INDIVIDUI,
COMUNITA’, COLLETTIVITA’
Introduzione
a un’antropologia del conflitto
GIOVANNI COSI
Università di
Siena
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Contratti e conflitti. – 3. Distorsioni percettive. – 4. Dalla banda allo stato. – Abstract.
Siamo
individualisti aggressivi o animali sociali? Siamo 'per natura' competitivi,
oppure collaborativi? La filosofia prima, poi l'antropologia, la sociologia, la
psicologia, l'etologia si sono confrontate col fenomeno del conflitto,
interrogandosi con metodi e prospettive diverse sul significato della sua
presenza in tutti i gruppi umani associati.
Quello
del conflitto è infatti un mondo in larga parte enigmatico e imprevedibile,
intrecciato di interessi, passioni, comportamenti, motivazioni; dove il
confronto di forza, nelle sue innumerevoli declinazioni, è sempre in
agguato. Il suo motore è alimentato dalla differenza – il segno
distintivo degli individui della nostra specie - che lo fa estendere dal
semplice dissenso fino al dissidio insanabile, continuamente oscillando tra le
possibilità della riconciliazione o della rottura irrevocabile.
Le
tante teorie che cercano di spiegarlo, così come i molti rimedi con cui i gruppi sociali hanno sempre
tentato, con alterne fortune, di gestirlo, si rispecchiano bene nella sua
natura multiforme e inafferrabile.
Le
differenti concezioni di 'stato di natura' su cui i contrattualisti moderni
fondavano le loro costruzioni politico-sociali, altro non sono, a ben guardare,
che delle teorie del conflitto. Teorie che all'epoca, per mancanza di indagini
antropologiche, potevano essere soltanto postulatorie; e perciò utili
soprattutto a giustificare le rispettive geometrie filosofiche.
Secondo
Hobbes, nel Leviatano, l'esistenza nello stato di natura è «solitary,
poor, nasty, brutish and short»; e gli individui combattono continuamente a
causa di «Competition, Diffidence and Glory». “Competition” spinge a lottare
per “Gain”, per il guadagno; “Diffidence” per “Safety”, la sicurezza; “Glory”
per “Reputation”, la credibilità, la fama. Nella visione meccanicista di
Hobbes, ogni uomo si muove incessantemente verso ciò che desidera, e
incessantemente si allontana da ciò che detesta: la felicità (felicity)
non è altro che il «continuall successe in obtaining those things which a man
from time to time desireth»[1].
Questa macchina appetitiva, alimentata dal desiderio e dalla paura, non si
ferma mai. La sua attività, inoltre, è orientata verso il futuro, perché gli
individui non si occupano soltanto di soddisfare i loro desideri attuali, ma si
preoccupano anche della propria capacità di soddisfare quelli futuri. Perciò si
concentrano e si impegnano per ottenere il potere, che Hobbes definisce
come «present means to obtain some future apparent Goods»[2]: il
bene più importante, che organizza l'accesso a tutti gli altri e che tanto è
più grande quanto più è concentrato e non condiviso. Il problema col potere è
che possiede una natura inflazionaria, dato che è relativo a quello posseduto
dagli altri: il mio potere di ottenere e conservare certi beni è sufficiente
solo finché risulta superiore a quello di coloro che desiderano gli stessi
beni. Questo è il motivo per una «generall
Inclination of all mankind, a perpetuall and restlesse desire of Power after
power, that ceaseth only in Death»[3].
La
seconda causa di conflitto è la diffidenza reciproca. Nello stato di natura gli
individui sanno che la loro vita è condizionata da due premesse fondamentali:
la prima, che sono tutti in competizione per il potere e per le risorse
necessarie a incrementarlo; la seconda, che nessuno è dotato di una forza
sufficiente a metterlo in una posizione di sicuro dominio sugli altri. In un
simile contesto l'aggressione è sempre possibile anche senza alcuna apparente
ragione, perché se si teme continuamente di poter essere attaccati, allora
l'opzione più sicura non è di aspettare in difesa ma di colpire per primi. Di
nuovo una reazione a catena in cui si è alternativamente prede e predatori; in
cui non si vive ma, al massimo, si sopravvive.
La
terza causa di conflitto è infine il desiderio di glory. La ricerca
della gloria, in quanto fama e reputazione, non è per Hobbes una passione
irrazionale, ma un tentativo naturale e spontaneo di ogni individuo, perché se
il bene più importante ai fini dell'autoconservazione è l'ottenimento del
potere, allora la reputazione che gli altri hanno del potere di un individuo è
per lui almeno altrettanto importante del potere stesso: «reputation of Power,
is power»[4].
Venire sottovalutati è pericoloso per la propria sicurezza, perché gli altri
sono più inclini ad attaccare chi ritengono meno capace di difendersi: è bene
perciò alimentare la propria fama fornendo dei validi esempi del proprio potere
specialmente a chi appare più propenso a dubitarne.
L'esito
di tutto questo è noto. Per interrompere la spirale del bellum omnium contra
omnes, della violenza seriale che domina lo spazio dove la regola è la
mancanza di regole, le macchine desideranti hobbesiane stipulano un patto di
soggezione collettivo col quale scambiano libertà per sicurezza, consegnando
tutto il potere nelle mani del Leviatano, «quel Dio mortale al quale noi
dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa»[5].
