Il regionalismo differenziato e la
crisi del principio autonomistico(*)
Università di
Sassari
SOMMARIO: 1. Ascesa e declino del principio autonomistico. – 2. Il principio di differenziazione. – 3. Necessità di una legge d’attuazione
dell’art. 116, comma terzo? – 4. L’iniziativa
regionale. –
5. L'intesa tra lo Stato e la
Regione. –
6. La consultazione degli enti locali. – 7. Argomenti contro il regionalismo
differenziato quale unica declinazione del principio autonomistico. – 8. Conclusioni. – 9. Riferimenti
bibliografici.
In questo saggio mi occuperò del regionalismo differenziato nel
quadro della crisi del principio autonomistico.
Anzitutto una precisazione terminologica: adopero la formula
“principio autonomistico” come formula di sintesi per esprimere ad un tempo più
cose o fenomeni, soprattutto per indicare il modo in cui gli assetti
autonomistici vivono in un dato momento storico sia nelle discipline formali
che nelle prassi applicative.
La mia tesi di fondo è che l’evoluzione del principio
autonomistico abbia conosciuto quattro fasi:
La prima fase è quella dell’autonomismo (cioè
federalismo-regionalismo) garantista o separazionista, imperniato su una
nozione prevalentemente negativa di
autonomia come garanzia di competenze proprie degli enti territoriali, i quali
le esercitano senza intromissioni da parte del governo centrale e degli altri
enti autonomi. Ciascuno degli attori territoriali – le regioni, le province, i
comuni, se guardiamo all’esperienza italiana – ha proprie materie e funzioni, e
all’interno del proprio ambito ha titolo a definire unilateralmente i criteri
del proprio agire. Ovviamente questi ambiti possono essere più o meno estesi:
negli ordinamenti federali lo sono, di regola, in misura maggiore che non in
quelli regionali; ma in ogni caso, il governo centrale conserva ampi e incisivi
poteri di interventi che delimitano parecchio le competenze decentrate. È un
modello dalla logica semplice e lineare, ma che entra in crisi con il processo
di democratizzazione che interessa un po’ tutti i regimi industriali avanzati
nel Novecento.
La seconda fase di sviluppo del principio autonomistico è quella
del “federalismo/regionalismo cooperativo” e prende l’avvio negli USA col New
Deal rooseveltiano. Nei paesi europei ha preso avvio, invece, nel secondo
dopoguerra, con le costituzioni democratico-sociali. È la declinazione del
principio autonomistico più coerente con i valori e gli istituti di uno stato
sociale. Quando l’intervento pubblico nell’economia crebbe, si realizzò un
ampliamento dei compiti del governo centrale, e per compensare la restrizione
degli ambiti di intervento degli enti territoriali sub-nazionali si
introdussero dei dispositivi di raccordo e di co-decisione tra centro e
periferia. Da un concetto negativo di
autonomia come competenza esclusiva e facoltà di autodeterminazione unilaterale
nel proprio ambito di competenza si transitò a un concetto positivo di autonomia come partecipazione ai processi decisionali
che trascendono gli ambiti di competenza locali ma che comunque incidono su
questi. Nell’autonomismo garantista di tipo negativo gli enti territoriali
decidono da soli le cose che li riguardano (in quanto affidate alla loro
competenza). Nell’autonomismo cooperativo e positivo, invece, si decidono
assieme al livello di governo centrale le cose che riguardano tutti. Va detto,
però, che la nostra Costituzione del 1948, nel suo impianto originario, non
prendeva molto sul serio il modello cooperativo e ancora si imperniava sul
modello precedente. Solo in via di prassi legislativa e giurisprudenziali si
affacciarono timidamente i primi moduli di autonomismo cooperativo (ad es., il
sistema delle conferenze e il principio di leale collaborazione come vincolo
per la legislazione statale).
