Contributi-2017

 

 

Goisis-fotoIL CARCERE NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA TRA FINZIONE E REALTA’.

DALL’INVENZIONE ALL’EPILOGO DELL’ISTITUZIONE TOTALE *

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LUCIANA GOISIS

Università di Sassari

 

 

SOMMARIO: 1. Il carcere nella letteratura tra finzione e realtà. Uno schizzo. – 2. La storia del carcere. L’invenzione dell’istituzione penitenziaria. – 3. La riforma carceraria in Italia. – 4. Gli esiti della ricerca criminologica. L’epilogo dell’istituzione totale. – 5. Conclusioni. Il carcere come ultima ratio. Per un ritorno alla centralità della rieducazione. Abstract.

 

 

1. – Il carcere nella letteratura tra finzione e realtà. Uno schizzo

 

Come scriveva Foucault, il carcere, nella sua dimensione di luogo di reclusione e di annichilimento, si ritrova in molte istituzioni diverse dal carcere: la famiglia, la clausura religiosa, la scuola, il manicomio. La medesima tesi appartiene, come noto a ranghi invertiti (istituzioni psichiatriche v. istituzioni carcerarie), anche a Goffman che si pronuncia sulle c.d. istituzioni totali nell’opera Asylums, ricomprendendovene molte[1].

E’ proprio prendendo ispirazione da tale tesi che si può pensare di studiare il carcere nella letteratura. Studiare l’istituzione carceraria nelle opere letterarie significa infatti considerare la molteplicità e l’ubiquità dell’esperienza carceraria: si può trattare infatti sia di carceri vere che d’invenzione, o per meglio dire, si può studiare il carcere nella letteratura sia considerando quelle opere che sulla carta hanno reso autentiche esperienze di carcerazione, sia quelle opere nelle quali la reclusione ha avuto un sostrato esclusivamente psicologico, alludendosi ad una particolare condizione esistenziale o conoscitiva[2].

Come è stato icasticamente affermato nella dottrina che ha indagato il rapporto fra carcere e letteratura, «d’altronde, sempre Foucault insegna che sono state le stesse istituzioni carcerarie ad aver agevolato, nell’età moderna, quel processo di ‘interiorizzazione della pena’ che non poteva rimanere senza conseguenze proprio in campo letterario, il più adatto, tradizionalmente, alla registrazione e rappresentazione di ogni analisi introspettiva, anche la più complessa e articolata»[3].

L’analisi del carcere “del corpo” e dell’“anima” nella letteratura si dipanerà, pur se tratteggiata a mò di schizzo, a partire dal ‘500 sino alla letteratura contemporanea: dal Tasso al Marino, da Leopardi a Manzoni, da Pascoli a Pirandello, da Buzzati a Gramsci, da Pavese a Calvino, con un accenno, nella letteratura di lingua straniera, al pensiero di Giacomo Casanova e Oscar Wilde[4].

Da quanto emerge dalle Lettere (1579-1586), Torquato Tasso subì una condizione carceraria terribile: il soggiorno del Tasso nell’ospedale di S. Anna, dove era stato confinato in ragione della sua follia, ma soprattutto del suo essere sgradito al duca di Ferrara, fu, secondo alcuni (vi è anche una tesi opposta), caratterizzato da una prigionia durissima e disumana, in luogo sporco, fra malati di mente e guardiani crudeli. Solo dopo la pubblicazione della Gerusalemme Liberata (1581) la popolarità del Tasso spinse il duca ad attenuare il rigore del regime carcerario del letterato, al bene del quale, almeno ufficialmente, era finalizzata la prigionia[5].

A tormentare il poeta non sono solo la fame, la sete ed i maltrattamenti, ma anche e soprattutto, secondo una costante dell’istituzione carceraria, il non conoscere il termine finale della prigionia, la solitudine e la mancanza di conforto.

Come scrive lo stesso Tasso: «Né già tanto temo la grandezza del male, quanto la continuazione che orribilmente dinanzi al pensiero mi s’appresenta: massimamente conoscendo che in tale stato non sono atto né allo scrivere né a l’operare. E il timor di continua prigione accresce la mia mestizia; e l’accresce l’indegnità che li conviene usare; e lo squallore della barba e de le chiome e degli abiti; e la sordidezza e il suddiciume fieramente m’annoiano; e sovra tutto m’affligge la solitudine, mia crudele e natural nemica, da la quale anche nel mio buono stato era talvolta così molestato, che in ore intempestive m’andava cercando o andava ritrovando compagnia»[6].

Fu solo nel 1586 che Tasso venne liberato, per l’intercessione di Vincenzo Gonzaga, e condotto alla volta di Mantova.

A cavallo fra il ‘500 e il ‘600, il poeta Giovan Battista Marino racconta del carcere vero da lui subito con il medesimo rimpianto per l’inaridimento della vena poetica dovuto alla carcerazione che lo stesso Tasso lamentava. E’ solo profondamente diverso l’atteggiamento con cui il Marino affronta e mette in rima la condizione carceraria: con un esperimento unico nella letteratura sul carcere, il poeta che subì due carcerazioni napoletane nel 1598 e nel 1600, nonché una torinese nel 1611-12, descritte rispettivamente ne Il Camerone (1606) e nella lettera a Lodovico D’Agliè del febbraio 1612, nonché nelle Rime ed in altre lettere volge in scherzo e in comicità la tragedia dell’esperienza carceraria. Segretario presso la Corte di Matteo di Capua, principe di Conca, Marino vide la propria fulgida carriera interrotta dalla forzata prigionia: fu così che decise, per superare la delusione, di descrivere la condizione di reclusione in termini di realismo lontani da ogni accento patetico[7].

Si stagliano dunque, nella letteratura del poeta, alcune vere e proprie “maschere comiche” come il carceriere rappresentato da un Cerbero insensibile agli appelli del poeta, un compagno di cella calabrese che vorrebbe parlare toscano, diavoli e sorci che ballano la danza trivigiana. Viene evitato ogni riferimento alla condizione carceraria e termini come cella, prigione, o prigioniero, ricorrono di rado, come a volersi distaccare dalla propria condizione di recluso[8].

In alcuni versi si coglie la comicità del poeta nel descrivere l’esperienza detentiva: «Tutto ‘l dì non fo altro che passeggiare e compro taccuini. Ma con tutto questo esercizio son diventato sì stitico, che con le tenaglie, non che con gli argomenti solutivi, non potrebbe il signor Romei cavarmi la digestione dall’usciuolo necessario […]»[9].

E’ del 1755 l’arresto di Giacomo Casanova destinato alla detenzione nei Piombi. Imprigionato per colpe religiose, per ateismo, per “atteggiamento illuministico” e comportamento pericoloso e lascivo, Casanova fuggì dopo soli pochi mesi dal carcere per rifugiarsi in Europa: tuttavia l’esperienza carceraria lo segnò profondamente inducendolo a conoscere tutti i mali del suo carattere. Il carcere fu, anche in seguito alla fuga, fonte di notorietà e di iniziazione alla scrittura per Casanova che scrisse Historie de ma vie (pubblicata postuma intorno al 1825) e poi Confutazione della storia del governo veneto d’Amelot de la Houssaye (1769). Lo stile di entrambe le opere è pedagogico e memorialistico: egli da tale esperienza trarrà la lezione circa la sua nobilitazione letteraria e la sua disinvoltura nella fuga.

Il carcere, cui venne sottoposto più volte nel corso della vita (oltre a Venezia, a Parigi, Londra, Madrid, Barcellona) per via della sua natura truffaldina, dunque, viene visto come strumento di conoscenza di sé stessi e del proprio io nonché delle proprie doti letterarie e la capacità di fuga dal carcere una virtù di cui vantarsi presso i salotti settecenteschi: sarà solo nella prigione di Newgate in Inghilterra e nella prigione spagnola del Buen Retiro che Casanova dipingerà la prigione come un girone dantesco, non senza contrapporlo al lusso cui era solitamente abituato[10]. Accanto alla prigione reale compare nelle opere dello scrittore veneto anche la prigione metaforica, rappresentata per Casanova dall’esilio da Venezia e poi da ultimo dalla vecchiaia (nonché dal matrimonio sempre rifuggito) che non consentirà più quella vita rocambolesca spesa in gioventù e strenuamente difesa attraverso le numerose evasioni[11].

«E io mi dispero proprio […] che mi tocca vivere in questo carcere», scriveva Giacomo Leopardi all’amico Pietro Giordani, nel 1818, da Recanati. Il desiderio di abbandonare Recanati, vista come una prigione, è uno dei temi centrali dell’opera e dell’esistenza di Leopardi: la volontà di aprirsi ad una realtà diversa da quella in cui viveva portava il letterato a descrivere il borgo d’origine come una prigione, luogo di disperazione e di esilio forzato. E’ dunque accedendo alla tesi del carcere come metafora e come condizione psicologica che si può cogliere la poetica leopardiana[12].

Vissuto a Recanati per 25 anni dei 39 di vita, Leopardi rimproverava al paese natale (soprattutto in età matura, ormai trentenne) di essere un ambiente chiuso e retrivo, privo di un minimo livello culturale, e dunque di stimoli e di confronti, oltre che di riconoscimenti in suo favore. Un soggiorno dunque che per Leopardi sarà da considerarsi “orrendo” e “disumano”. La denuncia più forte della sua condizione di reclusione si ritrova proprio nella lettera a Giordani: «Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Sì meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inudito. I nomi del Parini, dell’Alfieri, del Monti, e del Tasso e dell’Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento. Non ce n’è uno che si curi d’esser qualcuno, non c’è uno a cui il nome d’ignorante paia strano […]. Crede Ella che un grande ingegno qui sarebbe apprezzato? Come la gemma nel letamaio»[13].

Un’analoga denuncia verso il “natio borgo selvaggio” si ritrova nelle Ricordanze (1831). La ragione di tale senso di oppressione nasce anche dal rimprovero verso la famiglia d’origine per averlo tenuto in una condizione di prigionia, rimprovero mosso non tanto verso i fratelli, quanto verso i genitori. Ciononostante, la nostalgia per i propri cari lo accompagnerà in ogni suo viaggio lontano da Recanati, denotando una forte contraddizione nel pensiero leopardiano. Come è stato sottolineato «la prigione e il deserto: due elementi, due luoghi perfettamente speculari del vivere e delle sue antinomie, due immagini che affiorano ripetutamente nell’opera leopardiana»[14]. Due metafore della solitudine sua e dell’essere umano (come emerge anche ne La ginestra, o il fiore del deserto).

Sarà soprattutto nella fase finale della propria vita che Leopardi sentirà con maggior amarezza la prigionia nella città natale e nei “sedici mesi di notte orribile”, prima di abbandonarla, riuscirà comunque, e forse in ragione di tale prigionia, a produrre le punte più alte della sua poesia: Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia (oltre a tutte le opere precedenti pure scritte nella prigionia recanatese quali L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria, Le Operette morali). Così come sono ispirati al paesaggio e alle persone conosciute a Recanati molti altri poemi: si pensi alla poesia A Silvia e allo stesso Zibaldone (“le quiete stanze e le vie d’intorno”; “ai veroni del paterno ostello”; gli “studi leggiadri” e le “sudate carte”).

Benché dunque Recanati sia stato per Leopardi “carcere”, “prigione”, “sepolcro”, “soggiorno orrendo”, “soggiorno disumano”, “orrenda notte”, fu proprio dall’esperienza della prigionia metaforica che videro la luce alcune delle opere poetiche più profonde della letteratura italiana.

Il carcere come fonte d’ispirazione poetica, già preconizzato da Tasso, si conferma nella letteratura successiva.

Anche nell’opera di Alessandro Manzoni si rinviene una visione del carcere, così come il convento, l’isola e il lazzaretto, quale luogo dal significato metaforico: soprattutto la clausura assume il significato di luogo teologico, spazio propizio alla manifestazione della grazia divina, luogo di conversione. La prigionia come un’occasione – così nel Conte di Carmagnola (1820) e ne Il Cinque maggio (1821), espressione dell’isolamento di Napoleone a Sant’Elena, nell’Adelchi (1822), ne I promessi sposi (1827, 1840): le grate ricorrono spesso nel romanzo (si pensi alla figura dell’Innominato, a Gertrude, a Lucia). La reclusione come «catalizzatore di quella figuralità cristiana che si è dimostrata essere il fondo tragico di tutta la scrittura manzoniana»[15]. Come luogo che pone l’uomo dinanzi alla coscienza del limite e della sua miseria, premessa per l’incontro con la grazia divina.

Del resto, «il carcere è un luogo deputato, un topos, un luogo mentale oltre che un luogo fisico, nella cultura e nell’immaginario dell’Ottocento»[16].

Come è stato evidenziato, ciò emerge chiaramente in due opere c.d. pedagogiche dell’epoca e molto note: Cuore di Edmondo De Amicis, del 1886, e Pinocchio di Carlo Collodi del 1881. Si pensi nel primo caso al capitolo Il prigioniero, dedicato al ritorno dal carcere del papà di Crossi, figlio dell’erbivendola, il quale ha imparato a leggere e scrivere in prigione e dona al maestro un calamaio da lui intagliato nel tempo della prigionia.

Il carcere come luogo di istruzione e di lavoro.

Variegato è il rapporto di Pinocchio con il carcere che non lo redime mai: il carcere che non sempre previene la recidiva.

Così come nelle novelle del Verga il carcere è visto come un’ingiustizia fatalisticamente accettata. Il carcere, dunque, come «presenza ‘etica’, per così dire, normativa (repressiva), istituzionale, in certo senso esemplare»[17].

E’ in questo clima storico e letterario che si iscrive anche il pensiero di Giovanni Pascoli: in particolare nel clima di un nuovo incrocio fra letteratura e politica. Pascoli, socialista, assaggia la pena del carcere in diverse occasioni di ribellione verso le istituzioni. In particolare la poesia La voce del 1902 medita sull’esperienza carceraria: «Una notte dalle lunghe ore (nel carcere!), che all’improvviso dissi – Avresti molto dolore, tu, se non t’avessero ucciso, ora, o babbo! – che il mio pensiero, dal carcere, con un lamento, vide il babbo nel cimitero, le più sorelline in convento; e che agli uomini, la mia vita, volevo lasciargliela lì […] risentii la voce smarrita che disse in un soffio […] Zvanî […]»[18].

Lo stesso Dino Campana, rinchiuso in carcere e poi in manicomio dove morirà dichiarato clinicamente pazzo nel 1932, in pieno Novecento, scrive Sogno di Prigione, nei Canti Orfici, e descrive il carcere cromaticamente: «nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune, delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca. Silenzio: il viola della notte: in rabeschi dalle sbarre bianche il blu del sonno. Penso ad Anika: stelle deserte sui monti nevosi: strade bianche deserte: poi chiese di marmo bianche: nelle strade Anika canta: un buffo dall’occhio infernale la guida, che grida […]»[19].

Il carcere dunque sul finire dell’Ottocento e nel Novecento assume più spiccatamente una dimensione interna e psicologica rispetto al passato, spesso simbolo della deformazioni mentali.

Se volessimo fare un’incursione nella letteratura straniera di fine Ottocento e dei primi del Novecento e verificare la dimensione interna e mentale del carcere non potremmo non pensare a Oscar Wilde, arrestato nel 1895 per il reato di “gross indecency”. Oltre alla descrizione della cella, piccola, buia e maleodorante, lo scrittore lamenterà l’isolamento culturale, come è costante nei letterati che abbiamo sin qui ricordato, la mancanza dei propri libri e l’ingiustizia di una detenzione immotivata. «Surely like Dante I have written upon my face the fact that I have been in the hell. Only Dante never imagined any hell like an English prison»[20]. Tale affermazione lo porterà a denunciare, una volta liberato, le disumane condizioni del sistema carcerario inglese con alcune lettere inviate al Daily Chronicle e a scrivere la nota Ballad of Reading Goal (1898). E’ soprattutto con il De Profundis: in carcere et vinculis, che Wilde pubblicherà nel 1905, che si denuncia la condizione carceraria in maniera più approfondita e si affrontano temi etici come il dolore, l’ingiustizia, l’arte, il tempo, l’individualismo, l’immaginazione. In tale opera il carcere diventa una tappa del proprio itinerario personale, quella di un uomo che si vede perseguitato dalle istituzioni e foucaultianamente irreggimentato attraverso la disciplina penitenziaria e del corpo.

