenti territoriali dell’Impero: si pensi al can. 2 di Costantinopoli (381)[20], e
ai cann. 9 e 17 di Calcedonia (451)[21],
relativi agli esarchi (ἔξαρχοι
/ primates), ossia i metropoliti delle città poste ai vertici delle diocesi
civili (Cesarea per il Ponto, Efeso per l’Asia, Eraclea per la Tracia).
Queste figure istituzionali d’ambito ecclesiastico appaiono le
più direttamente mutuate dall’ordinamento civile e le meno legate a una
consolidata esperienza ecclesiale. Non a caso il citato concilio Calcedonese,
che ne fissò la denominazione (ἔξαρχοι
/ primates), di fatto anche ne determinò il ridimensionamento, rendendo il
ricorso al loro tribunale sostituibile da un ricorso alla sede
costantinopolitana, e riservando al presule di quest’ultima, col can. 28, il diritto di ordinazione nei loro
confronti[22].
Con riferimento al nesso tra ordinamenti civili e ordinamenti
ecclesiastici non si possono omettere a questo punto alcune ulteriori
considerazioni.
Si è visto come nei canoni niceni fosse marcatamente presente il
richiamo alla tradizione ecclesiale, considerata quale premessa legittimante,
nella cui scia la norma sinodale intendeva porsi. Sotto tale aspetto, il can. 17 di Calcedonia appare portatore di una
prospettiva decisamente diversa, ratificando il principio che eventuali
interventi dell’autorità imperiale, che modifichino il rango gerarchico di una
città, debbano trovare diretto riflesso anche negli ordinamenti ecclesiastici.
Un tale automatismo suonava decisamente inusuale e foriero di abusi. Non a caso
quello stesso concilio nel can. 12
stigmatizzò l’operato dei vescovi che, per ambizione, miravano ad ottenere
dall’imperatore la divisione della propria provincia e l’elevazione della
propria sede a metropoli. Il canone stabilisce che in tali casi al presule sia
lasciato soltanto l’«onore», e si salvaguardino intatti alla vera metropoli
tutti i suoi diritti[23].
L’opportunità di una tale disposizione può essere ben verificata
nella concreta esperienza del grande Basilio che, metropolita della prestigiosa
sede di Cesarea di Cappadocia, si vide dall’imperatore Valente nel 371
dimezzata la propria provincia con la formazione della Cappadocia secunda, la cui nuova cattedra metropolitica di Tiana
era nelle mani del vescovo Antimo; la risposta di Basilio si tradusse allora
nella creazione di nuovi vescovi, con l’ordinazione del fratello Gregorio,
insediato a Nissa, e del Nazianzeno destinato (invano) alla sperduta località
di Sasima[24].
Va comunque osservato che in Oriente (anche per la precoce
diffusione che il Cristianesimo aveva là conosciuto, e per la consistenza delle
comunità) la corrispondenza tra territorio civile e territorio ecclesiastico fu
particolarmente stretta. Periklês Pétros Joannou ha inteso spiegare tale
aspetto, appellandosi a una convergenza tra i due ambiti nei criteri ispiratori[25]. Non
si può tuttavia trascurare l’indicazione che, in merito alla preminenza
dell’ordinamento civile, offre il ricordato can. 17 di Calcedonia.
In Occidente, anche per la più rarefatta presenza cristiana, le
provincie ecclesiastiche si presentano spesso con connotazioni proprie, nelle
quali si riflettono più direttamente le concrete vicende, che hanno segnato la
storia delle comunità.
La penisola italiana, come si sa, è stata divisa anch’essa in
provincie dalla riforma dioclezianea, ma ecclesiasticamente – almeno
dall’ultimo quarto del IV secolo – essa si articola in due ambiti
istituzionalmente ben distinti, che corrispondono sostanzialmente alle due
diocesi costantiniane: la Suburbicaria e l’Italia Annonaria. Ma si tratta di
una corrispondenza non assoluta giacché, dopo l’ascesa al trono di Valentiniano
I, dal 365 le provincie della Flaminia (con Ravenna) e del Piceno Annonario
furono scorporate dalla Suburbicaria e passarono all’Annonaria; ma, dal punto
di vista ecclesiastico, esse rimasero saldamente suburbicarie, conservando il
tradizionale legame con Roma[26].
Ma pure in Africa le provincie ecclesiastiche presentavano
connotazioni specifiche: la sola Africa Proconsolare era ecclesiasticamente a
reggimento metropolitico, avendo a capo il presule di Cartagine; ma le altre
provincie conservavano l’arcaica forma di presidenza decanale (che alla fine
del II secolo era praticata – come si è visto – anche nel Ponto). Inoltre, dal
punto di vista territoriale, i legami tra i vescovi non seguivano rigorosamente
i confini provinciali: l’Hippona di Agostino, ad esempio, civilmente faceva
capo alla Proconsolare, ma ecclesiasticamente era numida[27].
Quanto poi alle Gallie, nell’ultima parte del IV secolo
l’ordinamento provinciale ecclesiastico stava progressivamente impiantandosi e
la disciplina per le elezioni episcopali ancora non si era definitivamente
affermata, come ben documentano i canoni del concilio di Torino del 398 (o 399)[28].
Peraltro, proprio le Gallie, e segnatamente le Sette Provincie,
provano come, pure in Occidente, l’evoluzione delle strutture dell’ordinamento
territoriale civile abbia suscitato in ambito ecclesiastico un’attrattiva quasi
irresistibile, soprattutto se dagli eventuali mutamenti potevano sperarsi esiti
consoni alle ambizioni di singoli e di gruppi. In effetti allora, in
concomitanza con la duplicazione della provincia Narbonensis, esplosero le ambizioni del vescovo di Arles contro il
metropolita di Vienne, e i vescovi della nuova provincia si sentirono
autorizzati a obliare il legame che li aveva uniti al presule di Marsiglia,
Proculo, dal quale avevano ricevuto l’ordinazione[29].
Vi è un altro aspetto dell’antico ordinamento istituzionale
della comunione ecclesiastica che, a un primo impatto potrebbe far pensare a
impropri condizionamenti esterni, ma che in realtà, oltre a rispondere a
concrete esigenze della vita istituzionale ecclesiastica integrata nelle strutture
imperiali, è anch’esso radicato in precedenti concrete esperienze vissute
dall’episcopato cristiano.
Mi riferisco alla preziosa, delicata, insostituibile funzione
che il vescovo della città «sedes Imperii»
è chiamato a svolgere a servizio di tutto il restante episcopato. Egli infatti
era il tramite (in Occidente, analogamente al vescovo di Roma) che mediava le
relazioni dei presuli con l’autorità imperiale e i loro contatti con essa. La
collocazione istituzionale che i vescovi avevano acquisito nel quadro
dell’Impero rendeva oltremodo frequenti le occasioni di interlocuzioni con la
Corte. Già due canoni del già citato concilio Antiocheno, di poco successivo a
Nicea, avevano deplorato l’affollarsi di noiose richiese dirette all’augusto[30].
Onde evitare disordini e impedire che i vescovi si assentassero dalle proprie
Chiese, nel 343 il concilio di Serdica, di fatto occidentale, stabilì al
riguardo una normativa molto rigorosa. Per avanzare istanze all’imperatore i
vescovi avrebbero dovuto preparare un’idonea documentazione, e trasmetterla
tramite un proprio diacono al vescovo della città preminente della provincia;
questi, ricevuto il materiale, doveva a sua volta mandarlo tramite un proprio
diacono alla Corte, associandovi proprie lettere commendatizie; egli inoltre
doveva scrivere al vescovo della località di residenza dell’augusto, cui
competeva farsi tramite ultimo nei confronti dell’imperatore[31].
È la normativa che Giustiniano riprende e ampia con riferimento,
ovviamente, alla città imperiale sul Bosforo[32]. Il
vescovo di tale città nel 381 aveva ricevuto nel concilio di Costantinopoli
l’altissimo onore di presule della Nuova Roma[33], e
nel 451, a Calcedonia, acquisì una speciale e unica configurazione
istituzionale all’interno della pars
Orientis[34].
Negli anni in cui a Milano esercitarono l’episcopato Ambrogio,
Simpliciano e – fino al 402 – Venerio, quella di vescovi della sedes Imperii fu la condizione propria
dei presuli milanesi. E in effetti in quegli anni vediamo rivolgersi a loro gli
episcopati dell’Africa[35],
della Spagna[36], delle Gallie[37],
dell’Illirico[38].
Ma si deve sottolineare come tale rilievo nella comunione
cristiana, riflesso della centralità istituzionale della figura imperiale anche
per il contesto ecclesiastico, non sia un esito del IV secolo; a parte le
argomentazioni in merito alla figura imperiale sviluppate da Tertulliano[39] e da
Origene[40],
molto concretamente: quando ad Antiochia si pose il problema del possesso della
domus ecclesiae tenuta saldamente da
Paolo Samosateno, ma rivendicata dall’episcopato che a lui si opponeva, la
decisione in merito all’assegnazione dell’immobile fu dai vescovi stessi
rimessa all’imperatore, in quanto imperatore, ed era il pagano Aureliano[41].
Nel 402 l’imperatore Onorio abbandonò Milano.