La terza fase che ha riguardato l’evoluzione del principio
autonomista nel nostro ordinamento costituzionale si colloca a cavallo tra la
fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. A fare da apripista furono le
leggi Bassanini con il progetto di “federalismo amministrativo a costituzione
invariata”; poi seguì la legge costituzionale n. 1 del 1999, che introdusse una
forma di governo regionale imperniata sull’elezione diretta del vertice
dell’esecutivo, uniformando così il modello regionale al modello locale già in
vigore per i comuni e le province; infine ci fu la legge costituzionale n. 3
del 2001, che – come è noto – modificò profondamente il Titolo V della
Costituzione. Questa terza fase rappresenta il momento culminate della fase ascendente del principio autonomistico
in Italia. Ma subito dopo il 2001, cioè dopo l’entrata in vigore delle l. cost.
3/2001 ebbe inizio la quarta fase, dal carattere discendente per le sorti del principio autonomista. Una fase che
ancora perdura.
È vero che nelle sue prime pronunce successive al 2001 la Corte
costituzionale pareva sinceramente intenzionata a dare piena attuazione alla
riforma. Però dopo qualche anno, assecondando le tendenze del legislatore
statale, la Corte si adoperò al fine di depotenziare gli elementi più
innovativi del Titolo V riformato. E a distanza di quindici anni dalla riforma
possiamo dire che la giustizia costituzionale italiana contribuì in modo
decisivo al processo di ri-centralizzazione del nostro ordinamento
autonomistico.
All’origine di questo moto parabolico ci sono diverse cause, ma
quella più importante e veramente determinante è la smisurata espansione della
funzione statale di coordinamento della finanza pubblica, a sua volta motivata
dall’orientamento, fatto proprio in sede sovranazionale e nazionale, secondo
cui per fronteggiare la crisi economico-finanziaria sarebbero necessarie misure
draconiane di consolidamento fiscale. A partire dal 2010 diversi decreti legge
“anticrisi” hanno pesantemente condizionato, in nome degli obiettivi nazionali
di finanza pubblica e dei vincoli sovranazionali, l’autonomia locale e
regionale di spesa, sia delle regioni ordinarie che di quelle speciali, ponendo
non solo limiti complessivi alla spesa, ma anche restrizioni puntuali e
dettagliate. E parallelamente si è rafforzata la tendenza della Corte
costituzione a interpretare in senso estensivo la competenza statale in oggetto[1]. Ora, se si afferma brutalmente
l’idea che l’austerità fiscale debba passare attraverso la compressione
dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, ne deriva come conseguenza
obbligata la limitazione della loro autonomia normativa, amministrativa e
finanche politica, considerato che queste declinazioni ulteriori del principio
autonomistico sono solo flatus vocis, in assenza dell’autonomia
finanziaria, che è condizione di ogni altra forma di autonomia.
Ciò premesso, la valorizzazione del “regionalismo differenziato”
è la soluzione per uscire dal tunnel in cui è finito il principio
autonomistico?
I luoghi in cui la nostra Costituzione sembra richiamare i
principi e la logica del regionalismo differenziato sono diversi[2].
Anche se l’osservazione sembrerà contraddittoria, la
differenziazione regionale trova anzitutto espressione mediante le competenze
legislative che spettano in modo uniforme e generale a tutte le Regioni:
l’esercizio effettivo di queste funzioni inevitabilmente differenzia tra loro i
sistemi normativi regionali, perché non è detto che tutte le regioni le
esercitano allo stesso modo, adottando le medesime soluzioni normative; inoltre
alcune regioni le esercitano di più, altre di meno, altre ancora non le esercitano
affatto, con ciò creando situazioni normative altamente diversificate nei vari
ambiti regionali.
In secondo luogo la nostra Costituzione riferisce la
differenziazione non solo alle competenze legislative, ma anche a quelle
amministrative: anzi, in questo caso lo fa persino esplicitamente, là dove
nell’art. 118 dice che il legislatore distribuisce le funzioni amministrative
tra i diversi livelli di governo secondo sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza. Più che tre principi distinti, questi sono tre profili di un unico
principio, poiché l’intervento sussidiario è condizionato al fatto di essere
più adeguato nelle circostanze date e, a sua volta, l’adeguatezza deve essere
valutata in relazione ai contesti e può quindi giustificare (o deve prescrivere)
soluzioni differenziate secondo le situazioni: può darsi, cioè, il caso che
enti dello stesso tipo, agenti in ambiti territoriali diversi, portatori di
diverse esigenze e interessi, non abbiano le medesime competenze.