La sofferenza cui sono soggetti tutti i carcerati viene descritta ed «elevata a principio estetico»: «suffering is one long moment […]. For us there is only one season, the season of Sorrow»[21].

Aggiunge lo scrittore sempre nel De Profundis: «I have got to make everything that has happened to me good to me. The plank-bed, the loathsome food, […], the menial offices with which each day begins and finishes, the harsh orders that routine seems to necessitate, the dreadful dress that make sorrow grotesque to look at, the silence, the solitude, the shame – each and all of this things I have to transform in a spiritual experience»[22].

Anche nelle opere teatrali di Luigi Pirandello il carcere si ripresenta prepotentemente: il carcere e il processo sono momenti reali della vita dei suoi personaggi (ne Il dovere del medico, 1911) e si evidenzia lo scollamento fra la giustizia legale che tiene conto dei fatti e la giustizia reale che dovrebbe tener conto degli stati d’animo che hanno accompagnato i fatti, in una critica aperta di Pirandello alle istituzioni giudiziarie[23]. Anche in Così è (se vi pare) (1925) si mette in scena un processo inquisitorio, per così dire, sulla vita del signor Ponza e della signora Frola: tuttavia non esiste una verità oggettiva e dunque non avrebbe senso la condanna né l’assoluzione, il processo condotto è arbitrario e lascia una grande ferita negli imputati.

Ne Il deserto dei Tartari (1940) di Buzzati, il personaggio, Drogo, autorecludendosi, fa una scelta: la prigionia fisica nella fortezza Bastioni si rende indispensabile per una totale libertà interiore priva da condizionamenti esterni, al fine di entrare così in diretto contatto con la propria sfera intima e con il proprio io[24].

Nelle Lettere dal Carcere (1947), Antonio Gramsci, prigioniero politico nelle carceri fasciste, nel 1926, nonostante l’immunità parlamentare, e condannato a vent’anni di reclusione, fa della letteratura epistolare il momento più intenso della sua prigionia, uno strumento per superare la «lima sottile» del carcere, con «le sue norme, con la sua routine, con le sue privazioni, con le sue necessità». Ciononostante, la sobrietà di Gramsci lo induce a non lamentarsi mai della terribile vita condotta in carcere da oppositore politico, e rivolgendosi essenzialmente alle donne della sua famiglia, la moglie Giulia in primis, sperimenta, anche a causa della censura, una ulteriore prigionia dovuta all’isolamento rispetto alla vita famigliare, soprattutto, e sociale. Scrive, ispirandosi ad una lettera carceraria di Silvio Spaventa, «sequestrato come sono qui da ogni commercio umano ed amorevole, il tedio grande, la prigionia lunga, il sospetto di essere dimenticato da ognuno mi amareggiano e isteriliscono lentamente il cuore»[25].

Infine il carcere si presenta ancora una volta come metafora in Pavese: benché egli venga carcerato realmente quale direttore della rivista La Cultura, il carcere assume, nelle opere di Pavese, il significato di luogo di isolamento e di esclusione inteso come drammatica distanza dal mondo. Tale dimensione emerge, tra le altre, nell’opera omonima Carcere (1948), ove la prigionia può superarsi solo accettando il dono quotidiano del tempo e della compagnia faticosa degli altri[26].

Da ultimo, in Calvino, nell’opera Il conte di Montecristo (1967), cogliamo il carcere e i carcerati, ma soprattutto la dimensione metaforica del carcere come strumento di interpretazione della realtà e della concezione di letteratura di Calvino. «L’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigion[27]. Da tale constatazione deriverà il progetto di fuga dei protagonisti carcerati dell’opera.

La letteratura ci restituisce in definitiva un’immagine del carcere – nella sua dimensione fittizia o reale – che in tutto richiama i tratti odierni dell’istituzione penitenziaria: un’istituzione che annichilisce e deforma, caratterizzata da condizioni igieniche inaccettabili, dominata da isolamento e da isterilimento intellettuale, incapace di prevenire la recidiva, che solo talvolta ed occasionalmente istruisce e forma (ed è fonte d’ispirazione poetica). Una ‘presenza etica’, come nell’Ottocento, eminentemente repressiva, normativa, istituzionale ed esemplare, nelle parole proprie della dottrina contemporanea, una pena simbolica.

E’ solo indagando l’origine (o invenzione) del carcere nella prospettiva storica che potrà cogliersi l’evoluzione (involuzione) dell’istituzione penitenziaria sino alla sua realtà odierna.

 

 

2. – La storia del carcere. L’invenzione dell’istituzione penitenziaria

 

L’origine del carcere o l’“invenzione del carcere”, come l’ha chiamata Foucault, nell’opera Sorvegliare e Punire (1975), venne concepita a partire dal XVI secolo[28].

Si trattò a tutti gli effetti di un’“invenzione”, in quanto sino al XVI secolo il carcere – archetipi del quale, come mera istituzione di custodia in attesa del processo o dell’esecuzione del verdetto, risalgono all’antichità[29] – non era stato altro che un luogo di restrizione della libertà mirato essenzialmente ad assicurare che “l’imputato” (se di imputato in senso moderno si poteva parlare) non si sottraesse al giudizio o alla pena già inflitta[30]: si spaziava dalla punizione corporale alla pena pecuniaria, spesso usata in funzione di confisca, alle pene infamanti come la gogna e la berlina, sino alla pena capitale, cui si dava esecuzione con le modalità più efferate. Un’arte del supplizio, ben descritta da Foucault, la cui legittimità verrà messa in dubbio solo nel secolo dei Lumi, grazie all’Illuminismo giuridico e in particolare al pensiero di Cesare Beccaria, ne Dei Delitti e delle pene[31]. La natura processuale del carcere medioevale è condivisa dalla dottrina penalistica maggioritaria[32].

Come è stato chiaramente sottolineato, «la carcerazione preventiva costituiva il grosso dell’incarcerazione fino al secolo XVI. Da allora, la detenzione assunse una forma diversa»[33].

Fu, segnatamente, solo con l’inizio della modernità che il carcere divenne non più una mera istituzione di custodia, bensì un luogo deputato per eccellenza all’esecuzione della pena detentiva, finalizzata ora alla privazione della libertà per un determinato periodo di tempo, una pena detentiva che veniva eseguita secondo modalità che si erano dapprima ispirate alle pene riservate agli ecclesiastici nei monasteri d’Europa e che poi sono divenute per così dire “laiche”[34]. Tra la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del XVII la forma della pena ecclesiastica, infatti, ispirata alla penitenza, prevedeva una pena da scontarsi attraverso l’isolamento in una “cella”, una pena che si incontrò, come osserva Melossi, con un’altra invenzione, quella della c.d. «manifattura, sotto la spinta del profondo rinnovamento sociale stimolato dalla Riforma protestante»[35]. Ed infatti fu nelle prime aree di nascita di forme proto-capitalistiche e insieme del Protestantesimo che nacquero le “case di lavoro” o “case di correzione” (workhouses come venivano chiamate nel contesto anglo-sassone), diffusesi da Londra ad Amburgo sino alle altre città della Lega anseatica nella Germania settentrionale, da Ginevra sino ad Amsterdam: la rasphuis di Amsterdam resta famosa per la descrizione che viene fatta di tale casa di lavoro nel pensiero criminologico americano e in particolare nell’opera di Thorsten Sellin e per la sua natura polifunzionale[36].

Nel 1555, nasceva a Londra un’istituzione, chiamata Bridewell, allo scopo di incarcerare vagabondi e mendicanti, che fu ripresa da tutti i Paesi europei e divenne nota appunto sotto il nome di “casa di correzione”, luogo ove chi “non voleva lavorare” era costretto ad impegnarsi in un lavoro socialmente utile (nacque qui la tradizione di rinchiudere fra le mura carcerarie “gli elementi più poveri della società”, una tradizione che giunge sino ai sistemi penitenziari odierni[37].

Le case di lavoro erano presenti altresì oltreoceano, in particolare nelle colonie inglesi del Nord America, come nella colonia quacchera di William Penn (Pennsylvania)[38]. Esse si diffusero poi nei paesi di tradizione cattolica, tra cui il nostro, ove resta emblematico l’esempio della casa di correzione di Milano realizzata sotto Maria Teresa d’Austria[39].

Inizialmente, queste istituzioni erano riservate a coloro che si macchiavano di comportamenti ascrivibili oggi a forme di devianza (o meglio di insubordinazione sociale) meno grave, quali il vagabondaggio e la mendicità. Nel tempo esse assunsero il ruolo di carceri destinate a tutti i tipi d’autore: delle carceri odierne esse hanno rappresentato l’istituzione antenata[40].

Un esempio emblematico di istituzione carceraria dell’età moderna – rispondente al regime di “disciplinamento e razionalizzazione” dell’epoca e assimilabile alla c.d. manifattura (nonché ai manicomi, agli ospedali e alle scuole) – si ritrova nel celebre Panopticon di Jeremy Bentham di cui troviamo testimonianza anche nell’opera di Foucault: come gli altri riformatori illuministi, quali Cesaria Beccaria e Carlo Cattaneo, anche per il filosofo utilitarista inglese Bentham la riforma delle istituzioni doveva passare attraverso la riforma del sistema penale. Ecco che Bentham propone un modello esemplare di carcere, chiamato “panottico”, la cui struttura prevedeva una torre centrale riservata al guardiano del carcere e agli uomini della sicurezza, mentre i carcerati erano collocati in un anello distribuito su più livelli che correva attorno alla torre. Alla base di tale struttura architettonica vi era la possibilità del guardiano di vedere e controllare dalla torre i carcerati, mentre questi ultimi, a causa di un sistema di tende, non potevano sapere se venivano vigilati: si poteva cioè guardare dalla torre verso l’esterno e non viceversa. L’idea centrale era dunque quella di incutere nei detenuti il timore di essere osservati in modo da far sì che essi sviluppassero auto-disciplina[41].

Come si sottolinea in letteratura, all’origine dell’invenzione del carcere, sta la scoperta del «valore del concetto di disciplina: lavorativa, manifatturiera, produttiva, ma al tempo stesso anche disciplina di vita, e di metodo, della riforma protestante»[42].

Con l’avvento del XVIII secolo, la criminalità venne definita in termini più ampi rispetto alle forme minori di devianza e nacque la pena nel suo moderno contesto punitivo. La perdita di importanza di altre forme di punizione contribuì ad un aumento significativo della popolazione carceraria: le condizioni delle prigioni divennero caotiche, la situazione sanitaria inadeguata, la brutalità endemica[43].

All’inizio del XIX secolo, infine, una combinazione di circostanze sociali ed economiche comportò una riforma radicale del sistema penitenziario. I riformatori continentali trovarono risposta alle istanze riformatrici nel sistema carcerario americano e in particolare nel progetto della Walnut Street Prison di Philadelphia, basato sull’idea della reclusione solitaria, separata e anonima. Come è stato chiarito, «il sistema carcerario, quando assunse la sua forma moderna, univa i tre aspetti fondamentali della pena moderna: brutalità, anonimato e lavoro […]», incorporando così «gli stessi elementi che caratterizzavano il sistema di fabbrica»[44].

Non si può prescindere, nel delineare i profili storici dell’istituzione carceraria (benché non si tratti di una teoria sulla nascita del carcere)[45], dalla nota lettura di Rusche e Kirchheimer: storicamente, il carcere è eliminativo e in preda alla deterrenza o conservativo e mite, a seconda dell’andamento del mercato del lavoro. Ecco che l’istituzione penitenziaria tenderà ad essere maggiormente conservativa della forza-lavoro, mite e poco popolata, laddove vi sia scarsità di forza lavoro e questo aumenti dunque di valore. Al contrario, il carcere sarà sovraffollato e caratterizzato da forte deterrenza laddove la forza-lavoro abbondi perdendo dunque di valore: è quest’ultima la condizione in cui versano le istituzioni penitenziarie a partire dagli anni settanta del novecento sino ad oggi (come già accadde nel periodo della rivoluzione industriale e nel XIX secolo in Europa)[46].

Il sistema penitenziario italiano odierno costituisce una esemplificazione emblematica della attuale tendenza storica.

 

 

3. – La riforma carceraria in Italia

 

L’evoluzione storica dell’istituzione carceraria può essere fatta risalire, In Italia, alla prima legislazione unitaria. A seguito dell’unificazione della penisola sotto la monarchia sabauda, negli anni 1861-2, si manifestò la necessità di riorganizzare la legislazione all’epoca vigente in ogni settore del diritto. Eminentemente in campo penitenziario si avvertì la necessità di un regolamento per gli istituti di pena, unico per tutta la penisola[47]: venne dunque emanato il r.d. 13 giugno 1862 n. 413, il “Regolamento generale per le Case di pena del Regno”. Le Case di pena erano finalizzate a custodire, assicurando la disciplina interna, con il ricorso al lavoro obbligatorio per i condannati il cui prodotto apparteneva allo Stato. I detenuti erano tenuti all’obbligo del silenzio continuo ed assolutamente estranea al sistema era l’idea di una qualsiasi apertura verso l’esterno.

Come osserva Fassone, «in effetti il quadro politico che emerge nel decennio successivo all’unità si attaglia assai bene al sorgere di un conflitto tra Scuole così vasto, radicale e coinvolgente che non avrà più l’eguale in futuro»[48]. Con r.d. 1 febbraio 1891, n. 260, infatti, si realizzò un Regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori giudiziari, emanato grazie all’influenza esercitata dalla promulgazione del Codice Zanardelli: benché inattuato, si trattò di un regolamento organico e sistematico ispirato ai principi penalistici liberali dell’epoca e ai più progrediti sistemi penitenziari, ma al contempo ancora legato ai principi della Scuola classica e lontano da una umanizzazione della pena[49]. Esemplificando, la pena della reclusione si scontava con la segregazione cellulare continua se non superava i sei mesi, ovvero pari ad un sesto della pena se superiore e la segregazione cellulare continua veniva prevista per tutti i detenuti in attesa di giudizio. Solo nei primi del ‘900 si avrà una progressiva umanizzazione quando il r.d. del 1903 n. 484 abolirà la camicia di forza, i ferri e la cella oscura[50].

Da allora sino alla fine della prima Guerra mondiale, l’ordinamento penitenziario rimase pressoché immutato, fino a che, anche grazie all’affermazione del pensiero della Scuola positiva del diritto penale, si arrivò ad individuare il principio rieducativo quale principio ispiratore del trattamento dei detenuti.

Nell’ambito della Scuola Positiva, lo stesso Lombroso aveva riflettuto sull’istituzione carceraria nell’opera Palimsesti del carcere, ove aveva affermato la natura criminogena di «quest’organismo» che «parla, si muove e qualche volta ferisce ed uccide a dispetto di tutti i decreti»[51] e l’influenza del pensiero positivistico si enucleò soprattutto sul terreno dell’affermazione dell’idea special-preventiva nella fase esecutiva, in ragione della natura condizionata al delitto di colui che delinque il quale, lungi dall’agire sulla base del libero arbitrio di ascendenza classica e meritevole di una pena retributiva, dovrà essere sottoposto a trattamento[52].