La situazione venutasi a creare è ben espressa da una sinodo
Africana del 404. Non sapendo dove l’imperatore potesse trovarsi, i padri
sinodali così si esprimono: «Si devono inoltre inviare lettere commendatizie
per i nostri legati al vescovo della Chiesa romana e agli altri vescovi delle
località dove l’imperatore possa eventualmente trovarsi»[43].
In quello stesso 404 Onorio venne fissando definitivamente la
propria residenza a Ravenna, e l’esperienza sopra descritta divenne di fatto
irripetibile, essendo Ravenna una sede suburbicaria rigorosamente sottoposta
all’autorità del pontefice romano.
Il presule ravennate poté acquisire il diritto di ordinazione
dei colleghi vicini, in tal modo sottraendo progressivamente alla provincia
ecclesiastica milanese i vescovi dell’Emilia, poté divenire metropolita a tutti
gli effetti, poté assumere il titolo arcivescovile, ma non poté modificare la
propria subordinazione alla Chiesa romana[44]. Soltanto
l’intervento di un’autorità imperiale direttamente presente in territorio
occidentale avrebbe potuto modificare tale stato di cose. E tale situazione si
determinò quando Costante II nel 663 decise di lasciare Costantinopoli e
raggiungere l’Italia[45]: in quell’inattesa
situazione il presule ravennate Mauro giunse a concepire l’idea di fare della
propria cattedra una sede autocefala[46].
Il progetto trovò compimento col typus
emesso da Costante nell’anno 666 [47]. Ma due anni più
tardi Costante fu assassinato a Siracusa, non si ebbe più presenza imperiale in
Occidente e già nel Marzo 680 l’arcivescovo ravennate (in quel momento Teodoro)
dovette riconoscersi nuovamente sottoposto al papa romano, accettando l’obbligo
per i suoi successori di ricevere a Roma l’ordinazione[48].
Quanto agli esiti ecclesiastici
dell’abbandono di Milano da parte di Onorio, è significativo il fatto che
Aquileia soltanto dopo il 402 sia venuta aggregando attorno a sé una provincia
ecclesiastica, divenendo cattedra metropolitica di Venetia et Histria, territorio i cui vescovi non avevano più motivo
per conservare il loro rapporto con la lontana cattedra della precedente «sedes
Imperii». Rimasero peraltro ecclesiasticamente milanesi le sedi episcopali,
territorialmente venete, di Brescia e Cremona (documentata dal V secolo). La
prima attestazione di sinodo provinciale aquileiese si lega a un invito alla
sua convocazione contenuto, attorno all’anno 442, in una lettera di Leone di
Roma a quello che ormai era a tutti gli effetti, il metropolita[49].
La generalizzata recezione del principio romano della
territorialità anche in ambito ecclesiastico non fece peraltro di tale
principio un criterio esclusivo per la definizione delle dipendenze gerarchiche
all’interno della comunione cristiana, in particolare in Occidente.
Alla fine del V secolo il papa romano Gelasio I (492-496) a più
riprese venne autorevolmente proclamando che «territorium non facere dioecesim»[50]: non
soltanto il singolo fedele poteva scegliere la propria chiesa battesimale
prescindendo dal criterio territoriale[51], ma
gli stessi luoghi di culto extraurbani dovevano ritenersi canonicamente
dipendenti da chi, prima dell’edificazione della «basilica», «aveva battezzato le locali popolazioni, nonché da colui
presso il quale quelle stesse popolazioni ogni anno si erano devotamente recate
per ricevere la consignatio (ossia,
la confermazione episcopale)»[52].
Siffatta tensione tra principio sacramentale (o meglio:
misterico) e principio territoriale nell’ordinamento delle istituzioni
ecclesiastiche non era, a quella data, fenomeno nuovo. Già un secolo prima,
nell’ambito della diocesi imperiale delle Sette Provincie, la tensione tra i
due criteri aveva dato adito al ricordato contrasto tra il vescovo di
Marsiglia, Proculo, e i presuli della neocostituita provincia civile della Narbonensis II, nei confronti dei quali
– in forza della conferita ordinazione episcopale – il primo rivendicava
diritti metropolitici, che i secondi – appellandosi a un’appartenenza
territoriale ormai diversificata – si rifiutavano di riconoscergli[53].
Non si può non osservare quanto l’appello ai legami instaurati
in sede sacramentale/misterica risultasse consono a una comunità religiosa che,
fin dalle più antiche testimonianze, interne[54] ed
esterne[55],
appare essersi percepita ed essere stata percepita come comunità essenzialmente
cultuale, connotata da propri specifici riti, protetti dalla disciplina
dell’arcano[56].
Per l’affermazione della territorialità quale esclusivo criterio
ordinamentale (salvo, ovviamente, l’istituto della esenzione) si sarebbe dovuto
attendere in Occidente il riordino delle strutture per la cura d’anime attuato
in età carolingia.
La provincia ecclesiastica rimase comunque per secoli la
struttura portante del vivere ecclesiale nello spazio romano, e non solo. In
tale struttura veniva assicurata alle singole Chiese la continuità del
ministero episcopale e si garantiva, attraverso il consenso dei vescovi, la
preservazione dell’ortodossia e dell’ortoprassi. Non a caso le convocazioni
imperiali per i grandi concili, a cominciare da quello di Efeso (431),
consistettero nell’invito rivolto ai metropoliti di convenire all’assemblea,
facendosi accompagnare da qualche rappresentante delle rispettive sinodi
provinciali[57].
Conseguentemente, proprio i grandi
concili divennero un solenne momento istituzionale in cui la collegialità
episcopale poté essere esercitata prescindendo da qualsiasi limite di carattere
territoriale, e i vescovi – convocati dall’imperatore e operanti sotto la sua
presidenza – si vennero riproponendo nel loro insieme quali depositari della
responsabilità ecumenica del collegio apostolico.
In forma più usuale un’analoga situazione si determinava nella sinodo
che presso la residenza dell’imperatore raccoglieva tutti i vescovi giunti per
i più diversi motivi alla Corte e di essi faceva, indipendentemente dalla loro
specifica appartenenza territoriale, il corpo collegiale, col cui suffragio si
attuava di norma l’esercizio della sollecitudine imperiale nei confronti della
Chiesa. A Costantinopoli tale espressione della collegialità episcopale assunse
il nome di σύνοδος ἐνδημοῦσα, e fu l’istituzione al cui interno
venne sviluppandosi la funzione di tribunale d’appello, per le Chiese della pars
Orientis, esercitata dalla
sede costantinopolitana[58].
Si trattava in entrambi i casi di realtà istituzionali
inseparabili dall’autorità ecumenica dell’imperatore, come ben ricordava a
proposito dei grandi concili il patriarca Antonio IV, volendo mostrare alla
fine del XIV secolo come «non sia possibile per i cristiani avere la Chiesa e
non avere l’imperatore»[59].
Fin da età molto antica è possibile cogliere nel vescovo romano
l’autoconsapevolezza di una responsabilità nei confronti della comunione delle
Chiese, che travalicava i limiti territoriali di una diretta autorità
gerarchica. Il comportamento di Vittore che, alla fine del II secolo, diede vita
alla crisi quartodecimana, ben lo dimostra[60].
Quanto agli episcopati dell’intera pars Occidentis, l’autorità del vescovo romano nei loro confronti appare lucidamente formulata nel 416 da
papa Innocenzo I, con un’argomentazione ideologica, in cui il principio
sacramentale/misterico (precedentemente ricordato) viene strettamente
intrecciandosi al richiamo (per Roma tradizionale) alla successione petrina[61].
La compiuta proclamazione del carattere universale dell’autorità
del pontefice romano, con esplicita rivendicazione della sua preminente
responsabilità nei confronti della società cristiana e dei suoi ordinamenti
istituzionali, Impero compreso, trovò infine una paradigmatica formulazione attorno
al 1075 con Gregorio VII nel Dictatus
papae[62]. In quel testo il potere
universale del pontefice appare ancora definito nel quadro unitario del corpus Ecclesiae, quale era stato
delineato dal concilio Parigino dell’829 [63].
Tuttavia gli aspetti di imitatio Imperii presenti
nel testo gregoriano segnalano evoluzioni nuove, destinate, con la riscoperta
del diritto romano, a tradursi in atti con caratteri palesemente mutuati dalla
tradizione imperiale[64].
***
Il nostro excursus può qui concludersi.
Mi pare che ne emergano alcuni dati
significativi.
Gli ordinamenti ecclesiastici
canonicamente definiti a partire dall’età di Costantino non sono realtà
istituzionali nuove e inusitate. I criteri come la territorialità, la
presidenza legata alla metropoli sono già percepibili nei secoli anteriori a
Costantino. Con Costantino si fissano, traducendosi in precisi canoni.
Allo stesso modo la funzione
specifica del vescovo della «città imperiale», non è fenomenologia esclusiva
all’Oriente, ma ancor prima che a Costantinopoli è stata regolamentata in
Occidente, e in Occidente ha trovato significativa manifestazione, visto che
per quasi un quarto di secolo si è qui espressa in un rapporto di fatto
diarchico – e per nulla dialettico – con la Sede Apostolica.