Notevolmente
diversi sono gli assiomi di base della geometria politica di John Locke, così
come i suoi esiti. Mentre il violento
stato di natura di Hobbes è il mero risultato fattuale delle interazioni
meccaniche degli individui e delle loro pulsioni, quello ipotizzato da Locke
appare dominato fin dall'origine da una legge non-umana che vincola tutti gli
uomini: «[...] uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di
disporre dei propri beni e persone come meglio credono, entro i limiti della
legge di natura (within the bounds of the law of Nature), senza chiedere
permesso o dipendere dalla volontà di un altro»[6].
Questo stato di natura non è uno stato di licenza, non è il bellum omnium
contra omnes: sebbene infatti ogni individuo abbia la facoltà
incondizionata di disporre come meglio crede delle proprie life, liberty and
property, «[...] la legge di natura, che è per tutti vincolante, e la
ragione – che è quella legge stessa – insegna a tutti gli uomini, purché
vogliano consultarla, che essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve
recare danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi.
Infatti essendo tutti gli uomini opera di un solo omnipotent and infinitely
wise Master, tutti servitori di un supremo Signore, […] essi sono proprietà
di colui di cui sono opera, creati per durare fintanto che piaccia a lui e non
ad altri. Ed essendo forniti delle stesse facoltà e partecipando tutti di una
comune natura, non si può supporre alcuna subordinazione tale da autorizzare a
distruggersi l'un l'altro [...]»[7].
Insomma,
gli uomini sono liberi e uguali nello stato di natura, la cui legge è la
ragione voluta da Dio. Il conflitto nasce quando qualcuno viola questa legge
che vuole la pace e la conservazione di tutti gli uomini; allora, per il
principio di uguaglianza, ognuno ha il diritto di giudicare il trasgressore
secondo ragione e coscienza e di punirlo con una sanzione retributiva
proporzionata alla sua violazione: «nel trasgredire la legge di natura, il
trasgressore […] diventa pericoloso per gli uomini poiché tiene in poco conto o
addirittura recide il vincolo inteso a garantirli dall'offesa e dalla violenza.
Essendo questo un reato contro l'intera specie […] ogni uomo, in base al
diritto che ha di provvedere alla sopravvivenza dell'umanità in generale, può
reprimere e se è necessario distruggere ciò che è ad essa nocivo, e quindi
recare a chiunque abbia trasgredito quella legge un male tale da indurlo a
pentirsi d'averlo fatto e con ciò dissuadere lui, e sul suo esempio altri, dal
commettere lo stesso male. In questo caso e su questo fondamento ognuno ha il
diritto di punire i trasgressori e rendersi esecutore della legge di natura»[8]. La
trasgressione, più che un reato da punire, sembra quasi un peccato da espiare.
Il
rischio è che questo innato diritto di giudicare e punire degeneri nella
vendetta, facendo precipitare lo stato di natura in una spirale di violenza
ritorsiva. Per evitarlo, «Dio ha affidato al governo il compito di reprimere la
parzialità e la violenza degli uomini»[9]. Ma
non a un governo civile qualsiasi, bensì a quello che trae la sua legittimità
dal promuovere effettivamente i fini e gli obbiettivi che deve promuovere; cioè
la protezione degli innati e inalienabili diritti individuali alla vita, alla
libertà, alla proprietà: «poiché ogni potere, conferito con fiducia per il
conseguimento di un fine, è limitato da questo fine medesimo, ogni qualvolta il
fine viene manifestamente trascurato o contrastato, la fiducia deve
necessariamente cessare, e il potere ritornare nelle mani di coloro che l’hanno
conferito, i quali possono nuovamente collocarlo dove meglio giudicano, per la
loro tranquillità e sicurezza»[10]. Il patto di soggezione basato
sulla fiducia (trust) è sempre revocabile, al limite con un
rivoluzionario Appello al Cielo; quello 'naturale' di unione rimarrà comunque
inalterato[11]: «Di
tutti i diversi modi e forme di governo, è migliore quello che è capace di
produrre il maggior grado di felicità e di sicurezza ed è di fatto il più
sicuro contro il pericolo di cattiva amministrazione. Tutte le volte che un
governo appaia inadeguato o contrario a questi scopi, la maggioranza della
comunità ha il diritto sicuro, inalienabile e imprescindibile di riformarlo,
mutarlo o abolirlo, in quella maniera che essa giudicherà la meglio atta a
procurare il pubblico bene»[12].
Lontano,
nel passato, si scorgono sull'Atlantico i puritani Pilgrim Fathers
mentre sottoscrivono il Patto del Mayflower con cui si governeranno una
volta giunti nel Nuovo Mondo. Lontano, nel futuro, si intravede la nascita di
una nuova nazione di 'liberi ed eguali' sotto il 'Dio della Natura', che sulle
loro monete scriveranno “In God we trust”.