Una serie di circolari del 1921-’22 rivelano l’affermazione delle idee positivistiche in sede ministeriale: i detenuti vengono proclamati oggetto non tanto di repressione quanto di cura, gli strumenti di contenzione devono essere depurati di significato punitivo, i colloqui e la corrispondenza possono essere concessi con maggiore ampiezza e la segregazione cellulare viene accompagnata da cautele. Da ultimo, il r.d. del 1922 n. 393 recepì queste innovazioni[53].

Tuttavia, come è stato sottolineato, le due Scuole, classica e positiva, «pur continuando a polemizzare con vigore, finiscono a poco a poco più con il convergere che con il sopraffarsi, cercando ciascuna di introdurre nel proprio patrimonio ciò che l’altra ha rivelato mancante, e preparando i tentativi espliciti di sintesi eclettica della cosiddetta Terza Scuola»[54].

Con l’ascesa del fascismo tuttavia i principi positivistici vennero bruscamente abbandonati e in seguito venne approvato il nuovo “Regolamento per gli Istituti di prevenzione e pena” con il r.d. 18 giugno 1931, n. 787. Tale regolamento rifletteva appunto il compromesso che si era attuato nel codice penale del 1930, il Codice Rocco, tra la Scuola classica e la Scuola positiva del diritto penale. Infatti, nonostante venissero previste norme di vita carceraria volte ad emendare il condannato, contemporaneamente veniva riaffermato il carattere afflittivo e intimidativo della pena[55].

Soprattutto con l’avvento del fascismo si afferma, come noto, l’indirizzo tecnico-giuridico: il diritto penale rivendica nettamente la propria autonomia da discipline collaterali come la criminologia, la psichiatria e la sociologia, proclamando la neutralità e oggettività della scienza penalistica, con l’unica finalità di interpretare e applicare la legge; in tal senso diventano privi di significato i conflitti fra le Scuole insorti in precedenza. Tale concezione non poteva non avere riflessi anche sul piano del trattamento carcerario (ciò già prima del regolamento del 1930): con r.d. del 1922, n. 1718, la Direzione generale delle carceri e dei riformatori viene posta significativamente sotto il controllo del Ministero della Giustizia e ciò “a fini punitivi” nei confronti della politica – di ispirazione positivistica – seguita dalla precedente Direzione generale[56].

Nonostante l’affermarsi della scuola umanistica, che ripropone l’idea correzionalistica, si manifesta altresì una lettura etica del diritto penale, che si rivelerà perfettamente coerente con il regime il quale si incarna nell’idea etica dello Stato, e ciò porterà, nel 1930-’31, a sostenere che il diritto penale non può abbandonarsi al pietismo e che «ogni pena, nella repressione, persegue finalità di prevenzione»[57]. La reintroduzione della pena di morte e l’elevazione generale dei minimi di pena costituiscono la più evidente esemplificazione di una tale politica criminale che inevitabilmente si riverbera sul trattamento penitenziario[58]. La pena detentiva ha una finalità meramente retributiva, relegandosi una funzione special-preventiva alle sole misure di sicurezza[59].

 Negli anni del dopoguerra, nel 1945-’46, si registrano indici di criminalità molto elevati, i più alti del secolo, con un aumento della popolazione carceraria che porta con sé spesso rivolte all’interno delle carceri: la spinta è verso «una giustizia sbrigativa e repressiva, efficace e insofferente a tematiche di rieducazione, strumentale alle velleità di epurazione e di profondi rimescolamenti dei rapporti»[60].

Sarà solo con l’avvento della Costituente che si riaffaccerà sullo scenario penalistico e penitenziario la finalità rieducativa della pena ([61] ). Benché, almeno apparentemente, tale idea venga ascritta all’influenza della Scuola Positiva, in realtà, come evidenzia Fassone, «l’stanza rieducativa non è un portato di scuola, ma il frutto di una nuova sensibilità politica», maturata grazie alla esperienza dei costituenti, essi stessi imprigionati per ragioni politiche e consci della disumanità del carcere[62]. Ciononostante, il dibattito in Assemblea vede manifestarsi posizioni di prudenza rispetto al principio rieducativo, nella volontà di non aderire ad alcuna scuola penalistica, e, nel prevalere delle posizioni di Bettiol, Leone, Moro e Bellavista, tale principio si attenua (come si evince dalla stessa permanenza della pena di morte anche se con esclusivo riferimento alle leggi militari di guerra)[63].

Sintetizzando il pensiero sulla pena nell’epoca repubblicana, si può perciò dire che i tratti distintivi furono: «spiccata sottolineatura delle teorie della prevenzione generale, mortificazione delle teorie della prevenzione speciale, rilancio di teorie retributive in chiave religiosa e confessionale»[64].

Negli anni cinquanta, pur permanendo le teorie retributive, si affermano tuttavia in maniera più decisa le teorie della prevenzione generale e della difesa sociale[65] sorrette dai livelli sanzionatori draconiani previsti dal Codice Rocco, in un’ottica che da sacrale si connota maggiormente in termini utilitaristici. Nella seconda metà degli anni ’50, in particolare, torna alla ribalta l’idea special-preventiva che tuttavia viene, per così dire, annacquata attraverso la categoria delle c.d. norme costituzionali programmatiche. Sarà verso il finire degli anni ’50 che l’ideale rieducativo si farà strada grazie all’affermarsi della funzione pedagogica nel diritto penale, così come in ragione dell’accresciuto benessere economico che renderà non più accettabili condizioni di vita carceraria largamente inferiori a quelle della vita libera[66]. L’idea rieducativa, affermatasi in molti congressi internazionali e propugnata dallo stesso Marc Ancel, come noto, iniziatore dell’indirizzo teorico della nuova difesa sociale, si paleserà tuttavia ben presto inconciliabile con la segregazione carceraria, tanto che negli anni ’60 si affermerà una visione polifunzionale della pena, pena che, tendente alla rieducazione nella fase esecutiva, dovrà continuare ad essere al tempo stesso finalizzata alla intimidazione e alla prevenzione generale[67].

Tale idea diverrà tuttavia il centro del dibattito penalistico a partire dagli anni sessanta sino alla riforma carceraria del 1975: pur con diversità di vedute sul significato da attribuire al concetto di rieducazione, si concorda nel ritenere la rieducazione una forma di trattamento del reo che passa attraverso una sua rinnovata volontà di vivere nel rispetto della legge e di tornare a far parte del consesso sociale.

Come efficacemente sottolineato, rispetto al periodo relativo agli anni sessanta, «se questo tema monopolizza l’attenzione, continua a gravare su di esso una pesante ipoteca, data dalla mancanza, almeno nella nostra cultura giuridica, di indagini sul modello al quale la rieducazione deve ispirarsi, e sugli strumenti necessari al suo raggiungimento»[68]. Questo aspetto, come diremo, caratterizza anche l’attuale paradigma rieducativo nel nostro sistema sanzionatorio e carcerario.

Non solo. Sarà proprio sul finire degli anni sessanta che la ventata di contestazione investirà segnatamente il carcere (numerose le rivolte carcerarie) e le c.d. istituzioni totali, secondo l’espressione coniata da Goffman nel 1961, le quali verranno additate, anche per l’irrompere nel dibattito sulla pena degli stessi detenuti e dell’opinione pubblica, quali istituzioni che annichiliscono e deformano – secondo l’immagine veritiera emersa nella visione letteraria del carcere – e che al tempo stesso irreggimentano corpo e mente del condannato[69]: «il fatto cruciale delle istituzioni totali è dunque il dover ‘manipolare’ molti bisogni umani per mezzo dell’organizzazione burocratica di intere masse di persone – sia che si tratti di un fatto necessario o di mezzi efficaci cui l’organizzazione sociale ricorre in particolari circostanze»[70].

Si sottolinea correttamente che «come lo sconvolgimento positivista di fine ‘800 si era opposto all’idealismo della Scuola classica propugnando di dover guardare al detenuto qual è in concreto, ai suoi condizionamenti ed alle sue caratteristiche bio-psico-sociologiche, così ora si guarda al carcere come agisce nella realtà, alle sue funzioni effettive ed occulte, anziché a quelle dichiarate e illusorie»[71]. Si assiste cioè ad un profondo processo di delegittimazione dell’istituzione carceraria, anche in considerazione della bassa estrazione sociale della maggioranza dei detenuti quale fenomeno espressione di precisi obiettivi di politica criminale[72]. Tale processo si accompagna alla mutata visione della devianza, considerata non più come frutto di libero arbitrio, secondo il pensiero classico, né come prodotto di condizionamenti, secondo il pensiero positivista, ma come creazione della società, nella nuova Weltanschauung criminologica degli anni sessanta, inaugurata dalla teorie dell’etichettamento e dalle successive teorizzazioni del conflitto, proprie della criminologia critica e della criminologia radicale[73].

Da ultimo, nell’evoluzione della legislazione penitenziaria in Italia il passaggio più significativo è segnato dall’anno 1975. Dopo diversi disegni di legge, volti a modificare il Regolamento Rocco, continuamente decaduti, il 31 ottobre 1972 l’ultimo disegno di legge decaduto, il disegno Gonella n. 2624, fu approvato con la legge 26 luglio 1975, n. 354. Tale legge, che reca il titolo “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, anche nota come legge sull’ordinamento penitenziario, rappresenta, come sottolineato in dottrina, «un punto di svolta nella politica legislativa penale, sia per la forma che per i contenuti» ([74] ).

Sino ad allora, infatti, il carcere era stato disciplinato solo attraverso lo strumento del regolamento. Nel 1975, con tale provvedimento sull’ordinamento penitenziario, è intervenuta una disciplina attuata con legge: ciò ha costituito una vera innovazione nella storia delle istituzioni penitenziarie in Italia, poiché «l’adozione della forma della legge si lega al riconoscimento del condannato come soggetto di diritti, e non più come soggetto passivo di un rapporto di pura soggezione»[75]. Nell’art. 1 e nell’art. 4 dell’ordinamento penitenziario, infatti, ritroviamo il riconoscimento di diritti fondamentali al detenuto[76].

Anche se non mancherà in quegli anni l’incidenza di una ventata di neo-classicismo (post-sessantottina), volta al recupero dell’idea neutralizzatrice[77], la riforma del 1975, è ben noto, ha cercato di conformarsi al dettato costituzionale, ponendo alla base del sistema penitenziario l’idea della rieducazione o risocializzazione, nella forma del trattamento individualizzato, rispondente ai bisogni di ciascun soggetto (art. 13), da attuare avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative, sportive ed agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e con la famiglia (art. 15).

Come è stato cristallizzato, richiamando le parole di un compianto studioso, la legge del 1975 rappresenta «la prima legge organica di riforma del sistema penale ispirata al principio della funzione rieducativa della pena»[78].

Questo, raccogliendo l’insegnamento di Kelsen, il “dover essere della pena”[79]. Tuttavia, «la pretesa di aver sostituito la funzione rieducativa a quella punitiva si rivela […] puramente ideologica sino a che la pena rimane incentrata sul carcere, con la sua essenza segregante e totalizzante»[80]. E’ ben noto infatti che la rieducazione risulta di difficile realizzazione se si tiene conto della acquisizione criminologica secondo la quale il carcere è un ambiente di desocializzazione e di contagio criminale.

E’ tuttavia l’obiettivo cui l’imperativo costituzionale impone di tendere.

Ecco perché occorre interrogarsi, alla luce dell’evoluzione storica del carcere e della legislazione penitenziaria, su quale sia lo stato dell’“essere della pena”, soprattutto in relazione al rispetto del principio di umanità e di dignità della persona.

L’abisso che separa il “dover essere” dall’“essere” della pena detentiva in Italia – avvicinandoci inesorabilmente alla ricostruzione di una istituzione penitenziaria, secondo la lezione di Rusche e Kirchheimer e secondo la lezione della letteratura, in preda ad una sfrenata deterrenza e all’endemico sovraffollamento carcerario – si può evincere solo alla luce del sapere criminologico[81]. Tale scollamento è stato altresì, è noto, additato magistralmente dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Torreggiani et al. c./Italia[82]. Si tratta, come icasticamente sottolineato dal Presidente della Repubblica italiana, «dell’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona»[83].

 

 

4. – Gli esiti della ricerca criminologica. L’epilogo dell’istituzione totale

 

La criminologia, quale scienza empirica, ci consente di delineare l’“essere” dell’istituzione carceraria, nella realtà dell’ordinamento italiano, dal 1975 ad oggi.

Prima di analizzare i dati statistici italiani, al fine di tratteggiare il quadro della realtà penitenziaria italiana, è tuttavia doveroso ripercorrere le acquisizioni criminologiche, benché note, stratificatesi nel tempo in relazione all’istituzione carceraria.

Da lungo tempo, infatti, la letteratura basata sull’osservazione empirica ha indagato gli aspetti sociologici e organizzativi relativi al carcere.

Ciò che è emerso primariamente, nelle parole di Baratta, è che «‘la comunità carceraria’ e la ‘subcultura’ dei moderni istituti di detenzione, […] si presentano come dominate da fattori che finora, ad un bilancio realistico, hanno reso vano ogni tentativo di realizzare compiti di socializzazione e di reinserimento attraverso le istituzioni. Anche l’introduzione di moderne tecniche psicoterapeutiche ed educative, e parziali trasformazioni nella struttura organizzativa del carcere, non hanno cambiato in modo decisivo la natura e la funzione degli istituti di detenzione nella nostra società. Essi restano il momento culminante e decisivo di quel meccanismo di emarginazione, che produce la popolazione criminale e la gestisce al livello istituzionale […]»[84].

Breve: la prima acquisizione criminologica è quella secondo la quale il carcere è luogo di emarginazione, luogo di “raccolta” dell’emarginazione e di creazione di un’“etichetta” di emarginato.

Soprattutto, nell’ambito delle società contemporanee si è andato delineando un “modello” di istituzione penitenziaria con caratteristiche costanti: tra le quali il «fatto che gli istituti di detenzione esercitano effetti contrari alla rieducazione e al reinserimento del condannato, e favorevoli ad un suo stabile inserimento nella popolazione criminale». Posto infatti che per la rieducazione è necessario il rispetto e la valorizzazione dell’individualità, è evidente come il carcere sia in completa antinomia con queste condizioni: «le cerimonie di degradazione all’inizio della detenzione con le quali il carcerato è spogliato anche dei simboli esteriori della propria autonomia (i vestiti e gli oggetti personali) sono l’opposto di tutto questo»[85]. Inoltre l’educazione fa leva sulla libertà, mentre la vita carceraria, essendo improntata alla disciplina e all’irregimentazione del corpo e dell’anima, ha un carattere repressivo ed uniformante.

Breve: la seconda acquisizione criminologica è quella secondo la quale il carcere è luogo di criminogenesi e di spersonalizzazione.

Sempre il sapere criminologico, e psichiatrico in particolare, ammoniscono circa le conseguenze nefaste della carcerazione sulla psiche che si rivelano aggravate dalla lunga durata della detenzione: gli esami condotti sulla personalità di campioni di detenuti mostrano che la possibilità di trasformazione del soggetto violento attraverso una prolungata condizione di reclusione non è realizzabile. Contribuiscono ad impedire una tale trasformazione la stessa privazione dei bisogni fondamentali, compresi quelli attinenti alle relazioni affettive e sessuali e l’esito di tali frustrazioni può condurre sino al suicidio[86].

La letteratura criminologica ha altresì indagato il processo di socializzazione al quale è sottoposto il detenuto: nelle parole di Goffman, si può parlare di “disculturazione”, ossia di mancanza di “allenamento” alle situazioni tipiche della vita quotidiana, in altre parole, si verifica un disadattamento alle condizioni necessarie alla vita libera (diminuzione della forza volitiva, perdita del senso di auto-responsabilità economica e sociale), una diminuzione del senso della realtà del mondo esterno con conseguente formazione di una sua immagine illusoria, un distacco dai modelli sociali correnti[87]. Al tempo stesso e specularmene, il carcere è luogo di “acculturazione” o “prigionizzazione”, ossia di assunzione dei modelli, dei valori e delle attitudini della subcultura carceraria.

