PER
UN'UMANIZZAZIONE DEL DIRITTO PENALE:
RILEGGENDO
(IL "SAGGIO SUL VALORE MORALE DELLA PENA" DI) ANTONIO PIGLIARU
Università di
Sassari
Direttore del
Dipartimento di Giurisprudenza
SOMMARIO: Introduzione. – 1. La moralità dell'intera
vicenda penale. – 2. Il reato come rottura sociale e la sua concezione
soggettivistica. – 3. Le finalità della pena, tra retribuzione ed emenda. – 4. Per una nozione aperta
della pena. – 5. Il
delitto come negazione della propria umanità. – 6.
La pena come rapporto di attività punitiva
positiva. – 7. L'inclinazione pedagogica. – 8. La proporzionalità della
pena. – 9. La pena come situazione e
valore morale, tra retribuzione e rigenerazione. – Conclusione. – Abstract.
Antonio Pigliaru affronta il tema penale nel suo Saggio sul valore morale della pena,
pubblicato nel 1952 in Studi Sassaresi[1]. Nel nostro contributo cercheremo di dar conto del contesto
penalistico e dell'attualità del suo pensiero espresso in questo saggio.
Per Pigliaru – che conobbe l'amara esperienza
della detenzione[2] – il problema della pena ha
senso nell'ambito del rapporto complessivo, "unico e umanissimo", tra
delitto e castigo, in tutte le sue implicazioni utili per riempire di
significato il problema stesso; ed è una vera e propria urgenza morale quella che motiva
l'approfondimento, un «problema umano nella più complessa estensione del termine».
La complessità
dell'indagine deriva dalla necessaria considerazione del presupposto della
pena, cioè il reato, e dalla comparsa sulla scena al momento della pena del suo
soggetto, il destinatario della sanzione, la persona umana. Tutto ciò comporta
– nella visione di Pigliaru – un mutamento di prospettiva, dal negativo al
positivo: dapprima la pena rappresenta una reazione negativa a un fatto negativo,
con la mediazione del processo; proprio nel processo il reato, in quanto fatto,
scompare dalla scena, per far posto a quel soggetto cui l'attività criminosa è
imputabile in concreto e al quale si indirizza l'azione tipica della pena. Da
questo momento inizia una nuova vicenda, dall'astratto al concreto, sempre con
al centro la persona umana.
L'opera di Pigliaru si
caratterizza per la considerazione complessiva del problema penale da una
prospettiva morale, spirituale. La sua meditazione – scevra di riferimenti
tecnico-giuridici (non viene mai citata una norma) – è comunque ricca di
interesse per la dogmatica giuridica: basti solo ricordare l'ammonimento di
Bettiol per il quale tale dogmatica, per essere pregna di vita e di
concretezza, non può dimenticare che la pena è qualcosa di ben più vivo e umano
della semplice «conseguenza giuridica del reato»; essa colpisce l'uomo
considerato in toto, traccia nella
sua vita un solco che spesso non può essere più colmato, può essere mezzo di
redenzione morale, come – se male attuata – strumento di perdizione definitiva.
Direttamente o indirettamente, in quanto orientate verso i concetti di bene e
di male, tutte le scienze morali – osservava sempre Bettiol – gravitano attorno
al problema della pena: le risposte su di essa (Che cosa è la pena? Perché si
punisce? Quali sono i fini della pena? Che effetti produce la pena?) non
possono limitarsi a concezioni formali, ma devono cercare di appagare esigenze
ben più profonde dell'uomo, «che non è solo pensiero astratto, ma pensiero
radicato nella carne e nel sangue»[3].
Il capitolo della pena è
dunque il settore che più si presta, per le sue dirette implicazioni sulla persona,
a un approfondimento morale. Pigliaru non si limita però a questo, ma coinvolge
nella sua analisi l'intera vicenda penale.
La "umanissima"
vicenda della pena rappresenta infatti la fase conclusiva di un percorso
(intellettuale e pratico) che parte dalla definizione stessa del "diritto
penale"[4]. Pigliaru usa come
riferimento quella (formale e dunque sostanzialmente inespressiva) del manuale
di Maggiore, per la quale il diritto
penale sarebbe un «sistema di norme
giuridiche in forza delle quali l'autore del reato (il reo) sarebbe sottoposto
ad una perdita o diminuzione di diritti personali (pena)»[5]. Da questa definizione
emerge come la forza mediante la quale il reo viene sottoposto a pena è una «forza giuridica», in quanto
riaffermativa di un valore negato con la commissione di un reato: essa lascia
però scoperto il primo termine del rapporto, il valore appunto in positivo di
cui è portatrice la norma violata. Per coprire questo termine, Pigliaru procede
a una ridefinizione in senso sostanziale della nozione di "reato" (il
reato non è tale in quanto vietato ma è vietato in quanto tale). È bene qui
precisare che è una costante della storia del diritto penale la distinzione tra
una concezione formale del reato, per la quale è reato tutto ciò e solo ciò che
è previsto dalla legge come tale, e una sostanziale, per la quale invece è
reato tutto ciò e solo ciò che è in misura rilevante socialmente dannoso (o
pericoloso). La concezione sostanziale del reato, per la vaghezza del fatto
storico nella sua antisocialità, si è prestata di per sé ad abusi, quando
utilizzata in modo esclusivo, cioè non affiancata a quella formale. Contro
questo rischio – nel senso che possiamo attribuire all'espressione di Pigliaru
– essa rappresenta parte di una concezione composita, del tipo di quella
sostanziale-formale adottata dai penalisti in base alla Costituzione, la quale
ultima concilia cioè rigidità e duttilità delle due concezioni fondendole in
una, che da un lato conferma fedeltà al nullum
crimen nulla poena sine lege e dall'altro impone di positivizzare nella
legge i valori fondamentali ai quali l'ordinamento democratico si ispira[6]. Il reato è in
definitiva sia offesa di un bene giuridico, di un quid reale meritevole della protezione dell'ordinamento, che
violazione di un obbligo; conta infatti non solo il risultato ma anche come lo
si produce: la legge (conformemente alla Costituzione o comunque non in
contrasto con essa) pone regole di condotta la cui trasgressione volontaria
sanziona penalmente in quanto particolarmente riprovevole dal punto di vista
etico-sociale[7]. E Pigliaru – come vedremo subito – arriva a
identificare un valore anche nella norma proprio in quanto attributiva dell'obbligo.
Egli innanzitutto scarta
come tautologiche definizioni in senso meramente formale-dogmatico e indaga ciò
che sottende la norma penale. Nel compimento del reato innanzitutto il soggetto
viola un complesso di valori, il valore stesso cioè di quella realtà che quel
sistema di norme tendeva a tutelare: il valore di questa realtà è incarnato
nella cosiddetta «coscienza etica di un
popolo in un dato momento storico»[8].
L'inquadramento del
diritto penale nei valori etico-sociali si impone in quel periodo storico anche
come reazione a una fase puramente tecnico-formalistica nello studio delle fonti.
E proprio Bettiol (che Pigliaru assume spesso come riferimento, seppur non
sempre in modo adesivo) poteva così affermare – in modo chiaro e netto – che
l'ordinamento morale rappresenta il nucleo centrale dell'ordinamento giuridico.
Non solo: sempre Bettiol sosteneva non vi fosse disciplina giuridica più
tenacemente avvinta alla morale del diritto penale, sia per l'oggetto di
tutela, sia per la natura dei suoi istituti fondamentali. La concezione della
morale di Pigliaru era simile a quella di Bettiol: non una porzione di essa (il
minimo etico della teoria di Manzini[9]) ma una visione complessiva per la quale cioè
il diritto penale è la morale stessa, «cristallizzata in un suo momento»[10], considerata cioè da un
punto di vista più statico, più fermo, più obiettivo, dato che per evidenti
motivi di uniformità e uguaglianza sociale il diritto fissa il lato esterno
della condotta, «la sagoma che essa deve assumere nell'ambiente sociale»[11].
La morale segue il c.d.
diritto naturale (altra riscoperta di quel periodo), che per Bettiol insieme ad
altri penalisti altro non sarebbe che l'idea di giustizia come anima della
morale sociale, e quindi del diritto positivo in quanto espressione
dell'esigenza della morale sociale[12]: in tale idea di
giustizia, il colpevole è "persona"
nel senso etico della parola, e nessuno può trascurare questo momento morale,
la cui considerazione è anzi indispensabile per sottrarre l'individuo al
pericolo di essere sacrificato (agli apparati e) agli interessi collettivi[13].
Oggi l'atteggiamento nei
confronti del rapporto tra etica e diritto penale è più disincantato: non tutto
ciò che è eticamente riprovevole è penalmente illecito, e d'altro canto non
tutto ciò che è penalmente rilevante è anche eticamente disapprovato[14]. Eppure questo
disincanto dovrebbe essere superato e dovrebbero essere piuttosto create le
condizioni per un riavvicinamento. Il percorso non è semplice, perché sono
molte le variabili in gioco. Le etiche sono divenute sempre di più e hanno
iniziato a rappresentare «visioni private del mondo»[15]: in tale situazione il
diritto penale non può assumerne alcuna in chiave monopolistica e totalizzante.