Ancora
diverse, specialmente rispetto a quelle di Hobbes, sono la concezione di stato
di natura e la soluzione al problema del conflitto sociale elaborate da
Rousseau, l'ultimo dei contrattualisti 'classici'. Nel Discorso sull'origine
e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, descrive l'uomo primitivo
come un 'buon selvaggio' destinato a essere corrotto dalla civiltà. Nello stato
di natura, gli individui vivrebbero pacifici e isolati, comportandosi in base a
due regole innate che precedono la ragione: il principio di autoconservazione
(l'“amore di sé”) e l'incapacità di veder soffrire i propri simili. Il buon
selvaggio è privo di ragione; ha solo delle passioni moderate e limitate al
soddisfacimento dei suoi bisogni fisici e naturali. Non è ancora un animale
sociale, perché riesce da solo a ricavare dal mondo circostante tutto il
necessario per vivere. Per Rousseau, l'errore principale di Hobbes è stato
quello di proiettare sullo stato di natura le passioni tipiche dell'uomo
civile, come l'orgoglio e il desiderio di potere; e di trascurare la naturale
capacità di compassione verso i propri simili, che insieme all'amore di sé
contribuisce a preservare nel tempo la specie umana. Insomma, l'uomo in natura
è un individuo privo di storia e di cultura che non conosce alcuna forma di progresso
e ignora la stessa dimensione temporale. E' proprio la costruzione artificiale
della società a produrre le diseguaglianze da cui derivano tutti i possibili
tipi di conflitto, specialmente a causa dell'invenzione della proprietà
privata: «Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire 'questo è
mio' e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli fu il vero fondatore
della società civile. Quanti delitti, quanti assassini, quante miserie ed
errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli o colmando
il fossato, avesse gridato ai suoi simili: guardatevi dal dare ascolto a questo
impostore!»[13]. Lo
stato di natura è ormai perduto; rimane forse la possibilità di progettare uno
stato civile giusto attraverso l'adozione di un nuovo Contratto Sociale in
cui l'obbedienza alla legge non implichi la perdita della libertà individuale.
E'
appunto dalla constatazione della profonda incapacità delle società moderne di
conciliare l’obbedienza alla legge con la libertà di ciascun cittadino che
Rousseau fa derivare il suo sforzo teoretico volto a delineare il tipo di stato
in cui ogni individuo obbedisca soltanto alla sua volontà quando obbedisce alla
legge, e quindi non sia privato della libertà personale quando presta
obbedienza. Per raggiungere questo scopo Rousseau lavora intorno all’idea di
un’obbligazione liberamente assunta e auto-imposta, in cui il comportamento
moralmente vincolante per ciascuno sia anche un comportamento autenticamente
rappresentativo della sua stessa volontà[14]. Perciò ricerca le condizioni sotto le quali
sia appropriato parlare di ‘consenso’ in quanto fondamento morale
dell’obbligazione politica[15]: nella sua terminologia, ciò significa
individuare una situazione in cui ‘volontà’, piuttosto che ‘forza’ o
‘vantaggio’, possa divenire la base per l’obbedienza alla legge. E’ appunto nel
corso di questo tentativo che Rousseau identifica il consenso nella volontà
generale: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere
sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo in quanto corpo
ciascun membro come parte indivisibile del tutto»[16].
Perché
si realizzi l'ossimoro della 'libera obbedienza', ci vuole una nozione di
consenso molto forte e impegnativa: il con-senso è inteso letteralmente e
assume i connotati di un vero e proprio ‘sentire insieme’; soprattutto, di un
‘sentire uguale’. Ciò comporta il rifiuto dell’individualismo originario, di
quello estremo alla Hobbes, ma anche di quello moderato alla Locke; e rende
inevitabilmente impossibile il pluralismo, al quale si sostituisce l’immagine
di una democrazia partecipativa integrale. Nell’impianto del Contratto Sociale, l’obbligazione
politica si manifesta infatti esclusivamente in forma ‘orizzontale’ (pactum unionis): «L’atto di associazione
racchiude un’obbligazione reciproca tra il singolo e la collettività, e ciascun
individuo contrattando, per così dire con
se stesso (corsivo mio), si trova obbligato sotto un duplice rapporto,
cioè, come membro del corpo sovrano verso i singoli, e come membro dello stato
verso il corpo sovrano»[17]. Il cerchio così si chiude,
perché il patto reciproco tra i cittadini porta all’unione nella persona
pubblica che prende il nome di ‘corpo sovrano’, e contemporaneamente ognuno è
suddito nei confronti del corpo sovrano stesso, in quanto sottoposto alle leggi
dello stato espressione della volontà generale; perciò «l’essenza del corpo
politico è nell’accordo dell’obbedienza e della libertà, e le parole suddito e
sovrano sono correlazioni identiche, la cui idea si riunisce sotto l’unica
parola cittadino»[18]. Ne consegue che la
caratteristica distintiva essenziale dell’obbligazione politica del Contratto Sociale da quella, ad esempio,
dei Due Trattati di Locke, è appunto
il rifiuto del fatto che i cittadini possano venire governati
rappresentativamente, senza partecipare direttamente e continuativamente del
potere legislativo. All’atto pratico Rousseau respinge in blocco la seconda
fase del contratto liberale, reputandola illegittima; il patto ‘verticale’ tra
governati e governanti (pactum
subiectionis) diviene superfluo, perché basta il patto ‘orizzontale’ a
costituire l’unica fase sostanziale attraverso cui il cittadino dovrebbe
assumere insieme il ruolo di sovrano e di membro dello stato[19]. «La sovranità non può
essere rappresentata», avverte Rousseau, «per la stessa ragione per cui non può
essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la
volontà non si rappresenta: o è quella stessa, o è un’altra; non c’è via di
mezzo»[20]. Perciò i deputati non
potranno mai concludere nulla in modo definitivo, perché ogni loro atto dovrà
sempre essere sottoposto alla ratifica del popolo: «Il popolo inglese che crede
di essere libero si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei
membri del parlamento; appena eletti, diventa schiavo, non è più niente»[21].