In un certo senso la differenziazione regionale e locale è
inscritta nel codice genetico del principio autonomistico e nel concetto di
autonomia territoriale, intesa in uno dei suoi profili essenziali, ossia come
autonomia negativa. Come ho già
detto, questa formula, che è evidentemente ricalcata su quella della libertà negativa, definisce una condizione di
non-impedimento dell’ente territoriale, nella misura in cui gode di uno spazio
in cui può autodeterminarsi senza temere intromissioni di sorta da parte di
altri enti; indica, perciò, la situazione in cui si trova un ente quando può
decidere singolarmente per sé, eventualmente differenziandosi dagli altri enti
del medesimo tipo.
Ma come si è visto, l’autonomia può anche intendersi in senso positivo, cioè come partecipazione a
processi decisionali sovraordinati. E mentre l’autonomia negativa si realizza
incrementando il numero di decisioni che un singolo ente può adottare
singolarmente e quindi in modo potenzialmente differenziato da quello degli
altri enti, invece l’autonomia positiva si valorizza aumentando il numero delle
decisioni che i diversi enti prendono assieme. Tra i due modelli c’è un
evidente trade-off: se cresce il
numero di decisioni e di competenze che si prendono ed esercitano da soli, si
riducono quelle che debbono prendersi assieme, e viceversa, fermo restando che
entrambe le dimensioni sono consustanziali alla nozione di autonomia.
Come ho già detto, il costituzionalismo democratico-sociale del
Novecento ha visto lo sviluppo dell’autonomia positiva, che è poi un altro modo
di definire il federalismo o regionalismo cooperativo: un po’ in tutte le
democrazie industriali sviluppate l’espansione dei sistemi di welfare e
dell’intervento pubblico nell’economia hanno visto crescere le funzioni del
governo centrale, ma questo processo di accentramento è stato spesso compensato
da robuste iniezioni di federalismo/regionalismo cooperativo: insieme al potere
decisionale del centro si è accresciuta proporzionalmente la capacità della
periferia di partecipare alle (e di incidere sulle) decisioni che si prendono
in modo accentrato.
Non c’è dubbio, invece, che la riforma italiana del 2001 abbia
scommesso più sull’autonomia negativa che non su quella positiva, e quindi più
sul decentramento delle competenze e sulla possibilità di un loro esercizio
territorialmente differenziato che non sullo sviluppo di istituzioni
cooperative[3].
Un esempio paradigmatico di regionalismo differenziato è l’art. 116, comma
terzo, il cui testo così recita: «ulteriori forme e condizioni particolari di
autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le
materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l),
limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono
essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della
Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui
all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei
componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».
La questione è se, al fine di ridare fiato all’istanza
autonomistica, si debba ripartire da questa disposizione costituzionale, finora
rimasta priva di attuazione. Ma preliminarmente occorrerà sciogliere qualche
nodo interpretativo e offrire una ricostruzione dogmatica corretta della
portata normativa dell’art. 116, comma terzo.
Il primo problema è se sia una disposizione d’immediata
applicazione, senza che occorra l’interposizione di una disciplina legislativa
di attuazione[4].
Può sostenersi che occorrerebbe anzitutto definire il
significato preciso di formule come «iniziativa della Regione interessata»,
«sentiti gli enti locali», «intesa fra lo Stato e la Regione interessata»; e
che solo dopo aver fatto questo sarebbe possibile attivare il procedimento per
l’adozione delle leggi di autonomia negoziata. La legge di attuazione sarebbe,
cioè, necessaria al fine di stabilire uno dei tanti possibili significati che
legittimamente potrebbero ascriversi alle formule sopraddette.