In particolare, gli effetti negativi della “prigionizzazione” sulla possibilità di rieducazione sono duplici e riconducibili a due processi: l’educazione a criminale e l’educazione a buon detenuto. Il primo processo comporta l’assunzione del modello criminale dei detenuti che, nella gerarchia carceraria, si pongono al vertice e che per il prestigio di cui godono si impongono come esempio di comportamento asociale e antagonista alle istituzioni, detenuti con i quali gli stessi operatori penitenziari devono trovare una mediazione. Il secondo processo, invece, avviene nell’ambito della comunità dei detenuti, «dato che l’assunzione di un certo grado d’ordine, dei quali i capi dei detenuti si fanno garanti (in cambio di privilegi) verso lo staff, fa parte degli scopi riconosciuti in questa comunità. Questa educazione avviene, per il resto, attraverso l’accettazione delle norme formali dell’istituto e di quelle informali poste in essere dallo staff»[88]. In tal modo, si alimentano comportamenti esteriormente consoni alla vita dell’istituzione, ma spesso frutto di conformismo ed opportunismo. L’obbedienza funzionale alla vita ordinata nel carcere è l’obiettivo prioritario dell’istituzione, mentre la rieducazione, ossia l’interiorizzazione delle norme e la partecipazione consensuale e convinta alle attività rieducative, resta inattuata.

Breve: la terza acquisizione criminologica è quella secondo la quale il carcere è luogo di deformazione della personalità e della psiche, nonché di annichilimento e di “disculturazione”/“prigionizzazione”.

Non ultimo, il carcere ispirato all’ideologia rieducativa si caratterizza per una contraddizione intrinseca, legata al rapporto con la società a cui è destinato il soggetto rieducando, basata sul binomio inclusione/esclusione: non si può allo stesso tempo includere ed escludere. Inoltre i rapporti sociali della subcultura carceraria, pur peculiari e unici, «nella loro struttura più elementare […] non sono che l’ampliamento, in forma meno mistificata e più ‘pura’, delle caratteristiche tipiche della società capitalistica: sono rapporti sociali basati sull’egoismo e sulla violenza illegale, all’interno dei quali gli individui socialmente più deboli sono costretti in ruoli di sottomissione e di sfruttamento»[89].

Come è stato affermato di recente nell’ambito della stessa dottrina penalistica, «la grande contraddizione che contraddistingue il carcere è la sua sostanziale tensione, se non addirittura incompatibilità, con la funzione rieducativa/risocializzante della pena, e ciò per la semplice ragione che il carcere produce come primo inevitabile effetto quello della desocializzazione […] con la conseguenza che una pena che genera desocializzazione non potrà mai essere in grado di generare risocializzazione»[90].

Tali essenziali acquisizioni criminologiche, elaborate, sin dagli anni settanta, segnatamente nell’ambito della corrente della criminologia critica, trovano piena rispondenza nei dati statistici relativi alla realtà delle carceri italiane.

Innanzitutto, è noto, vi è l’annoso tema del sovraffollamento carcerario che acuisce i problemi evidenziati dal sapere criminologico, rendendo ancor più difficile l’obiettivo tendenziale della rieducazione. I dati sull’aumento della popolazione carceraria a partire dal 1975, ossia dalla entrata in vigore della legge sull’ordinamento penitenziario, restituiscono un quadro sconcertante: se infatti nel 1974 i dati relativi agli adulti presenti in carcere era di 28.000 unità[91], ad oggi (i dati sono aggiornati al 31 maggio 2017 e sono tratti dalle significative rilevazioni statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), tale numero è cresciuto sino a 56.863, dunque ben oltre la capienza regolamentare che è pari a 50.069 posti (sempre a quella data)[92].

Comparando, come operato da autorevole dottrina, la crescita della popolazione carceraria e quella della popolazione residente in Italia dagli anni settanta ad oggi, si evince che tale ultimo incremento è stato pari all’11%, mentre quello della prima è stato pari al 240%. A testimoniare di una crescita inesorabile ed esorbitante della presenza in carcere. E nel panorama europeo, l’Italia si pone accanto a Cipro, Serbia e Spagna con livelli di sovraffollamento drammatici[93].

Benché i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel 2017 dimostrino un lieve decremento della popolazione detenuta negli ultimi anni (58.092 nel 2014), la stessa amministrazione fissa un tetto di “capienza tollerabile” (sulla cui legittimità è opportuno interrogarsi seriamente) in 50.069 posti, evidenziando come il problema del sovraffollamento carcerario sia comunque una grave patologia da tenere sotto continuo monitoraggio[94]. 

Come segnalato di recente, infatti, al dicembre 2016, il sovraffollamento è stato ridimensionato (come diremo, grazie ad alcuni recenti interventi di riforma): il valore medio a quella data infatti era pari al 108,8%. Tuttavia, se si pensa che nel 2015 il valore medio era del 105,18% si registra, in ogni caso, una riemersione del problema. Come icasticamente sottolineato, «un’inversione di tendenza dalla quale si evince che il problema non è ancora definitivamente risolto e che l’attenzione in proposito non dovrebbe conoscere cadute»[95]. Una variabile, quella della diminuzione del sovraffollamento carcerario, per alcuni legata inscindibilmente al declino del populismo penale e del binomio allarme sociale/consenso politico, populismo che sembrerebbe riemergente nell’ultimo anno a render ragione del nuovo incremento degli ingressi in carcere[96].

Infine, una analisi della presenza nelle carceri per posizione giuridica consente al Dap di affermare che al 2016 solo 35.400 detenuti sono stati condannati con sentenza di condanna passata in giudicato: tutti gli altri sono soggetti incarcerati soltanto in ragione dell’operare delle misure cautelari detentive. Il 40% circa dei detenuti nelle carceri italiane sono sottoposti a custodia cautelare in carcere. Questo dato in effetti pone l’Italia in una posizione, rispetto agli altri Paesi europei ove i detenuti in attesa di giudizio sono in numero assai più ridotto, deteriore[97].

Un ulteriore dato emergente, che conferma la prima acquisizione criminologica secondo la quale il carcere è un luogo di “raccolta”, per così dire, dell’emarginazione, benché noto da tempo[98]: le carceri italiane sono segnate in prevalenza dalla presenza di stranieri e di soggetti tossicodipendenti. I detenuti stranieri rappresentano al 31 maggio 2017 il 34% (19.365 sul totale dei detenuti pari a 56.863) della popolazione detenuta complessiva, benché gli stranieri non superino il 7,5% della popolazione totale residente. Se si guarda, osserva il Dap, all’incremento numerico della popolazione detenuta degli ultimi 15 anni, si giunge alla conclusione che la crescita assoluta della popolazione detenuta corrisponde in massima parte all’incremento della presenza di stranieri nelle carceri (quasi il 50% del numero complessivo dei detenuti). Essi, come noto, sono fortemente svantaggiati nell’accesso alle misure alternative alla detenzione: si può concludere che la selezione dei clienti privilegiati del carcere avviene in maniera largamente discriminatoria[99].

Quanto ai soggetti tossicodipendenti, essi rappresentano una parte consistente della popolazione detenuta. Risulta infatti dai dati forniti dall’Istat e aggiornati al 2016 che le violazioni della normativa sugli stupefacenti rappresentano la tipologia più diffusa di reati per i detenuti presenti (18.702). Seguono i reati contro il patrimonio, per i quali si contano, tra furti e rapine, detenuti pari ad un totale di 28.956 unità[100].

Inoltre, secondo rilevazioni dell'Osservatorio delle misure alternative del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, risalenti al 2007, «la recidiva di chi resta tutto il tempo chiuso in prigione è tre volte superiore a quella di chi sconta la condanna con misure alternative alla detenzione: il 68,5% nel primo caso, il 19% nel secondo»[101]. Così come è in corso una ricerca promossa dal Ministero della Giustizia sui rapporti fra carcere e recidiva che viene condotta con l’Einaudi Institute for Economics and Finance (Eief), il Crime Research Economic Group (Creg) e il Sole 24Ore, nonché il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I dati di tale ricerca, condotta con particolare riferimento al “carcere aperto” di Bollate, consentono di confermare la seconda acquisizione criminologica secondo la quale il carcere è luogo di criminogenesi e dunque non in grado di prevenire la recidiva laddove venga scontato in regime chiuso senza contatti con l’esterno. Il carcere chiuso è infatti patogeno e produce il 70% dei soggetti recidivi, al contrario il modello “aperto”, basato sulle celle aperte e sull’impegno dei detenuti in attività lavorative e culturali, un carcere orientato al rispetto della dignità della persona e alla rieducazione, è riuscito a ridurre seriamente le recidive (fino a 9 punti percentuali)[102].

Un ultimo, tragico, dato sui suicidi in carcere: il tasso dei suicidi è variabile di anno in anno e comunque compreso tra i 12,50 e i 9 suicidi per 10.000 detenuti, con una incidenza di suicidi sproporzionata rispetto al tasso di suicidi nella popolazione residente[103]. Ebbene, esiste prova che c’è una correlazione significativa fra sovraffollamento carcerario ([104] ) e frequenza delle morti per suicidio: il problema è a tal punto sentito che il Dap dapprima nel 2010 e poi nel 2011 ha redatto delle circolari volte ad arginare tale fenomeno[105].

Si conferma la terza acquisizione criminologica summenzionata: il carcere è luogo di deformazione della personalità e della psiche, nonché di annichilimento.

E tale situazione è aggravata dalle frequenti violazioni dei diritti umani fondamentali di cui è spesso protagonista l’istituzione carceraria così come emerge dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: la violenza fisica (il cui divieto è sancito dall’art. 13 e 27 Cost. italiana, nonché dall’art. 3 della CEDU), la violenza e la coercizione psicologica, la tortura, le perquisizioni personali, le limitazioni alla socialità e al contatto con il mondo esterno, alla libertà di informazione, istruzione, espressione e religione, la stessa questione dell’ergastolo ostativo [106].

Il quadro che emerge dai dati statistici ufficiali e dai pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo è desolante.

Un quadro che induce la criminologia a rievocare a buon diritto l’“istituzione totale” che, coniata da Goffman in Asylums (1961), riecheggia a pieno nelle parole di Foucault secondo il quale «le punizioni in generale, e la prigione» derivano «da una tecnologia politica del corpo».

Nella parabola di tale istituzione totale, dalla sua invenzione, quale luogo di custodia, sino alla realtà attuale, si può senza timor di smentita affermare che siamo giunti – oggi – all’epilogo dell’istituzione carceraria: la sua crisi (che può peraltro preludere ad una rinascita) va decretata senza appello.

Tuttavia, anche a prescindere da una prospettiva critica, lo sguardo della criminologia va oltre e cerca di indagare empiricamente l’eziologia delle condizioni attuali dell’istituzione penitenziaria, studiando a fondo una delle cause odierne della crisi e dell’epilogo di tale istituzione: il sovraffollamento carcerario. Alcuni studi recenti evidenziano infatti che sono tre i fattori che hanno contribuito (benché non si possa parlare in termini strettamente causali) a far sì che la popolazione detenuta italiana abbia raggiunto oggi livelli mai toccati dal secondo dopoguerra del secolo scorso[107].

Si tratterebbe di tre fattori concomitanti enucleatesi nell’ultimo decennio in Italia nell’ambito dell’esecuzione penale: da un lato, il deciso declino della sospensione condizionale della pena, dall’altro la crescita significativa delle pene detentive di lunga durata, infine la forte riduzione della concessione delle misure alternative alla detenzione.

Fossa e Gatti partono dalla considerazione della attuale crescita esorbitante della popolazione detenuta italiana – che il provvedimento di indulto del 2006 ha contribuito solo parzialmente a contenere essendosi tornati in un solo biennio ai livelli di capienza precedenti al provvedimento stesso – ed evidenziano come tali livelli siano caratteristici di situazioni storiche eccezionali.

Passano quindi, i due criminologi, a considerare la classificazione della popolazione detenuta a seconda della appartenenza alla popolazione “definitiva” oppure alla popolazione in attesa di giudizio. L’aumento considerevole della popolazione detenuta italiana, chiariscono, è da attribuirsi soprattutto alla crescita della “criminalità punita”.

Ecco dunque che i fattori che possono intervenire a spiegare l’aumento consistente della popolazione definitiva vanno rintracciati sul terreno dell’esecuzione penale. Un fenomeno che può spiegare questo alto livello di carcerazione viene rinvenuto in primo luogo nel declino, a partire dall’ultimo decennio, del numero di sentenze accompagnate dalla sospensione condizionale della pena: dall’azzeramento dell’istituto nel biennio 2005-2006 (senz’altro anche per effetto dell’indulto che ha reso inutile la celebrazione dei processi) fino ad attestarsi sullo 0,1% nel biennio 2008-2009. La minor propensione dei giudici a concedere la sospensione della pena si accompagna alla impossibilità di usufruirne per gli imputati recidivi. Occorre segnalare tuttavia che tale dato non è pacificamente accolto: alcune rilevazioni mostrano che, invece, il ricorso alla sospensione condizionale della pena è molto più elevato. In particolare, alcuni dati relativi al periodo 2008-2012 evidenziano oltre il 40% di condanne iscritte nel casellario giudiziale sospese condizionalmente[108].

Un secondo fattore che produce effetti sulla consistenza della componente carceraria è la lunghezza delle pene detentive inflitte: più la pena inflitta in sentenza è elevata più si allontana il momento di lasciare il carcere per lo stato di libertà o per l’accesso alla misura alternativa, tutto ciò specie per i soggetti recidivi il cui accesso alle misure alternative resta – o meglio restava (recenti riforme hanno, come diremo, modificato tale dato normativo) – precluso in forza della c.d. legge ex Cirielli. Dai dati riferiti emerge in maniera sorprendente un aumento che supera il 70% delle pene oltre i due anni e un aumento pari al doppio, altrettanto sorprendente, delle condanne all’ergastolo. La magistratura si sarebbe dunque orientata nell’ultimo decennio verso pene sempre più severe e di lunga durata.

Infine, un terzo fattore, capace di contribuire a spiegare il carico penale dei detenuti e il conseguente inevitabile deterioramento delle condizioni carcerarie sino ad integrare un trattamento inumano e degradante, è da identificarsi nella ridotta ammissione alle misure alternative al carcere (sia dallo stato di libertà che dallo stato di detenzione). Nonostante l’affidamento in prova al servizio sociale venga applicato in tempi recenti in maniera crescente, nel complesso le misure alternative alla detenzione vengono raramente concesse, specie ai soggetti che potrebbero essere ammessi a fruire di tali istituti – espressione più piena, è bene rammentarlo, della funzione rieducativa della pena. Come chiariscono Fossa e Gatti, «la significativa maggioranza dei detenuti in sintesi – almeno dal punto di vista del residuo di pena da scontare – potrebbe accedere alle misure alternative. […]. Ad oggi i condannati con residuo di pena fino a tre anni hanno rappresentato mediamente circa il 60% di tutti i condannati»[109].

Non solo. Alcune riforme legislative – dalla legge sulla recidiva reiterata già citata, alla legge sugli stupefacenti, nonché la legge sull’immigrazione – hanno contribuito decisamente, come già evidenziato, all’aumento della popolazione penitenziaria. Da un lato, per un gioco combinato di fattori: più di un reato su quattro tra quelli iscritti alla popolazione straniera rientra nella categoria degli stupefacenti, dall’altro per l’elevato numero di carcerazione a seguito della inottemperanza all’ordine di espulsione da parte dei migranti. Dunque le cause del collasso del sistema penitenziario italiano «hanno un nome e un cognome», come è stato efficacemente sottolineato: si chiamano «legge Bossi-Fini […]. Legge Fini-Giovanardi […]. Legge Cirielli»[110]. Tale giudizio, tuttavia, va oggi parzialmente rivisto alla luce degli interventi di riforma più recenti, di cui diremo.

