IL CARCERE NELLA STORIA E NELLA
LETTERATURA TRA FINZIONE E REALTA’.
DALL’INVENZIONE
ALL’EPILOGO DELL’ISTITUZIONE TOTALE *
Università
di Sassari
SOMMARIO: 1. Il carcere nella letteratura tra finzione e realtà. Uno
schizzo. – 2. La
storia del carcere. L’invenzione dell’istituzione penitenziaria. – 3. La riforma carceraria in
Italia. – 4. Gli
esiti della ricerca criminologica. L’epilogo dell’istituzione totale. – 5. Conclusioni.
Il carcere come ultima ratio. Per un ritorno alla centralità della
rieducazione. – Abstract.
Come
scriveva Foucault, il carcere, nella sua dimensione di luogo di reclusione e di
annichilimento, si ritrova in molte istituzioni diverse dal carcere: la
famiglia, la clausura religiosa, la scuola, il manicomio. La medesima tesi
appartiene, come noto a ranghi invertiti (istituzioni psichiatriche v.
istituzioni carcerarie), anche a Goffman che si pronuncia sulle c.d.
istituzioni totali nell’opera Asylums, ricomprendendovene molte[1].
E’
proprio prendendo ispirazione da tale tesi che si può pensare di studiare il
carcere nella letteratura. Studiare l’istituzione carceraria nelle opere
letterarie significa infatti considerare la molteplicità e l’ubiquità
dell’esperienza carceraria: si può trattare infatti sia di carceri vere che
d’invenzione, o per meglio dire, si può studiare il carcere nella letteratura
sia considerando quelle opere che sulla carta hanno reso autentiche esperienze
di carcerazione, sia quelle opere nelle quali la reclusione ha avuto un
sostrato esclusivamente psicologico, alludendosi ad una particolare condizione
esistenziale o conoscitiva[2].
Come
è stato icasticamente affermato nella dottrina che ha indagato il rapporto fra
carcere e letteratura, «d’altronde, sempre Foucault insegna che sono state le
stesse istituzioni carcerarie ad aver agevolato, nell’età moderna, quel
processo di ‘interiorizzazione della pena’ che non poteva rimanere senza
conseguenze proprio in campo letterario, il più adatto, tradizionalmente, alla
registrazione e rappresentazione di ogni analisi introspettiva, anche la più
complessa e articolata»[3].
L’analisi del carcere “del corpo” e dell’“anima” nella
letteratura si dipanerà, pur se tratteggiata a mò di schizzo, a partire dal
‘500 sino alla letteratura contemporanea: dal Tasso al Marino, da Leopardi a
Manzoni, da Pascoli a Pirandello, da Buzzati a Gramsci, da Pavese a Calvino,
con un accenno, nella letteratura di lingua straniera, al pensiero di Giacomo
Casanova e Oscar Wilde[4].
Da quanto emerge dalle Lettere (1579-1586),
Torquato Tasso subì una condizione carceraria terribile: il soggiorno del Tasso
nell’ospedale di S. Anna, dove era stato confinato in ragione della sua follia,
ma soprattutto del suo essere sgradito al duca di Ferrara, fu, secondo alcuni
(vi è anche una tesi opposta), caratterizzato da una prigionia durissima e
disumana, in luogo sporco, fra malati di mente e guardiani crudeli. Solo dopo
la pubblicazione della Gerusalemme Liberata (1581) la popolarità del
Tasso spinse il duca ad attenuare il rigore del regime carcerario del
letterato, al bene del quale, almeno ufficialmente, era finalizzata la
prigionia[5].
A tormentare il poeta non sono solo la fame, la sete
ed i maltrattamenti, ma anche e soprattutto, secondo una costante
dell’istituzione carceraria, il non conoscere il termine finale della
prigionia, la solitudine e la mancanza di conforto.
Come scrive lo stesso Tasso: «Né già tanto temo la
grandezza del male, quanto la continuazione che orribilmente dinanzi al pensiero
mi s’appresenta: massimamente conoscendo che in tale stato non sono atto né
allo scrivere né a l’operare. E il timor di continua prigione accresce la mia
mestizia; e l’accresce l’indegnità che li conviene usare; e lo squallore della
barba e de le chiome e degli abiti; e la sordidezza e il suddiciume fieramente
m’annoiano; e sovra tutto m’affligge la solitudine, mia crudele e natural
nemica, da la quale anche nel mio buono stato era talvolta così molestato, che
in ore intempestive m’andava cercando o andava ritrovando compagnia»[6].
Fu solo nel 1586 che Tasso venne liberato, per
l’intercessione di Vincenzo Gonzaga, e condotto alla volta di Mantova.
A cavallo fra il ‘500 e il ‘600, il poeta Giovan
Battista Marino racconta del carcere vero da lui subito con il medesimo
rimpianto per l’inaridimento della vena poetica dovuto alla carcerazione che lo
stesso Tasso lamentava. E’ solo profondamente diverso l’atteggiamento con cui
il Marino affronta e mette in rima la condizione carceraria: con un esperimento
unico nella letteratura sul carcere, il poeta – che subì due carcerazioni napoletane nel 1598 e nel
1600, nonché una torinese nel 1611-12, descritte rispettivamente ne Il Camerone
(1606) e nella lettera a Lodovico D’Agliè del febbraio 1612, nonché nelle Rime
ed in altre lettere – volge in scherzo e in comicità la
tragedia dell’esperienza carceraria. Segretario presso la Corte di Matteo di
Capua, principe di Conca, Marino vide la propria fulgida carriera interrotta
dalla forzata prigionia: fu così che decise, per superare la delusione, di
descrivere la condizione di reclusione in termini di realismo lontani da ogni
accento patetico[7].
Si stagliano dunque, nella letteratura del poeta,
alcune vere e proprie “maschere comiche” come il carceriere rappresentato da un
Cerbero insensibile agli appelli del poeta, un compagno di cella calabrese che
vorrebbe parlare toscano, diavoli e sorci che ballano la danza trivigiana.
Viene evitato ogni riferimento alla condizione carceraria e termini come cella,
prigione, o prigioniero, ricorrono di rado, come a volersi distaccare dalla
propria condizione di recluso[8].
In alcuni versi si coglie la comicità del poeta nel
descrivere l’esperienza detentiva: «Tutto ‘l dì non fo altro che passeggiare
e compro taccuini. Ma con tutto questo esercizio son diventato sì stitico, che
con le tenaglie, non che con gli argomenti solutivi, non potrebbe il signor
Romei cavarmi la digestione dall’usciuolo necessario […]»[9].
E’
del 1755 l’arresto di Giacomo Casanova destinato alla detenzione nei Piombi. Imprigionato
per colpe religiose, per ateismo, per “atteggiamento illuministico” e
comportamento pericoloso e lascivo, Casanova fuggì dopo soli pochi mesi dal
carcere per rifugiarsi in Europa: tuttavia l’esperienza carceraria lo segnò
profondamente inducendolo a conoscere tutti i mali del suo carattere. Il
carcere fu, anche in seguito alla fuga, fonte di notorietà e di iniziazione
alla scrittura per Casanova che scrisse Historie de ma vie (pubblicata
postuma intorno al 1825) e poi Confutazione della storia del governo veneto
d’Amelot de la Houssaye (1769). Lo stile di entrambe le opere è pedagogico
e memorialistico: egli da tale esperienza trarrà la lezione circa la sua
nobilitazione letteraria e la sua disinvoltura nella fuga.
Il
carcere, cui venne sottoposto più volte nel corso della vita (oltre a Venezia,
a Parigi, Londra, Madrid, Barcellona) per via della sua natura truffaldina,
dunque, viene visto come strumento di conoscenza di sé stessi e del proprio io
nonché delle proprie doti letterarie e la capacità di fuga dal carcere una
virtù di cui vantarsi presso i salotti settecenteschi: sarà solo nella prigione
di Newgate in Inghilterra e nella prigione spagnola del Buen Retiro
che Casanova dipingerà la prigione come un girone dantesco, non senza
contrapporlo al lusso cui era solitamente abituato[10].
Accanto alla prigione reale compare nelle opere dello scrittore veneto anche la
prigione metaforica, rappresentata per Casanova dall’esilio da Venezia e poi da
ultimo dalla vecchiaia (nonché dal matrimonio sempre rifuggito) che non
consentirà più quella vita rocambolesca spesa in gioventù e strenuamente difesa
attraverso le numerose evasioni[11].
«E
io mi dispero proprio […] che mi tocca vivere in questo carcere», scriveva
Giacomo Leopardi all’amico Pietro Giordani, nel 1818, da Recanati. Il desiderio
di abbandonare Recanati, vista come una prigione, è uno dei temi centrali
dell’opera e dell’esistenza di Leopardi: la volontà di aprirsi ad una realtà
diversa da quella in cui viveva portava il letterato a descrivere il borgo
d’origine come una prigione, luogo di disperazione e di esilio forzato. E’
dunque accedendo alla tesi del carcere come metafora e come condizione
psicologica che si può cogliere la poetica leopardiana[12].
Vissuto
a Recanati per 25 anni dei 39 di vita, Leopardi rimproverava al paese natale
(soprattutto in età matura, ormai trentenne) di essere un ambiente chiuso e
retrivo, privo di un minimo livello culturale, e dunque di stimoli e di
confronti, oltre che di riconoscimenti in suo favore. Un soggiorno dunque che
per Leopardi sarà da considerarsi “orrendo” e “disumano”. La denuncia più forte
della sua condizione di reclusione si ritrova proprio nella lettera a Giordani:
«Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e
stupidità. Sì meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno
universale. Letteratura è vocabolo inudito. I nomi del Parini, dell’Alfieri,
del Monti, e del Tasso e dell’Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di
commento. Non ce n’è uno che si curi d’esser qualcuno, non c’è uno a cui il
nome d’ignorante paia strano […]. Crede Ella che un grande ingegno qui sarebbe
apprezzato? Come la gemma nel letamaio»[13].
Un’analoga
denuncia verso il “natio borgo selvaggio” si ritrova nelle Ricordanze
(1831). La ragione di tale senso di oppressione nasce anche dal
rimprovero verso la famiglia d’origine per averlo tenuto in una condizione di
prigionia, rimprovero mosso non tanto verso i fratelli, quanto verso i
genitori. Ciononostante, la nostalgia per i propri cari lo accompagnerà in ogni
suo viaggio lontano da Recanati, denotando una forte contraddizione nel
pensiero leopardiano. Come è stato sottolineato «la prigione e il deserto: due
elementi, due luoghi perfettamente speculari del vivere e delle sue antinomie,
due immagini che affiorano ripetutamente nell’opera leopardiana»[14]. Due
metafore della solitudine sua e dell’essere umano (come emerge anche ne La
ginestra, o il fiore del deserto).
Sarà soprattutto nella fase finale della propria vita
che Leopardi sentirà con maggior amarezza la prigionia nella città natale e nei
“sedici mesi di notte orribile”, prima di abbandonarla, riuscirà comunque, e
forse in ragione di tale prigionia, a produrre le punte più alte della sua
poesia: Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il
sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia
(oltre a tutte le opere precedenti pure scritte nella prigionia recanatese
quali L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il
sogno, La vita solitaria, Le Operette morali). Così come sono
ispirati al paesaggio e alle persone conosciute a Recanati molti altri poemi:
si pensi alla poesia A Silvia e allo stesso Zibaldone (“le quiete
stanze e le vie d’intorno”; “ai veroni del paterno ostello”; gli “studi
leggiadri” e le “sudate carte”).
Benché dunque Recanati sia stato per Leopardi
“carcere”, “prigione”, “sepolcro”, “soggiorno orrendo”, “soggiorno disumano”,
“orrenda notte”, fu proprio dall’esperienza della prigionia metaforica che
videro la luce alcune delle opere poetiche più profonde della letteratura
italiana.
Il carcere come fonte d’ispirazione poetica, già
preconizzato da Tasso, si conferma nella letteratura successiva.
Anche
nell’opera di Alessandro Manzoni si rinviene una visione del carcere, così come
il convento, l’isola e il lazzaretto, quale luogo dal significato metaforico:
soprattutto la clausura assume il significato di luogo teologico, spazio
propizio alla manifestazione della grazia divina, luogo di conversione. La
prigionia come un’occasione – così nel Conte di Carmagnola (1820) e
ne Il Cinque maggio (1821), espressione dell’isolamento di Napoleone a
Sant’Elena, nell’Adelchi (1822), ne I promessi sposi
(1827, 1840): le grate ricorrono spesso nel romanzo (si pensi alla figura
dell’Innominato, a Gertrude, a Lucia). La reclusione come «catalizzatore di
quella figuralità cristiana che si è dimostrata essere il fondo tragico di
tutta la scrittura manzoniana»[15].
Come luogo che pone l’uomo dinanzi alla coscienza del limite e della sua
miseria, premessa per l’incontro con la grazia divina.
Del
resto, «il carcere è un luogo deputato, un topos, un luogo mentale oltre
che un luogo fisico, nella cultura e nell’immaginario dell’Ottocento»[16].
Come
è stato evidenziato, ciò emerge chiaramente in due opere c.d. pedagogiche
dell’epoca e molto note: Cuore di Edmondo De Amicis, del 1886, e Pinocchio
di Carlo Collodi del 1881. Si pensi nel primo caso al capitolo Il
prigioniero, dedicato al ritorno dal carcere del papà di Crossi, figlio
dell’erbivendola, il quale ha imparato a leggere e scrivere in prigione e dona
al maestro un calamaio da lui intagliato nel tempo della prigionia.
Il
carcere come luogo di istruzione e di lavoro.
Variegato
è il rapporto di Pinocchio con il carcere che non lo redime mai: il carcere che
non sempre previene la recidiva.
Così
come nelle novelle del Verga il carcere è visto come un’ingiustizia
fatalisticamente accettata. Il carcere, dunque, come «presenza ‘etica’, per
così dire, normativa (repressiva), istituzionale, in certo senso esemplare»[17].
E’ in
questo clima storico e letterario che si iscrive anche il pensiero di Giovanni
Pascoli: in particolare nel clima di un nuovo incrocio fra letteratura e
politica. Pascoli, socialista, assaggia la pena del carcere in diverse
occasioni di ribellione verso le istituzioni. In particolare la poesia La
voce del 1902 medita sull’esperienza carceraria: «Una notte dalle lunghe
ore (nel carcere!), che all’improvviso dissi – Avresti molto dolore, tu, se non
t’avessero ucciso, ora, o babbo! – che il mio pensiero, dal carcere, con un
lamento, vide il babbo nel cimitero, le più sorelline in convento; e che agli
uomini, la mia vita, volevo lasciargliela lì […] risentii la voce smarrita che
disse in un soffio […] Zvanî […]»[18].