Se invece si muove dal presupposto che ciascuna di tali formule
non possa avere più significati legittimi, ma che solo uno sia quello corretto
(ricostruito secondo i consueti canoni dell’interpretazione costituzionale),
allora la legge attuativa non dovrebbe fare altro che esplicitarli: ma in tal
caso ci sarebbe realmente bisogno di una una fonte attuativa? Non potrebbe
ragionevolmente sostenersi l’autosufficienza e auto-applicabilità dell’art.
116, comma terzo?
La mia tesi è che l’art. 116, comma terzo, ponga solo un
problema d’interpretazione costituzionale e non un più grave problema di
attuazione costituzionale, come proverò ad argomentare nei paragrafi che
seguono.
Vado con ordine, prendendo anzitutto in esame la formula «su
iniziativa della Regione interessata». In dottrina sono emersi due orientamenti
di fondo.
Per il primo l’iniziativa regionale dovrebbe intendersi come il
mero potere di dare impulso al procedimento concertativo bilaterale finalizzato
all’intesa tra Stato e Regione, sulla cui base dovrà poi adottarsi la legge di
autonomia negoziata. Peraltro era la soluzione recepita nel ddl approvato dal
Governo nel 2007 (ma che non divenne legge. In particolare l’art. 2 recitava
così: «L’atto di iniziativa della Regione, deliberato con le modalità e le
forme stabilite dalla Regione medesima, è presentato al Presidente del
Consiglio dei Ministri o al Ministro per gli affari regionali da lui
delegato»). Mi sembra una lettura svalutativa dell’iniziativa regionale e che
rischia di non riconoscere granché alla regione interessata, poiché è indubbio
che sul piano informale nessuno potrebbe impedire al Governo di richiedere a
questa o quella Regione di dare formale impulso al procedimento ex art. 116 [5].
L’altro orientamento – più coerente col canone
dell’interpretazione letterale e sistematica – è quello di intendere
«iniziativa» nel senso di «iniziativa legislativa», anche considerando che poco
prima compare la parola «legge»: il testo costituzionale dice, infatti, che le
ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite
«con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata». Nella
Costituzione il termine «iniziativa» compare 10 volte. A parte il riferimento
all’iniziativa «economica» ex art. 41, all'autonoma iniziativa dei cittadini
per lo svolgimento di attività nell'interesse generale ex art. 118,
all'iniziativa del Presidente di ciascuna Camera, del PdR e di un terzo dei
componenti di una Camera per la convocazione straordinaria della stessa ex art.
62, in tutti gli altri casi si parla sempre di iniziativa legislativa. Certo, è
dubbio se l'iniziativa dei Comuni per il mutamento delle circoscrizioni
provinciali ex art. 133 sia iniziativa legislativa: in dottrina si è sostenuto
che sarebbe senz'altro così[6], sebbene si sia affermata
la prassi di qualificare tale iniziativa come «parlamentare».
Il solo argomento contrario potrebbe essere quello secondo cui
la Costituzione definisce espressamente i casi di iniziativa legislativa,
affiancando al termine «iniziativa» il genitivo «delle leggi» o l'aggettivo
«legislativa». Ma anche se tale rilievo varrebbe ad escludere l'iniziativa
legislativa comunale, tuttavia non sarebbe spendibile nel caso che a noi
interessa, poiché l'art. 121, comma primo,
Cost. prevede espressamente che ciascun Consiglio Regionale «può fare
proposte di legge alle Camere», sicché alla luce di un'interpretazione
sistematica l'art. 116, comma terzo, farebbe proprio riferimento al fatto che
la Regione, e precisamente il suo Consiglio, elabori e deliberi una proposta di
legge, da trasmettere alle Camere, le quali potranno approvare senza
emendamenti, e in tal caso l'intesa tra lo Stato e la Regione interessata sarà
in re ipsa, essendoci accordo su un
medesimo testo; se invece le Camere emendano, dovrà ricercarsi l'intesa con la
Regione: intesa che nel quadro di questa ricostruzione non potrà che essere
“forte”, visto che essa si presume se la Regione e lo Stato deliberano il
medesimo testo.