Da ultimo, un dato fondamentale viene sottolineato nella letteratura criminologica: ad una sostanziale stabilità degli indici di criminalità negli ultimi decenni ha sempre corrisposto una notevole variazione della punitività e dunque i tassi di incarcerazione non si spiegano in ragione dei tassi di criminalità bensì in ragione di variabili sociali e politiche[111]. E’ a queste variabili, dunque, che occorre volgere l’attenzione.

A fronte della rilevazione scientifica dei molteplici fattori che contribuiscono a rendere conto dell’aumento esponenziale della popolazione carceraria italiana, infatti, le risposte politiche, ovvero le risposte che il legislatore italiano ha posto sul terreno, sono state molte, ma spesso frammentate e di segno opposto.

Anche se, come è stato autorevolmente affermato «mai, dal 1975 ad oggi, si è offuscata nel legislatore la consapevolezza che in tanto la pena detentiva può risultare rispettosa di standard minimi di umanità e di civiltà – e poi, eventualmente, risultare anche capace di ‘rieducare’ il condannato – in quanto si riesca a mettere sotto controllo il problema del sovraffollamento carcerario»[112].

 

 

5. – Conclusioni. Il carcere come ultima ratio. Per un ritorno alla centralità della rieducazione

 

Il quadro delineato alla luce delle acquisizioni criminologiche ci induce innanzitutto a sollecitare la magistratura ad operare nelle seguenti molteplici direzioni: ricorrere maggiormente alla sospensione condizionale della pena (anche se secondo alcuni non bisognerebbe abusarne ulteriormente), ridurre il più possibile il ricorso a pene di lunga durata, esercitando nel contempo un maggiore self-restraint nel ricorso alla custodia cautelare in carcere, e consentendo all’opposto, in presenza dei requisiti di legge (anche nei confronti di soggetti che scontino il residuo di pena), un maggior accesso alle misure alternative alla detenzione, prima fra tutte l’affidamento in prova al servizio sociale.

Tutto ciò sotto il profilo prasseologico.

Tale aspetto tuttavia non può andar disgiunto da profonde riforme legislative, perché è solo il legislatore che può porre fine alle distorsioni più evidenti del nostro sistema di giustizia penale, evidenziate dalla scienza penalistica italiana e dalla giurisprudenza europea.

Pur consapevoli della assenza di soluzioni magiche capaci di porre fine in tempi brevi ad un problema complesso, quello del sovraffollamento carcerario ed alla crisi del sistema penitenziario, che ha radici lontane e che ci accomuna ad altri Paesi (penso agli Stati Uniti in primis), se volessimo pensare ad una agenda politica, essa non potrebbe non aprirsi, a nostro avviso, ancora e comunque con una voce su tutte: “reinvenzione della rieducazione”[113].

Ci pare, innanzitutto, prioritario che a livello legislativo sia riaffermata la centralità e il primato della funzione rieducativa della pena, costituzionalizzata ad opera dell’art. 27, comma 3 della Costituzione. Come sottolineato dalla dottrina più illuminata, l’attuale situazione di crisi dell’istituzione penitenziaria potrebbe indurci a prendere «commiato» dall’idea rieducativa. Al contrario, ci appare prezioso il monito di tale dottrina verso una riaffermazione dell’idea rieducativa e trattamentale, quale «freno – magari insufficiente, ma comunque utile – alla degenerazione delle istituzioni verso forme di inciviltà giuridica», «una spinta antitetica rispetto alle ricorrenti tentazioni di imbarbarimento dei sistemi penitenziari»[114].

Ecco che in nome di una “reinvenzione” dell’idea rieducativa e della sua spinta propulsiva, il legislatore dovrebbe intervenire su quelle preclusioni normative che oggi, sulla base del tipo d’autore, non consentono a molti detenuti l’accesso alle misure alternative alla detenzione: rimuovere le preclusioni introdotte dalla legge c.d. ex Cirielli, dai diversi pacchetti sicurezza, dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario favorirebbe senz’altro la deflazione carceraria.

Soprattutto, come sommessamente suggerito dalla Corte EDU, in definitiva, sarebbe opportuno un più ampio e generalizzato ricorso alle alternative al carcere.

Nel contempo, la riforma legislativa non può non interessare le due aree critiche della penalità in Italia: la normativa in materia di stranieri e la normativa in materia di sostanze stupefacenti (che rispondono ai nomi della legge Bossi-Fini e della legge Fini-Giovanardi).

E’ significativo che in questa stessa direzione si sia posto il Consiglio Superiore della Magistratura nel documento redatto dalla Commissione Mista, dal medesimo istituita per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza e per elaborare proposte di intervento sul piano ordinamentale, organizzativo e normativo, idonee ad affrontare la criticità della situazione carceraria in Italia. Nella relazione della Commissione Mista, presentata a Roma il 21 novembre 2011, si evince come centrale si ritenga la creazione di condizioni favorevoli ad «un sistema rispettoso del dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sui diritti e la dignità della persona», attraverso interventi di carattere normativo che tocchino, appunto e in primo luogo, il settore delle c.d. preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari poste ai condannati per delitti di particolare allarme sociale ed ai soggetti recidivi qualificati[115].

Nel contempo, prosegue la commissione, andrà riformata la disciplina delle misure cautelari personali per ricondurle al principio dell’extrema ratio (come adombrato dalla Corte EDU nella sentenza Torreggiani) e soprattutto, accanto alla riforma dell’ordinamento penitenziario, del codice penale e del codice di rito, andrà primariamente riformata la disciplina in materia di stupefacenti e di immigrazione: l’insieme di tali riforme, chiarisce l’organo nato in seno al C.S.M., consentirebbe in termini di proiezione un calo del flusso annuale in entrata stimabile fra le 15.000 e le 20.000 unità. Si sottolinea inoltre che il decremento, in futuro, dell’afflusso carcerario dovrebbe essere superiore, considerata la provata riduzione della recidiva cui le misure alternative alla detenzione conducono. Sotto il profilo delle “buone prassi” si pone in primo piano l’adeguamento delle strutture penitenziarie e delle modalità trattamentali, nonché la presa in carico dei detenuti tossicodipendenti[116].

Non si dimentichino, da ultimo, gli appelli della società civile. Sono state numerose infatti le iniziative provenienti dal mondo dell’associazionismo volte a proporre riforme profonde del sistema penitenziario.

Mi riferisco in particolare ai disegni di legge su tortura, carceri e droghe presentati dalla Associazione Antigone, una associazione a tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Si legge, nella Relazione introduttiva ai tre disegni di legge, una testimonianza tangibile dello stato di degrado dell’istituzione penitenziaria italiana all’epoca della condanna europea delle nostre carceri: «in questo momento vi sono 22 mila detenuti in più rispetto ai posti letto regolamentari. […]. Il sistema è fuori controllo. I detenuti dormono per terra. Non vi sono più spazi comuni. Oziano spesso nelle loro celle per oltre 20 ore al giorno rendendo evanescente la funzione rieducativa della pena. Il personale vive una condizione di forte sofferenza»[117].

Le norme della proposta di legge, frutto del lavoro condiviso di molte associazioni, mirano a contrastare in modo sistemico il sovraffollamento agendo su quelle leggi – le abbiamo nominate – che producono carcerazione senza produrre sicurezza. La prima proposta mira a colmare una rilevante lacuna del nostro ordinamento giuridico, ossia l’assenza del crimine di tortura. Nonostante la ratifica da parte del nostro Paese della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel dicembre del 1984, mancava infatti nel codice penale una previsione di tale grave delitto. La proposta che intende inserire nel codice penale tale delitto è divenuta oggi legge: sono previste pene fino a dodici anni per il reato in oggetto. Una legge, non solo imposta dagli obblighi internazionali assunti dall’Italia, ma anche espressione di un Paese autenticamente democratico[118].

Nel contempo la proposta di legge proveniente dalla società civile intende porre in atto molte delle riforme sin qui discusse: la predisposizione di un sistema di misure cautelari concepito come extrema ratio, una drastica riscrittura della legge c.d. ex Cirielli, l’abolizione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, l’introduzione della sospensione con messa alla prova. Infine tale proposta interviene nella direzione di una contrazione della penalizzazione della criminalità connessa agli stupefacenti, responsabile, come sì è visto, in larga misura della carcerizzazione italiana.

Se la maggioranza della letteratura penalistica italiana concorda su questi interventi normativi e organizzativi, in tempi più recenti anche il legislatore italiano ha finalmente mostrato di accogliere le indicazioni provenienti dalla dottrina e dalla magistratura, nonché dalla società civile.

In particolare, occorre segnalare come si sia intervenuti, anche in seguito alla messa in mora attuata dalla CEDU, sia sul versante dell’aumento della capienza degli istituti, sotto il profilo dell’ampliamento delle strutture carcerarie, sia sull’istituto della custodia cautelare in carcere, sia su quello delle misure alternative alla detenzione, nonché sul terreno della legislazione in materia di stupefacenti[119].

Sul versante della misure cautelari da concepire quali extrema ratio, il decreto legge n. 78 del 2013 ha contribuito a innalzare il limite di applicabilità della custodia cautelare in carcere da quattro a cinque anni (art. 280, c. 2 c.p.p.), così come il decreto legge n. 92 del 2014 ha sancito il principio secondo il quale la custodia cautelare in carcere non potrà essere applicata laddove il giudice ritenga che all’esito del giudizio la pena irrogata non supererà il limite dei tre anni; infine la legge n. 47 del 2015 ha modificato gli artt. 274 e 275 c.p.p. al fine di privilegiare le altre misure cautelari rispetto al carcere.

Quanto alle misure alternative alla detenzione, da privilegiare nella lotta al sovraffollamento carcerario e quali strumenti espressione dell’idea rieducativa, si segnalano numerose novità: significativamente, accanto ad una nuova ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale per pene non superiori a quattro anni, al potenziamento dell’affidamento in prova terapeutico (concedibile più di due volte) e della liberazione anticipata, è stato posto rimedio parziale alle preclusioni previste per i soggetti recidivi nell’accesso alle misure alternative: il recidivo reiterato è stato ammesso a fruire della detenzione domiciliare ex art. 47 ter, c. 1 ord. pen. in caso di pena inflitta fino a quattro anni (decreto legge n. 78 del 2013); inoltre l’art. 656 c.p.p. è stato modificato nel senso di ammettere anche i recidivi reiterati alla sospensione dell’esecuzione, la cui operatività è stata ulteriormente ampliata.

E’ soprattutto sul terreno della legislazione in materia di stupefacenti che sono state introdotte novità significative: è stato infatti rimodulato il trattamento sanzionatorio della detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti laddove il fatto sia di lieve entità. Tale ipotesi è stata configurata quale reato autonomo e sottratta dunque al giudizio di bilanciamento come accadeva in precedenza quando era invece inquadrata come circostanza attenuante, circostanza tuttavia incapace di mitigare il trattamento sanzionatorio assai rigoroso (da 6 anni a 20 anni di reclusione) per le ipotesi di lieve entità, figura autonoma che prevede oggi una cornice edittale da 6 mesi a 4 anni.

Da ultimo, in questa materia, si è assistito alla dichiarazione d’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi[120] con conseguente reviviscenza della disciplina previgente, la legge Iervolino-Vassalli: ciò ha comportato il ritorno ad un trattamento più mite per le condotte relative alle c.d. droghe leggere rispetto alle c.d. droghe pesanti, in precedenza equiparate nella previsione della legge Fini-Giovanardi.

Se questi provvedimenti insieme rendono conto della recente flessione nella popolazione penitenziaria più sopra segnalata – tanto che, nel 2016, l’Italia ha ottenuto l’approvazione del Consiglio d’Europa sul versante del sovraffollamento carcerario – altre recenti novità legislative sono state introdotte in funzione deflattiva. Mi riferisco in particolare agli istituti della lieve tenuità del fatto nonché della messa alla prova, istituto sollecitato dalla stessa società civile.

I due istituti, introdotti rispettivamente negli artt. 131-bis e 168-bis, ter e quater c.p., sono entrambi volti a superare la dimensione carcerocentrica del nostro sistema sanzionatorio. Il primo, previsto ad opera del decreto legislativo n. 28 del 2015, attuativo della legge n. 67 del 2014, contenente “Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del processo con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”, è stato mutuato dalla giurisdizione minorile e del giudice di pace e si applica laddove l’offesa è di particolare tenuità e non vi sia abitualità del comportamento nel caso di reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta a pena detentiva. Benché sia discussa la natura giuridica, si ritiene dai più che si tratti di una causa di non punibilità, applicabile, come è stato osservato, ai c.d. reati bagatellari impropri, ossia reati astrattamente puniti severamente, ma in concreto bagatellari per i quali si rinuncia alla pena in nome di un principio di ultima ratio[121].

Quanto all’istituto della sospensione con messa alla prova, rispondente alle medesime finalità di deflazione processuale e di lotta alla centralità del carcere, viene previsto, sempre sull’esempio della omologa esperienza nel settore minorile, ad opera della legge n. 67 del 2014. L’istituto, a metà fra probation e divertion, ha una duplice natura sostanziale e processuale e sembra essere, trattandosi di una rinuncia alla pronuncia sulla responsabilità, un istituto dotato di una flessibilità capace di assolvere alla finalità rieducativa[122].

Non da ultimo, si sta facendo strada la stessa giustizia riparativa, i cui paradigmi, mettendo in dialogo la vittima con l’autore di reato, rispondono a pieno all’idea rieducativa[123].

E’ significativo che la recente delega al governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario (legge 23 giugno 2017, n. 23) vada nelle molteplici direzioni qui indicate: centralità della rieducazione (su cui si erano pronunciati decisamente anche gli Stati Generali per la riforma dell’esecuzione penale in Italia); revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale; revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni; eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato, nonché revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale; previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative[124].

In altre parole, dalle recenti riforme legislative, sollecitate dalla giurisprudenza, dalla letteratura penalistica, dagli organi della magistratura e dagli appelli d’iniziativa sociale, nonché dalla recente delega, emerge un dato su cui la dottrina penalistica, impegnata sul terreno della teoria della pena, riflette da tempo: la necessità di abbandonare una “monocultura detentiva”[125] che si risolve nel nostro sistema penale, come abbiamo evinto dal quadro criminologico, nei confronti dei soggetti socialmente più deboli[126].

Come è stato sottolineato, si deve ritenere che il monopolio carcerario non faccia più parte della cultura penalistica. Non solo in ragione del sovraffollamento carcerario, ma in ragione del principio di umanizzazione della pena che è una tendenza di lungo periodo che va di pari passo con le generali condizioni di vita sociali: migliorando queste ultime, anche l’afflittività relativa della pena aumenta[127].

Non a caso si stanno facendo nuovamente avanti, come già negli anni settanta, proposte abolizionistiche, proposte che, alla luce delle considerazioni svolte in precedenza, non possono stupire[128].

Come è stato affermato di recente: «mai come oggi la pena carceraria si trova ad essere ‘contestata’ in modo così radicale. Nonostante che l’opinione pubblica e, cavalcandola, la politica siano ancora le due grandi sostenitrici dell’utilità e della centralità del carcere, la scienza giuridica, non solo penalistica, negli ultimi anni sta portando avanti una riflessione volta a mettere in evidenza gli enormi limiti e le profonde contraddizioni che contraddistinguono il carcere auspicandone una applicazione soltanto come extrema ratio»[129].