Lo
stesso Dino Campana, rinchiuso in carcere e poi in manicomio dove morirà
dichiarato clinicamente pazzo nel 1932, in pieno Novecento, scrive Sogno di
Prigione, nei Canti Orfici, e descrive il carcere cromaticamente: «nel
viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è
bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle
angeliche cune, delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca. Silenzio:
il viola della notte: in rabeschi dalle sbarre bianche il blu del sonno. Penso
ad Anika: stelle deserte sui monti nevosi: strade bianche deserte: poi chiese
di marmo bianche: nelle strade Anika canta: un buffo dall’occhio infernale la
guida, che grida […]»[19].
Il
carcere dunque sul finire dell’Ottocento e nel Novecento assume più
spiccatamente una dimensione interna e psicologica rispetto al passato, spesso
simbolo della deformazioni mentali.
Se
volessimo fare un’incursione nella letteratura straniera di fine Ottocento e
dei primi del Novecento e verificare la dimensione interna e mentale del
carcere non potremmo non pensare a Oscar Wilde, arrestato nel 1895 per il reato
di “gross indecency”. Oltre alla descrizione della cella, piccola, buia
e maleodorante, lo scrittore lamenterà l’isolamento culturale, come è costante
nei letterati che abbiamo sin qui ricordato, la mancanza dei propri libri e
l’ingiustizia di una detenzione immotivata. «Surely like Dante I have written upon my face the
fact that I have been in the hell. Only Dante never imagined any hell like an
English prison»[20]. Tale affermazione lo porterà a
denunciare, una volta liberato, le disumane condizioni del sistema carcerario
inglese con alcune lettere inviate al Daily Chronicle e a scrivere la
nota Ballad of Reading Goal (1898). E’ soprattutto con il De
Profundis: in carcere et vinculis, che Wilde pubblicherà nel 1905, che si
denuncia la condizione carceraria in maniera più approfondita e si affrontano
temi etici come il dolore, l’ingiustizia, l’arte, il tempo, l’individualismo,
l’immaginazione. In tale opera il carcere diventa una tappa del proprio
itinerario personale, quella di un uomo che si vede perseguitato dalle
istituzioni e foucaultianamente irreggimentato attraverso la disciplina
penitenziaria e del corpo.
La
sofferenza cui sono soggetti tutti i carcerati viene descritta ed «elevata a
principio estetico»: «suffering is one long moment […]. For us there is only one season, the
season of Sorrow»[21].
Aggiunge lo scrittore sempre nel De
Profundis: «I have got to make everything that has happened to me good
to me. The plank-bed, the loathsome food, […], the menial offices with which
each day begins and finishes, the harsh orders that routine seems to
necessitate, the dreadful dress that make sorrow grotesque to look at, the
silence, the solitude, the shame – each and all of this things I have to transform
in a spiritual experience»[22].
Anche
nelle opere teatrali di Luigi Pirandello il carcere si ripresenta
prepotentemente: il carcere e il processo sono momenti reali della vita dei
suoi personaggi (ne Il dovere del medico, 1911) e si evidenzia lo scollamento
fra la giustizia legale che tiene conto dei fatti e la giustizia reale che
dovrebbe tener conto degli stati d’animo che hanno accompagnato i fatti, in una
critica aperta di Pirandello alle istituzioni giudiziarie[23].
Anche in Così è (se vi pare) (1925) si mette in scena un processo
inquisitorio, per così dire, sulla vita del signor Ponza e della signora Frola:
tuttavia non esiste una verità oggettiva e dunque non avrebbe senso la condanna
né l’assoluzione, il processo condotto è arbitrario e lascia una grande ferita
negli imputati.
Ne Il
deserto dei Tartari (1940) di Buzzati, il personaggio, Drogo,
autorecludendosi, fa una scelta: la prigionia fisica nella fortezza Bastioni si
rende indispensabile per una totale libertà interiore priva da condizionamenti
esterni, al fine di entrare così in diretto contatto con la propria sfera
intima e con il proprio io[24].
Nelle
Lettere dal Carcere (1947), Antonio Gramsci, prigioniero politico nelle
carceri fasciste, nel 1926, nonostante l’immunità parlamentare, e condannato a
vent’anni di reclusione, fa della letteratura epistolare il momento più intenso
della sua prigionia, uno strumento per superare la «lima sottile» del carcere,
con «le sue norme, con la sua routine, con le sue privazioni, con le sue
necessità». Ciononostante, la sobrietà di Gramsci lo induce a non lamentarsi
mai della terribile vita condotta in carcere da oppositore politico, e
rivolgendosi essenzialmente alle donne della sua famiglia, la moglie Giulia in
primis, sperimenta, anche a causa della censura, una ulteriore prigionia
dovuta all’isolamento rispetto alla vita famigliare, soprattutto, e sociale.
Scrive, ispirandosi ad una lettera carceraria di Silvio Spaventa, «sequestrato
come sono qui da ogni commercio umano ed amorevole, il tedio grande, la prigionia
lunga, il sospetto di essere dimenticato da ognuno mi amareggiano e
isteriliscono lentamente il cuore»[25].
Infine
il carcere si presenta ancora una volta come metafora in Pavese: benché egli
venga carcerato realmente quale direttore della rivista La Cultura, il
carcere assume, nelle opere di Pavese, il significato di luogo di isolamento e
di esclusione inteso come drammatica distanza dal mondo. Tale dimensione
emerge, tra le altre, nell’opera omonima Carcere (1948), ove la
prigionia può superarsi solo accettando il dono quotidiano del tempo e della
compagnia faticosa degli altri[26].
Da
ultimo, in Calvino, nell’opera Il conte di Montecristo (1967), cogliamo
il carcere e i carcerati, ma soprattutto la dimensione metaforica del carcere
come strumento di interpretazione della realtà e della concezione di
letteratura di Calvino. «L’unico modo di sfuggire alla condizione di
prigioniero è capire come è fatta la prigione»[27]. Da
tale constatazione deriverà il progetto di fuga dei protagonisti carcerati
dell’opera.
La
letteratura ci restituisce in definitiva un’immagine del carcere – nella sua
dimensione fittizia o reale – che in tutto richiama i tratti odierni
dell’istituzione penitenziaria: un’istituzione che annichilisce e deforma,
caratterizzata da condizioni igieniche inaccettabili, dominata da isolamento e
da isterilimento intellettuale, incapace di prevenire la recidiva, che solo
talvolta ed occasionalmente istruisce e forma (ed è fonte d’ispirazione
poetica). Una ‘presenza etica’, come nell’Ottocento, eminentemente repressiva,
normativa, istituzionale ed esemplare, nelle parole proprie della dottrina
contemporanea, una pena simbolica.
E’
solo indagando l’origine (o invenzione) del carcere nella prospettiva storica
che potrà cogliersi l’evoluzione (involuzione) dell’istituzione penitenziaria
sino alla sua realtà odierna.
L’origine
del carcere o l’“invenzione del carcere”, come l’ha chiamata Foucault,
nell’opera Sorvegliare e Punire (1975),
venne concepita a partire dal XVI secolo[28].
Si
trattò a tutti gli effetti di un’“invenzione”, in quanto sino al XVI secolo il
carcere – archetipi del quale, come mera istituzione di custodia in attesa del
processo o dell’esecuzione del verdetto, risalgono all’antichità[29] –
non era stato altro che un luogo di restrizione della libertà mirato
essenzialmente ad assicurare che “l’imputato” (se di imputato in senso moderno
si poteva parlare) non si sottraesse al giudizio o alla pena già inflitta[30]: si
spaziava dalla punizione corporale alla pena pecuniaria, spesso usata in
funzione di confisca, alle pene infamanti come la gogna e la berlina, sino alla
pena capitale, cui si dava esecuzione con le modalità più efferate. Un’arte del
supplizio, ben descritta da Foucault, la cui legittimità verrà messa in dubbio
solo nel secolo dei Lumi, grazie all’Illuminismo giuridico e in particolare al
pensiero di Cesare Beccaria, ne Dei
Delitti e delle pene[31]. La natura processuale del carcere medioevale è
condivisa dalla dottrina penalistica maggioritaria[32].
Come
è stato chiaramente sottolineato, «la carcerazione preventiva costituiva il
grosso dell’incarcerazione fino al secolo XVI. Da allora, la detenzione assunse
una forma diversa»[33].
Fu,
segnatamente, solo con l’inizio della modernità che il carcere divenne non più
una mera istituzione di custodia, bensì un luogo deputato per eccellenza
all’esecuzione della pena detentiva, finalizzata ora alla privazione della
libertà per un determinato periodo di tempo, una pena detentiva che veniva
eseguita secondo modalità che si erano dapprima ispirate alle pene riservate
agli ecclesiastici nei monasteri d’Europa e che poi sono divenute per così dire
“laiche”[34]. Tra
la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del XVII la forma della pena ecclesiastica,
infatti, ispirata alla penitenza, prevedeva una pena da scontarsi attraverso
l’isolamento in una “cella”, una pena che si incontrò, come osserva Melossi,
con un’altra invenzione, quella della c.d. «manifattura, sotto la spinta del
profondo rinnovamento sociale stimolato dalla Riforma protestante»[35]. Ed
infatti fu nelle prime aree di nascita di forme proto-capitalistiche e insieme
del Protestantesimo che nacquero le “case di lavoro” o “case di correzione” (workhouses come venivano chiamate nel contesto
anglo-sassone), diffusesi da Londra ad Amburgo sino alle altre città della Lega
anseatica nella Germania settentrionale, da Ginevra sino ad Amsterdam: la rasphuis di Amsterdam resta famosa per
la descrizione che viene fatta di tale casa di lavoro nel pensiero
criminologico americano e in particolare nell’opera di Thorsten Sellin e per la
sua natura polifunzionale[36].
Nel
1555, nasceva a Londra un’istituzione, chiamata Bridewell, allo scopo di
incarcerare vagabondi e mendicanti, che fu ripresa da tutti i Paesi europei e
divenne nota appunto sotto il nome di “casa di correzione”, luogo ove chi “non
voleva lavorare” era costretto ad impegnarsi in un lavoro socialmente utile
(nacque qui la tradizione di rinchiudere fra le mura carcerarie “gli elementi
più poveri della società”, una tradizione che giunge sino ai sistemi
penitenziari odierni[37].
Le
case di lavoro erano presenti altresì oltreoceano, in particolare nelle colonie
inglesi del Nord America, come nella colonia quacchera di William Penn
(Pennsylvania)[38].
Esse si diffusero poi nei paesi di tradizione cattolica, tra cui il nostro, ove
resta emblematico l’esempio della casa di correzione di Milano realizzata sotto
Maria Teresa d’Austria[39].
Inizialmente,
queste istituzioni erano riservate a coloro che si macchiavano di comportamenti
ascrivibili oggi a forme di devianza (o meglio di insubordinazione sociale)
meno grave, quali il vagabondaggio e la mendicità. Nel tempo esse assunsero il
ruolo di carceri destinate a tutti i tipi d’autore: delle carceri odierne esse
hanno rappresentato l’istituzione antenata[40].
Un
esempio emblematico di istituzione carceraria dell’età moderna – rispondente al
regime di “disciplinamento e razionalizzazione” dell’epoca e assimilabile alla
c.d. manifattura (nonché ai manicomi, agli ospedali e alle scuole) – si ritrova
nel celebre Panopticon di Jeremy Bentham di cui troviamo testimonianza
anche nell’opera di Foucault: come gli altri riformatori illuministi, quali
Cesaria Beccaria e Carlo Cattaneo, anche per il filosofo utilitarista inglese
Bentham la riforma delle istituzioni doveva passare attraverso la riforma del
sistema penale. Ecco che Bentham propone un modello esemplare di carcere,
chiamato “panottico”, la cui struttura prevedeva una torre centrale riservata
al guardiano del carcere e agli uomini della sicurezza, mentre i carcerati
erano collocati in un anello distribuito su più livelli che correva attorno
alla torre. Alla base di tale struttura architettonica vi era la possibilità
del guardiano di vedere e controllare dalla torre i carcerati, mentre questi
ultimi, a causa di un sistema di tende, non potevano sapere se venivano
vigilati: si poteva cioè guardare dalla torre verso l’esterno e non viceversa.
L’idea centrale era dunque quella di incutere nei detenuti il timore di essere
osservati in modo da far sì che essi sviluppassero auto-disciplina[41].
Come
si sottolinea in letteratura, all’origine dell’invenzione del carcere, sta la
scoperta del «valore del concetto di disciplina: lavorativa, manifatturiera,
produttiva, ma al tempo stesso anche disciplina di vita, e di metodo, della
riforma protestante»[42].
Con
l’avvento del XVIII secolo, la criminalità venne definita in termini più ampi
rispetto alle forme minori di devianza e nacque la pena nel suo moderno contesto
punitivo. La perdita di importanza di altre forme di punizione contribuì ad un
aumento significativo della popolazione carceraria: le condizioni delle
prigioni divennero caotiche, la situazione sanitaria inadeguata, la brutalità
endemica[43].
All’inizio
del XIX secolo, infine, una combinazione di circostanze sociali ed economiche
comportò una riforma radicale del sistema penitenziario. I riformatori
continentali trovarono risposta alle istanze riformatrici nel sistema
carcerario americano e in particolare nel progetto della Walnut Street
Prison di Philadelphia, basato sull’idea della reclusione solitaria,
separata e anonima. Come è stato chiarito, «il sistema carcerario, quando
assunse la sua forma moderna, univa i tre aspetti fondamentali della pena moderna:
brutalità, anonimato e lavoro […]», incorporando così «gli stessi elementi che
caratterizzavano il sistema di fabbrica»[44].
Non
si può prescindere, nel delineare i profili storici dell’istituzione carceraria
(benché non si tratti di una teoria sulla nascita del carcere)[45],
dalla nota lettura di Rusche e Kirchheimer: storicamente, il carcere è
eliminativo e in preda alla deterrenza o conservativo e mite, a seconda
dell’andamento del mercato del lavoro. Ecco che l’istituzione penitenziaria
tenderà ad essere maggiormente conservativa della forza-lavoro, mite e poco
popolata, laddove vi sia scarsità di forza lavoro e questo aumenti dunque di
valore. Al contrario, il carcere sarà sovraffollato e caratterizzato da forte
deterrenza laddove la forza-lavoro abbondi perdendo dunque di valore: è
quest’ultima la condizione in cui versano le istituzioni penitenziarie a
partire dagli anni settanta del novecento sino ad oggi (come già accadde nel
periodo della rivoluzione industriale e nel XIX secolo in Europa)[46].