La diversificazione etica non deve però significare per il diritto penale
rinuncia all'etica. Il compito del diritto, in particolare penale, si rivela
anzi, in realtà, ancora più importante e stimolante, giacché – come è stato ben
rilevato – in un contesto di pluralismo di valori solo il diritto può adottare
soluzioni rispettose del pluralismo e non contrassegnate da specifiche identità
ideologiche. Se un'etica pubblica va dunque ricercata, essa può essere
individuata solo attraverso le regole del diritto; e al diritto spetta il
compito, proprio in vista di un recupero del contatto con la morale, di
ritagliare un'etica pubblica dal perimetro di ciò che è consentito
giuridicamente ed è al contempo avvertito come moralmente doveroso[16]; e ciò, aggiungiamo,
potrebbe valere anche al di là delle condotte dei funzionari pubblici, oggetto
immediato di attenzione del contributo di Donini nella prospettiva del grave
fenomeno, oltre che giuridico anche morale e sociale, della corruzione.
Vale sempre infatti il
generale monito di Petrocelli[17], che la correlazione tra
diritto penale e morale sarebbe il
presidio più costante sia dell'intima efficacia della norma nelle coscienze,
sia della sua osservanza nella vita sociale. È
essenziale però che al diritto penale si chieda un contributo e non gli si
affidi una supplenza[18], come invece accade spesso nel contesto attuale: il compito
"raffinato" (e di sintesi) prima accennato non è infatti semplice da
conseguire da parte di un'istanza di controllo sociale assai poco duttile quale
il diritto penale. Meglio sarebbe – ed è scontato – riequilibrare totali
inversioni di piano e riaffidare (per quanto possibile) la produzione
dell'etica (almeno di quella pubblica, più complicato per quella privata e in
fondo per la loro stessa distinzione) alle relazioni sociali, istituzionali e
di gruppo[19].
Pigliaru definisce il
reato come «attività o prodotto di
attività lesiva in qualche modo di un complesso di interessi o valori (diritti)
penalmente tutelati»: con il compimento di esso si nega il valore e il
dovere giuridico affermato in quel valore e al contempo si lede la coscienza
etica incarnata nella norma e nel suo rispetto. Una definizione mista, dunque,
che non si limita a comprenderne l'essenza e l'oggetto di tutela, ma nella cui
prospettiva entra pienamente anche il procedimento per la riaffermazione del
valore. La "coscienza etica"
diviene nella visione di Pigliaru "coscienza
sociale", perché la norma impositiva del dovere trova la sua
giustificazione in vista dei rapporti infiniti nei quali si realizza e si attua
continuamente la vita dell'uomo. E dato che «la vita dell'uomo è esistenza che è coesistenza», dal suo punto di
vista il reato è "rottura sociale",
il no espresso dall'autore a ogni forma interamente positiva di relazione[20].
Il collegamento tra etica
e diritto penale e la stessa specificazione di Pigliaru della nozione di reato
producono immediate conseguenze anche sul piano dell'elemento soggettivo. Il riferimento espresso alla libertà come presupposto della
responsabilità è tradizionale nel diritto penale italiano. Proprio in quegli
anni, Moro affermava che «il
diritto è forza etica, legge intrinseca, razionalità, libertà che determina la
libertà dell'uomo»[21], dunque l'atto di
negazione rappresentato dal comportamento contrario alle norme (il reato) è
proprio di un soggetto libero e consapevole, un atto di scelta. Oggi la
dimensione soggettiva dell'illecito penale è descritta nella fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 24
marzo 1988, nella quale si consolida il principio di colpevolezza, riconoscendo
che responsabilità «personale», a norma dell’art. 27 comma 1 Cost., è sinonimo
di responsabilità per «fatto proprio colpevole»[22]. In questa sentenza si legge fra l’altro: «Il principio di
colpevolezza è pertanto indispensabile appunto anche per garantire al privato la
certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a
rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per
comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate»[23].
Il rifiuto, espresso dall'autore
del reato, delle regole di coesistenza è un'attività propria di un soggetto
libero e pienamente responsabile, in quanto soggetto di attività giuridica: in
questo modo Pigliaru introduce in tale nozione di reato il reo e la sua
colpevolezza (la rimproverabilità del fatto nel senso di oggi). Infatti ogni
rapporto, positivo o negativo (nella sua affermazione o nella sua negazione)
comunque istituito, non può che essere un rapporto tra esistenti, l'esistente
del reato – afferma Pigliaru – resterà sempre il reo; con la conclusione di un
assoluto e costante equilibrio, dato che c'è reato in quanto c'è reo e c'è reo
in quanto c'è reato. «Soggetto il quale è l'opera medesima che egli realizza
realizzandosi», con un processo cioè di immedesimazione che in fondo è la
storia della sua vicenda umana[24].
Il processo di
avvicinamento del reato al reo significa il consapevole abbandono di ogni forma
di mero oggettivismo giuridico, per portare alla ribalta, appunto, il
protagonista reale del rapporto penale effettivo: Pigliaru in quest'ottica
valorizza dell'apprezzamento oggettivistico, della vicenda concreta, ciò che
può essere relativo al soggetto che ne è protagonista, cioè alla sua «volontà liberamente creatrice di quella
determinata situazione». L'immanenza del soggetto all'azione si completa
dunque con il concetto di volontà, che è "cattiva volontà", la quale conduce a un'attività negatrice,
nel senso visto sopra[25].
Si compone così l'oggetto
del giudizio: il reato come processo non considerato in senso intellettualistico
ma nel suo dinamismo intrinseco, come prodotto cioè dalle componenti interne
della originaria situazione morale del reo, che poi si attualizza e costituisce
la vicenda immediata da giudicare. La valorizzazione di tutte le componenti
interne porta poi Pigliaru ad affermare che la stessa commisurazione della pena
dovrebbe dipendere proprio da una precisa qualificazione del fatto come
conflitto di interessi e di volontà, in cui si esprima la maggior possibile
qualificazione dell'agente medesimo. Potremmo perciò dire che l'intensità
dell'addebito dipende sostanzialmente anche dal perché e come si è arrivati
alla scelta in cui si esprime la rottura sociale e l'offesa del bene giuridico
tutelato.
Pigliaru dunque insiste sul
processo di immedesimazione dell'autore col reato commesso, attribuendo cioè
alla capacità a delinquere una funzione retrospettiva-retributiva, oggi
descritta come capacità morale di compiere il reato commesso, come aspetto
pertanto della colpevolezza per il fatto: in questa prospettiva infatti la
misura della pena dipende dall'attribuibilità morale del fatto al suo autore,
dal grado di signoria morale sul fatto, dalla libera adesione allo stesso e in
definitiva dalla sua rimproverabilità[26]. Il dibattito sulla
capacità a delinquere non è certo sopito: ancora si dibatte tra chi la proietta
nel passato, come attitudine del soggetto al fatto commesso, e chi invece la
rivolge al futuro, esprimendo l'attitudine del soggetto a commettere nuovi
reati[27]. Una interpretazione,
costituzionalmente orientata, che assuma come fondamento il principio del
carattere rieducativo della pena (art. 27 comma 3 Cost.) imporrebbe in realtà
che si tenga conto anche del riferimento al futuro della capacità a delinquere:
tutto ciò proprio per aprire al condannato, nei limiti degli strumenti offerti
dall'ordinamento, prospettive di reinserimento nella società[28], e dunque in fondo
proprio per quella esigenza di umanizzazione della pena che contrassegna – come
ancora vedremo – l'impostazione di Pigliaru.
Un sistema penale dunque
coerentemente soggettivistico, cioè
più a misura dell'uomo, di cui
Pigliaru trova tracce in molti istituti del diritto penale, tra cui soprattutto
la recidiva, dove è protagonista proprio la situazione soggettiva del reo,
intesa la sua insistenza criminale come testimonianza certa della permanenza
nel soggetto fondamentalmente di una cattiva volontà[29]. Anche della recidiva
risulta dunque una concezione soggettivistica, quale aspetto della colpevolezza
per il fatto e in chiave retributiva, nel senso che il reo dimostra una
persistente volontà nel delinquere.
La concezione
soggettivistica del diritto penale di Pigliaru, finora emersa, non ha certo
(come talora storicamente per alcune impostazioni soggettivistiche, come il
diritto penale della pericolosità o la colpa d'autore) una finalità repressiva
o di anticipazione di tutela, non propone di punire atteggiamenti interiori o
comportamenti meramente pericolosi, quanto piuttosto di arricchire la
considerazione del fatto col profilo soggettivo del reo. Ciò comporta tra
l'altro il conseguente rifiuto di ogni forma di responsabilità oggettiva,
fondata cioè sull'oggettiva esistenza di questo o quell'elemento ovvero sulla
sua mera oggettiva causazione, senza che sia necessario accertare la presenza
del dolo o almeno della colpa[30]. La centralità dell'uomo
– affermata da Pigliaru – nell'intera vicenda del reato ha dunque un
significato (e una ricaduta) di massima garanzia.