L’organico rapporto con l’autorità
imperiale, vertice istituzionale dell’intera ecumene, è fattore che ha permesso
all’episcopato, grazie ai concili convocati dall’imperatore, di riproporre ed
esercitare autorevolmente la responsabilità
ecumenica del collegio apostolico.
La sollicitudo omnium
Ecclesiarum, tradizionalmente rivendicata dal vescovo di Roma, soltanto con
il secondo Millennio e sulla scia della contrapposizione sviluppatasi tra i
vertici della Cristianità occidentale, si è concretamente tradotta nella
rivendicazione di un’autorità, che va oltre le istituzioni ecclesiastiche e
presenta connotazioni di imitatio Imperii.
Oriente e Occidente, dunque, non sono
portatori di ecclesiologie costitutivamente diverse; le loro ecclesiologie si
sono diversificate in rapporto ai contesti in cui le rispettive vicende
storiche e istituzionali si sono venute sviluppando. E pur nella loro attuale
diversità, l’eredità romana resta per entrambi un patrimonio profondamente
condiviso: sicché specchiarsi in esso diviene per tutti occasione di riscoperta
di quei fondamenti comuni, che permettono di ritrovare in ciascuna delle tre
Rome i lineamenti delle altre.
[Un
evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende
impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi
presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione
“Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dal Comitato promotore del XXXVII
Seminario internazionale di studi storici “Da Roma alla Terza Roma” (organizzato
dall’Unità di ricerca ‘Giorgio La Pira’
del CNR e dall’Istituto di Storia Russa dell’Accademia
delle Scienze di Russia, con la collaborazione della ‘Sapienza’ Università di Roma, sul tema: LE CITTÀ DELL’IMPERO DA
ROMA A COSTANTINOPOLI A MOSCA) e dalla direzione di Diritto @ Storia]
[1] Act 1.8: Novum Testamentum Graece, post E. Nestle
‑ E. Nestle, edd. B. Aland
- K. Aland - J. Karavidopoulos ‑
C.M. Martini ‑ B.M. Metzger, cur. H. Strutwolf, Deutsche Bibelgesellschaft, 28a ed., Stuttgart 2012,
378.
[2] Sed et mundus pacem
habet per eos [i. e. Romanos], ut nos sine timore in viis
ambulemus et navigemus quocumque voluerimus: Irenaeus, Adversus haereses IV.30.3, ed. A. Rousseau [– B. Hemmerdinger – L. Doutreleau –
Ch. Mercier], II, Éd. du
Cerf, Paris 1965 (Sources Chrétiennes [= SCh], C), 778.
[6] Neque civitates tantum, sed vicos
etiam atque agros superstitionis istius contagio pervagata est: C. Plinius Caecilius
Secundus, Epistulae X.96 (ad Traianum imperatorem), 9, ed.
M. Schuster, in aedibus B. G.
Teubneri, Lipsiae 1958 (cur. R. Hanslik)
(Bibliotheca Teubneriana), 357.
[7] Τῇ τοῦ Ἡλίου
λεγομένῃ ἡμέρα
πάντων κατὰ
πόλεις ἣ ἀγροὺς
μενόντων ἐπὶ τὸ
αὐτὸ
συνέλευσις γίνεται: Iustinus, Apologia Maior, 67.3, ed. M. Marcovich,
de Gruyter, Berlin-New
York 1994 (Patristische Texte und Studien, XXXVIII), 130.
[8] Fere per prouincias uniuersas ... de
traditione diuina et apostolica obseruatione ... ad ordinationes ... episcopi
eiusdem prouinciae proximi quique conueniant: Cyprianus, Epistula LXVII.5, ed. G.F. Diercks, Brepols, Turnholti
1996 (Corpus Christianorum. Series Latina [= CCL], III/C), 454.
[9] Ampia rassegna di fonti e studi al
riguardo in A. Camplani, L’identità del patriarcato alessandrino, tra
storia e rappresentazione storiografica, nella sezione monografica su Il patriarcato di Alessandria nella tarda antichità
in «Adamantius», 12 (2006), 8 ss.; segnatamente sul problema della
configurazione gerarchica della Chiesa egiziana nei primi due secoli,
incentrata sull’unico vescovo di Alessandria, coadiuvato da un collegio di 12
presbiteri e da tale collegio ordinato: Id.,
Un’antica teoria della successione
patriarcale in Alessandria, in Aegyptiaca
et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti, a cura di P. Buzi - D. Picchi - M. Zecchi,
Archaeopress, Oxford 2011 (BAR, International Series, 2264), 59 ss.
[10] La documentazione relativa alla
questione quartodecimana può vedersi in Eusebius
Caesariensis, Historia Ecclesiastica, V.XXIII-XXV, ed. E. Schwartz, cur. F. Winkelmann, Eusebius Werke, II,
1, (Hinrichs, Leipzig 1903 [Die griechischen christlichen Schriftsteller der
ersten Jahrhunderte (= GCS), IX/1]) Akademie Verlag, Berlin 1999 (GCS, n. F.,
VI/1), 488 ss.
[11] Sul personale intervento
dell’imperatore per l’inserimento del termine ὁμοούσιον nella
professione di fede sinodale, oltremodo probante risulta la diretta
testimonianza di Eusebio di Cesarea nella lettera da lui inviata alla propria
Chiesa: Eusebius Caesareiensis, Epistula
ad ecclesiam Caesariensem, ed. H. G. Opitz, Urkunden zur Geschichte des
arianischen Streites, in Athanasius Werke, III, 2, de Gruyter,
Berlin 1935, 42 ss.
[12] Discipline
Générale Antique (IVe-IXe s.), I, 1: Les Canons des
Conciles Oecuméniques (= CCO), ed. P. P. Joannou, Tipografia Italo-Orientale «S. Nilo»,
Grottaferrata 1962 (Pontificia Commissione per la redazione del Codice di Diritto
Canonico Orientale. Fonti, IX), 26 ss. Testo greco da V.N. Beneševič, Joannis Scholastici Synagoga L. titulorum, Verlag der Bayerischen
Akademie der Wissenschaften, München 1937 (Abhandlungen der Bayerischen
Akademie der Wissenschaften. Philosophisch- historische Abteilung, n. F., I);
testo latino della prima redazione Dionisiana da A. Strewe, Die
Canonessammlung des Dionysius exiguus in der ersten Redaktion, de Gruyter, Berlin 1931
(Arbeiten zur Kirchengeschichte, XVI).
[14] De his qui usurpant sibi solis
debere episcopum ordinare, placuit ut nullus hoc sibi praesumat, nisi assumpsit
secum aliis septem episcopis; si tamen non potuerit, infra tres non audeant
ordinare: Concilia Galliae. A.
314 - A. 506, ed. Ch. Munier, Brepols, Turnholti 1963 (CCL, CXLVIII), 13. Cfr. L. Mortari, Consacrazione episcopale e collegialità, Vallecchi, Firenze 1969
(Istituto per le scienze religiose, Bologna. Testi e ricerche di scienze
religiose, IV), 58 ss.
[15] In Eusebius
Caesariensis, Historia Ecclesiastica,
VI. XLIII.8-10: GCS, (IX/2) n. F. VI/2, 616 ss.
[16] Τοὺς καθ’ἑκάστην
ἐπαρχίαν ἐπισκόπους
εἰδέναι χρὴ τὸν
ἐν τῇ
μητροπόλει
προεστῶτα ἐπίσκοπον
τὴν φροντίδα ἀναδέχεσθαι
πάσης τῆς ἐπαρχίας
… Ὅθεν
ἔδοξεν καὶ τῇ
τιμῇ προηγεῖσθαι
αὐτόν, μηδὲν δὲ
πράττειν
περιττὸν τοὺς
λοιποὺς ἐπισκόπους
ἄνευ αὐτοῦ
… Ἕκαστον
ἐπίσκοπον
… περαιτέρω
δὲ μηδὲν
πράττειν ἐπιχειρεῖν
δίχα τοῦ τῆς
μητροπόλεως ἐπισκόπου,
μηδὲν
αὐτὸν ἄνευ τῆς
τῶν λοιπῶν
γνώμης / Per singulas regiones episcopos convenit
nosse metropolitanum episcopum sollicitudinem totius provinciae gerere... Unde
placuit eum et honore praecellere et nihil amplius praeter eum ceteros
episcopos agere... nisi ea tantum, quae ad suam dioecesim pertinent
possessionesque subiectas... Unusquisque episcopus... amplius autem nihil agere
praesumat praeter antistitem metropolitanum, nec metropolitanus sine ceterorum
gerat consilio sacerdotum: Discipline Générale Antique, I, 2:
Les Canons des Synodes Particuliers (= CSP), ed. P. P. Joannou,
Tipografia Italo-Orientale “S. Nilo”, Grottaferrata 1962 (Pontificia
Commissione per la redazione del Codice di Diritto Canonico Orientale. Fonti,
IX), 110 ss. Per la datazione cfr. M. Simonetti,
La crisi ariana nel IV secolo, Institutum Patristicum
“Augustinianum”, Roma 1975 (Studia Ephemeridis «Augustinianum», XI), 28; ma già
F. Dvorník, Origins of Episcopal Synods, in The Once and Future Church: A Communion of Freedom. Studies on Unity and Collegiality in the
Church, cur. J. A.