Il sistema
penitenziario italiano odierno costituisce una esemplificazione emblematica
della attuale tendenza storica.
L’evoluzione
storica dell’istituzione carceraria può essere fatta risalire, In Italia, alla
prima legislazione unitaria. A seguito dell’unificazione della penisola sotto
la monarchia sabauda, negli anni 1861-2, si manifestò la necessità di
riorganizzare la legislazione all’epoca vigente in ogni settore del diritto.
Eminentemente in campo penitenziario si avvertì la necessità di un regolamento
per gli istituti di pena, unico per tutta la penisola[47]:
venne dunque emanato il r.d. 13 giugno 1862 n. 413, il “Regolamento generale
per le Case di pena del Regno”. Le Case di pena erano finalizzate a custodire,
assicurando la disciplina interna, con il ricorso al lavoro obbligatorio per i
condannati il cui prodotto apparteneva allo Stato. I detenuti erano tenuti
all’obbligo del silenzio continuo ed assolutamente estranea al sistema era
l’idea di una qualsiasi apertura verso l’esterno.
Sino
ad allora, infatti, il carcere era stato disciplinato solo attraverso lo
strumento del regolamento. Nel 1975, con tale provvedimento sull’ordinamento
penitenziario, è intervenuta una disciplina attuata con legge: ciò ha
costituito una vera innovazione nella storia delle istituzioni penitenziarie in
Italia, poiché «l’adozione della forma della legge si lega al riconoscimento
del condannato come soggetto di diritti, e non più come soggetto passivo di un
rapporto di pura soggezione»[75].
Nell’art. 1 e nell’art. 4 dell’ordinamento penitenziario, infatti, ritroviamo
il riconoscimento di diritti fondamentali al detenuto[76].
Anche
se non mancherà in quegli anni l’incidenza di una ventata di neo-classicismo
(post-sessantottina), volta al recupero dell’idea neutralizzatrice[77], la
riforma del 1975, è ben noto, ha cercato di conformarsi al dettato
costituzionale, ponendo alla base del sistema penitenziario l’idea della
rieducazione o risocializzazione, nella forma del trattamento individualizzato,
rispondente ai bisogni di ciascun soggetto (art. 13), da attuare avvalendosi
principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività
culturali, ricreative, sportive ed agevolando opportuni contatti con il mondo
esterno e con la famiglia (art. 15).
Come
è stato cristallizzato, richiamando le parole di un compianto studioso, la
legge del 1975 rappresenta «la prima legge organica di riforma del sistema
penale ispirata al principio della funzione rieducativa della pena»[78].
Questo,
raccogliendo l’insegnamento di Kelsen, il “dover essere della pena”[79].
Tuttavia, «la pretesa di aver sostituito la funzione rieducativa a quella
punitiva si rivela […] puramente ideologica sino a che la pena rimane
incentrata sul carcere, con la sua essenza segregante e totalizzante»[80]. E’ ben
noto infatti che la rieducazione risulta di difficile realizzazione se si tiene
conto della acquisizione criminologica secondo la quale il carcere è un
ambiente di desocializzazione e di contagio criminale.
E’
tuttavia l’obiettivo cui l’imperativo costituzionale impone di tendere.
Ecco
perché occorre interrogarsi, alla luce dell’evoluzione storica del carcere e
della legislazione penitenziaria, su quale sia lo stato dell’“essere della
pena”, soprattutto in relazione al rispetto del principio di umanità e di
dignità della persona.
L’abisso
che separa il “dover essere” dall’“essere” della pena detentiva in Italia –
avvicinandoci inesorabilmente alla ricostruzione di una istituzione
penitenziaria, secondo la lezione di Rusche e Kirchheimer e secondo la lezione
della letteratura, in preda ad una sfrenata deterrenza e all’endemico
sovraffollamento carcerario – si può evincere solo alla luce del sapere
criminologico[81].
Tale scollamento è stato altresì, è noto, additato magistralmente dalla Corte
europea dei diritti umani nella sentenza Torreggiani et al. c./Italia[82]. Si
tratta, come icasticamente sottolineato dal Presidente della Repubblica
italiana, «dell’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato
costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la
dignità della persona»[83].
La
criminologia, quale scienza empirica, ci consente di delineare l’“essere” dell’istituzione
carceraria, nella realtà dell’ordinamento italiano, dal 1975 ad oggi.
Prima
di analizzare i dati statistici italiani, al fine di tratteggiare il quadro
della realtà penitenziaria italiana, è tuttavia doveroso ripercorrere le
acquisizioni criminologiche, benché note, stratificatesi nel tempo in relazione
all’istituzione carceraria.
Da
lungo tempo, infatti, la letteratura basata sull’osservazione empirica ha
indagato gli aspetti sociologici e organizzativi relativi al carcere.
Ciò
che è emerso primariamente, nelle parole di Baratta, è che «‘la comunità
carceraria’ e la ‘subcultura’ dei moderni istituti di detenzione, […] si
presentano come dominate da fattori che finora, ad un bilancio realistico,
hanno reso vano ogni tentativo di realizzare compiti di socializzazione e di
reinserimento attraverso le istituzioni. Anche l’introduzione di moderne
tecniche psicoterapeutiche ed educative, e parziali trasformazioni nella
struttura organizzativa del carcere, non hanno cambiato in modo decisivo la natura
e la funzione degli istituti di detenzione nella nostra società. Essi restano
il momento culminante e decisivo di quel meccanismo di emarginazione, che
produce la popolazione criminale e la gestisce al livello istituzionale […]»[84].
Breve: la
prima acquisizione criminologica è quella secondo la quale il carcere è luogo
di emarginazione, luogo di “raccolta” dell’emarginazione e di creazione di
un’“etichetta” di emarginato.
Soprattutto,
nell’ambito delle società contemporanee si è andato delineando un “modello”
di istituzione penitenziaria con caratteristiche costanti: tra le quali il
«fatto che gli istituti di detenzione esercitano effetti contrari alla
rieducazione e al reinserimento del condannato, e favorevoli ad un suo stabile
inserimento nella popolazione criminale». Posto infatti che per la rieducazione
è necessario il rispetto e la valorizzazione dell’individualità, è evidente
come il carcere sia in completa antinomia con queste condizioni: «le cerimonie
di degradazione all’inizio della detenzione con le quali il carcerato è
spogliato anche dei simboli esteriori della propria autonomia (i vestiti e gli
oggetti personali) sono l’opposto di tutto questo»[85].
Inoltre l’educazione fa leva sulla libertà, mentre la vita carceraria, essendo
improntata alla disciplina e all’irregimentazione del corpo e dell’anima, ha un
carattere repressivo ed uniformante.
Breve:
la seconda acquisizione criminologica è quella secondo la quale
il carcere è luogo di criminogenesi e di spersonalizzazione.
Sempre
il sapere criminologico, e psichiatrico in particolare, ammoniscono circa le
conseguenze nefaste della carcerazione sulla psiche che si rivelano aggravate
dalla lunga durata della detenzione: gli esami condotti sulla personalità di
campioni di detenuti mostrano che la possibilità di trasformazione del soggetto
violento attraverso una prolungata condizione di reclusione non è realizzabile.
Contribuiscono ad impedire una tale trasformazione la stessa privazione dei
bisogni fondamentali, compresi quelli attinenti alle relazioni affettive e
sessuali e l’esito di tali frustrazioni può condurre sino al suicidio[86].
La
letteratura criminologica ha altresì indagato il processo di socializzazione al
quale è sottoposto il detenuto: nelle parole di Goffman, si può parlare di
“disculturazione”, ossia di mancanza di “allenamento” alle situazioni tipiche
della vita quotidiana, in altre parole, si verifica un disadattamento alle
condizioni necessarie alla vita libera (diminuzione della forza volitiva,
perdita del senso di auto-responsabilità economica e sociale), una diminuzione
del senso della realtà del mondo esterno con conseguente formazione di una sua
immagine illusoria, un distacco dai modelli sociali correnti[87]. Al
tempo stesso e specularmene, il carcere è luogo di “acculturazione” o “prigionizzazione”,
ossia di assunzione dei modelli, dei valori e delle attitudini della subcultura
carceraria.
In
particolare, gli effetti negativi della “prigionizzazione” sulla possibilità di
rieducazione sono duplici e riconducibili a due processi: l’educazione a
criminale e l’educazione a buon detenuto. Il primo processo comporta
l’assunzione del modello criminale dei detenuti che, nella gerarchia
carceraria, si pongono al vertice e che per il prestigio di cui godono si
impongono come esempio di comportamento asociale e antagonista alle
istituzioni, detenuti con i quali gli stessi operatori penitenziari devono
trovare una mediazione. Il secondo processo, invece, avviene nell’ambito della
comunità dei detenuti, «dato che l’assunzione di un certo grado d’ordine, dei
quali i capi dei detenuti si fanno garanti (in cambio di privilegi) verso lo staff,
fa parte degli scopi riconosciuti in questa comunità. Questa educazione
avviene, per il resto, attraverso l’accettazione delle norme formali
dell’istituto e di quelle informali poste in essere dallo staff»[88]. In
tal modo, si alimentano comportamenti esteriormente consoni alla vita
dell’istituzione, ma spesso frutto di conformismo ed opportunismo. L’obbedienza
funzionale alla vita ordinata nel carcere è l’obiettivo prioritario
dell’istituzione, mentre la rieducazione, ossia l’interiorizzazione delle norme
e la partecipazione consensuale e convinta alle attività rieducative, resta
inattuata.
Breve: la
terza acquisizione criminologica è quella secondo la quale il carcere è luogo
di deformazione della personalità e della psiche, nonché di annichilimento e di
“disculturazione”/“prigionizzazione”.
Non
ultimo, il carcere ispirato all’ideologia rieducativa si caratterizza per una
contraddizione intrinseca, legata al rapporto con la società a cui è destinato
il soggetto rieducando, basata sul binomio inclusione/esclusione: non si può
allo stesso tempo includere ed escludere. Inoltre i rapporti sociali della
subcultura carceraria, pur peculiari e unici, «nella loro struttura più elementare
[…] non sono che l’ampliamento, in forma meno mistificata e più ‘pura’, delle
caratteristiche tipiche della società capitalistica: sono rapporti sociali
basati sull’egoismo e sulla violenza illegale, all’interno dei quali gli
individui socialmente più deboli sono costretti in ruoli di sottomissione e di
sfruttamento»[89].
Come
è stato affermato di recente nell’ambito della stessa dottrina penalistica, «la
grande contraddizione che contraddistingue il carcere è la sua sostanziale
tensione, se non addirittura incompatibilità, con la funzione
rieducativa/risocializzante della pena, e ciò per la semplice ragione che il
carcere produce come primo inevitabile effetto quello della desocializzazione
[…] con la conseguenza che una pena che genera desocializzazione non potrà mai
essere in grado di generare risocializzazione»[90].
Tali
essenziali acquisizioni criminologiche, elaborate, sin dagli anni settanta,
segnatamente nell’ambito della corrente della criminologia critica, trovano
piena rispondenza nei dati statistici relativi alla realtà delle carceri
italiane.
Innanzitutto,
è noto, vi è l’annoso tema del sovraffollamento carcerario che acuisce i
problemi evidenziati dal sapere criminologico, rendendo ancor più difficile
l’obiettivo tendenziale della rieducazione. I dati sull’aumento della
popolazione carceraria a partire dal 1975, ossia dalla entrata in vigore della
legge sull’ordinamento penitenziario, restituiscono un quadro sconcertante: se
infatti nel 1974 i dati relativi agli adulti presenti in carcere era di 28.000
unità[91], ad
oggi (i dati sono aggiornati al 31 maggio 2017 e sono tratti dalle
significative rilevazioni statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria), tale numero è cresciuto sino a 56.863, dunque ben oltre la
capienza regolamentare che è pari a 50.069 posti (sempre a quella data)[92].
Comparando,
come operato da autorevole dottrina, la crescita della popolazione carceraria e
quella della popolazione residente in Italia dagli anni settanta ad oggi, si
evince che tale ultimo incremento è stato pari all’11%, mentre quello della
prima è stato pari al 240%. A testimoniare di una crescita inesorabile ed
esorbitante della presenza in carcere. E nel panorama europeo, l’Italia si pone
accanto a Cipro, Serbia e Spagna con livelli di sovraffollamento drammatici[93].
Benché
i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel 2017
dimostrino un lieve decremento della popolazione detenuta negli ultimi anni
(58.092 nel 2014), la stessa amministrazione fissa un tetto di “capienza tollerabile”
(sulla cui legittimità è opportuno interrogarsi seriamente) in 50.069 posti,
evidenziando come il problema del sovraffollamento carcerario sia comunque una
grave patologia da tenere sotto continuo monitoraggio[94].
Come
segnalato di recente, infatti, al dicembre 2016, il sovraffollamento è stato
ridimensionato (come diremo, grazie ad alcuni recenti interventi di riforma):
il valore medio a quella data infatti era pari al 108,8%. Tuttavia, se si pensa
che nel 2015 il valore medio era del 105,18% si registra, in ogni caso, una
riemersione del problema. Come icasticamente sottolineato, «un’inversione di
tendenza dalla quale si evince che il problema non è ancora definitivamente
risolto e che l’attenzione in proposito non dovrebbe conoscere cadute»[95]. Una
variabile, quella della diminuzione del sovraffollamento carcerario, per alcuni
legata inscindibilmente al declino del populismo penale e del binomio allarme
sociale/consenso politico, populismo che sembrerebbe riemergente nell’ultimo
anno a render ragione del nuovo incremento degli ingressi in carcere[96].
Infine,
una analisi della presenza nelle carceri per posizione giuridica consente al
Dap di affermare che al 2016 solo 35.400 detenuti sono stati condannati con
sentenza di condanna passata in giudicato: tutti gli altri sono soggetti
incarcerati soltanto in ragione dell’operare delle misure cautelari detentive.
Il 40% circa dei detenuti nelle carceri italiane sono sottoposti a custodia
cautelare in carcere. Questo dato in effetti pone l’Italia in una posizione,
rispetto agli altri Paesi europei ove i detenuti in attesa di giudizio sono in
numero assai più ridotto, deteriore[97].