Descritto così il reato
(e il reo) Pigliaru passa all'altra parte del rapporto, alla trattazione cioè
del tema della pena. Dal negativo al positivo: la pena è negazione di una
situazione che già era di per sé negazione di un qualche valore; ed è al
contempo la tipica azione posta in essere dall'ordinamento per una integrale
riaffermazione del valore precedentemente negato. Dunque essa tende a tutelare
in via definitiva interessi e valori violati dall'attività del reo e che occorre
reintegrare perché il rapporto possa ritenersi moralmente ristabilito. In
questa prospettiva, positiva, di ristabilimento, il valore morale della pena in
quanto dialetticamente opposta al reato si giustifica solo attribuendo appunto
un valore all'attività mediante la quale la pena si realizza: una attribuzione
(unicuique suum), un dovuto, che risponde pertanto alla
finalità di retribuzione, intesa a realizzare quella «suprema idea della
giustizia, nell'ordine della relazione, che costituisce il limite ideale di
ogni ordinamento giuridico aperto»[31].
La retribuzione è un'idea
storicamente centrale nel diritto penale[32] (il vero problema è –
come vedremo e come contesta lo stesso Pigliaru – se essa basti da sola a
spiegare il se, il perché e il come della pena). Così si sostiene,
contemporaneamente a Pigliaru, che «la pena trova la sua ragione di essere nel
suo carattere retributivo» e che è proprio l'idea retributiva a salvare il
diritto penale da ogni eccesso e a fungere da argine e garanzia per i diritti
fondamentali dell'uomo[33]: la retribuzione
rappresenta infatti – afferma Beling – un vero e proprio ideale di giustizia
universale, che ha sempre accompagnato l'umanità nella sua storia[34]. Soprattutto importante
in vista dell'analisi di Pigliaru è l'affermazione secondo la quale il vero
concetto di retribuzione è un concetto etico che deve tenere presente la natura
morale dell'uomo: ogni pena che degrada l'uomo, agendo solo sulla parte fisica
dell'uomo stesso, non è pena retributiva, perché non valorizza dell'uomo la sua
essenza. La pena dunque – si afferma – deve «umanizzarsi», non deve cioè negare il carattere morale dell'uomo e
non deve far soffrire il condannato più di quanto sia strettamente necessario
ai fini della retribuzione, perché non sia leso quel senso di giustizia alla
base della pena stessa. In questo modo andrebbe interpretata la disposizione
dell'art. 27 comma 3 Cost., per la quale «Le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato». In questa visuale, la «rieducazione» non andrebbe intesa come una
vera e propria finalità della pena ma come una conseguenza della sua stessa
«umanità»[35].
Nella contrapposizione
tra retribuzione morale e retribuzione giuridica, quella di Pigliaru è
piuttosto una posizione che va al di là di tali schemi. Per la retribuzione
morale la pena è un'esigenza etica profonda e insopprimibile della coscienza
umana, un'esigenza di ragione che poggia su un'idea di giustizia la quale
richiede che al bene segua il bene e al male segua il male: per la retribuzione
giuridica invece il fondamento della pena sta all'interno dell'ordinamento
giuridico e la ribellione del singolo alla volontà della legge esige una
riparazione, che riaffermi l'autorità della legge. Per Pigliaru la pena è una
attribuzione doverosa per affermare l'idea di giustizia: egli però attribuisce
a essa un valore positivo, non di mera reazione negativa ma di ristabilimento
di un equilibrio infranto, non solo nella collettività ma nello spirito stesso
del reo, al quale si offre così una possibilità di ravvedimento morale.
Nella sua originale
impostazione, per Pigliaru è coerente chiedersi (proprio richiamando
criticamente, su questo punto, Bettiol, sostenitore di un retribuzionismo puro,
così come Maggiore[36]) se riesca davvero a
incardinare il valore morale nella pena il solo riferimento all'idea
retributiva, al quia peccatum est,
cioè al reato commesso. Già nella teoria retributiva in realtà si tende ad
attenuare l'assolutezza del quia peccatum
attribuendo alla retribuzione un certo – implicito – aspetto pedagogico nel
solo sottoporsi del soggetto alla pena, anche se l'idea pedagogica, pur nella
sua purezza, meglio si afferma valorizzando l'azione di rieducazione. Comunque
sia, una tale impostazione presuppone un'idea di diritto sempre e
intrinsecamente strumento di elevazione morale, in quanto teso all'educazione
della coscienza morale del popolo, e un significato di pena come elemento
(re)integratore della norma[37].
Pigliaru ritiene
necessario superare la rigida alternativa tra pura retribuzione e pura
prevenzione, tra teorie assolute (svincolate cioè dalla considerazione di un
qualsivoglia fine da raggiungere) e teorie relative (o preventive, incentrate
invece su un fine e rivolte agli effetti della pena), a favore piuttosto di una
nozione aperta della pena. Egli nega
l'assolutezza della teoria retributiva, ritenuta dai suoi sostenitori
giustificantesi in se stessa, perché l'idea della retribuzione, anche considerata
in quanto tale, racchiude un certo fine essa medesima, come termine ad quem di tutto il rapporto punitivo, e
dunque in fondo è anch'essa una teoria relativa. Ma una mera retribuzione non
tiene soprattutto conto che già nell'idea del malum come sofferenza sta una possibilità di espiazione che può
farlo evolvere in bene. Dal punto di vista di Pigliaru, è destinata a restare
sempre parziale ogni prospettiva (morale o giuridica) che ignori al centro del
rapporto punitivo «l'idea forza» del castigo o dell'espiazione come
ravvedimento o emenda[38].
La teoria dell'emenda (o
dell'espiazione) richiamata da Pigliaru, di lunga tradizione (già enunciata da
Platone, la pena come «medicina dell'anima», e dai giuristi romani, «poena constituitur in emendationem hominum»),
sostiene appunto che la pena è protesa verso la redenzione morale, il
ravvedimento spirituale del reo, o, nella versione dell'espiazione, ha la
funzione di purificazione dello spirito, operando come antidoto contro
l'immoralità per la forza purificatrice del dolore[39]. Soprattutto però
interessante, guardando alla prospettiva di Pigliaru, è la versione di tale
teoria propria della dottrina tedesca, fortemente ancorata allo Schuldprinzip (principio di
colpevolezza), che fissa la giustificazione della pena più che nella Vergeltung (retribuzione) nella Sühne, considerata come espiazione (Sühnetheorie) non del fatto ma della
colpevolezza o anche come autoliberazione dalla colpevolezza, intesa questa come
coscienza della violazione di certi valori e del dovere di risponderne: in
questa teoria – ed è questo lo spunto decisivo per l'umanizzazione della pena –
l'individuo assume un ruolo attivo, non più passivo, di fronte alla pena[40].
Pigliaru si rende ben
conto che l'idea dell'emenda è in grado di poter esprimere solo una tendenza,
una aspirazione, una possibilità, ma essa rappresenta pur sempre un'azione
morale proposta come occasione (ed esperienza etica) all'autore del reato. Solo
così un tale soggetto acquista un ruolo proprio e attivo all'interno del
rapporto punitivo, un ruolo da protagonista e «non come muto spettatore di un
dramma posto contro di lui e di cui non gli spetti se non di sopportare le
conseguenze (il dolore, la sofferenza, e il peso»)[41].
Per Pigliaru isolare la
pena sull'idea di una mera retribuzione non sarebbe possibile – allo stato del
pensiero giuridico moderno – se non tentando un oggettivismo assoluto, rigido e
disumano, dimensionato su una astratta positività. La sua disumanità sta
appunto nell'essere contro l'uomo o meglio fuori dall'uomo. L'idea pura
(schiettamente pura) della pena come retribuzione è commisurata al reato
giudicato allo stato "puro", nell'interezza delle sue condizioni
negative, con apprezzamenti che possono essere solo estrinseci e assolutamente
indifferenti all'uomo. L'idea retributiva però – si può cogliere in Pigliaru –
se vuole essere valore contro non valore, deve negarsi nella sua accezione
semplicemente matematica (e dunque intellettualistica), irrimediabilmente
statica. Alla retribuzione deve invece assegnarsi una dimensione dinamica, che
tenga conto della molteplicità di rapporti tra delitto e castigo[42].