Accedendo alla tesi secondo cui per «iniziativa della Regione»
deve intendersi quella «legislativa», si risolvono – come si è visto – anche i
problemi ermeneutici relativi alla nozione di «intesa»: questa non solo dovrà
considerarsi come “forte”, alla luce di ciò che si è detto sopra, ma inoltre
dovrà essere data dallo stesso organo che avanza la proposta di legge alle
Camere, cioè dal Consiglio regionale, così come per parte statale dovrà essere
il Parlamento (approvando la proposta legislativa formulata dal Consiglio
regionale)[7].
Anche con riguardo a questo specifico profilo la mia proposta
ermeneutica si discosta da quella recepita nel ddl governativo del 2007, il
quale all'art. 2 disponeva che l'intesa intervenisse tra il Presidente del
Consiglio dei Ministri e il Presidente di Regione. Tale soluzione, però, se è
corretto quanto ho argomentato sopra, non può annoverarti tra quelle che
sarebbero astrattamente e legittimamente possibili.
Ho presente l'obiezione che può muoversi a questa ricostruzione:
sono solitamente gli esecutivi ad agire in rappresentanza dei rispettivi
livelli di governo nelle relazioni inter-istituzionali tra enti territoriali.
Ma qui l'art. 116 prefigura un procedimento negoziato per la ridefinizione
dell'ordine costituzionale delle competenze legislative (e non solo: ma è
indubbio che le competenze legislative sarebbero le più importanti forme e
condizioni particolari di autonomia). E a questa negoziazione debbono partecipare
gli organi le cui competenze sono direttamente incise, ossia il Consiglio
regionale e il Parlamento nazionale. Ė francamente improprio che siano gli
organi esecutivi ad accordarsi sull'assetto futuro delle competenze spettanti
agli organi legislativi, come se la volontà governativa coincidesse con la
volontà parlamentare maggioritaria e, nelle Regioni, la volontà presidenziale
coincidesse con la volontà maggioritaria consiliare[8].
Ovviamente, questa disciplina procedurale formalizzata non
esclude che la sua attivazione sia preceduta da trattative informali tra
Regione interessata e Stato, in particolare tra gli esecutivi nazionale e
regionale, al fine di prevenire spiacevoli “sorprese” quando poi si dovrà
attivare il procedimento formale ex art. 116. Ma resta inteso che il meccanismo
disposto dal testo costituzionale impegna direttamente gli organi legislativi
Regionale e nazionale, ai quali spetta il formale avvio del procedimento
legislativo, la gestione delle fasi consultive e la deliberazione concordata
finale.
Il terzo nodo ermeneutico riguarda la formula «sentiti gli enti
locali», ossia la gestione delle fasi consultive. Nel testo dell’art. 116,
comma terzo, l’inciso «sentiti gli enti locali» compare subito dopo la formula
«su iniziativa della Regione interessata». A mio giudizio, questo accostamento
e dislocazione spaziale indica il momento in cui deve intervenire la
consultazione degli enti locali sub-regionali: precisamente, prima che la
Regione interessata eserciti il diritto d’iniziativa legislativa deve sentire i
suoi enti locali.
Per quanto riguarda le forme della consultazione locale, anche
in questo caso mi parrebbe superflua una legge attuativa diretta a definire
quali debbano essere. In tutte le regioni ordinarie, infatti, lo Statuto
istituisce e disciplina il CAL «quale organo di consultazione tra la Regione e
gli enti locali», sicché l’obbligo di consultazione previsto dall’art. 116 sarà
adempiuto nelle forme e nei modi previsti dalle discipline statutarie
regionali. In ogni caso non si può stabilire un’equivalenza tra consultazione
degli enti locali sub-regionali e consultazione del corpo elettorale regionale,
poiché la seconda non può surrogare la prima, visto che la volontà
maggioritaria degli elettori regionali non equivale necessariamente alla
volontà maggioritaria degli enti locali sub-regionali.