Un
ulteriore dato emergente, che conferma la prima acquisizione criminologica
secondo la quale il carcere è un luogo di “raccolta”, per così dire,
dell’emarginazione, benché noto da tempo[98]: le
carceri italiane sono segnate in prevalenza dalla presenza di stranieri e di
soggetti tossicodipendenti. I detenuti stranieri rappresentano al 31 maggio
2017 il 34% (19.365 sul totale dei detenuti pari a 56.863) della popolazione
detenuta complessiva, benché gli stranieri non superino il 7,5% della
popolazione totale residente. Se si guarda, osserva il Dap, all’incremento
numerico della popolazione detenuta degli ultimi 15 anni, si giunge alla conclusione
che la crescita assoluta della popolazione detenuta corrisponde in massima
parte all’incremento della presenza di stranieri nelle carceri (quasi il 50%
del numero complessivo dei detenuti). Essi, come noto, sono fortemente
svantaggiati nell’accesso alle misure alternative alla detenzione: si può
concludere che la selezione dei clienti privilegiati del carcere avviene in
maniera largamente discriminatoria[99].
Quanto
ai soggetti tossicodipendenti, essi rappresentano una parte consistente della
popolazione detenuta. Risulta infatti dai dati forniti dall’Istat e aggiornati
al 2016 che le violazioni della normativa sugli stupefacenti rappresentano la
tipologia più diffusa di reati per i detenuti presenti (18.702). Seguono i
reati contro il patrimonio, per i quali si contano, tra furti e rapine,
detenuti pari ad un totale di 28.956 unità[100].
Inoltre,
secondo rilevazioni dell'Osservatorio delle misure alternative del Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria, risalenti al 2007, «la recidiva di chi
resta tutto il tempo chiuso in prigione è tre volte superiore a quella di chi
sconta la condanna con misure alternative alla detenzione: il 68,5% nel primo
caso, il 19% nel secondo»[101].
Così come è in corso una ricerca promossa dal Ministero della Giustizia sui rapporti
fra carcere e recidiva che viene condotta con l’Einaudi Institute for Economics
and Finance (Eief), il Crime Research Economic Group (Creg) e il Sole 24Ore,
nonché il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I dati di tale
ricerca, condotta con particolare riferimento al “carcere aperto” di Bollate,
consentono di confermare la seconda acquisizione criminologica secondo la quale
il carcere è luogo di criminogenesi e dunque non in grado di prevenire la
recidiva laddove venga scontato in regime chiuso senza contatti con l’esterno.
Il carcere chiuso è infatti patogeno e produce il 70% dei soggetti recidivi, al
contrario il modello “aperto”, basato sulle celle aperte e sull’impegno dei
detenuti in attività lavorative e culturali, un carcere orientato al rispetto
della dignità della persona e alla rieducazione, è riuscito a ridurre
seriamente le recidive (fino a 9 punti percentuali)[102].
Un
ultimo, tragico, dato sui suicidi in carcere: il tasso dei suicidi è variabile
di anno in anno e comunque compreso tra i 12,50 e i 9 suicidi per 10.000
detenuti, con una incidenza di suicidi sproporzionata rispetto al tasso di
suicidi nella popolazione residente[103].
Ebbene, esiste prova che c’è una correlazione significativa fra
sovraffollamento carcerario ([104] ) e frequenza
delle morti per suicidio: il problema è a tal punto sentito che il Dap dapprima
nel 2010 e poi nel 2011 ha redatto delle circolari volte ad arginare tale
fenomeno[105].
Si
conferma la terza acquisizione criminologica summenzionata: il carcere è luogo
di deformazione della personalità e della psiche, nonché di annichilimento.
E
tale situazione è aggravata dalle frequenti violazioni dei diritti umani
fondamentali di cui è spesso protagonista l’istituzione carceraria così come
emerge dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: la violenza fisica (il
cui divieto è sancito dall’art. 13 e 27 Cost. italiana, nonché dall’art. 3
della CEDU), la violenza e la coercizione psicologica, la tortura, le
perquisizioni personali, le limitazioni alla socialità e al contatto con il
mondo esterno, alla libertà di informazione, istruzione, espressione e
religione, la stessa questione dell’ergastolo ostativo [106].
Il
quadro che emerge dai dati statistici ufficiali e dai pronunciamenti della
Corte europea dei diritti dell’uomo è desolante.
Un
quadro che induce la criminologia a rievocare a buon diritto l’“istituzione
totale” che, coniata da Goffman in Asylums (1961), riecheggia a pieno
nelle parole di Foucault secondo il quale «le punizioni in generale, e la prigione»
derivano «da una tecnologia politica del corpo».
Nella
parabola di tale istituzione totale, dalla sua invenzione, quale luogo di
custodia, sino alla realtà attuale, si può senza timor di smentita affermare
che siamo giunti – oggi – all’epilogo dell’istituzione carceraria: la sua crisi
(che può peraltro preludere ad una rinascita) va decretata senza appello.
Tuttavia,
anche a prescindere da una prospettiva critica, lo sguardo della criminologia
va oltre e cerca di indagare empiricamente l’eziologia delle condizioni attuali
dell’istituzione penitenziaria, studiando a fondo una delle cause odierne della
crisi e dell’epilogo di tale istituzione: il sovraffollamento carcerario.
Alcuni studi recenti evidenziano infatti che sono tre i fattori che hanno contribuito
(benché non si possa parlare in termini strettamente causali) a far sì che la
popolazione detenuta italiana abbia raggiunto oggi livelli mai toccati dal
secondo dopoguerra del secolo scorso[107].
Si
tratterebbe di tre fattori concomitanti enucleatesi nell’ultimo decennio in
Italia nell’ambito dell’esecuzione penale: da un lato, il deciso declino della
sospensione condizionale della pena, dall’altro la crescita significativa delle
pene detentive di lunga durata, infine la forte riduzione della concessione
delle misure alternative alla detenzione.
Fossa
e Gatti partono dalla considerazione della attuale crescita esorbitante della
popolazione detenuta italiana – che il provvedimento di indulto del 2006 ha
contribuito solo parzialmente a contenere essendosi tornati in un solo biennio
ai livelli di capienza precedenti al provvedimento stesso – ed evidenziano come
tali livelli siano caratteristici di situazioni storiche eccezionali.
Passano
quindi, i due criminologi, a considerare la classificazione della popolazione
detenuta a seconda della appartenenza alla popolazione “definitiva” oppure alla
popolazione in attesa di giudizio. L’aumento considerevole della popolazione
detenuta italiana, chiariscono, è da attribuirsi soprattutto alla crescita
della “criminalità punita”.
Ecco
dunque che i fattori che possono intervenire a spiegare l’aumento consistente
della popolazione definitiva vanno rintracciati sul terreno dell’esecuzione
penale. Un fenomeno che può spiegare questo alto livello di carcerazione viene
rinvenuto in primo luogo nel declino, a partire dall’ultimo decennio, del
numero di sentenze accompagnate dalla sospensione condizionale della pena:
dall’azzeramento dell’istituto nel biennio 2005-2006 (senz’altro anche per
effetto dell’indulto che ha reso inutile la celebrazione dei processi) fino ad
attestarsi sullo 0,1% nel biennio 2008-2009. La minor propensione dei giudici a
concedere la sospensione della pena si accompagna alla impossibilità di
usufruirne per gli imputati recidivi. Occorre segnalare tuttavia che tale dato
non è pacificamente accolto: alcune rilevazioni mostrano che, invece, il
ricorso alla sospensione condizionale della pena è molto più elevato. In
particolare, alcuni dati relativi al periodo 2008-2012 evidenziano oltre il 40%
di condanne iscritte nel casellario giudiziale sospese condizionalmente[108].
Un
secondo fattore che produce effetti sulla consistenza della componente
carceraria è la lunghezza delle pene detentive inflitte: più la pena inflitta
in sentenza è elevata più si allontana il momento di lasciare il carcere per lo
stato di libertà o per l’accesso alla misura alternativa, tutto ciò specie per
i soggetti recidivi il cui accesso alle misure alternative resta – o meglio
restava (recenti riforme hanno, come diremo, modificato tale dato normativo) –
precluso in forza della c.d. legge ex Cirielli. Dai dati riferiti emerge in
maniera sorprendente un aumento che supera il 70% delle pene oltre i due anni e
un aumento pari al doppio, altrettanto sorprendente, delle condanne
all’ergastolo. La magistratura si sarebbe dunque orientata nell’ultimo decennio
verso pene sempre più severe e di lunga durata.
Infine,
un terzo fattore, capace di contribuire a spiegare il carico penale dei
detenuti e il conseguente inevitabile deterioramento delle condizioni
carcerarie sino ad integrare un trattamento inumano e degradante, è da
identificarsi nella ridotta ammissione alle misure alternative al carcere (sia
dallo stato di libertà che dallo stato di detenzione). Nonostante l’affidamento
in prova al servizio sociale venga applicato in tempi recenti in maniera
crescente, nel complesso le misure alternative alla detenzione vengono
raramente concesse, specie ai soggetti che potrebbero essere ammessi a fruire
di tali istituti – espressione più piena, è bene rammentarlo, della funzione
rieducativa della pena. Come chiariscono Fossa e Gatti, «la significativa
maggioranza dei detenuti in sintesi – almeno dal punto di vista del residuo di
pena da scontare – potrebbe accedere alle misure alternative. […]. Ad oggi i condannati
con residuo di pena fino a tre anni hanno rappresentato mediamente circa il 60%
di tutti i condannati»[109].
Non
solo. Alcune riforme legislative – dalla legge sulla recidiva reiterata già
citata, alla legge sugli stupefacenti, nonché la legge sull’immigrazione –
hanno contribuito decisamente, come già evidenziato, all’aumento della
popolazione penitenziaria. Da un lato, per un gioco combinato di fattori: più
di un reato su quattro tra quelli iscritti alla popolazione straniera rientra
nella categoria degli stupefacenti, dall’altro per l’elevato numero di
carcerazione a seguito della inottemperanza all’ordine di espulsione da parte
dei migranti. Dunque le cause del collasso del sistema penitenziario italiano
«hanno un nome e un cognome», come è stato efficacemente sottolineato: si
chiamano «legge Bossi-Fini […]. Legge Fini-Giovanardi […]. Legge Cirielli»[110].
Tale giudizio, tuttavia, va oggi parzialmente rivisto alla luce degli
interventi di riforma più recenti, di cui diremo.
Da
ultimo, un dato fondamentale viene sottolineato nella letteratura
criminologica: ad una sostanziale stabilità degli indici di criminalità negli
ultimi decenni ha sempre corrisposto una notevole variazione della punitività e
dunque i tassi di incarcerazione non si spiegano in ragione dei tassi di
criminalità bensì in ragione di variabili sociali e politiche[111]. E’
a queste variabili, dunque, che occorre volgere l’attenzione.
A
fronte della rilevazione scientifica dei molteplici fattori che contribuiscono
a rendere conto dell’aumento esponenziale della popolazione carceraria
italiana, infatti, le risposte politiche, ovvero le risposte che il legislatore
italiano ha posto sul terreno, sono state molte, ma spesso frammentate e di
segno opposto.
Anche
se, come è stato autorevolmente affermato «mai, dal 1975 ad oggi, si è
offuscata nel legislatore la consapevolezza che in tanto la pena detentiva può
risultare rispettosa di standard minimi di umanità e di civiltà – e poi,
eventualmente, risultare anche capace di ‘rieducare’ il condannato – in
quanto si riesca a mettere sotto controllo il problema del sovraffollamento
carcerario»[112].
Il
quadro delineato alla luce delle acquisizioni criminologiche ci induce
innanzitutto a sollecitare la magistratura ad operare nelle seguenti molteplici
direzioni: ricorrere maggiormente alla sospensione condizionale della pena
(anche se secondo alcuni non bisognerebbe abusarne ulteriormente), ridurre il
più possibile il ricorso a pene di lunga durata, esercitando nel contempo un
maggiore self-restraint nel ricorso alla custodia cautelare in carcere,
e consentendo all’opposto, in presenza dei requisiti di legge (anche nei
confronti di soggetti che scontino il residuo di pena), un maggior accesso alle
misure alternative alla detenzione, prima fra tutte l’affidamento in prova al
servizio sociale.
Tutto
ciò sotto il profilo prasseologico.
Tale
aspetto tuttavia non può andar disgiunto da profonde riforme legislative,
perché è solo il legislatore che può porre fine alle distorsioni più evidenti
del nostro sistema di giustizia penale, evidenziate dalla scienza penalistica
italiana e dalla giurisprudenza europea.
Pur
consapevoli della assenza di soluzioni magiche capaci di porre fine in tempi
brevi ad un problema complesso, quello del sovraffollamento carcerario ed alla
crisi del sistema penitenziario, che ha radici lontane e che ci accomuna ad
altri Paesi (penso agli Stati Uniti in primis), se volessimo pensare ad
una agenda politica, essa non potrebbe non aprirsi, a nostro avviso, ancora e
comunque con una voce su tutte: “reinvenzione della rieducazione”[113].
Ci
pare, innanzitutto, prioritario che a livello legislativo sia riaffermata la
centralità e il primato della funzione rieducativa della pena,
costituzionalizzata ad opera dell’art. 27, comma 3 della Costituzione. Come
sottolineato dalla dottrina più illuminata, l’attuale situazione di crisi
dell’istituzione penitenziaria potrebbe indurci a prendere «commiato»
dall’idea rieducativa. Al contrario, ci appare prezioso il monito di tale
dottrina verso una riaffermazione dell’idea rieducativa e trattamentale, quale
«freno – magari insufficiente, ma comunque utile – alla degenerazione delle
istituzioni verso forme di inciviltà giuridica», «una spinta antitetica
rispetto alle ricorrenti tentazioni di imbarbarimento dei sistemi penitenziari»[114].
Ecco
che in nome di una “reinvenzione” dell’idea rieducativa e della sua spinta
propulsiva, il legislatore dovrebbe intervenire su quelle preclusioni normative
che oggi, sulla base del tipo d’autore, non consentono a molti detenuti
l’accesso alle misure alternative alla detenzione: rimuovere le preclusioni
introdotte dalla legge c.d. ex Cirielli, dai diversi pacchetti sicurezza,
dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario favorirebbe senz’altro la
deflazione carceraria.
Soprattutto,
come sommessamente suggerito dalla Corte EDU, in definitiva, sarebbe opportuno
un più ampio e generalizzato ricorso alle alternative al carcere.
Nel
contempo, la riforma legislativa non può non interessare le due aree critiche
della penalità in Italia: la normativa in materia di stranieri e la normativa
in materia di sostanze stupefacenti (che rispondono ai nomi della legge
Bossi-Fini e della legge Fini-Giovanardi).