Coriden, Alba House, Staten Island (N.Y.) 1971, 27 s. (ripreso in F.
Dvorník, Photian and Byzantine
Ecclesiastical Studies, XXI, Variorum Reprints, London 1974 [Collected
Studies, XXXII]).
[17] Τοὺς ἐπισκόπους ἑκάστου ἔθνους εἰδέναι χρὴ τὸν ἑαυτῶν πρῶτοω ... καὶ μηδέν τι πράττειν περιττὸν ἄνευ τῆς ἐκείνου γνώμης ... Ἀλλὰ μηδὲ ἐκεῖνος ἄνευ τῆς πάντων γνώμης ποιείτω τι⸱ οὕτω γὰρ ὁμόνοια ἔσται καὶ δοξασθήσεται ὁ Πατὴρ καὶ ὁ Υἱὸς καὶ τὸ Ἅγιον Πνεῦμα / Episcopos gentium singularum scire
convenit, quis inter eos primus habeatur ... et nihil amplius praeter eius conscientiam
gerant ... Sed nec ille praeter omnium conscientiam faciat aliquid; sic enim
unanimitas erit et glorificabitur Deus
per Christum in Spiritu Sancto: CSP, 24.
[19] Josephus Flavius, De bello Judaico,
III.29, ed. A. Pelletier,
II, Les Belles Lettres, Paris 1980 (Collection des Universités de France), 124.
[25] P.P. Joannou, Pape, Concile et Patriarches dans la tradition canonique de l'Église
orientale jusqu'au IXe siècle, in CCO,
1 ss.
[26] Cfr. C.D. Fonseca, Gli ordinamenti territoriali ecclesiastici
nell’antica diocesi suburbicaria e la loro evoluzione in età medievale; C. Alzati, Genesi ed evoluzione degli ordinamenti territoriali ecclesiastici
nell’Italia Annonaria: in Storia
religiosa dell’Italia, cur. L. Vaccaro,
Fondazione Ambrosiana Paolo VI - Centro Ambrosiano, Villa Cagnola (Gazzada) -
Milano 2016, 13 ss.; 49 ss.
[27] Cfr.
P. Monceaux, Histoire littéraire de l’Afrique chrétienne depuis les origines jusqu’à
l’invasione arabe, III, Leroux, Paris 1903 (rist. an.: Culture et
civilisation, Bruxelles 1963), 87; Y.
Duval, in Histoire du
Christianisme des origines à nos jours, curr. J. M. Mayeur - Ch.
Petri - L. Petri - A. Vauchez - M. Venard, II, Desclée, Paris 1995: 132 (L’Église
d’Afrique), 801 ss. (L’Afrique: Aurélius et Augustin).
[28] Per le fonti e la discussione
storiografica al riguardo, mi permetto rinviare a C. Alzati, L’attività
conciliare in ambito ecclesiastico milanese nel contesto dell’Italia Annonaria
tra tarda antichità e alto medioevo, in Albenga
città episcopale. Tempi e dinamiche della cristianizzazione tra Liguria di
Ponente e Provenza. Convegno internazionale. Albenga, Palazzo Vescovile, Sala
degli Stemmi e Sala degli Arazzi, 21-23 settembre 2006, cur. M. Mercenaro, Istituto Internazionale di
Studi Liguri, Genova-Albenga 2007 (Atti dei Convegni, XIII), 239 ss.
[29] C.
Alzati, Ambrosiana Ecclesia. Studi
su la Chiesa milanese e l'ecumene cristiana fra tarda antichità e medioevo, praef. C. Violante,
NED - Nuove Edizioni Duomo, Milano 1993 (Archivio Ambrosiano, LXV), 156 ss.
[30] Can. 11:
Εἴ τις ἐπίσκοπος
ἢ πρεσβύτερος ἢ
ὅλως τοῦ
κανόνος ἄνευ
γνώμης καὶ
γραμμάτων τῶν ἐν
τῇ ἐπαρχίᾳ ἐπίσκόπων
καὶ μάλιστα τοῦ
κατὰ τὴν
μητρόπολιν,
ὁρμήσειε
πρὸς βασιλέα,
τοῦτον
ἀποκηρύττεσθαι
καὶ ἀπόβλητον
γίνεσθαι, οὐ
μόνον τῆς
κοινωνίας,
ἀλλὰ
καὶ τῆς ἁξίας,
ἧς
μετέχων
τυγχάνει, ὡς
παρενοχλεῖν
τολμῶντα τὰς
τοῦ
θεοφιλεστάτου
βασιλέως ἡμῶν ἀκοὰς
παρὰ τὸν θεσμὸν
τῆς ἐκκλησίας∙
εἰ
δὲ ἀναγκαία
καλοίη χρεία
πρὸς τὸν
βασιλέα ὁρμᾶν,
τοῦτο
πράττειν μετὰ
σκέψεως καὶ
γνώμης τοῦ κατὰ
τὴν
μητρόπολιν τῆς
ἐπαρχίας ἐπισκόπου
καὶ τῶν ἐν αὐτῇ,
τοῖς
τε τούτων ἐφοδιάζεσθαι
γράμμασιν
/ Si quis episcopus
aut presbiter aut quilibet regulae subiectus ecclesiae praeter consilium et
litteras episcoporum provinciae et praecipue metropolitani adierit imperatorem,
hunc reprobari et abici oportere non solum a communione, verum et ab honore
cuius particeps videtur existere, quia venerandi principis auribus molestiam
temptavit inferre contra leges ecclesiae. Si igitur adire principem necessaria
causa deposcit, ut agatur cum tractatu et consilio metropolitani et ceterorum
episcoporum qui in eadem provincia commorantur, qui etiam proficiscentem suis
prosequantur epistulis.
Can. 12:
Εἴ τις ὑπὸ τοῦ ἰδίου ἐπισκόπου καθαιρεθεὶς πρεσβύτερος ἢ διάκονος, ἢ καὶ ἐπίσκοπος ὑπὸ συνόδου, ἐνοχλῆσαι τολμήσειε βασιλέωϛ ἀκοὰς, δέον ἐπὶ μείζονα σύνοδον ἐπισκόπων τρέπεσθαι, καὶ ἃ νομίζει δίκαια ἔχειν, προσαναφέρειν πλείοσιν ἐπισκόποις καὶ τὴν παρ’αὐτῶν ἐξέτασίν τε καὶ ἐπίκρισιν ἐκδέχεσθαι εἰ δὲ τοῦτων ὀλιγωρήσας ἐνοχλοίη τῷ βασιλεῖ, καὶ τοῦτον μηδεμιᾶς συγγνώμης ἀξιοῦσθαι, μηδὲ χώραν ἀπολογίας ἔχειν μηδὲ ἐλπίδα μελλούσης προσδοκᾶν ἀποκαταστάσεως / Si quis a proprio episcopo presbiter aut
diaconus, aut a synodo fuerit episcopus forte damnatus, et imperatoris auribus
molestus extiterit, oportet ad maius episcoporum converti concilium, et, quae
putaverint habere iusta, plurimis episcopis suggerant eorumque discussionem ac
iudicium praestolentur, si vero haec parvipendentes molesti fuerint imperatori,
hos nulla venia dignos esse nec locum satisfactionis habere nec spem futurae
restitutionis omnimodis operiri.
CSP, 113 s. In
merito si potrà vedere anche Girardet K.
M., Kaisergericht und
Bischofsgericht. Studien zu den Anfängen des Donatistenstreits (313-315) und
zum Prozess des Athanasius (328-346), Bonn 1975 (Antiquitas, I/21), 133 ss.
[31] Can. 9b (9a nella redazione greca):
Et hoc consequens esse videtur, ut de
qualibet provincia episcopi ad eum fratrem et coepiscopum nostrum preces
mittant, qui in metropolim consistit, ut ille et diaconum eius et
supplicationes destinet, tribuens commendaticias epistulas ratione ad fratres et
coepiscopos nostros, qui in illo tempore in his regionibus et urbibus morantur,
in quibus felix et laetus Augustus rem publicam gubernat
/ Ὅσιος
ἐπίσκοπος εἶπεν⸱
Καὶ τοῦτο ἀκόλουθον
εἶναι νομίζω,
ἵνα
ἐν οἱᾳδήποτε ἐπαρχίᾳ
ἐπίσκοποι πρὸς
ἀδελφὸν καὶ
συνεπίσκοπον ἑαυτῶν
ἀποστέλλοιεν
δεήσεις, ὁ ἐν τῇ
μείζονι
τυγχάνων πόλει,
τουτέστιν
τῇ μητροπόλει,
αὐτὸς
καὶ τὸν
διάκονον αὐτοῦ
καὶ τὰς
δεήσεις ἀποστέλλοι,
παρέχων
αὐτῷ καὶ
συστατικὰς ἐπιστολὰς,
γράφων
δηλονότι κατὰ ἀκολουθίαν
καὶ πρὸς τοὺς ἀδελφοὺς
καὶ συνεπικόπους
ἡμῶν, οἵτινες ἐν ἐκείνῳ
τῷ καιρῷ ἐν τοῖς
τόποις ἢ ἐν τaῖς
πόλεσι
διάγουσιν,
ἐν
αἷς ὁ εὐσεβέστατος
ἡμῶν βασιλεὺς
τὰ δημόσια
διακυβερνᾷ
πράγματα. CSP, 171.