Altra questione è se sia doveroso ri-sentire gli enti locali
qualora le Camere emendino la proposta regionale di legge. In tal caso, come ho
detto prima, occorre raccogliere l’intesa del Consiglio regionale, il quale
prima di deliberarla dovrà consultare il CAL ancora una volta.
Insomma, anche in riferimento a questo problema interpretativo
si conferma la tesi di fondo secondo cui non occorre una legge attuativa che
specifichi le fasi procedimentali che l’art. 116, comma terzo, stabilisce per
l’adozione della legge statale rinforzata che attribuisce ulteriori forme e
condizioni particolari di autonomia. La disciplina costituzionale nasce
perfetta e immediatamente applicabile in ogni sua parte.
Un’altra importante conclusione concerne la natura della fonte
legislativa atipica e rinforzata prevista dall’art. 116, comma terzo. In
dottrina c’è chi l’ha ricostruita come una legge “di mera approvazione”, cioè
come una legge formale che deve consistere di una sola disposizione che
conferisce forza normativa di legge all’intesa conclusa tra Governo nazionale e
Giunta regionale, senza poterne emendare i contenuti (nella logica del
“prendere o lasciare”)[9]. Ma è una soluzione che
non può ricavarsi direttamente
dall’interpretazione del dettato costituzionale e che invero potrebbe
essere solo una legge attuativa dell’art. 116 a introdurre: non per caso chi
propone la tesi della “legge di approvazione” ritiene altresì necessaria una
legge di attuazione dell’art. 116, che definisca preliminarmente le fasi
procedimentali di adozione della suddetta legge approvativa. Peraltro non si
tratta certo di un’opinione isolata, visto che ha costituito la base per il ddl
deliberato dal Governo nel 2007.
Chiarito perché si può dare immediata esecuzione alle
potenzialità contenute nell’art. 116, comma terzo, Cost., ritorniamo alla
domanda se il regionalismo differenziato è la via attraverso cui il principio
autonomistico può risalire la china del suo declino.
Un indirizzo di pensiero sostiene che il regionalismo
dell'uniformità non consentirebbe di distinguere tra regioni e regioni secondo
le prestazioni di efficienza e che invece occorre iniettare un fattore
competitivo e incentivante che faccia risaltare le performance migliori su
quelle peggiori. Al fine di rianimare il principio autonomistico ci vorrebbe,
quindi, lo stimolo degli incentivi per coloro che fanno già bene (stimolo che
invece avrebbe una valenza punitiva, ma sferzante, per coloro che ancora non
fanno bene). Insomma, bisogna premiare i bravi e responsabilizzare maggiormente
i meno bravi, attraverso una redistribuzione a geometria variabile delle
competenze di autonomia e delle relative risorse strumentali (in primo luogo
quelle finanziarie).
Ma in base a questa logica, se i più meritevoli ottengono più
competenze e più risorse, è ragionevole prevedere che i meno meritevoli
manterranno le stesse competenze ma con meno risorse, considerato che i mezzi
finanziari disponibili sono per definizione limitati e che non si può tirare
una coperta troppo corta da una parte senza scoprirne un'altra. Certo, si può
osservare un criterio di “neutralità perequativa” e lasciare invariata la
dotazione di risorse destinata agli enti che non acquistano nuove competenze:
ma in tal caso sarebbe la finanza statale a dover sopportare il peso della
rinuncia e nessuno può garantire che da parte dello Stato questa disponibilità
al sacrificio ci sia (né tantomeno esiste un processo decisionale conformato in
modo tale che lo Stato sia, in qualche modo, “costretto” a tale sacrificio: il
grado di realizzazione dell’autonomia positiva è ancora insufficiente, come si
è detto).
Ma le obiezioni non finiscono certo qui: una si sintetizza nella
domanda: “chi stabilisce chi sono i meritevoli e in base a quali indici?”. È
scontato che sia lo Stato ad avere questo ruolo decisivo e determinare i
criteri della meritevolezza, il quale Stato sarebbe così l’arbitro della
competizione inter-regionale per ottenere maggiori risorse: questo dividerebbe
il fronte regionale e porrebbe il governo centrale nella condizione di
esercitare una sorta di “divide et impera”.