E’ significativo
che in questa stessa direzione si sia posto il Consiglio Superiore della
Magistratura nel documento redatto dalla Commissione Mista, dal medesimo
istituita per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza e per
elaborare proposte di intervento sul piano ordinamentale, organizzativo e
normativo, idonee ad affrontare la criticità della situazione carceraria in
Italia. Nella relazione della Commissione Mista, presentata a Roma il 21
novembre 2011, si evince come centrale si ritenga la creazione di condizioni
favorevoli ad «un sistema rispettoso del dettato costituzionale sulla funzione
rieducativa della pena e sui diritti e la dignità della persona», attraverso
interventi di carattere normativo che tocchino, appunto e in primo luogo, il
settore delle c.d. preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari poste ai
condannati per delitti di particolare allarme sociale ed ai soggetti recidivi
qualificati[115].
Nel
contempo, prosegue la commissione, andrà riformata la disciplina delle misure cautelari
personali per ricondurle al principio dell’extrema ratio (come adombrato
dalla Corte EDU nella sentenza Torreggiani) e soprattutto, accanto alla riforma
dell’ordinamento penitenziario, del codice penale e del codice di rito, andrà
primariamente riformata la disciplina in materia di stupefacenti e di
immigrazione: l’insieme di tali riforme, chiarisce l’organo nato in seno al
C.S.M., consentirebbe in termini di proiezione un calo del flusso annuale in
entrata stimabile fra le 15.000 e le 20.000 unità. Si sottolinea inoltre che il
decremento, in futuro, dell’afflusso carcerario dovrebbe essere superiore,
considerata la provata riduzione della recidiva cui le misure alternative alla
detenzione conducono. Sotto il profilo delle “buone prassi” si pone in primo
piano l’adeguamento delle strutture penitenziarie e delle modalità
trattamentali, nonché la presa in carico dei detenuti tossicodipendenti[116].
Non
si dimentichino, da ultimo, gli appelli della società civile. Sono state numerose
infatti le iniziative provenienti dal mondo dell’associazionismo volte a
proporre riforme profonde del sistema penitenziario.
Mi
riferisco in particolare ai disegni di legge su tortura, carceri e droghe
presentati dalla Associazione Antigone, una associazione a tutela dei diritti e
delle garanzie nel sistema penale. Si legge, nella Relazione introduttiva ai
tre disegni di legge, una testimonianza tangibile dello stato di degrado
dell’istituzione penitenziaria italiana all’epoca della condanna europea delle
nostre carceri: «in questo momento vi sono 22 mila detenuti in più rispetto ai
posti letto regolamentari. […]. Il sistema è fuori controllo. I detenuti
dormono per terra. Non vi sono più spazi comuni. Oziano spesso nelle loro celle
per oltre 20 ore al giorno rendendo evanescente la funzione rieducativa della
pena. Il personale vive una condizione di forte sofferenza»[117].
Le
norme della proposta di legge, frutto del lavoro condiviso di molte
associazioni, mirano a contrastare in modo sistemico il sovraffollamento agendo
su quelle leggi – le abbiamo nominate – che producono carcerazione senza
produrre sicurezza. La prima proposta mira a colmare una rilevante lacuna del
nostro ordinamento giuridico, ossia l’assenza del crimine di tortura.
Nonostante la ratifica da parte del nostro Paese della Convenzione delle
Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o
degradanti, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel dicembre del 1984,
mancava infatti nel codice penale una previsione di tale grave delitto. La
proposta che intende inserire nel codice penale tale delitto è divenuta oggi
legge: sono previste pene fino a dodici anni per il reato in oggetto. Una
legge, non solo imposta dagli obblighi internazionali assunti dall’Italia, ma
anche espressione di un Paese autenticamente democratico[118].
Nel
contempo la proposta di legge proveniente dalla società civile intende porre in
atto molte delle riforme sin qui discusse: la predisposizione di un sistema di
misure cautelari concepito come extrema ratio, una drastica riscrittura
della legge c.d. ex Cirielli, l’abolizione del reato di ingresso e soggiorno
illegale nel territorio dello Stato, l’introduzione della sospensione con messa
alla prova. Infine tale proposta interviene nella direzione di una contrazione
della penalizzazione della criminalità connessa agli stupefacenti,
responsabile, come sì è visto, in larga misura della carcerizzazione italiana.
Se la
maggioranza della letteratura penalistica italiana concorda su questi interventi
normativi e organizzativi, in tempi più recenti anche il legislatore italiano
ha finalmente mostrato di accogliere le indicazioni provenienti dalla dottrina
e dalla magistratura, nonché dalla società civile.
In
particolare, occorre segnalare come si sia intervenuti, anche in seguito alla
messa in mora attuata dalla CEDU, sia sul versante dell’aumento della capienza
degli istituti, sotto il profilo dell’ampliamento delle strutture carcerarie,
sia sull’istituto della custodia cautelare in carcere, sia su quello delle
misure alternative alla detenzione, nonché sul terreno della legislazione in
materia di stupefacenti[119].
Sul
versante della misure cautelari da concepire quali extrema ratio,
il decreto legge n. 78 del 2013 ha contribuito a innalzare il limite di
applicabilità della custodia cautelare in carcere da quattro a cinque anni
(art. 280, c. 2 c.p.p.), così come il decreto legge n. 92 del 2014 ha sancito
il principio secondo il quale la custodia cautelare in carcere non potrà essere
applicata laddove il giudice ritenga che all’esito del giudizio la pena
irrogata non supererà il limite dei tre anni; infine la legge n. 47 del 2015 ha
modificato gli artt. 274 e 275 c.p.p. al fine di privilegiare le altre misure
cautelari rispetto al carcere.
Quanto
alle misure alternative alla detenzione, da privilegiare nella lotta al
sovraffollamento carcerario e quali strumenti espressione dell’idea
rieducativa, si segnalano numerose novità: significativamente, accanto ad una
nuova ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale per pene non
superiori a quattro anni, al potenziamento dell’affidamento in prova
terapeutico (concedibile più di due volte) e della liberazione anticipata, è
stato posto rimedio parziale alle preclusioni previste per i soggetti recidivi
nell’accesso alle misure alternative: il recidivo reiterato è stato ammesso a
fruire della detenzione domiciliare ex art. 47 ter, c. 1 ord. pen. in
caso di pena inflitta fino a quattro anni (decreto legge n. 78 del 2013);
inoltre l’art. 656 c.p.p. è stato modificato nel senso di ammettere anche i
recidivi reiterati alla sospensione dell’esecuzione, la cui operatività è stata
ulteriormente ampliata.
E’
soprattutto sul terreno della legislazione in materia di stupefacenti che sono
state introdotte novità significative: è stato infatti rimodulato il
trattamento sanzionatorio della detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti
laddove il fatto sia di lieve entità. Tale ipotesi è stata configurata quale
reato autonomo e sottratta dunque al giudizio di bilanciamento come accadeva in
precedenza quando era invece inquadrata come circostanza attenuante,
circostanza tuttavia incapace di mitigare il trattamento sanzionatorio assai
rigoroso (da 6 anni a 20 anni di reclusione) per le ipotesi di lieve entità,
figura autonoma che prevede oggi una cornice edittale da 6 mesi a 4 anni.
Da
ultimo, in questa materia, si è assistito alla dichiarazione
d’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi[120] con
conseguente reviviscenza della disciplina previgente, la legge
Iervolino-Vassalli: ciò ha comportato il ritorno ad un trattamento più mite per
le condotte relative alle c.d. droghe leggere rispetto alle c.d. droghe
pesanti, in precedenza equiparate nella previsione della legge Fini-Giovanardi.
Se
questi provvedimenti insieme rendono conto della recente flessione nella
popolazione penitenziaria più sopra segnalata – tanto che, nel 2016, l’Italia
ha ottenuto l’approvazione del Consiglio d’Europa sul versante del sovraffollamento
carcerario – altre recenti novità legislative sono state introdotte in funzione
deflattiva. Mi riferisco in particolare agli istituti della lieve tenuità del
fatto nonché della messa alla prova, istituto sollecitato dalla stessa società
civile.
I due
istituti, introdotti rispettivamente negli artt. 131-bis e 168-bis,
ter e quater c.p., sono entrambi volti a superare la dimensione
carcerocentrica del nostro sistema sanzionatorio. Il primo, previsto ad opera
del decreto legislativo n. 28 del 2015, attuativo della legge n. 67 del 2014,
contenente “Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di
riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del
processo con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”, è stato
mutuato dalla giurisdizione minorile e del giudice di pace e si applica laddove
l’offesa è di particolare tenuità e non vi sia abitualità del comportamento nel
caso di reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque
anni, ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta a pena detentiva. Benché sia
discussa la natura giuridica, si ritiene dai più che si tratti di una causa di
non punibilità, applicabile, come è stato osservato, ai c.d. reati bagatellari
impropri, ossia reati astrattamente puniti severamente, ma in concreto
bagatellari per i quali si rinuncia alla pena in nome di un principio di ultima
ratio[121].
Quanto
all’istituto della sospensione con messa alla prova, rispondente alle medesime
finalità di deflazione processuale e di lotta alla centralità del carcere,
viene previsto, sempre sull’esempio della omologa esperienza nel settore
minorile, ad opera della legge n. 67 del 2014. L’istituto, a metà fra probation
e divertion, ha una duplice natura sostanziale e processuale e sembra
essere, trattandosi di una rinuncia alla pronuncia sulla responsabilità, un
istituto dotato di una flessibilità capace di assolvere alla finalità
rieducativa[122].
Non
da ultimo, si sta facendo strada la stessa giustizia riparativa, i cui
paradigmi, mettendo in dialogo la vittima con l’autore di reato, rispondono a
pieno all’idea rieducativa[123].
E’
significativo che la recente delega al governo per la riforma dell’ordinamento
penitenziario (legge 23 giugno 2017, n. 23) vada nelle molteplici direzioni qui
indicate: centralità della rieducazione (su cui si erano pronunciati
decisamente anche gli Stati Generali per la riforma dell’esecuzione penale in
Italia); revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure
alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento
ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che per
i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne
per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale; revisione della
disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative,
prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di
esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni; eliminazione di automatismi
e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per
gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del
trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in
relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali
del condannato, nonché revisione della disciplina di preclusione dei benefìci
penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, salvo che per i casi di
eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per
le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale;
previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure,
quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito
intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative[124].
In
altre parole, dalle recenti riforme legislative, sollecitate dalla
giurisprudenza, dalla letteratura penalistica, dagli organi della magistratura
e dagli appelli d’iniziativa sociale, nonché dalla recente delega, emerge un
dato su cui la dottrina penalistica, impegnata sul terreno della teoria della
pena, riflette da tempo: la necessità di abbandonare una “monocultura
detentiva”[125] che
si risolve nel nostro sistema penale, come abbiamo evinto dal quadro
criminologico, nei confronti dei soggetti socialmente più deboli[126].
Come
è stato sottolineato, si deve ritenere che il monopolio carcerario non faccia
più parte della cultura penalistica. Non solo in ragione del sovraffollamento
carcerario, ma in ragione del principio di umanizzazione della pena che è una
tendenza di lungo periodo che va di pari passo con le generali condizioni di
vita sociali: migliorando queste ultime, anche l’afflittività relativa della
pena aumenta[127].
Non a
caso si stanno facendo nuovamente avanti, come già negli anni settanta,
proposte abolizionistiche, proposte che, alla luce delle considerazioni svolte
in precedenza, non possono stupire[128].
Come
è stato affermato di recente: «mai come oggi la pena carceraria si trova ad
essere ‘contestata’ in modo così radicale. Nonostante che l’opinione pubblica
e, cavalcandola, la politica siano ancora le due grandi sostenitrici
dell’utilità e della centralità del carcere, la scienza giuridica, non solo
penalistica, negli ultimi anni sta portando avanti una riflessione volta a
mettere in evidenza gli enormi limiti e le profonde contraddizioni che
contraddistinguono il carcere auspicandone una applicazione soltanto come extrema
ratio»[129].
In
tale prospettiva, sono state avanzate proposte per un graduale superamento del
carcere, un carcere considerato, come emerge dal dato criminologico,
espressione di “un diritto penale escludente” (come evidenziato dallo stesso
David Garland), in quanto strumento espulsivo, piuttosto che di un “diritto
penale inclusivo”, imposto dal costituzionalismo moderno e in particolare dal
finalismo rieducativo[130].
Come
osservava Pavarini: «la letteratura penologica conviene su un punto decisivo.
Il solo spazio di riformabilità del carcere è quello offerto da una prospettiva
politica orientata se non al definitivo superamento della pena privativa di
libertà, certo ad una sua progressiva riduzione (qualitativa e quantitativa)
nelle politiche penali»[131].
Per
quanto condivisibili gli spunti in prospettiva abolizionistica, tuttavia, non
si può negare la necessaria consapevolezza che la rinuncia al carcere è allo
stato un’utopia in ragione delle esigenza di sicurezza, specie a fronte di
gravi forme di criminalità, che ancora permangono nella società post-moderna.
Ecco
perché in ottica non più carcerocentrica e nella prospettiva di un carcere come
ultima ratio, occorre mettere mano alla riforma del sistema delle
sanzioni. La riforma dell’istituzione carceraria nell’ordinamento italiano non
potrà prescindere – è evidente – da una più ampia riforma del nostro sistema
sanzionatorio, unanimemente riconosciuto come ineffettivo e affetto da una
profonda crisi, dominato da una persistente centralità della pena detentiva,
anche di breve durata, nonché da una ingiustificata vitalità, i dati empirici
lo dimostrano, dell’ergastolo[132]. In
questo senso si esprime chi rileva che «a fianco del principio illuministico
del diritto penale come extrema ratio […], ad anni di distanza si
è affermato dunque l’ulteriore principio del carcere inteso come extrema
ratio di sanzione penale, utilizzabile soltanto nei confronti dei reati
più gravi e degli autori di reati pericolosi […]. Sulla base di questo
orientamento occorrerebbe pensare ad un profondo rinnovamento della tipologia
sanzionatoria dei reati […]. Una attività complessa, difficile anche perché non
siamo forse sufficientemente preparati da un punto di vista culturale per tale
profondo cambiamento di sistema»[133].
Lontana
da noi ogni pretesa di volere approfondire in questa sede un tema di tale
portata, ci limitiamo a raccogliere il suggerimento di chi autorevolmente
sottolinea la necessità, in un’ottica non più carcerocentrica, di potenziare
l’impiego di pene principali alternative quali la detenzione domiciliare, le
pene interdittive, le pene prescrittive e pecuniarie (oltre, a nostro avviso,
il lavoro di pubblica utilità e la confisca), significativamente sottratte ai
benefici sospensivi al fine di garantirne l’effettività[134].