Per l’analoga funzione riconosciuta al
vescovo romano: can. 10a (9b):
Qui vero Romam venerint ... sanctissimo
fratri et coepiscopo nostro Romanae ecclesiae preces quas habent tradant, et ut
ipse prius examinet, si honestae et iustae sunt, et praestet diligentiam atque
sollicitudinem, ut ad comitatum perferantur / Οἱ δὲ εἰς
Ῥώμην
παραγενόμενοι
... τῷ ἀγαπητῷ
ἀδελφῷ ἡμῶν καὶ
συνεπισκόπῳ Ἰουλίῳ
τὰς δεήσεις,
ἃς ἔχοιεν,
διδόναι
ὀφείλουσιν,
ἵνα
πρότερον αὐτὸς
δοκιμάζοι,
e4 μή
τινες ἐξ αὐτῶν ἀναίσχυντοι
εἶεν, καὶ οὕτως τὴν ἑαυτοῦ
προστασίαν καὶ
φροντίδα
παρέχων εἰς τὸ
στρατόπεδον αὐτοὺς
ἀποστέλλοι. CSP,
172.
Quanto alla numerazione dei canoni: H. Hess, The Canons of the Council of Sardica. A. D. 343, Clarendon Press,
Oxford 1958, 137. Per la datazione al 343: V. C. De Clerq, Ossius of
Cordova. A Contributionto
the History of the Constantinian Period, Catholic
University of America Press, Washington 1954 (Studies in Christian
Antiquity, XIII), 313 ss.; L. W. Barnard, The Council of Serdica: some problems reassessed, «Annuarium
Historiae Conciliorum», 12 (1980), 1 ss. La datazione dello Schwartz al 342 è stata riproposta da H. Ch. Brennecke, Hilarius von
Poitiers und die Bischofsopposition gegen Konstantius II., de Gruyter,
Berlin-New York 1984 (Patristische Texte und Studien, XXVI), 25 ss. Cfr. anche M. Wojtowytsch, Papsttum und Konzile von den Anfänge bis zu Leo I. (440-461),
Hiersemann, Stuttgart 1981 (Päpste und Papsttum, XVII), 427.
[32] Segnatamente sulla prerogativa del
patriarca costantinopolitano d’introdurre all’imperatore i vescovi giunti nella
città imperiale per essere ricevuti in udienza dall’augusto, cfr. anche Novella 123.IX, 602:
Τοὺς
δὲ ἐπισκόπους
τοὺς κατὰ τὴν
βασιλίδα
πόλιν, ὡς εἴρηται,
παραγινομένους,
οἱaσδήποτε εἶεν
διοικήσεως, πρὸ
πάντων ἀπιέναι
πρὸς τὸν
μακαριώτατον ἀρχιεπίσκοπον
Κωνσταντινουπόλεως
καὶ
πατριάρχην, καὶ
οὕτως δι’αὐτοῦ
πρὸς τὴν ἡμετέραν
εἰσιέναι
γαληνότητα /... Episcopos
autem in regiam civitatem (sicut dictum
est) venientes, cuiuslibet fuerit diocesis, prae omnibus ire ad beatissimum
archiepiscopum Constantinopoleos et patriarcham, et ita per eum ad nostram
introire tranquillitatem: Iustinianus,
Novella 123, IX, edd. R. Schoell - G. (W.) Kroll, Novellae, Berolini 19546 (Corpus Iuris
Civilis, III), 602 (versio latina: quod vocatur Authenticum).
[33] Τὸν μέντοι
Κωνσταντινουπόλεως
ἐπίσκοπον ἔχειν
τὰ πρεσβεῖα τῆς
τιμῆς μετὰ τὸν Ῥώμης ἐπίσκοπον
διὰ τὸ εἶναι αὐτὴν
νέαν Ῥώμην / Veruntamen Constantinopolitanus
episcopus habeat honorem primatum praeter romanum episcopum, propterea quod
urbs ipsa sit junior Roma: CCO, 47 s. La definizione del concilio
quale «ecumenica sinodo» nella sinodale costantinopolitana del 382: Theodoretus Cyrrensis, Historia
Ecclesiastica, V, 9: 13, 15, ed., post L. Parmentier,
G. Ch. Hansen, Akademie Verlag, Berlin 19983 (GCS, n. F.,
V), 293.
[34] CCO,
90 ss. Cfr. E. Morini, Il primato della sede di Costantinopoli. Alcune considerazioni, in Il patriarcato ecumenico fra testimonianza e
martirio, cur. S. Bouris, Εκδόσεις
Eπτάλοφος, Athḗna
2010, 33 ss. (ora in Patriarcati,
concili, imperatore. Ricerche storico-ecclesiologiche tra Oriente e Occidente,
Preface di E. Chrysos; saggio introduttivo di C. Alzati, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto
Medioevo, Spoleto 2017, 391 ss.).
[35] Cfr. il concilio d’Ippona del 393,
vivente Ambrogio (Sed hanc rem placuit
non confirmari, priusquam inde transmarina ecclesia consulatur); il
successivo concilio Cartaginese dell’Agosto 397, essendo presule a Milano
Simpliciano [De Donatistis placuit ut
consulamus fratres et consacerdotes nostros Siricium et Simplicianum];
nonché il concilio Cartaginese del 401 che, come il precedente, esplicitamente
designa i colleghi delle transmarinae
Italiae partes, cui intende far
riferimento: Anastasio di Roma e Venerio di Milano (... eligendum esse unum de nostro numero consacerdotem qui ...
perrecturus ad transmarinas Italiae partes, ut tam sanctis fratribus et
consacerdotibus nostris, uenerabili sancto fratri Anastasio sedis apostolicae
episcopo, quam etiam sancto fratri Venerio sacerdoti Mediolanensis ecclesiae,
... inopiam nostram ualeat intimare): Concilia Africae. A. 345 - A. 525,
ed. Ch. Munier, Brepols,
Turnholti 1974 (CCL, CXLIX), 44, 186, 194. Su questo riferirsi dei vescovi
africani alla transmarina ecclesia,
cfr. W. Marschall, Karthago
und Rom: die Stellung der nordafrikanischen Kirche zum Apostolischen Stuhl in
Rom, Hiersemann, Stuttgart 1971 (Päpste und Papsttum, I),
113 ss.; Ch. Pietri, Roma Christiana.
Recherches sur l’Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie
de Miltiade à Sixte III (311-440), II, École Française de Rome, Roma
1976 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, CCXXIV), 1157
ss. Nel Giugno del 404
quando, dopo l’abbandono di Milano, ancora vi era incertezza sulla ubicazione
della Corte, una nuova sinodo Cartaginese, dovendo trasmettere anzitutto ad gloriosissimos imperatores i propri
deliberati, così si espresse: “Litterae
etiam ad episcopum Romanae ecclesiae de commendatione legatorum mittendae sunt,
uel ad alios ubi fuerit imperator” (Concilia Africae, CCL, CXLIX,
213). Su tali aspetti della vita istituzionale ecclesiastica tardo antica, mi
permetto rinviare a C. Alzati, “Ubi fuerit imperator”. Chiesa della
residenza imperiale e comunione cristiana tra IV e V secolo in Occidente,
in Ambrosiana Ecclesia. Studi su la
Chiesa milanese e l’ecumene cristiana fra tarda antichità e medioevo,
praes. C. Violante, NED - Nuove
Edizioni Duomo, Milano 1993 (Archivio Ambrosiano, LXV), 3 ss.; per gli echi
ancora nel medioevo milanese di tali esperienze istituzionali: C. Alzati, Residenza imperiale e preminenza ecclesiastica in Occidente. La prassi
tardo antica e i suoi echi alto medioevali, in Diritto e religione. Da Roma a Costantinopoli a Mosca. Rendiconti
dell’XI Seminario “Da Roma alla Terza Roma”. Campidoglio, 21 Aprile 1991,
cur. M. P. Baccari, Herder, Roma 1994 (Da Roma alla Terza Roma. Rendiconti), 95 ss.
[36] In risposta al concilio di Saragozza
del 380, fu Ambrogio a fissare con una propria lettera le condizioni per la
riammissione alla comunione dei priscillianisti pentiti; e con riferimento a
tali disposizioni e al magistero di lui si mossero i vescovi del concilio
Toletano riunitosi probabilmente nell’anno 400, e in ogni caso dopo la morte di
Priscilliano (... litteris tamen sanctae
memoriae Ambrosii, quas post illud concilium [Caesaraugustanum] ad nos miserat, ut si ... [sottinteso: i
vescovi priscillianisti] implessent
conditiones, quas preaescriptas litterae continebant, reverterentur ad pacem
[adde quae sanctae memoriae Syricius papa suasisset] ... / ... Dictinum
episcopum, quem sanctus Ambrosius decrevisset, bonae pacis tenere presbyterii,
non accipere honoris augmentum / Paternus Bracarensis ecclesiae episcopus ...
sectam Priscilliani se scisse, sed, factum episcopum, liberatum se ab ea,
lectione librorum sancti Ambrosii esse iuraret). I presuli della sinodo
Toletana sottoposero a loro volta i propri deliberati alla ratifica del papa e del sanctus Simplicianus, ossia del presule milanese successo ad
Ambrogio (... expectantes pari exemplo
quid papa, qui nunc est, quid sanctus Simplicianus Mediolanensis episcopus
reliquique ecclesiarum rescribant sacerdotes ... Constituimus autem,
priusquam illis [i vescovi accolti
dalla sinodo] per papam vel per sanctum
Simplicianum communio reddatur, non episcopos, non presbyteros, non diaconos ab
illis ordinandos): Exemplar
sententiae, ed. J. Vives (T. M.