Il delitto è carico di negatività,
è un processo di attività proprio teso a negare, direttamente o indirettamente,
un valore affermato nella norma: e la norma è norma per un ordine in qualche
modo ideale, costitutivo di una società concreta. Il reato nega ogni valore
spirituale all'alterità, il suo autore rifiuta ogni possibilità di comunione,
l'altro resta solo un mezzo, un non-valore assoluto, quasi un ostacolo da
rimuovere; nell'omicidio a scopo di rapina – esemplifica Pigliaru – dal punto
di vista del rapinatore la vita umana, di quell'uomo e quindi di ogni uomo, è
ritenuta notevolmente inferiore e infinitamente più trascurabile della cosa che
è oggetto della sua cupidigia: il peccato – anche quello che potrebbe entrare
in considerazione nel diritto – è sempre un ingiustificabile egoismo[43]. Con richiami all'antica
logica della Summa e al criterio
della giustizia («sola justitia, inter
alias virtutes, importat rationem debiti»)[44], sufficiente almeno per
sottolineare la permanenza della relazione ad
alterum, Pigliaru pone l'accento sulla condizione di «solitudine» in cui si pone l'autore del reato, incapace di
intendere l'umanissima e felice presenza degli altri in noi, e in fondo negando
proprio se stesso e la propria dignità come persona ut singulus e ut socius.
La "giustizia" – per
Pigliaru – «in effetti è anche, essenzialmente, questo rispetto profondo
dell'eguale dignità morale di tutti, nella dignità dell'altro, per la mia
stessa dignità di uomo»[45].
In questa relazione
intersoggettiva affermata da Pigliaru, la degradazione dell'altro uomo (la
vittima del reato) non è possibile se non a costo di accettare, ipso facto, la degradazione di se
stesso nella stessa misura: è una
conseguenza obbligata. Con il reato si nega il «consorzio umano», che è nella vittima, nell'autore, in tutti, e che
rappresenta proprio la realtà per la cui salvezza ed effettività la norma è
posta, necessariamente dotata di potere coercitivo proprio per proteggere
questa realtà comune[46]. In questa realtà la
norma tutela, direttamente o indirettamente, un interesse o valore (giuridico),
che è sempre generale sia quando è privato che quando è pubblico, e l'istituto
della pena fa parte attivamente della norma, per attribuire a ciascuno il
dovuto, secondo quell'interna ragione che è concreto esercizio del rapporto di
giustizia penale. Tale rapporto è il concreto tentativo di reintegrazione di
tutte le situazioni determinate dall'attività criminosa: la logica del dovuto
vale per tutte le parti in gioco, al reo in quanto reo, alle parti lese in
quanto parti lese, che semplicemente ora escono di scena per far nuovamente
posto al soggetto del reato, che adesso, come soggetto "della" e
"alla" pena, torna al centro dell'attenzione quale protagonista
dell'attività punitiva.
Pigliaru insiste molto
sul profilo propulsivo e relazionale della pena, parlando appunto di rapporto di attività punitiva, tra
soggetto e soggetto[47]. L'attività punitiva ha
il compito e la responsabilità di ri-mediare, risolvendo cioè secondo giustizia
l'intrinseca ingiustizia arrecata dal reo, il quale diviene ora «soggetto»
all'attività punitiva. Insomma attività dialetticamente opposta ad attività
(valori in contrapposizione a non valori), un'opposizione radicale e compiuta,
di ordine anzitutto e soprattutto morale (giuridico, nel senso della moralità
specifica del diritto). La pena è dunque attività positiva, principio e
occasione per una profonda trasformazione spirituale; e spirituale nel senso di
etica non solo morale o interiore ma anche giuridica, se si tiene conto della
posizione del diritto nell'esperienza etica dell'agire nella vita. Già nel
momento ipotetico in cui viene prevista, la pena si giustifica nella necessità
di risolvere al positivo ogni situazione prevista come negativa; al tempo
stesso questa attività negatrice viene ritenuta dialetticamente arginabile con
un'altra attività, che realizza in concreto la profonda esigenza morale (in
quanto giuridica), che era alla base della norma e che porta a una
riaffermazione della norma stessa. Sempre dal negativo al positivo, entro i
limiti pratici in cui ciò è possibile (ma i limiti pratici non intaccano
l'indiscusso valore morale).
La pena è per Pigliaru
attività punitiva in quanto attività di reintegrazione del valore affermato
dalla norma e negato dal reato[48]. La norma opera nel
comando e continua a operare nel processo di attività reintegrativa che si pone
in essere per la esecuzione concreta della pena: portando il discorso della
norma dall'astratto al concreto, l'attività punitiva si pone come
estrinsecazione e piena realizzazione del valore attuale della norma come
valore pratico, dal negativo al positivo, perché il valore violato torni a
essere quale era attestato nell'imperativo. Questo rapporto tra astratto e
concreto porta Pigliaru a chiedersi se e in che modo nella pena quale attività
punitiva si realizzino i caratteri peculiari della pena come istituita
ipoteticamente dalla norma. Il «perché» della pena sta per Pigliaru – citando
Botero[49] – nella sua necessità,
un gesto di pessimismo se riguardato dal punto di vista del passato, e di
sicuro ottimismo se riguardato all'opposto dal punto di vista del futuro. Il
«modo» sta nell'ordine della relazione, quello della giustizia. Dunque la pena
come remora al vizio e alla malvagità dell'uomo in quanto ritenuto capace di
peccato, ma anche come essere dotato di libertà e quindi capace di redenzione e
di bene. In ciò possiamo ravvisare il profilo preventivo nella teoria di
Pigliaru: un significato rivolto sia alla collettività (prevenzione generale)
che al singolo autore del reato (prevenzione speciale), non mera deterrenza ma
in fondo anche opera di convincimento in positivo, e in questo senso
risocializzazione, nel senso proprio di rientro in quella comunità, di persone
e di valori, da cui si era volontariamente estraniato.
Ottimismo contro
pessimismo: «sopra la previsione del
male, speranza di bene, e, infine, speranza, nel male, di sempre possibile
ravvedimento, e certezza anzi di un
ravvedimento sempre possibile»[50]. La pena – istituita
come elemento integratore della norma – non può avere per Pigliaru altra
inclinazione che questa: un aspetto pedagogico, visto che il diritto vive
nell'ordine della disciplina e del governo (che è alla fine sempre
autogoverno).
In
fondo – così afferma oggi Donini[51] –
l'opzione penale contribuisce a creare un'etica (pubblica, ma nella
impostazione di Pigliaru dovremmo dire anche privata): sono proprio le ipotesi
di reato, le fattispecie penali con i loro precetti e le loro sanzioni, che
veicolano l'affermazione pedagogica di valori che si diffondono attraverso la
minaccia di pene criminali. Tutto ciò risponde – aggiungiamo – alla logica
della prevenzione generale c.d. positiva, non solo cioè come
intimidazione-deterrenza, ma anche come orientamento culturale. Infatti in
questa visione la minaccia della pena adempie una funzione morale-pedagogica o
di orientamento culturale dei consociati: la disapprovazione sociale favorisce
e stabilizza l’identificazione della maggioranza dei cittadini con il sistema
di valori protetto dall’ordinamento giuridico (formazione di un Super-io
osservante i comandi della legge); effetto che però viene meno se alla minaccia
non segue la sua effettiva applicazione.
Pigliaru insiste
sull'estrema utilità di un'indagine condotta parallelamente tra diritto e pedagogia, per una storia
veramente integrale della nozione di pena e di castigo[52]. Abbiamo già visto come
il passaggio dalla prevenzione generale (negativa) mediante intimidazione a
quella (positiva) mediante "orientamento" culturale dei consociati
abbia posto le premesse per un uso "pedagogico" del diritto penale
(c.d. moralismo penale)[53]. Dall'astratto al
concreto, il profilo pedagogico non si avverte però solo quando viene posta la
norma, ma anche al momento della pena, quello decisivo anzi – «per una sempre più salda conquista dell'uomo
all'uomo» – perché è qui che l'integrale valore dell'uomo è più minacciato,
stretto tra il peccato vecchio e la tentazione del peccato nuovo. La storia –
sottolinea Pigliaru – è una conquista di civiltà, sia nell'idea di pena nel
diritto che di castigo nella pedagogia, sulla via in ambedue le prospettive di
un integrale e proporzionato umanesimo: in questa prospettiva la pena si misura
e si esegue – come affermava Locke – «secondo dettano la ragione tranquilla e
la coscienza» non «l'ira passionale o la sfrenata stravaganza del volere»; la
ragione e non l'ira che – aggiunge Pigliaru – è sempre «delitto sopra delitto».
La proporzione tra pena e
fatto commesso è uno dei punti centrali dell'analisi di Pigliaru.
Ciò deriva innanzitutto
dalla coessenzialità della proporzione alla teoria della retribuzione, seguita
da Pigliaru, anche se in modo originale e non esclusivo (puro). Nella logica
della retribuzione, come formatasi storicamente, il male subito costituisce il
corrispettivo del male inflitto se e in quanto sia a questo proporzionato:
nella proporzionalità sta anzi la forma morale, la giustizia della pena, il
passaggio dall'idea di vendetta alla pena, che è atto di ragione e quindi
reazione proporzionata[54].