Pochi
concetti in teoria politica hanno suscitato tanto (e spesso superfluo)
dibattito, quanto quello di volontà generale; non è però difficile svelarne il
retroterra empirico, e insieme evidenziarne il nesso funzionale con la futura
esperienza rivoluzionaria francese[22]. In Rousseau il termine
‘consenso’, con i suoi significati impliciti di scelta deliberata e di meditata
opinione, scompare sostituito dalla parola ‘volontà’, che sostanzialmente
esclude ogni processo di scambi d’opinione e ogni eventuale tentativo di
conciliazione: la volontà, se deve agire, deve essere una e indivisibile,
perché non esiste possibilità di mediare tra volontà diverse, come esiste
invece tra diverse opinioni. La qualità principale della volontà generale è
dunque l’unanimità. Unanimità che però non significa stabilità: la volontà
generale trasforma un’intera nazione in un corpo mosso da una sola volontà e,
come se fosse un individuo, le consente di cambiare direzione in qualsiasi
momento senza perdere la propria identità. Era esattamente questo che sarebbe
servito ai rivoluzionari: uno strumento capace di «portare venticinque milioni
di francesi, che non avevano mai conosciuto né immaginato altra legge che la
volontà del re, a stringersi intorno a una qualsiasi libera costituzione», come
ebbe a rilevare John Adams. Il vero fascino della teoria di Rousseau per gli
uomini della Rivoluzione, sarà che egli aveva evidentemente trovato un mezzo
assai ingegnoso per porre una moltitudine al posto di una singola persona.
Per
questa sua costruzione di un’unità dalle mille teste, Rousseau si era ispirato
alla comune esperienza che due interessi attualmente o potenzialmente
conflittuali si alleano immediatamente di fronte a un terzo comune nemico: il
potere unificante del nemico esterno sarà uno dei ferri del mestiere di tutte
le politiche nazionaliste. Rousseau però si spinge oltre, e cerca d’individuare
all’interno della nazione stessa un principio unificante; la soluzione fu che
il nemico esisteva in ogni singolo cittadino, e consisteva nella sua
particolare volontà e nel suo interesse particolare. Bastava sommare tutte le
volontà e gli interessi particolari perché il nemico nascosto si ergesse al
rango di nemico comune, unificando così la nazione dall’interno: il nemico
comune all’interno di una nazione è la somma totale degli interessi particolari
di tutti i cittadini[23]. Va rilevato come la
costruzione teorica del Contratto Sociale
si basi sull’identificazione di volontà e interesse; Rousseau utilizza sempre i
due termini come sinonimi, presumendo tacitamente che la volontà sia una specie
di articolazione automatica dell’interesse. Quindi la volontà generale è
l’articolazione di un interesse generale, dell’interesse della nazione nel suo
insieme, la cui esistenza dipende dal suo opporsi a ciascun interesse o volontà
particolari. Non c’è più bisogno del nemico alle frontiere perché la nazione si
erga come un sol uomo: l’unità della nazione è garantita finché ogni cittadino
porta dentro di sé sia il nemico comune, sia l’interesse generale prodotto dal
nemico comune. Il singolo diviene dunque cittadino insorgendo contro se stesso
nella propria particolarità e generando così l’antagonista volontà generale.
Per divenire parte integrante della nazione, ogni cittadino deve levarsi e
restare in costante ribellione con se stesso.
E’
anzi questo l’unico tipo di ‘ribellione’ consentito: essendo la volontà
generale sempre giusta per definizione, ed essendo la legge emanata dal popolo,
viene infatti esclusa a priori la possibilità dell’antigiuridicità, premessa
indispensabile di qualsiasi attività dissenziente assimilabile alle forme del
diritto di resistenza. Chi anzi si appellasse a un tale diritto, diverrebbe per
ciò stesso un nemico pubblico da combattere; nella concezione di Rousseau ‘allo
stato puro’ non c’è posto per un diritto di resistenza del singolo o del gruppo
minoritario, ma piuttosto della comunità contro questi. Portata alle estreme
conseguenze – che si manifesteranno nei moderni totalitarismi – è la situazione
dello stato di polizia perfetto, dove tutti i cittadini sono i poliziotti di se
stessi. Non è certo un caso che soprattutto l’ambiente anglosassone abbia
sempre guardato con diffidenza alle soluzioni proposte da Rousseau al problema
dell’obbligazione politica: «Piuttosto di essere ‘libero come prima’, il
cittadino è costretto a obbedire alla volontà della maggioranza, e sebbene
Rousseau affermi paradossalmente che ciò lo rende libero, il concetto di
volontà generale confonde, piuttosto che chiarire, il conflitto potenziale tra
interesse generale e interessi particolari. Se questi contrastano, il cittadino
si trova indifeso come se fosse alla mercé del Leviatano, o anche peggio,
perché un dispotismo popolare può essere più tirannico di uno personale»[24].
Hobbes
scrive nel 1651, in piena guerra civile inglese. Locke nel 1690: il Bill of
Rights è dell'anno prima. Rousseau tra il 1755 e il 1762 nella tranquilla e
relativamente libera Ginevra, attraversata dai fermenti illuministi. Nessuno di
loro aveva mai visto un 'selvaggio', buono o cattivo che fosse.