Marín Martínez, G. Martínez Díez), Concilios
Visigóticos e Hispano-Romanos, Consejo Superior de
Investigaciones Científicas. Instituto
Enrique Flórez, Barcelona-Madrid
1963, 30 ss.
[37] Segnatamente dai vescovi della dioecesis Galliarum furono inviati ad Ambrogio
legati e indirizzati appelli, peraltro inascoltati, per la ricomposizione della
frattura apertasi con le esecuzioni a Treviri di Priscilliano e di alcuni suoi
discepoli (tra il 385 e il 386): Ambrosius, Epistula e.c. XI ad augustissimum imperatorem Theodosium (Maur.: LI), 6, ed. M. Zelzer, Hölder-Pichler-Tempsky,
Vindobonae 1982 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum [= CSEL],
LXXXII/3), 214 (Quando primum auditum est
[la notizia della strage di Tessalonica, a. 390], propter adventum Gallorum episcoporum synodus convenerat); e due
anni più tardi: Ambrosius, De obitu Valentiniani, XXV, ed. O. Faller, Hölder-Pichler-Tempsky,
Vindobonae 1955 (CSEL, LXXIII),
p. 342 (Additur eo ut properarem ocius,
nec arbitrarer causam itineris mei synodum Gallorum esse episcoporum, propter
quorum frequentes dissensiones crebro me excusaveram; sed ut ipse [Valentiniano
II] baptizaretur). La frattura s’era
aperta col vescovo trevirense Brittone ed era continuata col suo successore,
Felice, estendendosi a tutti coloro che, partecipi o meno del processo a
Priscilliano, di Felice condividevano la comunione: Ambrosius, Epistula XXX ad
Valentinianum imperatorem (Maur.: XXIV), 12, ed. O. Faller, Hölder-Pichler-Tempsky,
Vindobonae 1968 (CSEL, LXXXII/1), 214 s. (Cum
videret [Massimo, proclamato imperatore nelle Gallie] me abstinere ab episcopis, qui communicabant ei, vel qui aliquos,
devios licet a fide, ad necem petebant).
[38] Segnatamente per l’Illirico orientale e
con riferimento alla questione di Bonoso, Ambrogio appare considerato, dai
vescovi raccolti attorno alla cattedra di Tessalonica e da Bonoso stesso,
giudice d’appello dopo la sentenza emessa a Capua dalla plenaria synodus dell’episcopato suburbicario (de Bonoso direxistis episcopo quibus vel pro veritate vel pro modestia
nostram sententiam sciscitari voluistis... Denique cum Bonosus episcopus post
iudicium vestrum misisset ad fratrem nostrum Ambrosiusm, qui eius sententiam
consularet ... resposnum est ei ...): Ambrosius, Epistula LXXI (Maur.: LVI a), CSEL, LXXXII/3, 7 s.; per la
qualifica di “plenaria synodus”
attribuita al concilio Capuano nella seduta del 28 Agosto 397 del concilio
Cartaginese: Concilia Africae, CCL, CXLIX, 187; sulla datazione del concilio al 391/392: Pietri, Roma Christiana, II, 900 s. Quanto agli abituali
legami del presule milanese con la
sede illiriciana di Tessalonica: Ambrosius,
Epistulae: LI
(Maur.: XV)
(Ambrosius Anatolio, Munerio, Severo, Philippo, Macedonio, Ammiano,
Theodosio, Eutropio, Claro, Eusebio et Timotheo, Domini sacerdotibus, et omni
clero et plebi Thessalonicensium dilectis salutem), LII (Maur.: XVI) (Ambrosius episcopus Anysio fratri),
ed., post O. Faller, M. Zelzer, Hölder-Pichler-Tempsky, Vindobonae
1990 (CSEL, LXXXII/2), 60 ss. In merito all’Illirico occidentale, va ricordato
che era stato ancora Ambrogio, tra la fine del 375 e l’estate del 378 a
ordinare Anemio quale vescovo della metropoli civile Sirmium: Paulinus, Vita Ambrosii, XI, 12. 1, ed. A. A. R. Bastiaensen, Fondazione
Lorenzo Valla - Mondadori, Roma-Milano 1975 (Scrittori Greci e Latini. Vite dei
santi, III), 66, 68. Forse in concomitanza, e nell’Estate del 378, si era
tenuta nella medesima città una sinodo, da cui era uscita la deposizione di
alcuni vescovi antiniceni della regione: Theodoretus
Cyrrensis, Historia Ecclesiastica,
IV: 7. 6; 9. 1-9, GCS, n. F., 5, 219, 224 ss.
[39] Tertullianus,
Apologeticum, XXXI, 1 - XXXIII, 1, ed. P. Frassinetti, Paravia, Augustae Taurinorum 1965 (Corpus
Paravianum), 79 ss.
[40] Origenes,
Contra Celsum: II, 30; VIII, 68, ed. M. Marcovich, Brill, Leiden
2001 (Supplements to Vigiliae Christianae, 54), 107, 584 s.
[41] Eusebius,
Historia Ecclesiastica, VII, 30. 19, (GCS, IX/2) GCS, n. F., VI/2, 714.
Cfr. G. Bardy, Paul de
Samosate, Spicilegium Sacrum Lovaniense, Louvain 1929, 2a ed., (1923, 1a
ed.), 284 ss.; A. Baldini, Il
ruolo di Paolo di Samosata nella politica culturale di Zenobia e la decisione
di Aureliano ad Antiochia, «Rivista Storica dell’Antichità», 5 (1975), 59 ss.
[42] Così, riprendendo Mt 24, 28 e applicandolo al convergere dei vescovi attorno allo
czar, si esprime nella Terza Roma lo Stoglav
del 1551.
[43] Litterae
etiam ad episcopum Romanae ecclesiae de commendatione legatorum mittendae sunt,
uel ad alios ubi fuerit imperator: Concilia Africae, CCL, CXLIX,
213.
[44] Cfr. A. Simonini, La Chiesa
ravennate. Splendore e tramonto di una metropoli, Monte di Ravenna, Ravenna
1964, 27 ss.; M. Mazzotti, La provincia ecclesiastica
ravennate attraverso i secoli, in Atti dei Convegni di Cesena e Ravenna
(1966-1967), Centro studi e ricerche sull’antica provincia ecclesiastica
ravennate, Badia di S. Maria del Monte (Cesena) 1969 (Ravennatensia, I), 15 ss;
A.M. Orselli, Organizzazione
ecclesiastica e momenti di vita religiosa alle origini del Cristianesimo
emiliano-romagnolo, in Storia della Emilia-Romagna, I, cur. A.I. Berselli, University Press, Bologna
1975, 323 ss.
[45] Cfr. P. Corsi, La spedizione
italiana di Costante II, Pàtron, Bologna1983 (Il mondo medievale. Sezione
di storia bizantina, V).
[46] La competenza dell’imperatore nel
determinare il rango istituzionale delle città, e conseguentemente delle sedi
episcopali, era stata enunciata, come già si è ricordato, dal can. 17c di Calcedonia: CCO, 83.
[47] Quanto al typus imperiale d’autocefalia concesso alla Chiesa di Ravenna: ed.
O. Holder Egger, in Agnelli Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis,
Hahn, Hannoverae 1878 (Monumenta Germaniae Historica [= MGH], Scriptores Rerum Langobardicarum et
Italicarum), 350 s.; cfr. F. Doelger, Regesten
der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches (565-1453), I, Oldenbourg,
München-Berlin 1924, nn. 232-233, 27, che pone il testo tra i documenti
sospetti. Sui problemi del typus potranno
vedersi: P. Conte, Chiesa
e Primato nelle lettere dei papi del secolo VII, Vita e Pensiero, Milano
1971, 332; G. Orioli, L’autocefalia
della Chiesa ravennate, «Bollettino della Badia greca di Grottaferrata», n.
s., 30 (1976), 11 s.; con specifiche sfumature A. Guillou, Régionalisme et indépendance dans l’Empire
byzantin au VIIe siècle, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma
1969 (Studi Storici, 75-76), 163 ss.
[48] La rinuncia alle prerogative
autocefaliche, imposta da Agatone in occasione del concilio romano del marzo
680, fu due anni più tardi accuratamente circostanziata da papa Leone II
(682-683): Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne [Bibliothèque des Écoles
Françaises d’Athènes et de Rome. Série II, 3], de Boccard, Parigi 1955, 2a ed., I, 360;
Agnelli Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 124, MGH, Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum, 359 s. In merito
si vedano le osservazioni di A.M. Orselli, La Chiesa di Ravenna tra coscienza
dell’istituzione e tradizione cittadina, in Storia di Ravenna, II,
1: Dall’età bizantina all’età ottoniana. Ecclesiologia, cultura e arte,
cur. A. Carile, Comune di Ravenna
- Marsilio, Ravenna-Venezia 1992,
414 ss. Per le sottoscrizioni apposte dall’arcivescovo Teodoro e dai vescovi a
lui legati alla suggestio sinodale
romana Omnium bonorum spes /
Πάντων τῶν ἀγαθῶν,
del 27 Marzo 680: Acta Conciliorum
Oecumenicorum (= ACO), ser. II, vol. II: Concilium Vniuersale
Constantinopolitanum Tertium, I, ed. R. Riedinger, de Gruyter, Berolini 1990, 159 / 158.