Pigliaru vede
innanzitutto (ancora seguendo Locke) nella inflizione della pena l'espressione
del magistero essenziale della legge, la quale anche per questo suo magistero
non può essere violata impunemente[55]. Dunque il rispetto
della legge rappresenta un valore in sé, e la violazione di essa richiede una
retribuzione per reintegrarne il valore. Sempre proseguendo nell'affiancamento
tra diritto e pedagogia, Pigliaru ravvisa similitudini tra l'opera di Vegio[56] e quella di Beccaria, in
particolare quanto alla denunciata chiarissima insufficienza, così critica che
pratica, della violenza come tale, «un fallimento», sia nel percorso pedagogico
che in quello giuridico penale. Così come Vegio (nella prospettiva agostiniana)
ammetteva la possibilità (positiva) di un intervento dell'autorità pur in una
pedagogia della libertà, altrettanto Beccaria non rinunciava certo al castigo
come positivo strumento di abitudine morale dove si renda necessario (quia peccatum) e purché di giusta
proporzione («basta che il male – la sofferenza – della pena eccede il bene –
l'utilità – che nasce dal delitto»). Dunque anche per Pigliaru la punizione in
sé ha un valore positivo, con contenuti di espiazione, di riaffermazione del
valore della legge e di orientamento morale; l'espiazione, poi, fornisce quasi
una molla per il riscatto della persona condannata. Ma questa molla può
scattare – lo sosteneva già Beling e lo si conferma oggi – solo se sentita come
giusta, cioè proporzionata, altrimenti verrebbe meno nei consociati il senso di
fiducia e di rispetto verso l'autorità pubblica. Qualsiasi prospettiva
di rieducazione attraverso la pena risulterebbe frustrata – si
osserva ancora – se il condannato avvertisse la pena che gli viene
inflitta come un’incomprensibile vessazione, ciò che accadrebbe se gli venisse
applicata una pena sproporzionata per eccesso rispetto alla colpevolezza
individuale. Nella commisurazione della pena le considerazioni di prevenzione
speciale incontrano dunque un limite invalicabile segnato dalla colpevolezza
per il singolo fatto (rieducazione entro il limite della colpevolezza)[57].
La retribuzione e la
proporzione – avverte Pigliaru – vanno rettamente interpretate: infatti deve
ritenersi falsamente retribuita e mal proporzionata quella pena che guardasse
solo all'entità del reato e non all'animo del reo, in quanto soggetto del reato
e, come tale, soggetto alla pena; insomma la pena andrebbe considerata da un
punto di vista funzionale, intorno alla sua «intensione» in rapporto alla
«estensione». La prima misura della pena – concorda Pigliaru – deve rimanere il
reato, bastando però che il male, la sofferenza, ecceda il male del delitto,
come appunto magistralmente diceva Beccaria[58]. Il passaggio dalla
considerazione del reato a quella del reo trova conferma nel diritto positivo,
tra gli indici di commisurazione della pena nel nostro codice penale: l'art.
133 al primo comma prende innanzitutto in considerazione la «gravità del
reato», per come si deduce dalle caratteristiche della condotta, dall'entità
del danno o del pericolo che ne è derivato, o dall'intensità del dolo o dal
grado della colpa; e nel secondo comma si afferma che «il giudice deve tener
conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole», nel senso (dubbio)
retrospettivo o prognostico di cui si è accennato prima.
La necessità di
adeguamento della sanzione (al reato e al reo) è ben presente in Pigliaru, che assegna
all'attività punitiva il compito di operare per la piena restitutio in integrum, nei limiti delle umane possibilità, di
tutte le situazioni che quella vicenda implica e delle quali è essa medesima il
risultato complessivo e culminante, insomma verso un valore che è pur sempre
unico. Questo valore per essere perseguito necessita del coinvolgimento (della
considerazione) di tutti i soggetti del rapporto punitivo e dunque anche del
soggetto attivo del reato, sia che gli si imponga o un fare o un patire, o un
fare e un patire insieme, perché dovuto all'altro ma senza sacrificio di ciò
che a lui è comunque dovuto come uomo e soggetto (del rapporto), in vista di
una ulteriorità di svolgimento della sua condizione[59].
La pena è dunque
situazione e valore, tra passato, presente e futuro (quia peccatum, ne peccetur), opera su una situazione di fatto
giudicata moralmente in virtù di un intervento attuale, che esprime e riafferma
un valore. La pena interviene con la consapevolezza che la situazione reale non
è solo quella apparente «del» reato, quanto e piuttosto quella apparente «dal»
reato, quella cioè del reo. Il valore della pena come «medicina esterna»
risiede nella possibilità e capacità che essa ha di «ferire» il cuore medesimo
dell'uomo[60].
Pigliaru rammenta poi che
attività punitiva significa non solo attività processuale di attribuzione di
pena, «ma poi (e forse ma soprattutto) attività di altrettanto sicura
esecuzione, dove la pena è veramente pena, attività punitiva concreta tutta
realizzata e in certo senso, finalmente tutta
pena»[61]. Proprio in questa fase,
di fronte all'attività punitiva c'è solo il reo come soggetto alla pena, un
uomo con la sua dignità (anche giuridica), che potrà essere (inevitabilmente)
svilita ma non abolita. Quel soggetto – continua Pigliaru – attuando la propria
negazione si conferma soggetto, capace di redenzione in quanto capace, anche
nel peccato, di coscienza. Se non si tenesse conto di questa realtà,
significherebbe infliggere una anticipata condanna a morte, l'unica pena che
non ammette possibilità pedagogica. Sarebbe un non senso, sarebbe vano e
paradossale: nell'esecuzione invece la pena deve porsi per il soggetto nei
termini di una vitale esperienza morale, in cui anche la coercizione si può
porre come possibilità di persuasione risolvendosi in qualcosa di positivo.
Ferma la proporzione, che già di per sé rappresenta un primo messaggio
(positivo) per il condannato, la fase esecutiva dovrebbe porsi come vera e
propria «didattica della pena», portando a compimento quel processo di
«individualizzazione della pena», in cui Pigliaru ravvisa la più costante cifra
della storia stessa del diritto penale.
Oggi possiamo ritenere
punto di arrivo quello per il quale la discrezionalità del giudice nella
commisurazione della pena rappresenta proprio il tentativo di
individualizzazione di essa, in forza dei principi costituzionali di
eguaglianza, di personalità della responsabilità penale e di colpevolezza: per
il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) non si possono trattare nello stesso
modo situazioni differenti (e ciascun fatto di reato e ciascun reo presentano
una loro specificità); poi per quello di personalità della responsabilità
penale (art. 27 comma 1 Cost.), ciascun reo deve vedersi infliggere una pena
adeguata alla sua misura di colpevolezza; infine la esigenza di rieducazione
(posta come principio fondamentale della pena nell'art. 27 comma 3 Cost.)
presuppone una analisi personalistica che va proprio nel senso della
individualizzazione, prima nella sua previsione al momento della condanna poi
nella successiva fase esecutiva del trattamento[62]. La discrezionalità di
cui gode il giudice (artt. 132 e 133 c.p.) va intesa come concretizzazione dei
giudizi di valore della legge e come realizzazione nel caso concreto dei fini
perseguiti da essa: la fattispecie legale è una sorta cioè di scala continua di
sottofattispecie, all'interno della quale il giudice deve collocare in una di
esse il fatto su cui giudica, per perseguire fino in fondo la giustizia del
caso concreto[63].
La giusta retribuzione è
– nella visione di Pigliaru – quella proporzionata alla misura del reato e
arricchita dalla «sensibilità» verso le esigenze di punizione concreta; insieme
cioè alla «giusta vendetta»[64], la chiara coscienza
dell'aspetto profondamente pedagogico della pena, «un ponte coraggiosamente e fiduciosamente gettato dal passato al futuro»,
giacché nulla autorizza a escludere quella possibilità di rigenerazione
spirituale che sola può riportare al pareggio – con sé stesso e con gli altri
tutti – la vicenda iniziata con la commissione del reato[65].
Pigliaru insiste
(richiamando Carrara) sulla possibilità di conciliare l'idea di pena come
retribuzione a titolo afflittivo con un processo educativo o rieducativo. Va
data insomma la possibilità di un intimo svolgimento morale durante la pena,
svolgimento che può esserci o non esserci, ma che va comunque sempre
rigorosamente offerto e perseguito. La nozione di pena tra retribuzione e
rigenerazione è la sola, in quanto integrale, che può validamente impostare e
concludere il discorso sul valore morale della pena. Risolvere la nozione di
pena in quella di attività punitiva significa la piena affermazione del
carattere proprio di tutta la complessa attività punitiva come piena
reintegrazione della dignità umana, come valore di solidarietà e partecipazione
interiore.
Laddove proprio sembra
vincere il peccato, si cerca di risvegliare la coscienza sociale, che è la
coscienza reale di ogni uomo, il quale sappia essere fino in fondo quel
soggetto di piena dignità spirituale che egli sa di dover essere, conclude
Pigliaru[66].