Che
cosa hanno in comune queste diverse teorie di gestione del conflitto mediante
il contratto; in particolare le due apparentemente più distanti, quella di
Hobbes e quella di Rousseau? Che condividono una concezione della condizione
originaria sostanzialmente identica: l'essere umano viene descritto da entrambe
come un individuo privo di relazione con i propri simili e avulso da un
qualsiasi contesto comunitario. Un individuo solo, in attesa dello Stato.
Niente famiglia, clan, tribù; nessun 'gruppo intermedio' cui appartenere per
riceverne un'identità. Sia Hobbes che Rousseau disegnano i loro patti
sociali sul profilo di un esemplare umano isolato e autosufficiente: il
passaggio dall'io individuale all'Io collettivo non può essere altro che
organicistico e totalitario. Che lo stato di natura di partenza sia un bellum
omnium contra omnes oppure un'età dell'oro, fa ben poca differenza.
Nel modello
di Hobbes ogni possibilità comunitaria viene negata perché all'origine della
politica è posta la paura. Alimentata dal principio di autoconservazione
individuale, essa spinge all'inflazione del potere in uno spazio economico
competitivo, innescando la reazione a catena della mutua aggressione il cui
unico esito possibile è l'annientamento e l'estinzione. Negando radicalmente il
presupposto aristotelico del politikòn zôon, della naturale socievolezza
dell'uomo, l'antropologia che sta alla base della teoria politica di Hobbes può
essere interpretata come una reazione semplificatrice rispetto
all'inestricabile complessità del 'con-' su cui si struttura qualsiasi
esperienza comunitaria. Nel passaggio dallo stato di natura allo stato di
diritto, ogni legame sociale viene significativamente eliminato: se la
relazione comunitaria lasciata a se stessa è causa di continua aggressione e
guerra, allora bisogna unire gli uomini con un patto che li renda immuni dal
contatto tra loro. L'unità (e la pace) si ottiene per mezzo della divisione e
della separazione: «gli uomini vanno adesso associati nella modalità della
reciproca dissociazione, unificati nella eliminazione di ogni interesse che non
sia quello puramente individuale. Artificialmente accomunati nella sottrazione
della comunità»[25]. La
violenza originaria che caratterizzava lo stato di natura si trasferisce così
intatta nella violenza 'legittima' dello stato assoluto, del Leviatano, che
rimane l'unico soggetto a conservare il diritto naturale in un contesto in cui
tutti hanno deposto il proprio. Dalla somma di tante negazioni è difficile che
possa derivare un potere positivo.
Rousseau
si presenta come l'anti-Hobbes che accusa il filosofo inglese di avere confuso
lo stato di natura con lo stato civile, caratterizzandolo con dei tratti
storici derivati dal contesto sociale del suo tempo. Per Rousseau lo stato di
natura sembra invece avere il senso di un inizio a-storico, di per sé né
conflittuale né pacifico, caratterizzato dalla pura negatività dell'assenza di ogni
rapporto tra gli esseri umani. Ma non resta a lungo fedele logicamente a questo
assunto di partenza, perché ha bisogno di connotare positivamente lo stato
originario (l'età dell'oro) per contrapporlo alla degenerazione della società
civile. La civiltà nasce dalla colpa: c'è un 'prima' (lo stato di
natura) e un 'dopo' (lo stato di diritto), legati tra loro dalla caduta e dalla
corruzione. La storia, la tecnica, la civiltà, ma anche il tempo e la morte, si
spiegherebbero con la perdita di quel precedente stato puro e innocente.
Rousseau dunque critica Hobbes per la sua concezione che gli uomini siano uniti
soltanto da una comune schiavitù, ma giunge a caratterizzare lo stato di natura
sull'identico paradigma di un individuo chiuso nella sua assoluta, presunta
compiutezza: «egli spezza il nesso consequenziale tra individualismo e
assolutismo stabilito da Hobbes; ma lo fa attraverso una ridefinizione dello
stato naturale connotata in chiave ancora più assolutamente individualistica»[26]. Se
l'esito di Hobbes è assolutistico, quello di Rousseau appare esposto alla
deriva totalitaria, perché una comunità modellata sull'idea di un individuo
isolato e autosufficiente non può che evolversi nel mito di un Io-collettivo
dominato dalla Volontà Generale: «nel mito, precisamente, di una comunità
trasparente a se stessa in cui ciascuno comunica all'altro la propria essenza
comunitaria. Il proprio sogno di autoimmanenza. Senza nessuna mediazione,
filtro, segno che interrompa la fusione reciproca delle coscienze; senza nessuna
distanza, discontinuità, differenza nei confronti di un altro che non è più
tale perché fa parte integrante dell'uno»[27].