Peraltro l'idea di una concorrenza tra le regioni, finalizzata alla selezione
di best practices, mi sembra ideologicamente viziata da un certo ottimismo
di stampo neo-liberale. Siamo veramente sicuri che incentivando la competizione
tra enti territoriali si riesca a rilanciare il principio autonomistico?
Un’altra obiezione è che le diverse prestazioni regionali di
efficienza riguardano l'azione amministrativa e non tanto quella legislativa,
mentre il dispositivo dell'art. 116 concernerebbe primariamente le competenze
legislative, con ciò costituendo la risposta sbagliata a una domanda tutto
sommato corretta ("come restituire efficienza all'azione amministrativa
regionale e locale di questo o quel territorio?"). Del resto, il rimedio
contro l'inefficienza amministrativa regionale o locale esiste ed è il potere
sostitutivo ex art. 120 Cost.[10]
C'è infine da considerare quale spazio l'art. 116 consenta per
ampliamenti significativi delle competenze legislative. Non mi sembra che sia
granché. Prendiamo le materie statali esclusive richiamate: tralascio
l’«organizzazione dei giudici di pace», che francamente non mi sembra che possa
costituire l'occasione di un intervento legislativo regionale dalla portata
innovativa. Rimangono le «norme generali in materia di istruzione», ma
l’istruzione è già una materia di legislazione regionale concorrente, e quindi
non si capisce in che senso le regioni possano dettare «norme generali»: se
queste sono tali perché devono valere su tutto l’ambito nazionale, le norme
regionali per definizione non potranno certo essere “generali”. Né può pensarsi
che una forma e condizione particolare di autonomia differenziata possa essere
quella consistente nell’escludere che le
norme statali generali trovino applicazione nella regione interessata dal
processo di differenziazione. Al limite, si può pensare che talune norme generali non trovino
applicazione. Lo stesso può dirsi per la tutela dell’ambiente e dei beni
culturali: l’autonomia differenziata consisterà nell'interrompere
l’applicazione di questa o quella norma statale con riguardo alla regione
beneficiaria della differenziazione, e non già nel fatto di riconoscere alla
regione una competenza in materia di ambiente e di beni culturali, visto che
tali competenze è pacifico che siano anche regionali.
Infine va detto che il regionalismo differenziato, se non è
adeguatamente compensato dal regionalismo cooperativo e integrativo, non solo
rischia d’indebolire le realtà regionali nel loro complesso rispetto al ruolo
statale, ma alla lunga può perfino compromettere la stessa coesione
repubblicana, d’indebolire l’intensità dell’unione statale. Non bisogna
dimenticare che storicamente il principio autonomistico ha operato come un
potente fattore di integrazione statale. Anche etimologicamente il federalismo
richiama il foedus, il patto d’unione
che sigla l’accordo e la coesione tra ciò che prima era separato e
potenzialmente conflittuale. Se poi guardiamo al federalismo germanico e
all’esperienza del Bundesrat, che non
è organo di rappresentanza territoriale bensì organo di partecipazione diretta
delle entità federate all’esercizio delle funzioni federali, la valenza
integrativa del principio autonomistico, colto nella sua accezione “positiva”,
emerge con ancor più nettezza[11]
In definitiva il regionalismo differenziato non è la strada
maestra per rianimare il principio autonomistico, a meno che all’attuazione
degli istituti della differenziazione non segua un parallelo rafforzamento
degli istituti di autonomia positiva: diversamente, si corre il rischio non
solo di affossare definitivamente il principio autonomistico, ma anche di
compromettere la coesione sociale, politica e istituzionale della Repubblica.
All'inizio del mio discorso ho detto che il segno, la
manifestazione più evidente della caduta libera del principio autonomistico è
la smisurata espansione della funzione statale di coordinamento della finanza
pubblica e la conseguente compressione dell'autonomia finanziaria territoriale.