In tale prospettiva, sono state avanzate proposte per un graduale superamento del carcere, un carcere considerato, come emerge dal dato criminologico, espressione di “un diritto penale escludente” (come evidenziato dallo stesso David Garland), in quanto strumento espulsivo, piuttosto che di un “diritto penale inclusivo”, imposto dal costituzionalismo moderno e in particolare dal finalismo rieducativo[130].

Come osservava Pavarini: «la letteratura penologica conviene su un punto decisivo. Il solo spazio di riformabilità del carcere è quello offerto da una prospettiva politica orientata se non al definitivo superamento della pena privativa di libertà, certo ad una sua progressiva riduzione (qualitativa e quantitativa) nelle politiche penali»[131].

Per quanto condivisibili gli spunti in prospettiva abolizionistica, tuttavia, non si può negare la necessaria consapevolezza che la rinuncia al carcere è allo stato un’utopia in ragione delle esigenza di sicurezza, specie a fronte di gravi forme di criminalità, che ancora permangono nella società post-moderna.

Ecco perché in ottica non più carcerocentrica e nella prospettiva di un carcere come ultima ratio, occorre mettere mano alla riforma del sistema delle sanzioni. La riforma dell’istituzione carceraria nell’ordinamento italiano non potrà prescindere – è evidente – da una più ampia riforma del nostro sistema sanzionatorio, unanimemente riconosciuto come ineffettivo e affetto da una profonda crisi, dominato da una persistente centralità della pena detentiva, anche di breve durata, nonché da una ingiustificata vitalità, i dati empirici lo dimostrano, dell’ergastolo[132]. In questo senso si esprime chi rileva che «a fianco del principio illuministico del diritto penale come extrema ratio […], ad anni di distanza si è affermato dunque l’ulteriore principio del carcere inteso come extrema ratio di sanzione penale, utilizzabile soltanto nei confronti dei reati più gravi e degli autori di reati pericolosi […]. Sulla base di questo orientamento occorrerebbe pensare ad un profondo rinnovamento della tipologia sanzionatoria dei reati […]. Una attività complessa, difficile anche perché non siamo forse sufficientemente preparati da un punto di vista culturale per tale profondo cambiamento di sistema»[133].

Lontana da noi ogni pretesa di volere approfondire in questa sede un tema di tale portata, ci limitiamo a raccogliere il suggerimento di chi autorevolmente sottolinea la necessità, in un’ottica non più carcerocentrica, di potenziare l’impiego di pene principali alternative quali la detenzione domiciliare, le pene interdittive, le pene prescrittive e pecuniarie (oltre, a nostro avviso, il lavoro di pubblica utilità e la confisca), significativamente sottratte ai benefici sospensivi al fine di garantirne l’effettività[134].

Tuttavia, non si può sottacere che la tendenza politica a seguire anziché precedere la volontà della maggioranza costituisce, molto spesso, nel nostro Paese (come in altri) un forte ostacolo all’esercizio della creatività sanzionatoria e al potenziamento delle sanzioni già presenti nel nostro ordinamento, efficacemente implementate in ordinamenti stranieri, ma ineffettive quando calate nella prassi ordinamentale italiana.

Sotto questo profilo, a noi pare ancora attuale e prioritario il monito che spendemmo in altra sede a favore di una “rinascita” della pena pecuniaria ([135] ), tradizionale strumento per il contrasto alle pene detentive brevi, e pena principe nell’ambito dell’ordinamento tedesco e negli altri Paesi europei: davvero non si comprende come il legislatore italiano, a fronte dei pregi indiscussi della sanzione in danaro, possa pensare di rinunciarvi in assoluto, come adombrato da una parte della dottrina in nome del diritto penale minimo[136], e di non rifondare il sistema sanzionatorio su tale strumento sanzionatorio la cui graduabilità e redditività (nella forma della pena pecuniaria per tassi giornalieri), oltre che efficacia in relazione all’alto valore attribuito al denaro nella società odierna, sono indiscusse[137].

In definitiva, se i provvedimenti di riforma legislativa più recenti sopra esaminati sono serviti a far sì che la “prepotente emergenza” rientrasse[138], affinché l’“essere” della pena detentiva tornasse almeno in parte a rispondere al suo “dover essere”, e, lasciata in sospeso una prospettiva abolizionista tout court, nella consapevolezza di una sua impraticabilità in tempi brevi, pur nell’ottica di un carcere come ultima ratio, resta aperto un interrogativo di fondo: come attuare la rieducazione?

“Reinvenzione della rieducazione”, dicevamo. Come sottolineato nel documento di sintesi degli Stati Generali per la riforma dell’esecuzione penale in Italia, si tratta di individuare un «modello di esecuzione penale costituzionalmente ispirato alla finalizzazione rieducativa della pena»[139] che pone al centro delle dinamiche esecutive l’uomo-condannato per promuoverne il processo di ricollocazione nel contesto della società libera. Come affermato, «una rivoluzione copernicana» che vede le pene adattate al recupero sociale del condannato e non già quest’ultimo ad essere assoggettato all’esecuzione penale[140]. In altre parole, anche in carcere, il trattamento non deve solo essere scevro da violazioni del canone di umanità, ma deve essere strutturato quale momento di preparazione al rientro del condannato nella società libera.

Uno dei primi passaggi in tale direzione, come emerge dalla recente delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, deve essere quello di restituire al detenuto la dignità della persona, primo presupposto del processo rieducativo[141]. Tale profilo può essere garantito attraverso il rispetto della affettività e della personalità di ciascun condannato. La legge delega prevede in tal senso la disciplina dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi (oltre che a fini processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa) per favorire le relazioni familiari e il riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e la disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio. Nell’ottica di un maggiore adeguamento della vita carceraria alla vita extracarceraria, questo profilo assume rilievo centrale. Sempre in quest’ottica, rilevante appare la previsione di norme che favoriscano l’integrazione delle persone detenute straniere e l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età nonché di quelle specifiche delle donne detenute. La stessa delega poi esplicitamente contempla la previsione di norme volte al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, la sorveglianza dinamica.

Un secondo nevralgico passaggio attiene al lavoro[142]. Sempre dalla rilevazioni dell’Associazione Antigone emerge che solo il 20% dei detenuti ha la possibilità di lavorare nei penitenziari italiani e che l’investimento di risorse economiche destinate al lavoro penitenziario è sempre più scarso. Se l’inserimento lavorativo, come la criminologia ci avvisa, spezza la catena della recidiva[143], è in questa direzione che si deve procedere, non senza un serio appello alla società civile. Non a caso, la recente delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario recita: «incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia intramurario sia esterno, nonché di attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna», nonché «previsione di una maggiore valorizzazione del volontariato sia all’interno del carcere, sia in collaborazione con gli uffici dell’esecuzione penale esterna».

Condividiamo infatti l’opinione di chi ritiene che «occorre farsi promotori dell’idea che non sia compito del solo sistema penale farsi carico del problema – sicurezza, ma dell’intera Comunità[144], nella consapevolezza che ogni vittima della recidiva sia una sconfitta di tutti»[145]. Come sottolineava Baratta, «la vera rieducazione dovrebbe cominciare dalla società prima che dal condannato: prima di voler modificare gli esclusi occorre modificare la società escludente, giungendo così alla radice del meccanismo di esclusione». Da questa via, a nostro avviso, passa la difficile “reinvenzione della rieducazione”, o, più realisticamente, la sua mai pienamente realizzata attuazione.

Alla luce delle recenti riforme citate e dell’orientamento della legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, si può ritenere corretto il giudizio secondo il quale «ad oggi, può dirsi che il legislatore italiano ha imboccato la strada giusta: lo ha fatto sia proseguendo sulla linea inaugurata nel 1975 con la legge sull’ordinamento penitenziario, sia intervenendo su normative di settore particolarmente significative per il loro impatto sul carcere»[146]. In altre parole, come è stato affermato con riferimento al Documento finale degli Stati Generali: «Si, la rotta è segnata»[147].

 

 

Abstract

 

The essay outlines, as a portrait, the image of prison in the literature, beginning from 500’s to the contemporary literature: from Tasso to Marino, from Leopardi to Manzoni, from Pascoli to Pirandello, from Buzzati to Gramsci, from Pavese to Calvino, with an hint, in the foreign language literature, to the thinking of Giacomo Casanova and Oscar Wilde, drafting furthermore the history of prison, from its origin, or better from its “invention”, to the actual epilogue of the “total institution”, uphold by the criminological research and the statistical data. The study concludes with an analisys of the recent reforms in penitentiary matter suggesting, in a no more prison-centered perspective, a “qualitative and quantitative reduction” of prison and pronouncing for a “reinvention of rehabilitation”, or better for her actualization, never fully realized.

 

Il saggio tratteggia, a mò di schizzo, l’immagine del carcere nella letteratura, a partire dal ‘500 sino alla letteratura contemporanea: dal Tasso al Marino, da Leopardi a Manzoni, da Pascoli a Pirandello, da Buzzati a Gramsci, da Pavese a Calvino, con un accenno, nella letteratura di lingua straniera, al pensiero di Giacomo Casanova e Oscar Wilde, per poi delineare la storia del carcere, dalla sua nascita, o meglio dalla sua “invenzione”, sino all’epilogo odierno dell’“istituzione totale”, decretato dalla ricerca criminologica e dai dati statistici. Lo studio si conclude con una analisi delle recenti riforme in materia carceraria auspicando che, in un’ottica non più carcero-centrica, si giunga ad una “riduzione quantitativa e qualitativa” del carcere, pronunciandosi per una “reinvenzione della rieducazione”, o meglio per la sua attuazione, mai pienamente realizzata.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

* Il presente lavoro costituisce il testo, aggiornato e riveduto, della relazione tenuta nell’ambito del Laboratorio di Diritto e Letteratura, istituito presso l’Università degli Studi di Sassari, Dipartimento di Giurisprudenza, in data 27 aprile 2017.

 

[1] M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris 1975, trad. it. di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1976, 253: «La prigione: una caserma un po’ stretta, una scuola senza indulgenza, una fabbrica buia, ma, al limite, niente di qualitativamente diverso»; E. Goffman, Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, New York 1961, trad. it. di F. Basaglia, Asylums. Le istituzioni totali: la condizione sociale dei malati di mente e di altri internati, Torino 1968. Scrive Goffman: «un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato. Prenderemo come esempio esplicativo le prigioni nella misura in cui il loro carattere più tipico è riscontrabile anche in istituzioni i cui membri non hanno violato alcuna legge». Prosegue Goffman individuando le istituzioni totali nella nostra società secondo cinque categorie: alla prima appartengono quelle istituzioni nate a tutela degli incapaci non pericolosi (istituti per ciechi, vecchi, orfani o indigenti); alla seconda quelle istituzioni deputate ad accogliere soggetti non intenzionalmente pericolosi per la comunità (sanatori per tubercolotici, ospedali psichiatrici e lebbrosari); alla terza le istituzioni finalizzate a proteggere la società da soggetti intenzionalmente pericolosi (prigioni, penitenziari, campi per prigionieri di guerra, campi di concentramento); alla quarta istituzioni create al solo fine di svolgervi un’attività (furerie militari, navi, collegi, campi di lavoro, piantagioni coloniali e grandi fattorie); alla quinta appartengono le istituzioni deputate alla formazione per religiosi (abbazie, monasteri, conventi ed altri tipi di chiostri). Ibidem, 29, 34-35.

 

[2] G. Traina-N. Zago, Carceri vere e d’invenzione dal Tardo Cinquecento al Novecento, Acireale-Roma 2009, 9.

 

[3] Ibidem.

 

[4] La scelta di studiare il carcere nelle opere di questi soli autori è convenzionale, nella consapevolezza che nel panorama letterario italiano e straniero molti altri letterati hanno, sotto diverse angolazioni, affrontato il tema dell’esperienza carceraria, oltre che della giustizia penale nel suo complesso. Per citarne solo alcuni in ordine sparso si pensi, nella letteratura italiana, a Antonio Veneziano, Paolo Maura, Giovan Guglielmo Bonincontro, Giacinto Manara, Vittorio Alfieri, Giovanni Gambini, Silvio Pellico, Carlo Levi, Leone Ginzburg, Gesualdo Bufalino; nella letteratura straniera non si può non citare quantomeno Franz Kafka, Fedor Dostoevskij, William Shakespeare, Victor Hugo, Charles Dickens. Si rimanda, per la disamina del tema in alcuni di questi autori, ai volumi a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A. Visconti, Giustizia e letteratura, Milano, vol. I 2012, nonché vol. II 2014, e vol. III 2016.

 

[5] T. Tasso, Lettere, a cura di C. Mazzali, Torino 1978, tomo I, 144-145. Cfr. sul pensiero dell’autore, P. Guaragnella, “Io sono tanti anni prigione e infermo”. Torquato Tasso tra carcere e malinconia, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 15.

 

[6] Così T. Tasso, Lettere, cit., 201.

 

[7] Sul pensiero del poeta, cfr. T. Mattioli, Giovan Battista Marino. Una poetica dal carcere, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 107 ss.

 

[8] Ibidem, 114-5; 118-119.

 

[9] Ibid., 119.

 

[10] G. Ruozzi, Tempi e forme, realtà e invenzioni carcerarie di un grande fuggitore: la fuga dai Piombi e altre prigioni di Giacomo Casanova, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 211 ss.

 

[11] Id., cit., 225 ss.

 

[12] Cfr. sull’opera di Leopardi e in particolare sull’epistolario del poeta e sulla corrispondenza con Giordani, F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna, Torino 1969, 75 ss. Scrive Leopardi a Giordani, «La terra è piena di meraviglie ed io di diciotto anni potrò dire: In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato». Ivi, 385. Cfr. sul tema altresì E. Benucci, “E io mi dispero proprio…che mi tocca vivere in questo carcere”: Giacomo Leopardi a Pietro Giordani, Recanati 27 novembre 1818, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 247 ss.

 

[13] Ibidem, 250.

 

[14] Così Id., op. cit., 258.

 

[15] G. Palazzolo, Figure di claustrazione nella scrittura di Alessandro Manzoni, in G. Traina-N. Zago, cit., 323. Si veda A. Manzoni, I promessi sposi, ed. Istituto italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1943, Cap. XXI, 214 s., con riferimento al carcere metaforico dell’Innominato durante la conversione: «Un qualche demonio ha costei dalla sua  pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile su una parte del pavimento, dove il raggio della luna entrando da una finestra alta, disegnava un quadro di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate […]». Sul tema altresì V. Camarotto, Metafore e lessico della prigionia in Alessandro Manzoni, 177 ss., al sito https://basnico.files.wordpress.com.

 

[16] M. Tropea, Voci e sogni di prigione: carceri di Giovanni Pascoli e di Dino Campana, in G. Traina-N. Zago, cit., 397.

 

[17] Ibidem, 399.

 

[18] Ibid., 403. Così come vi medita nel romanzo Nel carcere di Ginevra (1899).

 

[19] D. Campana, Canti Orfici, F. Ravagli, Marradi 1914, 48 ss., cfr. altresì ib., 409. Cfr. sull’opera dell’autore, A. Asor Rosa, “Canti orfici” di Dino Campana, in Letteratura Italiana Einaudi, Vol. IV.I, Torino 1995, 38 ss.

 

[20] Cfr. S. Arcara, Wilde ‘in carcere et vinculis’: individualismo e reinvenzione del sé, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 432.

 

[21] O. Wilde, De Profundis, trad. it. di C. Salvago Raggi, Milano 2006, 99. Cfr. altresì ibidem, 440.

 

[22] «Debbo far si che tutto ciò che mi è accaduto sia un bene per me. Il tavolaccio, il cibo ributtante, […] i compiti umilianti con cui inizia e finisce ogni giornata, la divisa squallida che rende il dolore grottesco a vedersi, il silenzio, la solitudine, la vergogna, tutto questo io debbo trasformare in un’esperienza spirituale». Id., op. ult. cit., 83-84.