Alle
soglie della modernità, i miti di fondazione narrati dai contrattualisti ci
dicono dunque che la società deve trarre origine dalla similitudine – e
dalla solitudine – di individui separati. Solo la legge – generale e
astratta, impersonale come lo sono i destinatari delle sue disposizioni – potrà
mantenere l'ordine sociale con le sue decisioni. In queste nuove
società, l'alternativa alla violenza deve infatti spostare inevitabilmente il
suo baricentro dalla possibilità della comunicazione[28], più
o meno diretta, tra i protagonisti di un conflitto, verso la certezza di un giudizio
prodotto da un potere esterno detentore dell'unica forza legittima: “giudicare”
diventa una delle parole-chiave della modernità, perché meglio capace di
descrivere la condotta standard dell'uomo sociale attuale. Se a dominare è il
timore che l'altro possa prevaricarmi, usarmi, oggettivarmi, l'unico rimedio
che ora ho a disposizione è di ricorrere a leggi severe che tutelino i miei
spazi, le mie libertà, le mie ragioni; una tutela in cui l'altro minaccioso
viene a sua volta oggettivato. Questa 'insocievole socievolezza' sotto l'egida della
legge, tende a deformare il mondo reale in un immenso tribunale, in cui ogni
richiesta non correttamente formalizzata viene condannata, ogni desiderio
spontaneo deve fare i conti col diritto dell'altro, non con la sua
comprensione. Giudicare è comodo, anche se costoso, perché alla fatica del
riconoscimento sostituisce il distacco che appiattisce l'identità dell'altro su
un insieme di diritti e doveri da rispettare: aiuta a tenere alta la guardia e
a stare pronti per evitare ogni attacco[29].
Nella
maggior parte dei miti di fondazione delle società tradizionali studiate dagli
antropologi, si vedono invece emergere costantemente i tratti di un modello
comunitario in cui la differenziazione è il prolungamento di un'unità che
rifiuta l'uniformità: le differenze sociali, politiche e normative sono
interpretate come complementari e vengono integrate in uno schema complesso di
relazioni che non è né individualista né collettivista. A differenza dei
contrattualisti che fondano la società sulla similitudine, questi miti mostrano
che gli individui non possono organizzarsi se prima non si sono differenziati,
perché sul piano sociale ogni categoria ha bisogno della sua vicina:
«l'agricoltore, che non ha il diritto di lavorare il metallo, ha bisogno del
fabbro che, non potendo lavorare la terra, attende il proprio nutrimento dal
contadino; lo stesso agricoltore ha bisogno del signore della terra e del
signore della pioggia, che non servirebbero a niente senza di lui; la legge
dell'esogamia rende ogni stirpe tributaria delle altre, e così via»[30].
Queste società hanno necessariamente dei modi di affrontare i propri conflitti
spesso molto diversi da quelli prevalentemente diffusi nei contesti che
consideriamo 'moderni'. Possono forse insegnarci qualcosa, specie se
consideriamo il fatto che tutte le società umane sono state tradizionali molto
più a lungo di quanto qualsiasi società sia mai stata moderna.
Il
fatto di abitare nella parte (almeno per ora) ricca e stabile del pianeta, di
non essere stati coinvolti direttamente in una guerra da almeno 70 anni, di
avere delle istituzioni che (bene o male) riescono a gestire i conflitti
sostituendo la legge alla violenza e mantenendo il monopolio della forza
legittima, produce inevitabilmente in noi una diffusa distorsione percettiva. Tendiamo
a ritenere che quei diritti di libertà, di espressione, di proprietà, di
movimento, garantiti «senza distinzione di ...»[31]
dalle nostre carte costituzionali, siano qualcosa di eterno e di innato; al
punto di crederli estendibili all'intero genere umano. Siamo propensi a pensare
che le nostre istituzioni siano stabili e inattaccabili; addirittura
'esportabili'. E ci dimentichiamo che gli uni e le altre esistono solo da circa
due secoli e interessano – senza riuscire a espandersi ulteriormente - non più
di 1/5 della popolazione mondiale attuale: basta prendere un aereo verso sud o
verso est per un paio d'ore di volo per rendersene conto, quasi fisicamente,
appena sbarcati.
In
realtà apparteniamo a delle società che, rispetto alla quasi totalità di quelle
esistite nel corso della storia umana, appaiono strane, bizzarre, originali:
WEIRD, per dirlo con un efficace acronimo[32].
Cioè occidentali (western), istruite (educated), industrializzate
(industrialized), ricche (rich) e democratiche (democratic)[33].
Rispetto alle nostre, le società tradizionali studiate dalla moderna
socio-antropologia rappresentano migliaia di esperimenti spontanei su come si
costruisce una società umana; e hanno già risposto ai problemi originati dalla
convivenza attraverso migliaia di soluzioni diverse da quelle adottate dalle
nostre 'strane' società. Forse potrebbero avere addirittura qualcosa da
insegnare a noi dis-adattati, che abbiamo costretto i nostri corpi e le nostre
abitudini ad affrontare delle condizioni esistenziali improvvisamente molto diverse da quelle in
cui ci eravamo per millenni evoluti: qualcosa su come si allevano i figli, si
trattano gli anziani, si preserva la salute, si trascorre il tempo libero, si
comunica, si risolvono i conflitti. Ovviamente, senza per questo vagheggiare il
ritorno a un'Età dell'Oro, che in realtà non è mai esistita in nessun luogo.
Nelle nostre 'strane' società infatti non si pratica più l'infanticidio, non si
opprimono più sistematicamente le donne, non si abbandonano o si sopprimono gli
anziani; non si è più esposti continuamente a pericoli ambientali, a malattie
infettive e, soprattutto, alla paura costante di venire aggrediti. Tutte
conquiste relativamente recenti che non dovremmo mai dare per scontate.
Appartenere a una società weird produce
inevitabilmente delle distorsioni percettive, specie per quanto attiene alla sicurezza
personale e collettiva. Si pensi ad esempio al modo in cui viene regolarmente
sovrastimata, nella percezione comune, la reale dimensione quantitativa
dell'attuale fenomeno migratorio in rapporto alla popolazione residente.