Quanto all’accreditamento presso l’imperatore del prete ravennate Teodoro,
quale rappresentante dell’omonimo arcivescovo al concilio, accreditamento
avvenuto ad opera di Agatone di Roma nel tomo Consideranti mihi / Κατανοοῦντί
μοι, analogamente
datato 27 Marzo 680: Ibidem, 57. 9-10 / 56. 10-11. A Costantinopoli, come
gli Atti delle sedute sinodali ben manifestano, la decisione di Costante II
continuava ad essere ritenuta vigente e il cerimoniale istituzionale si
sviluppava di conseguenza.
[49] Leo
I Romanus, Epistula I ad
Aquileiensem episcopum, 2, edd. P. Ballerinus
- Hier. Ballerinus, in Patrologiae cursus completus. Series Latina
(= PL), 54, Migne, Parisiis 1846, c. 594; cfr. Epistula II ad Septimum episcopum Altinensem, PL, 54, cc. 597-598; Epistula XVIII ad Ianuarium episcopum
Aquileiensem, PL, 54, cc. 706-709. Con riferimento alla vasta bibliografia
al riguardo, bastino qui solo alcune indicazioni esemplificative: A. Villotta Rossi, Considerazioni
intorno alla formazione dei diritti metropolitici e all’attribuzione del titolo
patriarcale alla Chiesa di Aquileia (sec. IV-VI), «Memorie Storiche
Forogiuliesi», 43 (1958-1959), 103 ss.; G. C. Menis,
Le giurisdizioni metropolitiche di
Aquileia e di Milano, in Aquileia e
Milano, Arti grafiche friulane, Aquileia-Udine 1973 (Antichità Alto
Adriatiche, 4), 271 ss.; V. Peri, Chiesa
e cultura religiosa, in Storia della cultura veneta. Dalle origini al
Trecento, I, Neri Pozza, Vicenza 1976, 167 ss.; H. Schmidinger, Il
patriarcato di Aquileia, in Patriarch
im Abendland. Beiträge zur Geschichte del Papsttums Roms und Aquilejas im
Mittelalter, Verlag Saint Peter, Salzburg 1986, 297
ss.; G. Cuscito, Fede e politica ad Aquileia: dibattito
teologico e centri di potere (secoli IV-VI), Del Bianco, Udine 1987
(Università degli Studi di Trieste. Facoltà di Magistero, III serie, 19); G. C.
Menis, L’autorità metropolitica del patriarca d’Aquileia, in Patriarchi. Quindici secoli di civiltà fra
l’Adriatico e l’Europa centrale, curr. S.
Tavano - G. Bergamini, Skira, Milano 2000, 193a-194b; G. Cuscito, Il Cristianesimo ad Aquileia dalle origini al ducato longobardo, in
Aquileia dalle origini alla costituzione
del ducato longobardo. Storia, amministrazione, società, cur. Id., Editreg, Trieste 2003 (Antichità
Alto Adriatiche, LIV), 462.
[50] Gelasius
I Romanus, Fragmentum XVII,
ed. A. Thiel, Epistolae Romanorum Pontificum genuinae,
I, Peter, Brunsbergae 1868 (ried. an.: Olms, Hildesheim-New York 1974), 493.
[51] Unusquisque
aut in vicina sibi ecclesia aut in electa
pro suae mentis baptizetur arbitrio: Gelasius
I Romanus, Fragmentum XX, Ibidem, 495.
[52] Quis,
id est, cuius civitatis ex eadem re(gione), antequam basilica quae nuper
fabricata est fundaretur, baptizaverit incolas, aut ad cuius consignationem sub
annua devotione convenerint: Gelasius
I Romanus, Fragmentum XIX, Ibidem, 494. In merito cfr. C. Violante, Le strutture organizzative della cura d’anime nelle campagne
dell’Italia centrosettentrionale (secoli V-X), in Cristianizzazione e organizzazione ecclesiastica delle campagne
nell’Alto Medioevo: espansione e resistenze, II, Centro Italiano di Studi
sull’Alto Medioevo, Spoleto 1982 (XXVIII Settimana di Studio: 10-16 aprile
1980), 963 ss., successivamente in C.
Violante, Ricerche sulle
istituzioni ecclesiastiche dell’Italia centro-settentrionale nel Medioevo, Accademia nazionale di scienze, lettere e arti, Palermo
1986 (1987), segnatamente 105 ss.
[53] Nam
cum primo omnium uir sanctus Proculus Massiliensis episcopus ciuitatis se tanquam metropolitanum ecclesiis
quae in secunda prouincia Narbonensi positae uidebantur diceret praeesse debere, atque per se ordinationes in memorata
prouincia summorum fieri sacerdotum, siquidem
assereret easdem ecclesias uel suas parrocias fuisse, uel episcopos a se in iisdem ecclesiis
ordinatos ...: così il can. 1
del concilio di Torino del 398 (o 399) (Concilia
Galliae. A. 314 - A. 506, CCL, CXLVIII, p. 55). Per il dibattito intorno
alla datazione della sinodo: R. Savarino,
Il concilio di Torino, in Atti del Convegno Internazionale di Studi su
Massimo di Torino nel XVI Centenario del Concilio di Torino (398). Torino 13-14
marzo 1998, Torino-Leumann 1999 (= “Archivio Teologico Torinese”, IV
[1998], 2), 208 ss.; per l’estensibilità
della collocazione cronologica al 399: Pietri,
Roma Christiana, II, 973.
[55] Cfr. l’orazione pronunciata contro i
Cristiani in senato da Marco Cornelio Frontone e di cui troviamo eco nell’Octavius di Minucio Felice: M. Minucius Felix, Octavius, IX, ed. B.
Kytzler, Leipzig 1982 (Bibliotheca Teubneriana), 7 s.
[56] Significativo al riguardo Ps. Hippolytus, Traditio Apostolica, ed. W. Geerlings,
Herder, Freiburg-Basel-Wien-Barcelona-Rom-New York 1991 (Fontes Christiani, I),
141 ss. Un quadro della
complessa problematica connessa a questo testo in E. Peretto, Introduzione
a Pseudo-Ippolito, Tradizione Apostolica, Città Nuova, Roma 1996, 5 ss.
Oltre alle considerazioni critiche di M. Metzger
[Nouvelle perspectives pour la
prétendue Tradition apostolique, «Ecclesia Orans», 5 (1988), 241 ss; Enquêtes autour de la prétendue Tradition
apostolique, «Ecclesia Orans», 9 (1992), 7 ss.; À propos des règlements écclesiastiques et de la prétendue Tradition
apostolique, «Revue des sciences religieuses», 66 (1992), 249 ss.], merita
segnalare la lettura alquanto corrosiva del testo condotta da P. F. Bradshaw - M. E. Johnson - L. E. Phillips, Apostolic
Tradition: A Commentary, Fortress Press, Minneapolis 2002, lettura forse
non totalmente libera da quella nota d’arbitrarietà, che talvolta s’accompagna
ad atteggiamenti di ipercriticismo. In ogni caso lo scritto resta, nelle sue
problematicità, un testimone dell’autoconsapevolezza ecclesiale antica. Sul
carattere essenzialmente cultuale (ossia, misterico) della Chiesa antica mi
permetto rinviare a C. Alzati, Ecclesia e Mysterium. Chiesa, celebrazione e luogo di culto nella tradizione ambrosiana,
in Il Lezionario della Chiesa Ambrosiana.
La tradizione liturgica e il rinnovato «Ordo lectionum», Libreria Editrice
Vaticana - Centro Ambrosiano, Città del Vaticano - Milano 2009, 37 ss.
[57] Per Efeso 431: Theodosii II Sacra
ad Cyrillum et episcopos metropolitanos, 2, in ACO, I: Concilium
Vniuersale Ephesenum, I, 1, ed. E.
Schwartz, de Gruyter, Berolini-Lipsiae
1927, 115. Ma così pure Efeso 449: Theodosii
II Epistula ad
Dioscorum, in ACO, II:
Concilium Vniuersale Chalcedonense, I, 1, ed. E. Schwartz, de Gruyter, Berolini-Lipsiae 1935, 168. 19-20;
Calcedonia 451: Marciani Sacra
ad omnes episcopos, ACO, II, I, 1, 27-28. Per la
sollecitazione rivolta agli episcopati occidentali tramite la sede apostolica
in occasione del concilio Costantinopolitano del 680: Constantini IV Sacra ad Donum sanctissimum
archiepiscopum antiquae nostrae Romae, in ACO, ser. II, vol. II: Concilium
Vniuersale Constantinopolitanum tertium, I, 2 ss. Cfr. P. Conte, Regesto delle lettere dei
papi del secolo VII, in Chiesa e Primato nelle lettere dei papi del
secolo VII (cit. nota 47), n° (220),
469.