Tuttavia,
non si può sottacere che la tendenza politica a seguire anziché precedere la
volontà della maggioranza costituisce, molto spesso, nel nostro Paese (come in
altri) un forte ostacolo all’esercizio della creatività sanzionatoria e al
potenziamento delle sanzioni già presenti nel nostro ordinamento, efficacemente
implementate in ordinamenti stranieri, ma ineffettive quando calate nella
prassi ordinamentale italiana.
Sotto
questo profilo, a noi pare ancora attuale e prioritario il monito che spendemmo
in altra sede a favore di una “rinascita” della pena pecuniaria ([135] ),
tradizionale strumento per il contrasto alle pene detentive brevi, e pena
principe nell’ambito dell’ordinamento tedesco e negli altri Paesi europei:
davvero non si comprende come il legislatore italiano, a fronte dei pregi
indiscussi della sanzione in danaro, possa pensare di rinunciarvi in assoluto,
come adombrato da una parte della dottrina in nome del diritto penale minimo[136], e
di non rifondare il sistema sanzionatorio su tale strumento sanzionatorio la
cui graduabilità e redditività (nella forma della pena pecuniaria per tassi
giornalieri), oltre che efficacia in relazione all’alto valore attribuito al
denaro nella società odierna, sono indiscusse[137].
In
definitiva, se i provvedimenti di riforma legislativa più recenti sopra
esaminati sono serviti a far sì che la “prepotente emergenza” rientrasse[138], affinché
l’“essere” della pena detentiva tornasse almeno in parte a rispondere al suo
“dover essere”, e, lasciata in sospeso una prospettiva abolizionista tout
court, nella consapevolezza di una sua impraticabilità in tempi brevi, pur
nell’ottica di un carcere come ultima ratio, resta aperto un
interrogativo di fondo: come attuare la rieducazione?
“Reinvenzione
della rieducazione”, dicevamo. Come sottolineato nel documento di sintesi degli
Stati Generali per la riforma dell’esecuzione penale in Italia, si tratta di
individuare un «modello di esecuzione penale costituzionalmente ispirato alla
finalizzazione rieducativa della pena»[139] che
pone al centro delle dinamiche esecutive l’uomo-condannato per promuoverne il
processo di ricollocazione nel contesto della società libera. Come affermato,
«una rivoluzione copernicana» che vede le pene adattate al recupero sociale del
condannato e non già quest’ultimo ad essere assoggettato all’esecuzione penale[140]. In
altre parole, anche in carcere, il trattamento non deve solo essere scevro da
violazioni del canone di umanità, ma deve essere strutturato quale momento di
preparazione al rientro del condannato nella società libera.
Uno
dei primi passaggi in tale direzione, come emerge dalla recente delega per la riforma
dell’ordinamento penitenziario, deve essere quello di restituire al detenuto la
dignità della persona, primo presupposto del processo rieducativo[141].
Tale profilo può essere garantito attraverso il rispetto della affettività e
della personalità di ciascun condannato. La legge delega prevede in tal senso
la disciplina dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi (oltre che a fini
processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa)
per favorire le relazioni familiari e il riconoscimento del diritto
all’affettività delle persone detenute e internate e la disciplina delle
condizioni generali per il suo esercizio. Nell’ottica di un maggiore
adeguamento della vita carceraria alla vita extracarceraria, questo profilo
assume rilievo centrale. Sempre in quest’ottica, rilevante appare la previsione
di norme che favoriscano l’integrazione delle persone detenute straniere e
l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze
educative dei detenuti minori di età nonché di quelle specifiche delle donne
detenute. La stessa delega poi esplicitamente contempla la previsione di norme
volte al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei
detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, la
sorveglianza dinamica.
Un
secondo nevralgico passaggio attiene al lavoro[142].
Sempre dalla rilevazioni dell’Associazione Antigone emerge che solo il 20% dei
detenuti ha la possibilità di lavorare nei penitenziari italiani e che l’investimento
di risorse economiche destinate al lavoro penitenziario è sempre più scarso. Se
l’inserimento lavorativo, come la criminologia ci avvisa, spezza la catena
della recidiva[143], è
in questa direzione che si deve procedere, non senza un serio appello alla
società civile. Non a caso, la recente delega per la riforma dell’ordinamento
penitenziario recita: «incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia
intramurario sia esterno, nonché di attività di volontariato individuale e di
reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del
ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna», nonché
«previsione di una maggiore valorizzazione del volontariato sia all’interno del
carcere, sia in collaborazione con gli uffici dell’esecuzione penale esterna».
Condividiamo
infatti l’opinione di chi ritiene che «occorre farsi promotori dell’idea che
non sia compito del solo sistema penale farsi carico del problema – sicurezza,
ma dell’intera Comunità[144],
nella consapevolezza che ogni vittima della recidiva sia una sconfitta di
tutti»[145].
Come sottolineava Baratta, «la vera rieducazione dovrebbe cominciare dalla
società prima che dal condannato: prima di voler modificare gli esclusi occorre
modificare la società escludente, giungendo così alla radice del meccanismo di
esclusione». Da questa via, a nostro avviso, passa la difficile “reinvenzione
della rieducazione”, o, più realisticamente, la sua mai pienamente realizzata
attuazione.
Alla
luce delle recenti riforme citate e dell’orientamento della legge delega per la
riforma dell’ordinamento penitenziario, si può ritenere corretto il giudizio
secondo il quale «ad oggi, può dirsi che il legislatore italiano ha imboccato
la strada giusta: lo ha fatto sia proseguendo sulla linea inaugurata nel 1975
con la legge sull’ordinamento penitenziario, sia intervenendo su normative di
settore particolarmente significative per il loro impatto sul carcere»[146]. In
altre parole, come è stato affermato con riferimento al Documento finale degli
Stati Generali: «Si, la rotta è segnata»[147].
The essay outlines, as a portrait, the
image of prison in the literature, beginning from 500’s to the contemporary
literature: from Tasso to Marino, from Leopardi to Manzoni, from Pascoli to
Pirandello, from Buzzati to Gramsci, from Pavese to Calvino, with an hint, in
the foreign language literature, to the thinking of Giacomo Casanova and Oscar
Wilde, drafting furthermore the history of prison, from its origin, or better
from its “invention”, to the actual epilogue of the “total institution”, uphold
by the criminological research and the statistical data. The study concludes
with an analisys of the recent reforms in penitentiary matter suggesting, in a
no more prison-centered perspective, a “qualitative and quantitative reduction”
of prison and pronouncing for a “reinvention of rehabilitation”, or better for
her actualization, never fully realized.
Il
saggio tratteggia, a mò di schizzo, l’immagine del carcere nella letteratura, a
partire dal ‘500 sino alla letteratura contemporanea: dal Tasso al Marino, da
Leopardi a Manzoni, da Pascoli a Pirandello, da Buzzati a Gramsci, da Pavese a
Calvino, con un accenno, nella letteratura di lingua straniera, al pensiero di
Giacomo Casanova e Oscar Wilde, per poi delineare la storia del carcere, dalla
sua nascita, o meglio dalla sua “invenzione”, sino all’epilogo odierno
dell’“istituzione totale”, decretato dalla ricerca criminologica e dai dati
statistici. Lo studio si conclude con una analisi delle recenti riforme in
materia carceraria auspicando che, in un’ottica non più carcero-centrica, si
giunga ad una “riduzione quantitativa e qualitativa” del carcere,
pronunciandosi per una “reinvenzione della rieducazione”, o meglio per la sua
attuazione, mai pienamente realizzata.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è
applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni
articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
* Il presente lavoro costituisce il testo, aggiornato e
riveduto, della relazione tenuta nell’ambito del Laboratorio di Diritto e
Letteratura, istituito presso l’Università degli Studi di Sassari,
Dipartimento di Giurisprudenza, in data 27 aprile 2017.
[1] M. Foucault,
Surveiller et punir. Naissance de la prison,
Paris 1975, trad. it. di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della
prigione, Torino 1976, 253: «La prigione: una caserma un po’ stretta, una
scuola senza indulgenza, una fabbrica buia, ma, al limite, niente di
qualitativamente diverso»; E. Goffman, Asylums.
Essays on the social situation of mental
patients and other inmates, New
York 1961, trad. it. di F. Basaglia, Asylums. Le istituzioni
totali: la condizione sociale dei malati di mente e di altri internati,
Torino 1968. Scrive Goffman: «un’istituzione totale può essere definita come il
luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla
società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una
situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e
formalmente amministrato. Prenderemo come esempio esplicativo le prigioni nella
misura in cui il loro carattere più tipico è riscontrabile anche in istituzioni
i cui membri non hanno violato alcuna legge». Prosegue Goffman individuando le
istituzioni totali nella nostra società secondo cinque categorie: alla prima
appartengono quelle istituzioni nate a tutela degli incapaci non pericolosi
(istituti per ciechi, vecchi, orfani o indigenti); alla seconda quelle
istituzioni deputate ad accogliere soggetti non intenzionalmente pericolosi per
la comunità (sanatori per tubercolotici, ospedali psichiatrici e lebbrosari);
alla terza le istituzioni finalizzate a proteggere la società da soggetti
intenzionalmente pericolosi (prigioni, penitenziari, campi per prigionieri di
guerra, campi di concentramento); alla quarta istituzioni create al solo fine
di svolgervi un’attività (furerie militari, navi, collegi, campi di lavoro,
piantagioni coloniali e grandi fattorie); alla quinta appartengono le
istituzioni deputate alla formazione per religiosi (abbazie, monasteri,
conventi ed altri tipi di chiostri). Ibidem, 29, 34-35.
[2] G. Traina-N. Zago, Carceri vere e
d’invenzione dal Tardo Cinquecento al Novecento, Acireale-Roma 2009, 9.
[4] La
scelta di studiare il carcere nelle opere di questi soli autori è
convenzionale, nella consapevolezza che nel panorama letterario italiano e straniero
molti altri letterati hanno, sotto diverse angolazioni, affrontato il tema
dell’esperienza carceraria, oltre che della giustizia penale nel suo complesso.
Per citarne solo alcuni in ordine sparso si pensi, nella letteratura italiana,
a Antonio Veneziano, Paolo Maura, Giovan Guglielmo Bonincontro, Giacinto
Manara, Vittorio Alfieri, Giovanni Gambini, Silvio Pellico, Carlo Levi, Leone
Ginzburg, Gesualdo Bufalino; nella letteratura straniera non si può non citare
quantomeno Franz Kafka, Fedor Dostoevskij, William Shakespeare, Victor Hugo,
Charles Dickens. Si rimanda, per la disamina del tema in alcuni di questi
autori, ai volumi a cura di G. Forti, C.
Mazzucato, A. Visconti, Giustizia e letteratura, Milano, vol. I
2012, nonché vol. II 2014, e vol. III 2016.
[5] T. Tasso, Lettere, a cura di C.
Mazzali, Torino 1978, tomo I, 144-145. Cfr. sul pensiero dell’autore, P. Guaragnella, “Io sono tanti anni
prigione e infermo”. Torquato Tasso tra carcere e malinconia, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 15.
[7] Sul
pensiero del poeta, cfr. T. Mattioli,
Giovan Battista Marino. Una poetica dal carcere, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 107 ss.
[10] G. Ruozzi, Tempi e forme, realtà e invenzioni
carcerarie di un grande fuggitore: la fuga dai Piombi e altre prigioni di
Giacomo Casanova, in G. Traina-N.
Zago, op. cit., 211 ss.
[12] Cfr.
sull’opera di Leopardi e in particolare sull’epistolario del poeta e sulla
corrispondenza con Giordani, F. De
Sanctis, Leopardi, a cura di
C. Muscetta e A. Perna,
Torino 1969, 75 ss. Scrive Leopardi a Giordani, «La terra è piena di
meraviglie ed io di diciotto anni potrò dire: In questa caverna vivrò, e morrò
dove son nato». Ivi, 385. Cfr. sul tema altresì E. Benucci, “E io mi dispero
proprio…che mi tocca vivere in questo carcere”: Giacomo Leopardi a Pietro
Giordani, Recanati 27 novembre 1818, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 247 ss.
[15] G. Palazzolo, Figure di claustrazione
nella scrittura di Alessandro Manzoni, in G. Traina-N. Zago, cit., 323. Si veda A. Manzoni, I promessi sposi, ed.
Istituto italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1943, Cap. XXI, 214 s., con riferimento
al carcere metaforico dell’Innominato durante la conversione: «– Un
qualche demonio ha costei dalla sua –
pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con
lo sguardo immobile su una parte del pavimento, dove il raggio della luna
entrando da una finestra alta, disegnava un quadro di luce pallida, tagliata a
scacchi dalle grosse inferriate […]». Sul tema altresì V. Camarotto, Metafore e lessico della
prigionia in Alessandro Manzoni, 177 ss., al sito https://basnico.files.wordpress.com.
[16] M. Tropea, Voci e sogni di prigione:
carceri di Giovanni Pascoli e di Dino Campana, in G. Traina-N. Zago, cit., 397.
[19] D. Campana, Canti Orfici, F.
Ravagli, Marradi 1914, 48 ss., cfr. altresì ib., 409. Cfr. sull’opera
dell’autore, A. Asor Rosa, “Canti
orfici” di Dino Campana, in Letteratura
Italiana Einaudi, Vol. IV.I, Torino 1995, 38 ss.
[20] Cfr.
S. Arcara, Wilde ‘in
carcere et vinculis’: individualismo e reinvenzione del sé, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 432.
[21] O. Wilde, De Profundis, trad. it.
di C. Salvago Raggi, Milano 2006, 99. Cfr. altresì ibidem, 440.
[22]
«Debbo far si che tutto ciò che mi è accaduto sia un bene per me. Il tavolaccio,
il cibo ributtante, […] i compiti umilianti con cui inizia e finisce ogni
giornata, la divisa squallida che rende il dolore grottesco a vedersi, il
silenzio, la solitudine, la vergogna, tutto questo io debbo trasformare in
un’esperienza spirituale». Id., op.
ult. cit., 83-84.
[23] Vedi
G. Nicastro, Tribunali e
carcere nel teatro di Luigi Pirandello, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 457-458.
[24] D. Buzzati, Il deserto dei Tartari,
a cura di A. Garancini Costanzo, Milano 2001. Cfr. sull’opera di Dino Buzzati,
G. Fricano, La fortezza
incantatrice e l’autoreclusione ne Il deserto dei Tartari, ibidem,
493.
[25] A. Gramsci, Lettere dal carcere,
1926-1937, a cura di A. A. Santucci, Palermo 1996; cfr. sull’opera A. Manganaro, Il cono d’ombra delle
Lettere dal carcere, in G. Traina-N.
Zago, op. cit., 507.