 

[23] Vedi G. Nicastro, Tribunali e carcere nel teatro di Luigi Pirandello, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 457-458.

 

[24] D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, a cura di A. Garancini Costanzo, Milano 2001. Cfr. sull’opera di Dino Buzzati, G. Fricano, La fortezza incantatrice e l’autoreclusione ne Il deserto dei Tartari, ibidem, 493.

 

[25] A. Gramsci, Lettere dal carcere, 1926-1937, a cura di A. A. Santucci, Palermo 1996; cfr. sull’opera A. Manganaro, Il cono d’ombra delle Lettere dal carcere, in G. Traina-N. Zago, op. cit., 507.

 

[26] Cfr. A. Sichera, Il ‘carcere’ di Pavese, in Id., op. cit., 532.

 

[27] Si veda sull’autore M. Italia, “Capire come è fatta la prigione”. Ipotesi di evasione creativa in Calvino, in Id., op. cit., 587; nonché I. Calvino, Il Conte di Montecristo, in I. Calvino, Romanzi e racconti, Milano 2005, 344 ss.; v. altresì M. Róth, Realtà, finzione e riscrittura: il labirinto della letteratura nel Conte di Montecristo di Calvino, 2008, 287 ss., al sito  real.mtak.hu/14271/1/21_Roth.pdf.

 

[28] M. Foucault,  op. cit., 251 ss.

 

[29] Sin dall’antica Roma nelle prigioni erano rinchiusi detenuti in attesa di giudizio e criminali condannati che aspettavano l’esecuzione del verdetto; il carcere come pena era ignoto sia ai Romani che agli Ateniesi. Quale pena limitativa della libertà di movimento primeggiava una pena assimilabile ai lavori forzati. Cfr. sul tema ampiamente J. U. Krause, La criminalità nel mondo antico, Roma 2006, 69-70.

 

[30] Nel sistema di produzione pre-capitalistico il carcere concepito come espiazione della pena non esisteva. Non era il carcere ad essere ignorato dalla società feudale, ma l’idea stessa della privazione della libertà personale. Cfr. C. Bolzoli, C. A. Romano, Attualità ed opportunità delle alternative al carcere fra diffidenze e risorse del territorio, in Rass. It. Crim., 2009, n. 2, 214.

 

[31] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di R. Fabietti, Milano 1973, par. XXVII, 74 ss., dedicato alla dolcezza delle pene. Sul punto, anche in un’ottica attenta ai diritti umani, sia consentito il rinvio a L. Goisis, The Human Right to Mild Punishment, in L. Goisis-Q. Berisha, Un percorso di studio sui diritti umani, Bergamo 2011, 55 ss.

 

[32] D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Milano 2002, 21, nonché C. Bolzoli, C. A. Romano, op. cit., 214.

 

[33] M. R. Weisser, Criminalità e repressione nell’Europa moderna, trad. it. di D. Panzieri, Bologna 1989, 145. Sul tema della carcerazione preventiva in chiave storica, v. F. Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Roma-Bari 1986, 98 ss.

 

[34] D. Melossi, op. cit., 21.

 

[35] Sulla nascita del carcere, si veda l’ampio e lucido inquadramento di D. Melossi, op. cit., 21 ss., 22 per la citazione.

 

[36] Sulla natura polifunzionale della rasphuis, luogo di detenzione e al tempo stesso di casa di lavoro, casa di correzione per fanciulli e ricovero per anziani, si veda L. Tedoldi, La spada e la bilancia. La giustizia penale nell’Europa moderna (secc. XVI-XVIII), Roma 2008, 172 ss. Quanto al pensiero di Thorsten Sellin, v. T. Sellin, Confllict Culture and Crime, New York 1938, nonchè Id., Pioneering in Penology, Philadelphia 1944.

 

[37] Cfr. M. R. Weisser, op. cit., 145 s. Dell’uso classista del carcere e della composizione sociale della sua popolazione sino a tempi recenti testimonia E. Fassone, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Bologna 1980, 9. Scrive l’A. infatti: «L’uso classista del carcere e la composizione sociale della sua popolazione non sono stati intaccati».

 

[38] L. Goisis, Fattore razziale e giustizia penale, Tesi di dottorato, Università di Pavia, 2005, 175. Ivi per una disamina del William Penn’s Great Act del 1682.

 

[39] Su mandato di Maria Teresa d’Austria, il Piermarini progettava il completamento della Casa di Correzione a Porta Nuova, che aveva un solo cortile. Nel 1786 il Piermarini progettava un secondo ampliamento dell’edificio.

 

[40] Come si evidenzia nella letteratura criminologica, solo quando la società pone al centro della propria organizzazione il concetto di libertà, può avvenire che la pena privativa della libertà assuma significato. E’ questa la lettura che ne danno Melossi e Pavarini. Cfr. D. Melossi, op. cit., 23-4.

 

[41] J. Bentham, Panopticon, Venezia, 1983, 40 ss. Tale struttura architettonica si ritrova spesso anche nelle prigioni contemporanee.

 

[42] Così D. Melossi, op. cit., 24. Il presupposto di una tale teorizzazione riposa su di una società che, per la prima volta, pone il concetto di libertà al cuore della propria organizzazione: e al contempo, «l’idea di libertà, e quindi di libera scelta, è essenziale a quella di contratto. E l’idea di contratto è costitutiva della società moderna, sia dal punto di vista politico, […] attraverso il mito del contratto sociale, sia dal punto di vista del modo di produzione, tramite l’elaborazione dell’idea che si troverà poi al centro del contratto di lavoro […]. E’ solamente in questo tipo di società che può accadere che la pena venga concepita come ‘pena privativa della libertà’». Ibidem. Cfr. altresì G. Rusche-O. Kirchheimer, Punishment and Social Structure, New York, 1939, trad. it. di Melossi-Pavarini, Bologna 1978, 47.

 

[43] C. Bolzoli, C. A. Romano, op. cit., 218.

 

[44] M. R. Weisser, cit., 148, 150.

 

[45] Per questa puntualizzazione v. D. Melossi, op. cit., 23 ss.

 

[46] G. Rusche-O. Kirchheimer, Punishment and Social Structure, cit., 49 ss., 275 ss. Per esempio nel tardo Medioevo (XIV secolo), l’abbondanza di forza-lavoro comportò una legislazione penale molto repressiva caratterizzata dal prevalere di pene corporali e capitali, mentre nell’Alto Medioevo, la scarsità di forza-lavoro aveva condotto ad un uso più esteso delle sanzioni pecuniarie, nella forma del guidrigildo (Wergeld), che era la somma che veniva corrisposta ai famigliari della vittima in caso di omicidio in cambio della rinuncia di questi ultimi alla vendetta di sangue o faida. Ampiamente sul pensiero di Rusche e Kirchheimer, anche D. Melossi, cit., 22 ss. Sia consentito il rinvio altresì a L. Goisis, La pena pecuniaria. Un’indagine storica e comparata, Milano 2008, 11 ss. Sulla giustizia in era pre-moderna, si veda D. Guaglioni, La giustizia nel Medioevo e nella prima età moderna, Bologna 2004, 9 ss.

 

[47] Cfr. P. Di Ronza, Manuale di diritto dell’esecuzione penale, Padova 2003, 5 ss.

 

[48] E. Fassone, op. cit., 23 s.

 

[49] Tale regolamento non trovò tuttavia attuazione per lo stato di fatiscenza degli stabilimenti penitenziari.

[50] E. Fassone, La pena detentiva, cit., 39 s. 

 

[51] C. Lombroso, Palimsesti del carcere, Torino 1888, 5. 

 

[52] Sull’influenza della Scuola Positiva in relazione alla pena detentiva, si veda E. Fassone, op. cit., 23 ss. Quanto alle influenze della Scuola classica, ivi, 20 ss. Sulle varie correnti di pensiero sviluppatesi, anche in ragione dei mutamenti sociali, a partire dall’ultimo decennio del secolo: il socialismo giuridico, l’indirizzo psicologico, la Terza Scuola, l’idealismo penale, v. ibidem, 34 ss.

 

[53] Id., op. cit., 50 s.

 

[54] Così E. Fassone, op. cit., 32.

 

[55] Sia consentito il rinvio a L. Goisis, Del sovraffollamento carcerario, delle sue cause e dei possibili rimedi, in Studium Iuris, 2013, fasc. 12, 1329 ss.

 

[56] E. Fassone, La pena detentiva, cit., 54.

 

[57] Così Id., cit., 66.

 

[58] Per un quadro storico dell’evoluzione legislativa sulla pena di morte, si rinvia a L. Goisis, La revisione dell’art. 27, comma 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, fasc. 4, 1659 ss.

 

[59] Cfr. E. Fassone, cit., 67.

 

[60] Id., op. cit., 69.

 

[61] L’art. 21, nel testo approvato dalla Commissione Costituente, recitava infatti «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», testo poi trasfuso nell’art. 27, comma 3 della Costituzione. 

 

[62] Ibidem, 71.

 

[63] Cfr. L. Goisis, La revisione, cit., 1662 ss.

 

[64] Cfr. E. Fassone,  op. cit., 76.

 

[65] V. Id., cit., 84. Il pensiero del massimo esponente della nuova difesa sociale, Marc Ancel, si fa largo nell’ambito della sinistra, nonché dei moderati e dei cattolici, contribuendo a porre in secondo piano anche se non a soppiantare le teorie retributive. Cfr. M. Ancel, La dèfense sociale nouvelle, Cujas, Paris 1954, trad. it. La nuova difesa sociale, Milano 1966.

 

[66] E. Fassone,  op. cit., 89.

 

[67] Sulla concezione polifunzionale della pena espressa in quegli anni da G. Vassalli, v. Id., op. cit., 95.

 

[68] Ibidem, 96-7. Sottolinea Fassone come necessitino alcuni requisiti di fondo perché la rieducazione possa avere successo: «sostanziale monismo ideologico, accettazione diffusa dei modelli sociali e presunzione di collaborazione negli ‘educandi’».  Cfr. altresì C. Bolzoli-C. A. Romano, op. cit., 220 ss.

 

[69] E. Goffman, Asylums, cit., 35. «Uno degli aspetti sociali fondamentali nella società moderna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità o senza alcun schema razionale di carattere globale. Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita. Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito che le porta dall’una all’altra, dato che il complesso di attività è imposto dall’alto da un sistema di regole formali esplicite e da un corpo di addetti alla loro esecuzione. Per ultimo, le varie attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale, appositamente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione». Si veda altresì sul profilo dell’irreggimentazione del corpo e delle menti, l’opera di M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., 252 ss., come noto, tra le opere che ha molto influenzato la criminologia critica degli anni settanta, contribuendo alla messa in discussione dell’istituzione carceraria.    

 

[70] E. Goffman, op. cit., 36.

 

[71] E. Fassone, op. cit., 100.

 

[72] Per questa considerazione v. ibid.

 

[73] Cfr. D. Melossi, op. cit., 175 ss. Si veda, sulla criminologia critica, il testo dei maggiori esponenti di tale corrente: I. Taylor, P. Walton, J. Young, Criminologia sotto accusa, Rimini-Firenze 1975. Sulle teorie del conflitto e sulle diverse correnti della criminologia radicale e critica, sia consentito il rinvio altresì a L. Goisis, Giustizia penale e discriminazione razziale. Il soggetto “altro” dinanzi al diritto penale e alla criminologia. Atto I: il contributo della criminologia, in Dir. Pen. Cont., 2012, 11 ss.

 

[74] Così D. Pulitanò, Diritto penale, Torino 2005, 601.

 

[75] Ibidem.

 

[76] “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza, e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose” (art. 1).

 

[77] E. Fassone, op cit., 104.

 

[78] Cfr., citando le parole di Vittorio Grevi, E Dolcini, La rieducazione del condannato: un’irrinunciabile utopia? Riflessioni sul carcere, ricordando Vittorio Grevi, in Dir. Pen. Cont., 7 dicembre 2011, 1.

 

[79] Nella concezione normativistica di Kelsen il diritto è dover essere, cosicché l’effettività della sanzione è una condizione per l’esistenza del sistema. Sull’importanza di far luce sulla “prassi della pena” sia per lo studioso, sia per il futuro legislatore, si veda E. Dolcini, Pene detentive, pene pecuniarie, pene limitative della libertà personale: uno sguardo sulla prassi, in questa Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 97.

 

[80] E. Fassone, cit., 145. Prosegue lo studioso: «mentre la spinta realmente innovativa è circoscritta alla parte in cui il carcere viene sostituito con altre misure».

 

[81] Vedi supra, par. 1 e 2.

 

[82] Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, pubblicata in Dir. Pen. Cont., 9 gennaio 2013, con nota di F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno. Per un commento di tale decisione sia consentito il rinvio a L. Goisis, Del sovraffollamento, cit., p. 329 ss., nonché Id., Corte Costituzionale e overcrowding penitenziario, in Studium Iuris, 2014, fasc. 9, 994 ss.

 

[83] Riferisce le parole del Presidente Giorgio Napolitano, A. Pugiotto, Aprire le celle alla Costituzione, in A. Pugiotto-F. Corleone, Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere, Roma 2012, 232. E’ stata tuttavia la Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa importante “sentenza pilota”, a porre l’Italia dinanzi alle proprie responsabilità per l’emergenza del fenomeno del sovraffollamento carcerario che di questo scollamento fra pena “costituzionalmente dovuta” e pena reale è la principale causa. La sentenza Torreggiani – relativa al caso di sette ricorrenti detenuti nelle carceri italiane in condizioni di reclusione contrarie al senso di umanità – ha posto infatti in termini di ultimatum la questione del grave sovraffollamento carcerario che affligge cronicamente le istituzioni penitenziarie del nostro Paese. Cfr. in termini analoghi F. Fiorentin, Sullo stato della tutela dei diritti fondamentali all’interno delle carceri italiane, in Dir. Pen. Cont., 2013, 1. Con unanimità di consensi (dunque anche con la partecipazione del giudice italiano), la CEDU ha affermato, in relazione alle condizioni detentive delle carceri italiane, la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea il quale prevede il divieto della tortura e di pene o trattamenti inumani e degradanti. Dopo aver ricostruito le circostanze del caso concreto, e in particolare le condizioni di detenzione denunciate dai ricorrenti (spazi angusti al di sotto dei 3 metri quadrati, scarsa illuminazione, condizioni igieniche estreme) nonché il diritto interno e internazionale pertinente – in particolare le norme sull’ordinamento penitenziario e i rapporti generali del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, unitamente alle Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa Rec(99)22 e Rec(2006)2 –, la Corte riconosce, una volta ammessa la ricevibilità dei ricorsi, «che le condizioni detentive in questione, tenuto conto anche della durata della carcerazione dei ricorrenti, abbiano sottoposto gli interessati ad una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente la detenzione», dovendo così dirsi integrata la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea.

 

[84] Cfr. A. Baratta, Criminologia critica e critica del diritto, Bologna 1982, 185; ivi, per la letteratura criminologica sul carcere.

 

[85] Così Id., op. cit., 185-186 per le citazioni.

 

[86] Ibidem.

 

[87] E. Goffman, op. cit., 43 s.

 

[88] A. Baratta, Criminologia critica, cit., 187-8. 

 

[89] Ibidem. Per una conclusione in termini analoghi rispetto alla contraddizione intrinseca fra carcere (mezzo) e rieducazione (scopo), si veda R. Bartoli, Pericolosità sociale, esecuzione differenziata della pena, carcere (appunti “sistematici” per una riforma “mirata” del sistema sanzionatorio), in A.a.V.v, Libertà dal carcere, libertà nel carcere, Torino 2013, 416.