[58] J. Hajjar, Le synode
permanent (σύνοδος
ἐνδημοῦσα) dans
l’Église byzantine des origines au XIe siècle, Rome
1962; cfr. anche G. Dagron, Naissance
d’une capitale. Constantinople
et ses institutions de 330 à 451, Paris 1974, 461 ss. Per
funzione di sede d’appello, assunta dal vescovo della Nuova Roma, si potrà
vedere Morini, Il primato della sede di Costantinopoli,
cit. nota 34.
[59] Οὐκ ἔνι δυνατὸν
εἰς τοὺς
Χριστιανοὺς,
ἐκκλησίαν ἔχειν καὶ
βασιλέα οὐκ ἔχειν: così l’epistola del patriarca
ecumenico al gran principe moscovita Vasilij I : in Acta et Diplomata
Graeca Medii Aevi Sacra et Profana, II: Acta
Patriarchatus Constantinopolitani. MCCCXV-MCCCCII, edd. F. Miklosich - I.
Müller, Gerold, Vindobonae 1862, n° 447, 191.
[61] Quis
enim nesciat aut non advertat id quod a principe apostolorum Petro Romanae
ecclesiae traditum est, ac nunc usque custoditur, ab omnibus debere servari nec
superduci aut introduci aliquid quod aut auctoritatem non habeat, aut aliunde
accipere videatur exemplum, praesertim cum sit manifestum in omnem Italiam,
Gallias, Spanias, Africam, atque Siciliam et insulas interiacentes nullum
instituisse ecclesias, nisi eos quos venerabilis apostolus Petrus aut eius
successores constituerunt sacerdotes. Aut legant si in his provinciis alius
apostolorum invenitur aut legitur docuisse. Qui si non legunt, quia nusquam
inveniunt, oportet eos hoc sequi, quod ecclesia Romana custodit: Epistula ad Decentium episcopum Eugubinum,
2, ed. R. Cabié, La lettre du Pape Innocent Ier à Décentius
de Gubbio (19 mars 416), Publications Universitaires de Louvain, Louvain
1973 (Bibliothèque de la Revue d’Histoire Ecclésiastique, 58), 18 ss. Le affermazioni di Innocenzo, anche se rivolte a un vescovo di
diretta dipendenza romana, si muovono in realtà in un orizzonte – confermato
anche dalla lettera a Victricius di Rouen (cfr. Innocentius I, Epistula II: ad Victricium Rotomagensem,
2, PL, XX, c. 470) – che le colloca in un ambito non riducibile alla pura sfera
del diritto metropolitico (Cabié, La lettre du Pape Innocent Ier, p. 35).
Una diretta applicazione di tali premesse si sarebbe avuta, già nell’anno 417,
con l’istituzione del vicariato apostolico di Arles ad opera di papa Zosimo con
esplicito riferimento al protovescovo Trofimo, che una lettera della sinodo
provinciale arelatense a Leone I del 450 configura espressamente quale
discepolo di Pietro: Zosimus Romanus,
Epistulae, ed. W. Gundlach, Berolini 1892 (MGH,
Epistolae, III), nn. I, II, V, III, IV, VI, VII, 1 ss.; la lettera
dell’episcopato arelatense a papa Leone: Ibidem,
19; cfr. tra gli altri: H. Fuhrmann, Studien zur Geschichte mittelalterlicher Patriarchate, «Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Kanonistische Abteilung», 39 (1953),
147 ss.; É. Griffe, La Gaule
Chrétienne à l’époque romaine, II, Letouzey et Ané, Paris 19642
(Picard - Institut Catholique, Paris-Toulouse 19571), 114 ss.; G.
Langgärtner, Die Gallienpolitik
der Päpste im 5. und 6. Jahrhundert.
Eine Studie über den apostolischen Vikariat von Arles, Bonn, Hanstein,
1964 (Theophaneia, XVI); Pietri, Roma Christiana, II, 1000 ss.
[62] Gregorii
VII Registrum, II, 55 a, ed. E. Caspar, I, Weidmann, Berlin1920, new ed. 1978 [MGH, Epistolae
Selectae, II, 1], 202 ss.
[63] Primum igitur, quod universalis sancta Dei Ecclesia unum corpus
manifeste esse credatur eiusque caput Christus, apostolicis oraculis
adprobamus… Principaliter itaque totius sanctae Dei Ecclesiae corpus in duas
eximias personas, in sacerdotalem videlicet et regalem, sicut a sanctis
patribus traditum accepimus, divisum esse novimus:
Concilium Parisiense (a. 829), capp. II-III, ed. A. Werminghoff, Concilia Aevi Karolini, I, 2, Hahn, Hannoverae-Lipsiae 1908 (Monumenta Germaniae Historica [=
MGH], Leges, Sect. III: Concilia, 2, 2),
610. L’enunciato sinodale parigino, riproposto da Giona d’Orléans nella Admonitio
ad Pippinum (A. Wilmart, L’admonition de Jonas au roi Pépin et le
florilège canonique d’Orléans, «Revue
Bénédictine», 45 [1933], 214 s.), comunemente conosciuta col titolo De
institutione regia (PL, 106, c. 285), è stato ripreso in ulteriori testi
carolingi, di carattere più o meno direttamente conciliare, ed ha alimentato la
riflessione ecclesiologico-politica dei secoli successivi: cfr. Rescriptum
consultationis episcoporum ad domnum Hludowicum imperatorem (a. 829), edd. A. Boretius - V. Krause, Hahn, Hannoverae 1897 (MGH, Leges, Sect. II:
Capitularia Regum Francorum, 2), 29; Concilium Aquisgranense (a. 836): Praefatio,
(66), ed. Werminghoff, in Concilia
Aevi Karolini, 1, 2, 705, 723; Concilium secus Teudonis villam (a. 844), c.
II, ed. W. Hartmann, in Concilia
Aevi Karolini, 3, Hahn, Hannover 1984 (MGH, Leges, Sect. III: Concilia, 4),
31; Synodus apud Carisiacum habita (a. 858), c. XV: Ibidem, 426 s.; Contestatio
Hlotharii (Aquisgrana, 29 Aprile 862), ed. W. Hartmann, in Concilia Aevi Karolini, 4, Hahn,
Hannover 1998 (MGH, Leges, Sect. III: Concilia, 5), 74; Synodus apud Duciacum
(5 Agosto - 6 Settembre 871), Responsiones episcoporum, c. VII: Ibid.,
496 s. Tale prospettiva ecclesiologica avrebbe segnato fortemente l’Occidente
medioevale. In effetti, ancora nella Bolla Unam
Sanctam (1302) l’orizzonte concettuale entro cui si colloca la riflessione
su sacerdotium e regnum permane l’unum corpus
carolingio; in tale contesto, peraltro, Bonifacio VIII drasticamente rifiuta la
carolingia dottrina delle «duae eximiae
personae» in nome del principio che «della Chiesa, una e unica, uno è il
corpo, uno è il capo – non due quasi fosse un mostro – e questo capo è Cristo,
e il vicario di Cristo, Pietro, e il successore di Pietro (Ecclesiæ unius et unicæ unum corpus, unum caput, non duo capita, quasi
monstrum, Christus videlicet et Christi vicarius Petrus, Petrique successor)»:
in Corpus Iuris Canonici (Extravag. commun., lib. I, tit. VIII: De maioritate et oboedientia, cap. I),
ed. Ae. Friedberg, II, Tauchnitz, Lipsiae 1881, ried. an.: Akademische
Verlagsanstalt, Graz 1955, 1245
s.
[64] Non sappiamo quale fondamento abbia
l’immagine trasmessaci da Francesco Pipino relativa a Bonifacio VIII che «sedens in solio armatus et cinctus ense,
habens in capite Constantini diadema, stricto dextra capulo ensis accincti,
ait: “Numquid ego summus sum pontifex? Nonne ista est cathedra Petri? Nonne
possum imperii iura tutari? Ego sum Caesar; ego sum imperator”» (Franciscus Pipinus, O. P., Chronicon [ab anno MCLXXVI usque ad
annum circiter MCCCXIV], ed. L.A.
Muratori, Typographia Societatis Palatinae in Regia Curia, Mediolani
1726 [Rerum Italicarum Scriptores, IX], c. 745). In ogni caso è certo che nel
1493 fu un papa, Alessandro VI, a definire le competenze territoriali dei re di
Castiglia e del re del Portogallo sulle terre e le genti pagane dell’Oltre
Atlantico: i brevia bullata concessi
dal pontefice ai re cattolici nel 1493, con la restante documentazione pontificia
(e non) relativa all’espansione
portoghese e dei re cattolici nello spazio atlantico (cfr., ad es., il Trattato
di Tordesillas del 7 Giugno 1494, confermato da papa Giulio II il 24 Gennaio
1506), sono ampiamente analizzati e riproposti in A. garcía Gallo, Las
bulas de Alejandro VI y el ordenamiento jurídico de la expansiόn
portuguesa y castellana en Africa e Indias, «Anuario de Historia del Dercho
Espaῆol», 27-28 (1958), 461 ss.