Popolazione che è sempre più anziana e quindi più insicura di fronte alle
novità che ne alterino le abitudini consolidate: i vecchi si governano
particolarmente bene con la paura, come ben sanno i sempre più numerosi
imprenditori politici della medesima. Un'altra percezione distorta sembra
essere quella relativa alla quantità di violenza diffusa nell'ambiente
in cui viviamo. Il XX secolo, con l'enorme numero di vittime provocate da due
guerre mondiali e da vari genocidi è stato descritto più volte come il secolo
più violento della storia; e l'inizio del nuovo millennio non si presenta certo
meno inquietante. Eppure, anche se può apparire incredibile, sembra proprio che
in passato la vita sul nostro pianeta sia stata di gran lunga più violenta;
mentre quella che stiamo vivendo sarebbe probabilmente l'era più pacifica nella
storia della nostra specie. Un'alterazione percettiva che sicuramente dipende
anche dal fatto che oggi siamo continuamente e sovrabbondantemente informati
sulla violenza che ci circonda (il sangue 'fa notizia'), mentre una volta ci
vivevamo immersi quasi senza rendercene conto. A sostenere questa tesi del più
pacifico dei mondi possibili è una vasta e documentata ricerca di Steven Pinker[34] che,
con abbondanza di dati e statistiche, mostra come sia possibile quantificare la
diminuzione complessiva della violenza: le guerre delle società tradizionali di
tipo tribale e pre-statuale avrebbero causato, in rapporto alla popolazione
mondiale del tempo, circa il decuplo delle morti nei conflitti e nei genocidi
del Novecento; il tasso di omicidi nell'Europa medievale era oltre trenta volte
quello attuale; schiavitù, torture, pene atroci ed esecuzioni capitali per
futili motivi sono state per millenni ordinaria amministrazione, finché non
sono state bandite dagli ordinamenti giuridici delle nazioni moderne.
Storicamente sembra che il punto di svolta coincida con l'affermarsi della
forma-stato con il suo monopolio della forza: aveva forse ragione Hobbes?
L'aggressività umana è stata spesso spiegata
attraverso numerose varianti di una sorta di teoria 'idraulica' della violenza,
considerata come una componente innata della nostra specie. Secondo Freud, ad
esempio, l'aggressività deriverebbe dall'“istinto di morte”, una tendenza
inconscia a distruggere che può essere rivolta sia verso l'esterno che verso se
stessi in forma autolesionistica: l'istinto aggressivo funzionerebbe secondo un
modello in cui l'energia si accumula nel tempo fino a un livello raggiunto il
quale deve essere scaricata. La teoria etologica di Lorenz estende a tutte le
specie animali la propensione all'aggressività, spiegandone il funzionamento
sempre in base a un modello idraulico: il comportamento aggressivo della nostra
specie sarebbe una risposta adattativa rimasta nel patrimonio genetico a
seguito di pressioni ambientali nella fase iniziale di evoluzione. Con
l'importante differenza, rispetto alle altre specie, di avere in gran parte
perduto i meccanismi innati di ritualizzazione della violenza intraspecifica.
Secondo
molte tra le più affermate teorie contemporanee sulla psicologia della
violenza, questa non andrebbe invece intesa come un impulso a sé stante, né
come un'innata spinta crescente che richiede necessariamente uno sfogo:
l'aggressività non sarebbe insomma un fine, ma un mezzo innescato
da complesse interazioni tra fattori neurobiologici, ambientali e sociali[35].
Accanto alla semplice violenza strumentale, esercitata per raggiungere
direttamente un determinato scopo, incontriamo infatti quella molto più
strategicamente organizzata rivolta al conseguimento del dominio: la
ricerca del prestigio e del potere sia tra individui che tra gruppi, razziali,
etnici, religiosi o nazionali (la Glory di Hobbes). C'è poi la violenza
legata alla vendetta, con il suo carico di desiderio di punizione e di
giustizia[36].
Quella delle ideologie, che giustificano un'illimitata violenza attuale
per perseguire un improbabile 'bene' futuro: da questo punto di vista, tutti i
fondamentalismi religiosi sono in definitiva delle ideologie[37].
Quella delle identità, insieme riduttive e dominanti, che alimentano
alcuni dei più gravi conflitti collettivi attuali: «l'identità può anche
uccidere, uccidere con trasporto»[38].
Per
fortuna siamo dotati anche di altri tipi di impulsi che, in determinate
circostanze, possono riuscire a distoglierci dalla violenza come unico
strumento di gestione dei conflitti per orientarci verso atteggiamenti
altruistici e cooperativi. Con altre specie animali condividiamo la capacità di
empatia, di 'sentire dentro' lo stato d'animo altrui (specialmente se
sofferente) e di provare verso di esso un interesse simpatetico[39].
Siamo poi più o meno dotati di autocontrollo, che ci permette di
prevedere le conseguenze di azioni dettate dai nostri impulsi ed eventualmente
di inibirle. Disponiamo in varie forme di un senso morale, alimentato
dai tabù e dalle credenze delle culture di appartenenza, che agendo nel foro
interiore della nostra coscienza costituisce il primo livello normativo di
controllo sulle interazioni sociali[40].
Infine, unica tra le specie viventi, possediamo la facoltà della ragione,
che ci permette di uscire dal nostro ristretto punto di vista e di vedere 'da
fuori' la nostra vita e il nostro modo di rapportarci agli altri.