Protagonista dell'intera
vicenda penale è dunque la persona umana, dal momento della posizione della
norma al punto più basso della sua parabola spirituale, la commissione del
reato, e alla sua possibile rinascita morale. Il recupero di una dimensione di
umanità durante tutto il percorso del diritto penale è dunque l'obiettivo di
Pigliaru e in definitiva il contributo profondo che ci lascia questo intenso
saggio.
Dai tempi in cui scriveva
Pigliaru a oggi il diritto penale ha "subìto" tali e tante
modificazioni normative, in quantità più che in qualità, che non è semplice
innervare questa dimensione di umanizzazione nell'ordinamento vigente e nelle
riflessioni su di esso. Almeno sul piano dei principi – e non è poco – alcuni
messaggi però rimangono e già li abbiamo colti nella nostra analisi, riprodotti
in particolare nel principio di colpevolezza, nella capacità a delinquere e
nelle finalità della pena.
Un diritto penale segnato
nelle sue diverse fasi da un livello superiore di partecipazione personale è in
grado innanzitutto di poter aspirare a una maggiore effettività, perché più
sentito come proprio. L'idea di solitudine poi del reo, parte costitutiva
anch'esso del consorzio umano, da cui esce e a cui si dà la possibilità di
rientrare, esprime in pieno il senso della risocializzazione della pena.
Inoltre l'attenzione per il caso concreto e per l'umanità che vive in esso,
prima, durante e dopo la commissione del reato, dovrebbe consentire di salvaguardare
gli interessi di tutte le persone coinvolte, compresa anche la vittima,
soggetto spesso negletto del percorso penalistico e da inserire invece
pienamente nel rapporto giuridico complessivo di cui parla Pigliaru. Non solo
il necessario passaggio dall'astratto al concreto, ma anche quello dal negativo
al positivo, dal pessimismo all'ottimismo, sono indici di una considerazione
profonda della persona umana nel diritto penale.
Il messaggio più intenso
che ci lascia la lettura del saggio di Pigliaru è però l'idea, magari ingenua e
sognatrice, di un diritto penale nel quale i cittadini ritrovino davvero il
senso di ciò che è giusto e non solo di ciò che è conveniente; e di un diritto
penale il quale attende che valori e principi ideali tornino a nascere e
crescere nella realtà sociale e politica, per presentarsi poi davanti a esso
già fermi e condivisi, con la sola legittima pretesa di trovare nel diritto
penale l'ultima ratio di tutela.
The essay Saggio sul valore morale della pena written by Antonio Pigliaru is a reference to the humanization of
criminal law, that is to consider that the absolute protagonist of the penal
question, from the moment in which the rule of law is set to the moment in
which the punishment is executed, is always the man. From this becomes, in
addition to a correlation between law and ethics, one subjective conception of
criminal law, with function of guarantee, and a vision open to aims of
punishment, between retribution and rehabilitation. The crime is, in his
vision, social break, denial of staying in society and of social values, but to
the culprit is offered the possibility of a spiritual regeneration and of a
reentry in the social consortium. Among the many sparks for thoughts, the more
intensive message which the lecture of the Pigliaru’s essay leaves us is the
idea of a criminal law in which citizens find the sense of what is right and
not only of what is convenient.
Il Saggio sul valore
morale della pena di Antonio Pigliaru costituisce un richiamo alla
umanizzazione del diritto penale, un invito cioè a considerare che
protagonista assoluto della vicenda penale, dal momento in cui la norma viene
posta a quello in cui viene eseguita la pena, è sempre l'uomo. Da ciò deriva,
oltre a una correlazione tra diritto ed etica, una concezione soggettivistica
del diritto penale, con funzione garantista, e una visione aperta delle
finalità della pena, tra retribuzione ed emenda. Il reato è, nella sua visione,
rottura sociale, negazione dello stare in società e dei valori in essa
condivisi, ma al colpevole si offre la possibilità di una rigenerazione
spirituale e di un rientro nel consorzio sociale. Tra i tanti spunti di
riflessione, il messaggio più intenso che ci lascia la lettura del saggio di
Pigliaru è l'idea di un diritto penale nel quale i cittadini ritrovino davvero
il senso di ciò che è giusto e non solo di ciò che è conveniente.
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] A.
PIGLIARU, Saggio sul valore morale della
pena, in Studi Sassaresi, I-II,
1952, 21-65, inserito anche come appendice in un volumetto del 1959 che
contiene le Meditazioni sul regime
penitenziario italiano, Gallizzi, Sassari, 1959, 61-97. Più facilmente
disponibile una edizione (del 2006 e poi ancora) del 2010 pubblicata dalla casa
editrice Il Maestrale, Nuoro, delle Meditazioni
con in appendice il Saggio nell'ambito
de I Quaderni di Antonio Pigliaru. Le
citazioni saranno riferite sia alla pubblicazione originale in Studi Sassaresi sia a quella del 1959,
ripubblicata recentemente.
Le varianti
che reca la pubblicazione del 1959 vengono giustificate da Pigliaru, in
premessa, per l'esigenza di «rendere
attuale il discorso» e di «liberare altresì quel
nocciolo di pensiero che forse contenevano sin dal principio». In particolare ciò vale –
precisa Pigliaru – per la considerazione del diritto come azione e della pena «come quella posizione tipica
del diritto in cui e per cui l'ordinamento realizza la propria tutela, cioè la
tutela (giuridica) di tutto ciò che "compendia", all'interno della
sua stessa esperienza e quindi nella concreta realtà dell'esperienza e della
vita». I
due concetti di diritto come azione e di pena come azione di tutela giuridica
richiamano alla memoria in Pigliaru la figura (specialmente) di Francesco
Carrara. Sul solco di questi concetti, Pigliaru si concentra sulla «morale giuridica» che nascerebbe proprio da
essi e la quale darebbe «fondamento
a quella democrazia penale che dovrebbe definire … la concreta posizione etica
di un ordinamento tutto coerente con le vitali e profonde ragioni della nostra
cultura»; … di
un ordinamento che realizzando nelle proprie posizioni concrete un'effettiva e
concreta umanizzazione della pena, così scopre e realizza se stesso secondo
l'uomo».
[2]
Vedine i profili biografici in L. CAIMI, Motivi
pedagogici e impegno educativo in Antonio Pigliaru, Milano 2000, in
particolare sulla sua detenzione 15 ss. Il saggio sul valore morale della pena
deve dunque essere accompagnato dalla lettura delle Meditazioni sul regime penitenziario, in Jus, 1954, IV, 518 ss. (e nelle successive edizioni prima citate).
Per un breve profilo umano e scientifico, M.A. CATTANEO, Ricordo di Antonio Pigliaru, in Riv.
int. fil. dir., 1969, 358 ss.
[7] A
caratterizzare il reato sono dunque, a un tempo, sia un disvalore dell'evento
(l’offesa del bene giuridico) che un disvalore dell'azione(la violazione
dell’obbligo): così M. ROMANO, Commentario
sistematico del Codice Penale, I, art. 1-84, 3a ed., Milano 2004, 299 ss.,
cui si rimanda per gli (infiniti) approfondimenti di teoria e bibliografia.
[8] G.
MAGGIORE, Principi, cit., 125. Pigliaru respinge in anticipo possibili
critiche di contaminazione nel porre l'interesse tutelato come valore,
riaffermando anzi che in tal modo da un canto si attribuisce una definizione
giuridica (cioè di valore) alla nozione di interesse, e dall'altro si assegna
un contenuto concreto e preciso a quella di valore giuridico.
[9] La teoria del minimo etico risale a G. JELLINEK (Die sozialetische Bedeutung von Recht,
Unrecht und Strafe, Wien 1878, 48: «Das Recht ist das ethische Minimum»). Nell'accezione di V. MANZINI, Trattato di diritto penale, I, 38: «il diritto penale, di fronte agli altri ordinamenti giuridici e
alla morale, si presenta come il minimo della quantità etica ritenuta
indispensabile e sufficiente per mantenere le condizioni necessarie ad una
determinata organizzazione politico-sociale (minimo del minimo)». Vedi per più ampie
esposizioni F. BASILE, Immigrazione e reati
culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali,
Milano 2010, 107 ss.
[10] Così
anche un altro penalista spesso assunto come riferimento da Pigliaru, cioè G.
MAGGIORE, Principi, cit., 15: «Il divenire della coscienza
morale si arresta, quasi si solidifica, in una legge certa, astratta, rigida:
questa è la legge giuridica».
Maggiore considerava il diritto come un «momento» della vita morale, ma certo
non una porzione minima, perché la morale non ha parti, si ribella a ogni
quantificazione. Egli anzi vedeva (16) nel ritorno alla genesi etica dei
concetti di delitto e di pena l'unica via di progresso per il diritto penale.
In questo senso anche G. BATTAGLINI, in Rivista
italiana per le scienze giuridiche, Roma 1938, 121. Contro questo ampliamento
proprio V. MANZINI, Trattato, I,
cit., 30, e R. PANNAIN, Il diritto penale
e la morale, in Scritti giuridici in
onore di Manzini, Padova 1954, 343 ss.