[27] Si
veda sull’autore M. Italia, “Capire
come è fatta la prigione”. Ipotesi di evasione creativa in Calvino,
in Id., op. cit., 587;
nonché I. Calvino, Il Conte di
Montecristo, in I. Calvino,
Romanzi e racconti, Milano 2005, 344 ss.; v. altresì M. Róth, Realtà, finzione e
riscrittura: il labirinto della letteratura nel Conte di Montecristo di
Calvino, 2008, 287 ss., al sito
real.mtak.hu/14271/1/21_Roth.pdf.
[29] Sin
dall’antica Roma nelle prigioni erano rinchiusi detenuti in attesa di giudizio e
criminali condannati che aspettavano l’esecuzione del verdetto; il carcere come
pena era ignoto sia ai Romani che agli Ateniesi. Quale pena limitativa della
libertà di movimento primeggiava una pena assimilabile ai lavori forzati. Cfr.
sul tema ampiamente J. U. Krause,
La criminalità nel mondo antico, Roma 2006, 69-70.
[30] Nel
sistema di produzione pre-capitalistico il carcere concepito come espiazione
della pena non esisteva. Non era il carcere ad essere ignorato dalla società
feudale, ma l’idea stessa della privazione della libertà personale. Cfr. C. Bolzoli, C. A. Romano, Attualità
ed opportunità delle alternative al carcere fra diffidenze e risorse del
territorio, in Rass. It. Crim., 2009, n. 2, 214.
[31] C. Beccaria, Dei delitti e delle
pene, a cura di R. Fabietti, Milano 1973, par. XXVII, 74 ss., dedicato alla
dolcezza delle pene. Sul punto, anche in un’ottica attenta ai diritti umani,
sia consentito il rinvio a L. Goisis,
The Human Right to Mild Punishment, in L.
Goisis-Q. Berisha, Un percorso di studio sui diritti umani,
Bergamo 2011, 55 ss.
[32] D. Melossi, Stato, controllo
sociale, devianza, Milano 2002, 21, nonché C. Bolzoli, C. A. Romano, op. cit., 214.
[33] M. R.
Weisser, Criminalità e
repressione nell’Europa moderna, trad. it. di D. Panzieri, Bologna 1989,
145. Sul tema della carcerazione preventiva in chiave storica, v. F. Cordero, Criminalia. Nascita dei
sistemi penali, Roma-Bari 1986, 98 ss.
[35] Sulla
nascita del carcere, si veda l’ampio e lucido inquadramento di D. Melossi, op. cit., 21 ss., 22
per la citazione.
[36] Sulla
natura polifunzionale della rasphuis, luogo di detenzione e al tempo
stesso di casa di lavoro, casa di correzione per fanciulli e ricovero per
anziani, si veda L. Tedoldi, La
spada e la bilancia. La giustizia penale nell’Europa moderna (secc. XVI-XVIII),
Roma 2008, 172 ss. Quanto al
pensiero di Thorsten Sellin, v. T.
Sellin, Confllict Culture and Crime, New York 1938, nonchè Id., Pioneering in Penology,
Philadelphia 1944.
[37] Cfr. M. R. Weisser, op. cit., 145 s.
Dell’uso classista del carcere e della composizione sociale della sua
popolazione sino a tempi recenti testimonia E.
Fassone, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma
penitenziaria, Bologna 1980, 9. Scrive l’A. infatti: «L’uso classista del
carcere e la composizione sociale della sua popolazione non sono stati
intaccati».
[38] L. Goisis, Fattore razziale e
giustizia penale, Tesi di dottorato, Università di Pavia, 2005, 175. Ivi
per una disamina del William Penn’s Great Act del 1682.
[39] Su
mandato di Maria Teresa d’Austria, il Piermarini progettava il completamento
della Casa di Correzione a Porta Nuova, che aveva un solo cortile. Nel 1786 il
Piermarini progettava un secondo ampliamento dell’edificio.
[40] Come
si evidenzia nella letteratura criminologica, solo quando la società pone al
centro della propria organizzazione il concetto di libertà, può avvenire che la
pena privativa della libertà assuma significato. E’ questa la lettura che ne
danno Melossi e Pavarini. Cfr. D.
Melossi, op. cit., 23-4.
[41] J. Bentham, Panopticon, Venezia,
1983, 40 ss. Tale struttura architettonica si ritrova spesso anche nelle
prigioni contemporanee.
[42] Così D. Melossi, op. cit., 24. Il
presupposto di una tale teorizzazione riposa su di una società che, per la
prima volta, pone il concetto di libertà al cuore della propria organizzazione:
e al contempo, «l’idea di libertà, e quindi di libera scelta, è essenziale a
quella di contratto. E l’idea di contratto è costitutiva della società moderna,
sia dal punto di vista politico, […] attraverso il mito del contratto sociale,
sia dal punto di vista del modo di produzione, tramite l’elaborazione dell’idea
che si troverà poi al centro del contratto di lavoro […]. E’ solamente in
questo tipo di società che può accadere che la pena venga concepita come ‘pena
privativa della libertà’». Ibidem. Cfr. altresì G. Rusche-O. Kirchheimer, Punishment and Social Structure,
New York, 1939, trad. it. di Melossi-Pavarini, Bologna 1978, 47.
[46] G.
Rusche-O. Kirchheimer, Punishment
and Social Structure, cit., 49 ss., 275 ss. Per
esempio nel tardo Medioevo (XIV secolo), l’abbondanza di forza-lavoro comportò
una legislazione penale molto repressiva caratterizzata dal prevalere di pene
corporali e capitali, mentre nell’Alto Medioevo, la scarsità di forza-lavoro
aveva condotto ad un uso più esteso delle sanzioni pecuniarie, nella forma del
guidrigildo (Wergeld), che era la somma che veniva corrisposta ai
famigliari della vittima in caso di omicidio in cambio della rinuncia di questi
ultimi alla vendetta di sangue o faida. Ampiamente sul pensiero di Rusche e
Kirchheimer, anche D. Melossi, cit.,
22 ss. Sia consentito il rinvio altresì a L.
Goisis, La pena pecuniaria. Un’indagine storica e comparata,
Milano 2008, 11 ss. Sulla giustizia in era pre-moderna, si veda D. Guaglioni, La giustizia nel Medioevo
e nella prima età moderna, Bologna 2004, 9 ss.
[50] E. Fassone, La pena detentiva,
cit., 39 s.
[52]
Sull’influenza della Scuola Positiva in relazione alla pena detentiva, si veda E. Fassone, op. cit., 23 ss.
Quanto alle influenze della Scuola classica, ivi, 20 ss. Sulle varie
correnti di pensiero sviluppatesi, anche in ragione dei mutamenti sociali, a
partire dall’ultimo decennio del secolo: il socialismo giuridico, l’indirizzo
psicologico, la Terza Scuola, l’idealismo penale, v. ibidem, 34 ss.
[55] Sia
consentito il rinvio a L. Goisis,
Del sovraffollamento carcerario, delle sue cause e dei possibili rimedi,
in Studium Iuris, 2013, fasc. 12, 1329 ss.
[58] Per
un quadro storico dell’evoluzione legislativa sulla pena di morte, si rinvia a L. Goisis, La revisione dell’art.
27, comma 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2008, fasc. 4, 1659 ss.
[61]
L’art. 21, nel testo approvato dalla Commissione Costituente, recitava infatti
«le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere
in trattamenti contrari al senso di umanità», testo poi trasfuso nell’art. 27,
comma 3 della Costituzione.
[65] V. Id., cit., 84. Il pensiero del massimo
esponente della nuova difesa sociale, Marc Ancel, si fa largo nell’ambito della
sinistra, nonché dei moderati e dei cattolici, contribuendo a porre in secondo
piano anche se non a soppiantare le teorie retributive. Cfr. M. Ancel,
La dèfense sociale nouvelle, Cujas,
Paris 1954, trad. it. La
nuova difesa sociale, Milano 1966.
[67] Sulla
concezione polifunzionale della pena espressa in quegli anni da G. Vassalli, v.
Id., op. cit., 95.
[68] Ibidem,
96-7. Sottolinea Fassone come necessitino alcuni requisiti di fondo perché la
rieducazione possa avere successo: «sostanziale monismo ideologico,
accettazione diffusa dei modelli sociali e presunzione di collaborazione negli
‘educandi’». Cfr. altresì C. Bolzoli-C. A. Romano, op. cit.,
220 ss.
[69] E. Goffman, Asylums, cit., 35.
«Uno degli aspetti sociali fondamentali nella società moderna è che l’uomo
tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni
diversi, sotto diverse autorità o senza alcun schema razionale di carattere
globale. Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto
ritenuta la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere
di vita. Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e
sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere
si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate tutte
allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi
delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo
prestabilito che le porta dall’una all’altra, dato che il complesso di attività
è imposto dall’alto da un sistema di regole formali esplicite e da un corpo di
addetti alla loro esecuzione. Per ultimo, le varie attività forzate sono
organizzate secondo un unico piano razionale, appositamente designato al fine
di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione». Si veda altresì sul
profilo dell’irreggimentazione del corpo e delle menti, l’opera di M. Foucault, Sorvegliare e punire,
cit., 252 ss., come noto, tra le opere che ha molto influenzato la criminologia
critica degli anni settanta, contribuendo alla messa in discussione
dell’istituzione carceraria.
[73] Cfr. D. Melossi, op. cit., 175 ss. Si
veda, sulla criminologia critica, il testo dei maggiori esponenti di tale
corrente: I. Taylor, P. Walton, J. Young,
Criminologia sotto accusa, Rimini-Firenze 1975. Sulle teorie del
conflitto e sulle diverse correnti della criminologia radicale e critica, sia
consentito il rinvio altresì a L. Goisis,
Giustizia penale e discriminazione razziale. Il soggetto “altro”
dinanzi al diritto penale e alla criminologia. Atto I: il contributo della
criminologia, in Dir. Pen. Cont., 2012, 11 ss.
[76] “Il
trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il
rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta
imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza, e
condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose”
(art. 1).
[78] Cfr., citando le parole di Vittorio Grevi, E Dolcini, La rieducazione del
condannato: un’irrinunciabile utopia? Riflessioni sul carcere, ricordando
Vittorio Grevi, in Dir. Pen. Cont., 7 dicembre 2011, 1.
[79] Nella
concezione normativistica di Kelsen il diritto è dover essere, cosicché
l’effettività della sanzione è una condizione per l’esistenza del sistema.
Sull’importanza di far luce sulla “prassi della pena” sia per lo
studioso, sia per il futuro legislatore, si veda E. Dolcini, Pene detentive, pene pecuniarie, pene limitative
della libertà personale: uno sguardo sulla prassi, in questa Riv. it.
dir. proc. pen., 2006, 97.
[80] E. Fassone, cit., 145. Prosegue
lo studioso: «mentre la spinta realmente innovativa è circoscritta alla parte
in cui il carcere viene sostituito con altre misure».
[82] Corte
europea dei diritti dell’uomo, sezione II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri
c. Italia, pubblicata in Dir. Pen. Cont., 9 gennaio 2013, con nota di F. Viganò, Sentenza pilota della
Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato
all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno. Per un
commento di tale decisione sia consentito il rinvio a L. Goisis, Del sovraffollamento,
cit., p. 329 ss., nonché Id., Corte
Costituzionale e overcrowding penitenziario, in Studium Iuris,
2014, fasc. 9, 994 ss.
[83]
Riferisce le parole del Presidente Giorgio Napolitano, A. Pugiotto, Aprire le celle alla Costituzione, in A. Pugiotto-F. Corleone, Il delitto
della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere,
Roma 2012, 232. E’ stata tuttavia la Corte europea dei diritti dell’uomo, in
questa importante “sentenza pilota”, a porre l’Italia dinanzi alle proprie responsabilità
per l’emergenza del fenomeno del sovraffollamento carcerario che di questo
scollamento fra pena “costituzionalmente dovuta” e pena reale è la principale
causa. La sentenza Torreggiani – relativa al caso di sette ricorrenti detenuti
nelle carceri italiane in condizioni di reclusione contrarie al senso di
umanità – ha posto infatti in termini di ultimatum la questione del
grave sovraffollamento carcerario che affligge cronicamente le istituzioni
penitenziarie del nostro Paese. Cfr. in termini analoghi F. Fiorentin, Sullo stato della
tutela dei diritti fondamentali all’interno delle carceri italiane, in Dir.
Pen. Cont., 2013, 1. Con unanimità di consensi (dunque anche con la
partecipazione del giudice italiano), la CEDU ha affermato, in relazione alle
condizioni detentive delle carceri italiane, la violazione dell’art. 3 della
Convenzione europea il quale prevede il divieto della tortura e di pene o
trattamenti inumani e degradanti. Dopo aver ricostruito le circostanze del caso
concreto, e in particolare le condizioni di detenzione denunciate dai
ricorrenti (spazi angusti al di sotto dei 3 metri quadrati, scarsa
illuminazione, condizioni igieniche estreme) nonché il diritto interno e
internazionale pertinente – in particolare le norme sull’ordinamento
penitenziario e i rapporti generali del Comitato europeo per la prevenzione
della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, unitamente alle
Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa Rec(99)22 e
Rec(2006)2 –, la Corte riconosce, una volta ammessa la ricevibilità dei
ricorsi, «che le condizioni detentive in questione, tenuto conto anche della
durata della carcerazione dei ricorrenti, abbiano sottoposto gli interessati ad
una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente
la detenzione», dovendo così dirsi integrata la violazione dell’art. 3 della
Convenzione europea.
[84] Cfr. A. Baratta, Criminologia critica e
critica del diritto, Bologna 1982, 185; ivi, per la letteratura
criminologica sul carcere.
[89] Ibidem.
Per una conclusione in termini analoghi rispetto alla contraddizione intrinseca
fra carcere (mezzo) e rieducazione (scopo), si veda R. Bartoli, Pericolosità sociale, esecuzione differenziata
della pena, carcere (appunti “sistematici” per una riforma “mirata” del sistema
sanzionatorio), in A.a.V.v, Libertà
dal carcere, libertà nel carcere, Torino 2013, 416.
[90] Così R. Bartoli, Il carcere come extrema ratio: una
proposta concreta, in Dir. Pen. Cont., Riv. trim., 2016, fasc. 4, 8.