Il detto no taxation without
representation è palindromo e può essere letto pure al contrario: no representation without taxation and a
budget. L’autonomia finanziaria è il presupposto di quella politica e
quindi di quella legislativa e amministrativa.
Ma la ragione per cui l’autonomia finanziaria è caduta in balia
del potere statale accentrato e unilaterale di coordinare la finanza pubblica è
il fatto che abbiamo praticamente puntato tutto sull’autonomia negativa e la
differenziazione, trascurando l’integrazione delle autonomie nei processi
decisionali che contano. Non è infatti l’autonomia negativa, ma è l’autonomia
positiva, il regionalismo cooperativo, ossia è la partecipazione ai processi
decisionali che si svolgono al di sopra del soggetto autonomo e che si
riverberano sulla sua condizione, il fattore che può garantire rapporti più
equilibrati tra centro e periferia e contrastare le tendenze espansive del
centro. Germania docet, dove è vero
che a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila sono stati introdotti elementi di
federalismo asimmetrico e competitivo, nella logica dell’autonomia negativa, ma
che comunque rimane un modello ancora essenzialmente e prevalentemente
imperniato sull’autonomia positiva dei processi decisionali integrati tra
centro e periferia.
Sappiamo che alcune regioni, oggi, aspirano a una maggiore
autonomia negativa (è emblematico il referendum lombardo-veneto). Ma se il
quadro dell’autonomia positiva rimane ancora gravemente incompleto,
quest’aspirazione rischia di essere un calcolo miope e alla lunga
controproducente.
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coordinamento della finanza pubblica: dall’attuazione del Titolo V alla deroga
al riparto costituzionale delle competenze?, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano tra giurisprudenza
costituzionale e involuzioni legislative dopo la revisione del Titolo V,
Atti del seminario ISSIRFA-CNR Roma 13 giugno 2013, Milano 2014.
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RUGGERI A., La
“specializzazione” dell’autonomia regionale: se, come e nei riguardi di chi
farvi luogo, in Le istituzioni del
federalismo, 2008.
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SPAGNA MUSSO E., Scritti
di diritto costituzionale, Tomo I, Giuffrè, Milano, 2008.
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ZANON N., Per un
regionalismo differenziato: linee di sviluppo a Costituzione invariata e
prospettive alla luce della revisione del titolo V, in AA.VV., Problemi del Federalismo, Giuffrè,
Milano, 2001.
[2] Il
conio della formula «regionalismo differenziato» è di ANTONINI 2000, passim. Altri hanno proposto la formula
di «federalismo asimmetrico» (Palermo 1997, 291 ss.) o «clausola di
asimmetria», con riguardo specifico all’art. 116 (MANGIAMELI 2002, 141). Altri
ancora hanno parlato di «nuova specialità» (CARETTI, TARLI BARBIERI 2007, 32),
di «speciale specialità di singole regioni ordinarie» (FALCON 2001, 11) e di
«specializzazione dell’autonomia regionale» (RUGGERI 2008, 51).
[3]
Un’approfondita analisi delle vicende e questioni che interessano i raccordi
cooperativi nell’ordinamento italiano, con particolare riguardo al tema della
riforma del nostro sistema bicamerale, è in PAJNO 2014.
[4] A
sostegno della risposta affermativa vedi CECCHETTI, 2011, 146-147; per quella
negativa MORRONE, 2007, 154.
[5] Un
po’ come succede col potere d’iniziativa del ministro proponente in relazione
agli atti presidenziali ritenuti sostanzialmente governativi: così come nessuno
può impedire al Capo dello Stato di sollecitare informalmente la proposta
governativa, allo stesso modo non può escludersi che il Governo faccia lo
stesso nelle relazioni con le Regioni.
[8] Sulla
necessità di considerare ben distinta la volontà governativa-giuntale da quella
della maggioranza parlamentare-consiliare, pur in presenza di un indubbio
raccordo politico, vedi CARTABIA, 2006, 89 e CHESSA 2010, 122-123.