[11] G.
BETTIOL, Diritto Penale, cit., 113.
Cfr., sul c.d. teleologismo di Bettiol, le osservazioni di F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 28, a proposito
del rischio di sconfinamento nel diritto positivo di elementi sostanziali
extralegislativi.
[12] G.
DELITALA, La crisi del diritto nella
società contemporanea, in AA.VV., La
crisi del diritto, Padova 1953, 79, affermava che: «la rinascita del diritto naturale non
pretende più di negare la storia, che è un perenne, incessante divenire: si
limita perciò soltanto ad affermare che vi è un insieme di principi, i quali
hanno un valore assoluto di razionalità e di eticità, che lo Stato non può
calpestare senza negare lo stesso fine del diritto».
[13] G.
BETTIOL, Diritto Penale, cit., 115. Per l'attenzione della dottrina
tedesca al giusnaturalismo in quel periodo, in generale T. WÜRTENBERGER, Die geistige Situation der deutschen
Strafrechtswissenschaft, 2. Aufl., Karlsruhe 1959, trad. it. a cura di
Losano - Giuffrida Repaci, La situazione
spirituale della scienza penalistica in Germania, Milano 1965, passim.
[14] Anzi
viene visto come un rischio per il principio di ultima ratio che in molti settori giuridici, sia tradizionali che
nuovi, il diritto penale venga invocato e utilizzato non come mezzo di
risoluzione preventiva di specifici conflitti sociali, ma come «sistema di
prevenzione (generalizzata) della conflittualità sociale», come strumento di
socializzazione, «vettore di stabilizzazione sociale» (C.E. PALIERO, L’autunno
del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1228). La tendenza a considerare il
diritto penale come mezzo pedagogico per la popolazione, come mezzo di
“sensibilizzazione” o di “promozione” produrrebbe infatti come esito
l'invasione di sfere e compiti dello Stato sociale, che sono propri di altri
rami del diritto e dell’organizzazione sociale (F. BRICOLA, Tecniche di tutela penale e tecniche
alternative di tutela, in AA.VV., Funzioni
e limiti del diritto penale, Padova 1984, 46). In un siffatto contesto, il diritto penale finirebbe per
rivestire un ruolo non più di extrema,
ma di sola o unica ratio per la
soluzione dei problemi sociali. Vedi W.
HASSEMER, Produktverantwortung im
modernen Strafrecht, Heidelberg
1996, 8. Cfr.
J.M. SILVA SÁNCHEZ, La expansión del Derecho
penal. Aspectos de política
criminal en las sociedades postindustriales, 2a ed., Madrid 2001, 25 ss. Anche F. MANTOVANI, Criminalità sommergente e cecità
politico-criminale (segni anch’essi di una civiltà decadente?), in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1201
ss., sul venir meno degli altri sistemi sociali di controllo, e la conseguente
trasformazione del diritto penale da extrema
a unica ratio: un diritto della “perenne emergenza”, che si estende
in quantità e peggiora in qualità. Sia consentito infine il richiamo a G.P.
DEMURO, Ultima ratio: alla ricerca di
limiti all'espansione del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1654 ss. e in versione più ampia in
Diritto@Storia, 11, 2013 < http://www.dirittoestoria.it/11/contributi/Demuro-Ultima-ratio-limiti-diritto-penale.htm >.
[15] M.
DONINI, Presentazione (in Dir. pen. cont.
15 febbraio 2015) del volume dello stesso Autore dal titolo Il diritto penale come etica pubblica.
Considerazioni sul politico quale 'tipo d'autore', Modena 2014.
[17] B.
PETROCELLI, Considerazioni sui rapporti
fra diritto e morale, in Saggi di
diritto penale, II serie, Padova 1965, 182: «come il diritto penale trova nella morale, almeno in parte
notevole, la sua origine e il suo fondamento, così, per un'evidente
correlazione, ne trae il presidio più costante sia della sua intima efficacia
nelle coscienze, sia della sua osservanza nella vita sociale».
[18] Supra nt. 14. Vedi anche M. ROMANO, Commentario, cit., 10, per
l'affermazione secondo la quale l’ordinamento giuridico presuppone un ordinamento sociale, sul
quale viene a insistere e al quale viene ad aggiungersi in funzione di maggior
certezza, stabilizzazione, potenziamento. I due ordinamenti – aggiunge Mario
Romano – devono tendere tra loro a una relativa prossimità, dato che la stessa
credibilità dell'ordinamento giuridico, e del diritto penale in particolare, si
gioca anche qui, nella quantità di consenso sociale su cui può contare.
[19]
Riguardo al testo di Donini sull'etica pubblica, vedi anche la recensione,
ricca di spunti di riflessione su etica e diritto penale, di F. PALAZZO, in Rivista italiana per le scienze giuridiche,
nuova serie, 5/2014, 285 ss.
[21] A. MORO, L'antigiuridicità
penale, Palermo 1947, 82. Affermava E. PESSINA, Elementi di diritto penale, Napoli 1880,
159-160 e 313-314 che il dolo, dunque, in quanto volizione del maleficio, è
opera di intelligenza e di libertà: «maleficio è dunque l’azione della libertà
umana che infrange il Diritto».
[22] Corte
cost. 24 marzo 1988, n.
[23] Corte
cost. 24 marzo 1988, n. 364, cit., 699. La «libera
scelta d’azione», che costituisce – secondo questa sentenza – l’essenza
della responsabilità penale, comprende l’intera dimensione soggettiva
dell’illecito. Non solo, come presupposto
della colpevolezza, la possibilità di
scegliere tra lecito e illecito (art. 5 c.p.), e non solo la volontà come
«principio dell’azione in generale», quella cioè racchiusa nella coscienza e
volontà dell’azione od omissione (art. 42 comma 1 c.p.), ma anche, come elemento stesso della colpevolezza, la
volontà come «principio razionale dell’azione», la scelta cioè riguardante l’imputazione soggettiva dolosa (art. 43
c.p.).
[25] A.
PIGLIARU, in Studi Sassaresi, 30-31 e
in appendice a Meditazioni, 71. Il
rapporto tra colpevolezza e libertà del volere è posto in questi termini, oggi,
da M. ROMANO, Commentario, cit., 327:
«la colpevolezza presuppone una libertà di agire dell’uomo, una libertà del
volere; non necessariamente un libero arbitrio inteso come a-causale, a-motivata
spontaneità e creatività, sì invece una libertà come capacità dell’uomo,
seppure entro certi limiti, di autodeterminarsi, di assumere decisioni, di
optare tra più alternative, di scegliere se adeguarsi o ribellarsi al diritto».
Per il dolo – «forma tipica della volontà colpevole» – come «volontà cattiva»,
già F. ANTOLISEI, Manuale di Diritto
penale. Parte generale, 16a ed. agg. e int. da L. Conti, Milano 2003, 345
ss. e 360, sulla consapevolezza di agire in contrasto con le esigenze della
vita in comune, sul rendersi conto di nuocere ad altri.
[26] Così
F. MANTOVANI, Diritto penale, cit.,
631-632, descrive la prima delle due funzioni della capacità a delinquere,
aggiungendo che essa va perciò rapportata prima che al grado di malvagità
espresso dal reo nel fatto criminoso, alla genesi della volontà colpevole: al
grado di capacità di intendere e di volere quel reato, e pertanto all'insieme
delle motivazioni, dei fattori condizionanti il reato commesso, e quindi al
grado di libera scelta del medesimo. Il giudizio che di tale strumento dà
Mantovani è – se
usato responsabilmente – positivo,
perché contribuirebbe a una maggiore individualizzazione della responsabilità
del soggetto e di conseguenza a una giustizia più aderente al caso concreto.
Sulla capacità a delinquere, anche per la influenza che avrebbero potuto avere
su Pigliaru, F. ANTOLISEI, La capacità a
delinquere, in Riv. it., 1934,
168, e P. NUVOLONE, La capacità a
delinquere nel sistema del diritto penale, Piacenza 1942; e poi in generale
M. SPASARI, Capacità a delinquere e pena,
in Indice penale, 1978, 3 ss., e O.
CUSTODERO, La capacità a delinquere e la
commisurazione della pena, in Riv.
it. dir. proc. pen., 1998, 78 ss.
[27] Cfr.
in senso diverso Cass. pen., sez. II, 5 giugno 2006, Aresu, CED Cassazione
184786; Cass. pen., sez. II, 29 ottobre 1981, Volpe, CED Cassazione 152297;
Cass. pen., sez. I, 11 novembre 2011, Barreca, CED Cassazione 212192.
[28] G.
MARINUCCI - E. DOLCINI, Manuale di
Diritto Penale, 6a ed.
(aggiornata da E. Dolcini e G.L. Gatta), Milano 2017, 683 e 686.
[30] La
necessità di intendere – in via interpretativa – le
ipotesi di responsabilità oggettiva come se già contenessero il limite della
colpa, dunque con un grado di appartenenza soggettiva che va oltre la suitas e investe l'atteggiamento
psicologico verso il fatto tipico, è stata affermata dalla Corte costituzionale
con la sentenza n. 322 del 24 luglio 2007 e ribadita con quella n. 172 del 1°
ottobre 2012.