 

[90] Così R. Bartoli,  Il carcere come extrema ratio: una proposta concreta, in Dir. Pen. Cont., Riv. trim., 2016, fasc. 4, 8.

 

[91] Per tali dati risalenti ci si rifà a E. Dolcini, La rieducazione, cit., 3.

 

[92] Cfr. Dap, Statistiche, Detenuti presenti e capienza regolamentare degli istituti penitenziari per regione di detenzione, aggiornamento al 31 maggio 2017, al sito del Ministero di Giustizia. Come già emergeva dalla decisione Torreggiani, il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane a far data dal 2011 era pari – benché in lieve flessione rispetto al 2010 – al 148%. Cfr. Dap, Resoconto aggiornato dello stato del sistema penitenziario, Roma 19 settembre 2012, 1 e 3, pubblicato tra l’altro in Dir. Pen. Cont., 2012. Si veda inoltre per dati analoghi Dap, Caratteristiche socio-lavorative, giuridiche e demografiche della popolazione detenuta, Roma 2012, aggiornato al 31 dicembre 2012, sempre reperibile al sito www.penalecontemporaneo.it.

 

[93] E. Dolcini, ibidem. Si veda in tal senso anche M. F. Aebi-N. Delgrande, Così distante, così vicina: la situazione delle prigioni in Italia e in Europa, in Rass. It. Crim., 2011, n. 3, 73 ss.

 

[94] In particolare, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria mostra di essere ben consapevole della pendenza di numerosissimi ricorsi dinanzi alla Corte di Strasburgo che vedono l’Italia chiamata a rispondere di condizioni detentive contrarie al senso di umanità (art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo): come nel caso Sulejmanovic ove la Corte aveva riconosciuto, per la prima volta, la violazione da parte dell’Italia dell’art. 3 nei confronti del ricorrente costretto a vivere per due mesi e mezzo in una cella in cui disponeva di soli 2,70 metri quadrati e ciò in contrasto con le indicazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura ove l’indicazione è di uno spazio minimo di 7 metri quadrati. Analogamente la sentenza Torreggiani: il fatto stesso che i ricorrenti fossero tutti stati costretti a vivere in uno spazio uguale o inferiore a 3 metri quadrati non poteva condurre ad esiti diversi dal precedente caso Sulejmanovic. Anzi la Corte ha statuito, con la decisione Torreggiani, il principio secondo il quale la detenzione in uno spazio pari o inferiore a 3 metri quadrati integra automaticamente un trattamento inumano e degradante.

 

[95] Così G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale di Diritto penale, Parte generale, Milano 2017, 643.

 

[96] Cfr. G. Torrente, La popolazione detenuta in Italia tra sforzi riduzionisti e nuove tentazioni populiste, in Dir. Pen. Cont, 2016, 9 ss. Ivi, per dati sulla popolazione carceraria largamente coincidenti a quelli qui riferiti.

 

[97] Su tali aspetti si era pronunciata la stessa Corte EDU nella sentenza Torreggiani. Cfr. su dati similari G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale, cit., 640.

 

[98] Cfr. in senso analogo, P. Buffa, La profezia penitenziaria: se il carcere diventa un laboratorio sociale, in Rass. It. Crim., 2011, n. 3, 51 ss.

 

[99] Ci si permette di rinviare, sul tema, a L. Goisis, Giustizia penale e discriminazione razziale. Il soggetto “altro” dinanzi al diritto penale e alla criminologia, cit, 1-70. Si vedano inoltre i rapporti Space I e II del 2014 e del 2015: v. rispettivamente E. Dolcini, L’Europa in cammino verso carceri meno affollate e meno lontane da accettabili standard di umanità, in Dir. Pen. Cont., 2016, 1 ss.; nonché G. Mentasti, Carcere e sanzioni non detentive in Europa: i rapporti Space I e Space II 2015, in Dir. Pen. Cont., 2017, 1 ss.

 

[100] Tali dati si confermano a partire dal 2012, cfr. Istat, I detenuti nelle carceri italiane, Roma, 18 dicembre 2012, al sito www.istat.it., e sono aggiornati al 2016: v. Istat, Detenuti adulti presenti nelle carceri italiane, 2016.

 

[101] Sul punto, per un breve commento, G. Gatta, Carcere e recidiva: avviata una ricerca dal Ministero della Giustizia, in Dir. Pen. Cont., 2012, 1.

 

[102] Cfr. i dati della ricerca di G. Mastrobuoni-D. Terlizzese, Delle pene e dei delitti: condizioni carcerarie e recidiva, Università di Essex, Eife, pubblicato al sito http://www.prisonovercrowding.eu/., dati presentati in data 23 marzo 2015 presso l’Università Statale di Milano. Cfr. altresì D. Stasio-D. Terlizzese, Il carcere “aperto” aumenta la sicurezza, in Il Sole24ore, 29 maggio 2014.

 

[103] E. Dolcini, La rieducazione, cit., 5-6.

 

[104] Rispetto alla legge n. 199/2010, relativa alla esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a dodici mesi, il numero di detenuti scarcerati fino al 31 dicembre 2012 è stato stimato in 4.725 detenuti, segno che tale legge non ha inciso sul sovraffollamento carcerario in maniera significativa. Dap, op. ult. cit., p. 31. Né, ancor prima, il provvedimento di indulto del 2006 ha contribuito a ridurre la situazione di sovraffollamento carcerario in maniera rilevante: la flessione registrata in corrispondenza dell’indulto è stata infatti presto annullata da un successivo energico incremento delle carcerazioni. Cfr. sui dati relativi (circa 38.000 detenuti liberi a seguito dell’indulto), tra gli altri, E. Dolcini, La rieducazione, cit., 3.

 

[105] Ci si riferisce alla circolare dell’aprile 2010, dal titolo “Nuovi interventi per ridurre il disagio derivante dalla condizione di privazione della libertà e per prevenire i fenomeni autoaggressivi”, nonché alla circolare del novembre del 2011 in tema di “Modalità di esecuzione della pena. Un nuovo modello di trattamento che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione”. Sul tema ibid., p. 5, nonché sulla relazione fra sovraffollamento carcerario e suicidi, A. Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, in Quad. costituz., 2011, n. 3, 598 ss.

 

[106] E. Nicosia, Trattamento penitenziario e diritti fondamentali alla luce del diritto sopranazionale, in A.a.V.v., Libertà, cit., 12 ss.

 

[107] Cfr. diffusamente G. Fossa-U. Gatti, Il carcere e l’esecuzione penale in Italia nell’ultimo decennio, in Rass. It. Crim., 2011, n. 3, 10 ss.

 

[108] Cfr. G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale di Diritto Penale, cit., 737.

 

[109] Ibidem, 19.

 

[110] A. Pugiotto, Aprire le celle, cit., 232.

 

[111] C. A. Romano, Le sbarre invisibili, in Rass. It. Crim., 2011, n. 3, 6.

 

[112] Così E. Dolcini, op. ult. cit., 2.

 

[113] Stravolgendo la metafora di David Garland sulla rinnovata centralità del carcere, espressa in D. Garland, La cultura del controllo, Milano 2004, 74 s., 293 ss.

 

[114] Così E. Dolcini, op. ult. cit., 12, richiamandosi a sua volta alle parole di Vittorio Grevi. In questo senso anche S. Moccia, Riflessioni intorno al sistema sanzionatorio e propositi di riforma, in G. De Francesco-A Gargani, (a cura di), Evoluzione ed involuzione delle categorie penalistiche, Milano 2017, 213.

 

[115] Il testo di tale documento è pubblicato sul sito della rivista telematica Diritto Penale Contemporaneo, 7 dicembre 2012: Un passo concreto per affrontare l’“emergenza carceri”: la proposta della Commissione mista del CSM.

 

[116] Non mancano ulteriori proposte avanzate da una parte della dottrina che abbraccia giuristi di diverse estrazioni, anche attraverso l’appello al Capo dello Stato per un messaggio alle Camere, volte ad un immediato provvedimento di clemenza, sia nella forma dell’indulto che dell’amnistia, che consenta, quale strategia iniziale indispensabile nel contrasto al sovraffollamento carcerario, di porre un argine ad una questione definita, nella lettera a firma del Professor Andrea Pugiotto, di “prepotente urgenza”. Anche tale via deve essere percorsa, benché essa debba costituire solo l’inizio di una riforma legislativa di più ampio respiro. Solo così si può pensare di intraprendere i primi passi del cammino verso un ritorno al “dover essere della pena detentiva”, verso la sua piena dimensione costituzionale. A. Pugiotto, “Una questione di prepotente urgenza” sempre più prepotentemente urgente: lettera aperta al Presidente della Repubblica, in Dir. Pen. Cont., 2012, 7.

 

[117] Si veda il sito www.antigone.it. per i disegni di legge.

 

[118] Proprio l’assenza di tale previsione normativa ha indotto talora la dottrina, specie nel caso di violazioni rispondenti all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo a cagione del sovraffollamento carcerario, a fare appello ad altre norme penali (si pensi alla proposta di riconoscere la sussistenza, in tali casi, del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p.). In argomento Id., Aprire le celle, cit., 236-7.

 

[119] Per un quadro delle principali riforme recenti, si veda G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale, cit., 641 ss. Per maggiori approfondimenti, si veda E. Dolcini, La “questione penitenziaria”, nella prospettiva del penalista: un provvisorio bilancio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, fasc. 4, 1666; 1669; 1671.

 

[120] Ad opera della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014.

 

[121] Cfr. G.P. Demuro,  Ultima ratio: alla ricerca di limiti all’espansione del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1685.

 

[122] Vedi R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova, in Dir. pen. proc., 2014, 663. 

 

[123] Sul punto E. Dolcini, op. ult. cit., 1659. Cfr. altresì L. Eusebi, Quale oggetto dell’abolizionismo penale? Appunti nel solco di una visione alternativa della giustizia, in Studi sulla questione criminale, 2011, n. 2, 81 ss., nonché Id., Dibattiti sulle «teorie della pena» e mediazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, n. 3, 811 ss.

 

[124] Sulla delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario di cui alla legge 23 giugno 2017, n. 23, si veda G. Giostra-P. Bronzo, Proposte per l’attuazione della delega penitenziaria, in Dir. Pen. Cont., 2017, 1 ss.

 

[125] Cfr. G. Forti, Sulle riforme necessarie del sistema penale italiano: superare la centralità della risposta carceraria, in Riv. trim. Dir. Pen. Cont., 2012, n. 3-4, 178.

 

[126] Cfr. in tal senso L. Eusebi, Quale oggetto dell’abolizionismo penale?, cit., 2 del dattiloscritto.

 

[127] Si veda R. Bartoli, Pericolosità sociale, cit., 416, ricordando riflessioni già di F. Palazzo, nonché, in senso analogo, A. Baratta, op. cit., 188.

 

[128] In questa direzione si pongono, tra gli altri, A. Pugiotto-F. Corleone, Il delitto della pena, citato; Aa. Vv., Libertà dal carcere, libertà nel carcere; citato; L. Manconi,, S. Anastasia, V. Calderone, F. Resta, Abolire il carcere, Milano 2015; L. Ferrari, No prison ovvero il fallimento del carcere, Rubbettino, 2015; R. Bartoli, Il carcere come extrema ratio: una proposta concreta, cit., 4 ss.; A. Di Martino, “Rivoltarsi nella feccia di Romolo”, in Riv. trim. Dir. Pen. Cont, 2015, fasc. 4, 294.

 

[129] Così R. Bartoli, Il carcere come extrema ratio, cit., 5.

 

[130] Id., cit., 7: «in buona sostanza, il diritto penale escludente altro non è che un meccanismo di contenimento della violenza attraverso la sua concentrazione sul colpevole che viene collocato al di fuori della società»; nonché Id., Il diritto penale fra vendetta e riparazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, fasc. 1, 96 ss. Cfr. altresì D. Garland, La cultura del controllo, Milano 2007.

 

[131] Cfr. M. Pavarini, Carcere riformabile? Uno sguardo da “Il Ponte”sulla riformabilità democratica del carcere, in Rass. pen. e crmin., 2004, fasc. 1, 85.

 

[132] Sul tema A. Pugiotto-F. Corleone, cit., 79 ss.

 

[133] Così C. F. Grosso,  Crisi e prospettive di riforma del sistema delle pene, in G. De Francesco-A Gargani, (a cura di), Evoluzione ed involuzione delle categorie penalistiche, cit., 194.

 

[134] Id., cit., 192 ss. Sull’istituto della detenzione domiciliare quale pena principale, v. M. Pelissero, La detenzione domiciliare: i vantaggi in chiave deflattiva e il problema dell’offerta trattamentale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, fasc. 2, 735 ss. Così anche per Roxin uno dei compiti della scienza del diritto penale è quello di un ulteriore «significativo ampliamento della gamma delle sanzioni» che consenta di adeguare più efficacemente le conseguenze giuridiche alle caratteristiche individuali dell’autore e alla sua condizione sociale. K. Roxin, I compiti futuri della scienza penalistica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 10.

 

[135] L. Goisis, La pena pecuniaria. Un’indagine storica e comparata. Profili di effettività della sanzione, Milano, 2008, 367 ss. Nello stesso senso si esprime altra parte della dottrina: si veda, tra gli altri, R. Bartoli, Pericolosità, cit., 416, ove l’A. si esprime in favore dell’utilizzo della pena pecuniaria, delle misure interdittive e della detenzione domiciliare; nonché E. Dolcini, In tema di ‘surrogati penali’ nell’Italia del 2015. Rileggendo ‘l’Utopia punitiva’ di Tullio Padovani, in G. De Francesco-A Gargani, (a cura di), Evoluzione, cit., 184.

 

[136] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari 1989.

 

[137] Si esprime in tal senso autorevole dottrina: Romano-Grasso, Commentario sistematico del codice penale, Vol. II, 2005, 367. Si veda altresì L. Eusebi, Quale oggetto dell’abolizionismo penale? Appunti nel solco di una visione alternativa della giustizia, cit., pagina 8 del dattiloscritto.

 

[138] Cfr. E. Dolcini, La “questione penitenziaria”, cit., 1672-3.

 

[139] F. Fiorentin, La conclusione degli “Stati Generali” per la riforma dell’esecuzione penale in Italia, in Dir. Pen. Cont., 2016, 5 ss.

 

[140] Ibidem.

 

[141] Come è stato icasticamente affermato, rispetto alla questione carceraria, «è in gioco il principio supremo della dignità personale, che va riconosciuta anche al più cattivo tra i cattivi, perché la dignità non si acquista per meriti e non si perde per demeriti». Così A. Pugiotto, La parabola del sovraffollamento carcerario e i suoi insegnamenti costituzionalitci, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, fasc. 3, 1213-4.

 

[142] Cfr. G. Pizzeria-C. A. Romano, Il lavoro come strumento fondamentale del trattamento penitenziario e il ruolo della cooperazione sociale, in Rass. It. Crim., 2011, n. 3, 24 ss.

 

[143] In questo senso depongono anche i dati empirici: G. Mastrobuoni-D. Terlizzese, Delle pene e dei delitti: condizioni carcerarie e recidiva, cit., 26. 

 

[144] Sulla corresponsabilità fra reo e società civile, v. A. Baratta, Criminologia critica, cit., 188-189.

 

[145] Si veda C. A. Romano, op. cit., 8. Si veda altresì S. Pietralunga-C. Rossi-C. Sgarbi, Il reinserimento sociale del detenuto e la partecipazione della comunità civica: modelli di intervento, in Rass. It. Crim., 2007, n. 2, 132 ss.

 

[146] Così E. Dolcini, La “questione penitenziaria”, cit., 1672.

 

[147] Cfr. F. Fiorentin, op. ult. cit., 16.