[92] Cfr. Dap, Statistiche, Detenuti presenti e capienza
regolamentare degli istituti penitenziari per regione di detenzione,
aggiornamento al 31 maggio 2017, al sito del Ministero di
Giustizia. Come già emergeva dalla decisione
Torreggiani, il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane a far data dal
2011 era pari – benché in lieve flessione rispetto al 2010 – al 148%. Cfr. Dap, Resoconto aggiornato dello
stato del sistema penitenziario, Roma 19 settembre 2012, 1 e 3, pubblicato
tra l’altro in Dir. Pen. Cont., 2012. Si veda inoltre per dati analoghi Dap, Caratteristiche
socio-lavorative, giuridiche e demografiche della popolazione detenuta,
Roma 2012, aggiornato al 31 dicembre 2012, sempre reperibile al sito
www.penalecontemporaneo.it.
[93] E. Dolcini, ibidem. Si veda in
tal senso anche M. F. Aebi-N. Delgrande,
Così distante, così vicina: la situazione delle prigioni in Italia e in
Europa, in Rass. It. Crim., 2011, n. 3, 73 ss.
[94] In
particolare, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria mostra di
essere ben consapevole della pendenza di numerosissimi ricorsi dinanzi alla
Corte di Strasburgo che vedono l’Italia chiamata a rispondere di condizioni
detentive contrarie al senso di umanità (art. 3 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo): come nel caso Sulejmanovic ove la Corte aveva riconosciuto,
per la prima volta, la violazione da parte dell’Italia dell’art. 3 nei
confronti del ricorrente costretto a vivere per due mesi e mezzo in una cella
in cui disponeva di soli 2,70 metri quadrati e ciò in contrasto con le indicazioni
del Comitato europeo per la prevenzione della tortura ove l’indicazione è di
uno spazio minimo di 7 metri quadrati. Analogamente la sentenza Torreggiani: il
fatto stesso che i ricorrenti fossero tutti stati costretti a vivere in uno
spazio uguale o inferiore a 3 metri quadrati non poteva condurre ad esiti
diversi dal precedente caso Sulejmanovic. Anzi la Corte ha statuito, con la
decisione Torreggiani, il principio secondo il quale la detenzione in uno
spazio pari o inferiore a 3 metri quadrati integra automaticamente un
trattamento inumano e degradante.
[96] Cfr. G. Torrente, La popolazione detenuta
in Italia tra sforzi riduzionisti e nuove tentazioni populiste, in Dir.
Pen. Cont, 2016, 9 ss. Ivi, per dati sulla popolazione carceraria
largamente coincidenti a quelli qui riferiti.
[97] Su
tali aspetti si era pronunciata la stessa Corte EDU nella sentenza Torreggiani.
Cfr. su dati similari G. Marinucci-E.
Dolcini, Manuale, cit., 640.
[98] Cfr.
in senso analogo, P. Buffa, La
profezia penitenziaria: se il carcere diventa un laboratorio sociale, in Rass.
It. Crim., 2011, n. 3, 51 ss.
[99] Ci si
permette di rinviare, sul tema, a L.
Goisis, Giustizia penale e discriminazione razziale. Il soggetto
“altro” dinanzi al diritto penale e alla criminologia, cit, 1-70. Si
vedano inoltre i rapporti Space I e II del 2014 e del 2015: v. rispettivamente E. Dolcini, L’Europa in cammino
verso carceri meno affollate e meno lontane da accettabili standard di umanità,
in Dir. Pen. Cont., 2016, 1 ss.; nonché G. Mentasti, Carcere e sanzioni non detentive in Europa: i
rapporti Space I e Space II 2015, in Dir. Pen. Cont., 2017, 1 ss.
[100] Tali
dati si confermano a partire dal 2012, cfr. Istat,
I detenuti nelle carceri italiane, Roma, 18 dicembre 2012, al sito www.istat.it., e
sono aggiornati al 2016: v. Istat,
Detenuti adulti presenti nelle carceri italiane, 2016.
[101] Sul punto,
per un breve commento, G. Gatta, Carcere
e recidiva: avviata una ricerca dal Ministero della Giustizia, in Dir.
Pen. Cont., 2012, 1.
[102] Cfr.
i dati della ricerca di G.
Mastrobuoni-D. Terlizzese, Delle pene e dei delitti: condizioni
carcerarie e recidiva, Università di Essex, Eife, pubblicato al sito http://www.prisonovercrowding.eu/., dati presentati in data 23 marzo 2015 presso
l’Università Statale di Milano. Cfr. altresì D.
Stasio-D. Terlizzese, Il carcere “aperto” aumenta la sicurezza,
in Il Sole24ore, 29 maggio 2014.
[104]
Rispetto alla legge n. 199/2010, relativa alla esecuzione presso il domicilio
delle pene detentive non superiori a dodici mesi, il numero di detenuti
scarcerati fino al 31 dicembre 2012 è stato stimato in 4.725 detenuti, segno
che tale legge non ha inciso sul sovraffollamento carcerario in maniera
significativa. Dap, op. ult.
cit., p. 31. Né, ancor prima, il provvedimento di indulto del 2006 ha
contribuito a ridurre la situazione di sovraffollamento carcerario in maniera
rilevante: la flessione registrata in corrispondenza dell’indulto è stata
infatti presto annullata da un successivo energico incremento delle
carcerazioni. Cfr. sui dati relativi (circa 38.000 detenuti liberi a seguito
dell’indulto), tra gli altri, E. Dolcini,
La rieducazione, cit., 3.
[105] Ci si
riferisce alla circolare dell’aprile 2010, dal titolo “Nuovi interventi per
ridurre il disagio derivante dalla condizione di privazione della libertà e per
prevenire i fenomeni autoaggressivi”, nonché alla circolare del novembre
del 2011 in tema di “Modalità di esecuzione della pena. Un nuovo modello di
trattamento che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione”. Sul tema ibid.,
p. 5, nonché sulla relazione fra sovraffollamento carcerario e suicidi, A. Pugiotto, L’abolizione
costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, in Quad.
costituz., 2011, n. 3, 598 ss.
[106] E. Nicosia, Trattamento
penitenziario e diritti fondamentali alla luce del diritto sopranazionale,
in A.a.V.v., Libertà,
cit., 12 ss.
[107] Cfr.
diffusamente G. Fossa-U. Gatti, Il
carcere e l’esecuzione penale in Italia nell’ultimo decennio, in Rass.
It. Crim., 2011, n. 3, 10 ss.
[113]
Stravolgendo la metafora di David Garland sulla rinnovata centralità del
carcere, espressa in D. Garland, La
cultura del controllo, Milano 2004, 74 s., 293 ss.
[114] Così E. Dolcini, op. ult. cit., 12,
richiamandosi a sua volta alle parole di Vittorio Grevi. In questo senso anche S. Moccia, Riflessioni intorno al
sistema sanzionatorio e propositi di riforma, in G. De Francesco-A Gargani, (a cura di), Evoluzione ed
involuzione delle categorie penalistiche, Milano 2017, 213.
[115] Il
testo di tale documento è pubblicato sul sito della rivista telematica Diritto
Penale Contemporaneo, 7 dicembre 2012: Un passo concreto per affrontare
l’“emergenza carceri”: la proposta della Commissione mista del CSM.
[116] Non
mancano ulteriori proposte avanzate da una parte della dottrina che abbraccia
giuristi di diverse estrazioni, anche attraverso l’appello al Capo dello Stato
per un messaggio alle Camere, volte ad un immediato provvedimento di clemenza,
sia nella forma dell’indulto che dell’amnistia, che consenta, quale strategia
iniziale indispensabile nel contrasto al sovraffollamento carcerario, di porre
un argine ad una questione definita, nella lettera a firma del Professor Andrea
Pugiotto, di “prepotente urgenza”. Anche tale via deve essere percorsa, benché
essa debba costituire solo l’inizio di una riforma legislativa di più ampio
respiro. Solo così si può pensare di intraprendere i primi passi del cammino
verso un ritorno al “dover essere della pena detentiva”, verso la sua piena
dimensione costituzionale. A. Pugiotto,
“Una questione di prepotente urgenza” sempre più prepotentemente urgente:
lettera aperta al Presidente della Repubblica, in Dir. Pen. Cont.,
2012, 7.
[117] Si
veda il sito www.antigone.it.
per i disegni di legge.
[118]
Proprio l’assenza di tale previsione normativa ha indotto talora la dottrina,
specie nel caso di violazioni rispondenti all’art. 3 della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo a cagione del sovraffollamento carcerario, a fare appello
ad altre norme penali (si pensi alla proposta di riconoscere la sussistenza, in
tali casi, del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p.). In argomento Id., Aprire le celle, cit.,
236-7.
[119] Per
un quadro delle principali riforme recenti, si veda G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale, cit., 641 ss. Per
maggiori approfondimenti, si veda E.
Dolcini, La “questione penitenziaria”, nella prospettiva del
penalista: un provvisorio bilancio, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2015, fasc. 4, 1666; 1669; 1671.
[121] Cfr. G.P. Demuro, Ultima ratio: alla ricerca di limiti
all’espansione del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2013, 1685.
[122] Vedi R. Bartoli, La sospensione del procedimento
con messa alla prova, in Dir. pen. proc., 2014, 663.
[123] Sul
punto E. Dolcini, op. ult. cit.,
1659. Cfr. altresì L. Eusebi, Quale
oggetto dell’abolizionismo penale? Appunti nel solco di una visione alternativa
della giustizia, in Studi sulla questione criminale, 2011, n. 2, 81
ss., nonché Id., Dibattiti
sulle «teorie della pena» e mediazione, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1997, n. 3, 811 ss.
[124] Sulla
delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario di cui alla legge 23
giugno 2017, n. 23, si veda G.
Giostra-P. Bronzo, Proposte per l’attuazione della delega
penitenziaria, in Dir. Pen. Cont., 2017, 1 ss.
[125] Cfr. G. Forti, Sulle riforme necessarie
del sistema penale italiano: superare la centralità della risposta carceraria,
in Riv. trim. Dir. Pen. Cont., 2012, n. 3-4, 178.
[126] Cfr.
in tal senso L. Eusebi, Quale
oggetto dell’abolizionismo penale?, cit., 2 del dattiloscritto.
[127] Si
veda R. Bartoli, Pericolosità
sociale, cit., 416, ricordando riflessioni già di F. Palazzo, nonché, in
senso analogo, A. Baratta, op.
cit., 188.
[128] In
questa direzione si pongono, tra gli altri, A.
Pugiotto-F. Corleone, Il delitto della pena, citato; Aa. Vv., Libertà dal carcere,
libertà nel carcere; citato; L.
Manconi,, S. Anastasia, V. Calderone, F. Resta, Abolire il carcere,
Milano 2015; L. Ferrari, No
prison ovvero il fallimento del carcere, Rubbettino, 2015; R. Bartoli, Il carcere come extrema
ratio: una proposta concreta, cit., 4 ss.; A. Di Martino, “Rivoltarsi nella feccia di Romolo”, in
Riv. trim. Dir. Pen. Cont, 2015, fasc. 4, 294.
[130] Id., cit., 7: «in buona
sostanza, il diritto penale escludente altro non è che un meccanismo di
contenimento della violenza attraverso la sua concentrazione sul colpevole che
viene collocato al di fuori della società»; nonché Id., Il diritto penale fra vendetta e riparazione, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2016, fasc. 1, 96 ss. Cfr. altresì D. Garland, La cultura del controllo,
Milano 2007.
[131] Cfr. M. Pavarini, Carcere riformabile?
Uno sguardo da “Il Ponte”sulla riformabilità democratica del carcere, in Rass.
pen. e crmin., 2004, fasc. 1, 85.
[133] Così C. F. Grosso, Crisi e prospettive di riforma del sistema
delle pene, in G. De Francesco-A
Gargani, (a cura di), Evoluzione ed involuzione delle categorie
penalistiche, cit., 194.
[134] Id., cit., 192 ss. Sull’istituto
della detenzione domiciliare quale pena principale, v. M. Pelissero, La detenzione domiciliare: i vantaggi in
chiave deflattiva e il problema dell’offerta trattamentale, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2016, fasc. 2, 735 ss. Così anche per Roxin uno dei
compiti della scienza del diritto penale è quello di un ulteriore
«significativo ampliamento della gamma delle sanzioni» che consenta di adeguare
più efficacemente le conseguenze giuridiche alle caratteristiche individuali
dell’autore e alla sua condizione sociale. K. Roxin,
I compiti futuri della scienza penalistica, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2000, 10.
[135] L. Goisis, La pena pecuniaria.
Un’indagine storica e comparata. Profili di effettività della sanzione,
Milano, 2008, 367 ss. Nello stesso senso si esprime altra parte della dottrina:
si veda, tra gli altri, R. Bartoli,
Pericolosità, cit., 416, ove l’A. si esprime in favore
dell’utilizzo della pena pecuniaria, delle misure interdittive e della
detenzione domiciliare; nonché E.
Dolcini, In tema di ‘surrogati penali’ nell’Italia del 2015. Rileggendo
‘l’Utopia punitiva’ di Tullio Padovani, in G. De Francesco-A Gargani, (a cura di), Evoluzione,
cit., 184.
[137] Si
esprime in tal senso autorevole dottrina: Romano-Grasso,
Commentario sistematico del codice penale, Vol. II, 2005, 367. Si veda
altresì L. Eusebi, Quale
oggetto dell’abolizionismo penale? Appunti nel solco di una visione alternativa
della giustizia, cit., pagina 8 del dattiloscritto.
[139] F. Fiorentin, La conclusione degli
“Stati Generali” per la riforma dell’esecuzione penale in Italia, in Dir.
Pen. Cont., 2016, 5 ss.
[141] Come
è stato icasticamente affermato, rispetto alla questione carceraria, «è in
gioco il principio supremo della dignità personale, che va riconosciuta anche
al più cattivo tra i cattivi, perché la dignità non si acquista per meriti e
non si perde per demeriti». Così A.
Pugiotto, La parabola del sovraffollamento carcerario e i suoi
insegnamenti costituzionalitci, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016,
fasc. 3, 1213-4.
[142] Cfr. G. Pizzeria-C. A. Romano, Il lavoro
come strumento fondamentale del trattamento penitenziario e il ruolo della
cooperazione sociale, in Rass. It. Crim., 2011, n. 3, 24 ss.
[143] In
questo senso depongono anche i dati empirici: G.
Mastrobuoni-D. Terlizzese, Delle pene e dei delitti: condizioni
carcerarie e recidiva, cit., 26.
[144] Sulla
corresponsabilità fra reo e società civile, v. A. Baratta, Criminologia critica, cit., 188-189.
[145] Si
veda C. A. Romano, op. cit.,
8. Si veda altresì S. Pietralunga-C.
Rossi-C. Sgarbi, Il reinserimento sociale del detenuto e la
partecipazione della comunità civica: modelli di intervento, in Rass.
It. Crim., 2007, n. 2, 132 ss.