[32]
L'idea della retribuzione si fonda su basi metagiuridiche, razionali e
spiritualistiche. La maggiore influenza è stata esercitata dalla teoria della
pena di Kant: basandosi sulla concezione dell'uomo come «personalità», essa afferma che l'uomo non
può essere usato come strumento per raggiungere finalità a lui estranee e
dunque la pena deve avere un fondamento etico assoluto; ciò che giustifica la
pena è soltanto la realizzazione dell'idea di giustizia, attuabile solo
attraverso la retribuzione. Per le varie differenze in ordine a tale teoria, F.
MANTOVANI, Diritto Penale, cit., 716.
Sull'essenza etico-retributiva della pena, la bibliografia è vastissima: basti
ricordare oltre Bettiol, B. PETROCELLI, La
funzione della pena, in Riv. dir.
penit., 1935, 1315 ss.; più recentemente, M. RONCO, Il problema della pena, Torino 1998; e per un'analisi critica, L.
EUSEBI, La «nuova» retribuzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 914 e
1315.
[33] Così
G. BETTIOL, Diritto Penale, cit.,
725. Vedi successivamente C. ROXIN, Considerazioni
di politica criminale sul principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 369 ss.
[35] G.
BETTIOL, Diritto Penale, cit., 737. Vedi anche G. BATTAGLINI, Diritto penale. Parte generale, Padova
1949, 533 e M. SPASARI, Diritto penale e
Costituzione, Milano 1966, 121.
[36] In
quel periodo, proprio di G. MAGGIORE, Principi,
cit., 362 ss., una forte difesa dell'esclusività della retribuzione come
spiegazione della pena.
[39] F.
MANTOVANI, Diritto penale, cit., 717.
Nel periodo in cui scrive Pigliaru, G. MAGGIORE, Principi, cit., 361-362, avvisava come il maggior fascino della
teoria correttiva fosse dato proprio dal suo carattere etico-pedagogico (a cui
effettivamente Pigliaru si dimostrava sensibile). Importanti dal punto di vista
della posizione di Pigliaru queste parole di Maggiore: «Il carattere idealistico
della dottrina risalta dal fatto che essa non considera il delitto come un
fatale prodotto naturale, e la pena come una fatale difesa, ma giudica il
delinquente come un essere spirituale, fornito di coscienza e libertà etica, e
perciò capace di migliorarsi».
L'obiezione principale che muove Maggiore è quella che la pena non si dirige
soltanto all'individuo, ma serve alle supreme esigenze dell'ordine etico e
giuridico: dunque può essere solo un fine eventuale, non costitutivo ed
essenziale della pena.
[40] Per
descrizione e bibliografia sulla Sühnetheorie, E. DOLCINI, La commisurazione
della pena, Padova 1979, 122.
[41] A.
PIGLIARU, in Studi Sassaresi, 39 e in
appendice a Meditazioni, 79. Belle e
significative queste parole (79 dell'Appendice del 1959): «Il soggetto della pena invece
è uomo (è sempre uomo), eccolo qui, allora, come attore, sempre come attore,
dolorosamente e attivamente partecipare ad un dramma che è ora la sua stessa
vita, il suo stesso dramma interiore, senza scampo se non per quel tanto di
luce che egli riesca a dare a se medesimo, alla propria coscienza, contro il
proprio peccato e infine contro se stesso».
[44] Vedi R.
PIZZORNI, Diritto, Etica e Religione. Il
fondamento metafisico del diritto secondo Tommaso D'Aquino, Bologna 2006,
in particolare 60 ss. Proprio San Tommaso osserva che «compito proprio della
giustizia, tra tutte le altre virtù è di ordinare l'uomo nei rapporti verso gli
altri. … La giustizia riguarda le operazioni con le quali l'uomo non solo viene
ordinato in se stesso, ma anche in rapporto all'altro» (S. Th., II-II, q. 57, a. 1), e questo "altro" è la
persona sia considerata individualmente che come società. Importante dunque
nella prospettiva del rapporto giuridico portata avanti da Pigliaru l'idea di
San Tommaso per la quale la giustizia ha a che fare essenzialmente con l'altro,
l'essere-altro, l'essere-altro considerato nella sua alterità, e si afferma nel
rapporto intersoggettivo, nel vivere uno con l'altro. La materia del diritto è
la giustizia, e «iustitia est ad alterum»: da qui la nota formale
della giustizia, l'alterità, la bilateralità e intersoggettività, il «suum
unicuique tribuere» per
cui «la
nozione stessa di giustizia esige un riferimento ad altri, … e perciò non
consiste che nel rapporto di un uomo all'altro» (S. Th., II-II, q.
58, a. 2).
[49]
Giovanni Botero, filosofo italiano del Seicento, autore tra l'altro dell'opera
"Della ragion di stato" nel
1589, sosteneva che «il
vizio e la malvagità, se non è trattenuto dalla paura della pena, manda tutto
sossopra». Vedi
C. CONTINISIO, Giovanni Botero, in Il contributo italiano alla storia del
pensiero - Diritto (2012), < http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-botero_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Diritto%29/ >.
[53] F.
PALAZZO, in Rivista italiana per le
scienze giuridiche, cit., 290. Sui rischi però di un diritto penale
"moralistico", 291. Per Palazzo sono ancora ben radicati nella pena
come oggi noi la conosciamo i retaggi di una concezione religiosa o comunque
eticizzante della punizione, che fa del "rimprovero" morale il suo
asse portante: insomma il rischio è cadere in un diritto penale dell'autore e
non del fatto, visto che il rimprovero, quasi ineluttabilmente, «tende a trasmigrare dal fatto
commesso all'autore che l'ha commesso, per l'ovvia e irrefragabile ragione che,
se il rimprovero ha ad oggetto la volontà, esso non può non coinvolgere la
persona».
[54] Sui
caratteri della pena retributiva, «autentiche conquiste di civiltà», tra i manuali, ampiamente F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 716-717.
[56]
Maffeo VEGIO (1407-1458), umanista italiano, autore tra le altre dell'opera
pedagogica "De liberorum educatione
et claris moribus libri VI" (Roma 1443), tra morale cristiana e
impronta umanistica.
[57] G.
MARINUCCI - E. DOLCINI, Manuale di
Diritto Penale, cit., 16. Già E.
BELING, Die Vergeltungsidee und ihre
Bedeutung, cit., 62 e G. BETTIOL, Diritto
penale, cit., 739.
[58] C.
BECCARIA, Dei delitti e delle pene,
5a ed., Harlem 1766, riprodotta a cura di F. Venturi, Milano 1991 e Torino
2007, § XXVII ("Dolcezza delle pene"): «Perché una pena ottenga il
suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto,
e in questo eccesso di male dev'essere calcolata l'infallibilità della pena e
la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di piú è dunque
superfluo e perciò tirannico».
[62] Cfr.
recentemente L. TUMMINELLO, Il volto del
reo. L'individualizzazione della pena tra legalità ed equità, Milano 2011,
cui si rimanda anche per la vasta bibliografia (nt. 4 pag. XIX
dell'introduzione). L'Autore precisa che il concetto di individualizzazione ha
varie accezioni: esso può essere associato alla funzione di prevenzione
speciale, con particolare riferimento alla esigenza di differenziazione delle
risposte sanzionatorie; poi può essere inteso nel senso di una risposta penale
quanto più proporzionata alla gravità del reato e alla colpevolezza del reo, in
chiave retributiva; e anche come riferimento a possibili risposte su base
riparativa, tenendo conto cioè degli effetti sulla vittima. Fondamentale in
generale ancora E. DOLCINI, La
commisurazione, cit., 35.
[63]
Riferimento essenziale sempre l'opera di FRANCO BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano 1965, passim.
[64]
Importante il contributo agostiniano all'impostazione di PIGLIARU (citazioni in Studi Sassaresi, 54-55 e in appendice a
Meditazioni, 95-96), sia sul piano
della necessità e inevitabilità della punizione, sia su quello del
coinvolgimento morale del reo. Per Sant'Agostino (Enarr. in ps. 58, d. 1, 13): «È necessario che a ogni ingiustizia, grande o piccola, segua una
punizione, o da parte dell'uomo stesso che si pente, o da parte di Dio che si
vendica. Infatti anche colui che si pente, già punisce se stesso … La colpa che
tu hai commessa non può restare impunita; ma la punizione parta piuttosto da te». Insomma il peccato, per
Sant'Agostino, non può restare impunito: o sarà punito da Dio o sarà punito da
noi. Vedi A. TRAPÈ, Sant'Agostino uomo e
maestro di preghiera: testi scelti, Roma 1995, 78, e A. CASSI, La Giustizia in Sant'Agostino. Itinerari
agostiniani del quartus fluvius dell'Eden,
Milano 2013, passim.