Tutte
queste 'forze' da tempo immemorabile continuamente generano e risolvono
conflitti: li amplificano o li sedano, li esasperano o li riducono. Che
prevalgano le une o le altre è quasi sempre determinato dai contesti culturali,
politici, economici e sociali in cui ci troviamo a vivere. Può prevalere
l'aggressività, come programma di default sempre pronto a entrare in funzione; altrimenti si può
ricorrere alla legge, quando esiste. Oppure utilizzare altri metodi,
alternativi sia alla violenza che al giudizio, dove appunto l'empatia,
l'autocontrollo, il senso morale e la razionalità sembrano dispiegare meglio le
proprie potenzialità; come nelle varie forme di mediazione, ad esempio.
Sono dei territori d'indagine in cui «cultura e psiche si completano a vicenda»[41];
dove sia gli approcci olistici che quelli riduzionistici servono a ben poco.
«Profondo
è il pozzo del passato. O non dovremmo dirlo insondabile?», così ammoniva
Thomas Mann all'inizio de Le storie di Giacobbe. Se comunque tentiamo di
conoscerlo, ci accorgiamo che per noi è destinato in gran parte a rimanere «un
paese straniero, dove si fanno le cose in modo diverso»[42].
Quando,
poco più di 5000 anni fa, insieme alla scrittura comincia per noi la storia, la
nostra specie (Homo sapiens) esiste già da almeno 150.000 anni[43].
Apparsa in Africa, come tutte le altre specie del genere Homo, ne era
uscita in più ondate migratorie a partire da circa 70.000 anni fa[44],
soppiantando in poche decine di migliaia di anni le altre specie umane già
presenti[45] e
rimanendo l'unica rappresentante del genere. Si è diffusa in tutto il pianeta
raggiungendo una popolazione attuale di oltre 7 miliardi di individui: gli
ultimi luoghi abitabili in cui è giunta sono stati l'Islanda e la Nuova
Zelanda, circa un migliaio di anni fa. Possiede un linguaggio articolato con
cui comunicare; dispone di capacità tecnologiche; esibisce sensibilità
artistiche e religiose; si organizza in gruppi sociali.
I
paleoantropologi sono concordi nel ritenere che fino a circa 11.000 anni fa la
nostra specie abbia conosciuto ovunque una sola forma di organizzazione
sociale: la 'banda' di cacciatori-raccoglitori[46].
Composte da gruppi di poche decine di individui, tra loro in vario modo parenti
e/o affini, le bande si formavano in contesti a bassissima densità demografica[47] ed
erano nomadi per necessità alimentare: un sistema di sussistenza basato sulla
caccia-raccolta richiede la disponibilità di grandi superfici di territorio. Oggi
sono praticamente scomparse; ne sopravvive forse qualcuna in Amazzonia e in
Nuova Guinea. Le ridotte dimensioni della banda permettevano a tutti i suoi
membri di conoscersi tra loro direttamente: erano dei contesti sociali
relativamente egualitari, dove non esisteva
specializzazione economica se non in base all'età e al sesso, non c'era
stratificazione sociale né preminenza di soggetti dotati di leadership
per nascita o per scelta. Le differenze di 'potere' erano minime e dipendevano
solo dalla personalità e dalle capacità individuali, non si ereditavano
e non si tramandavano; e comunque venivano sempre mitigate dall'ampia
condivisione delle risorse. In queste strutture sociali elementari a base
parentale, la risoluzione dei conflitti era sempre necessariamente di tipo
informale: operava verosimilmente con dei metodi di conciliazione interni al
gruppo che facevano riferimento a usi originari a fondamento mitico[48].
Intorno
al decimo millennio a.C. i rapidi e profondi cambiamenti climatici conseguenti
alla fine dell'ultimo periodo glaciale, producono in alcune zone del pianeta le
condizioni ambientali per innescare la cosiddetta “rivoluzione neolitica”[49].
Prima nella 'Mezzaluna fertile' del Vicino Oriente, poi in Cina, più tardi in
America centrale e in altri luoghi ancora, si cominciano a domesticare piante e
animali: vengono gettate le basi delle nuove economie stanziali di
agricoltura-allevamento che avrebbero soppiantato quelle nomadi di
caccia-raccolta, segnando l'intera successiva struttura economica delle società
umane fino alle soglie della moderna età industriale. Ovviamente questa
transizione non fu né omogenea né lineare, ma per così dire 'puntiforme' e
legata a peculiari condizioni ambientali: per molto tempo, le società
sedentarie di agricoltori-allevatori sono state delle isole in un mare di
gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori, da cui non di rado dovevano
difendersi.
La
nuova economia, spesso a lungo integrata con quella di caccia-raccolta, permette
di far sopravvivere un numero notevolmente maggiore di individui su un
territorio più ridotto: non più decine, ma centinaia di membri formano una tribù,
che abita per la maggior parte del tempo in un villaggio. Una tribù è
una comunità che condivide lingua e cultura; differisce da una banda non solo
per le dimensioni e la vita sedentaria, ma anche perché è strutturata su
diversi gruppi di parentela formalmente riconosciuti, noti come clan,
che si suddividono la terra. Le dimensioni della tribù rimangono in ogni caso
tali da consentire che tutti conoscano il nome e le relazioni di parentela
degli altri membri. Dato che nelle tribù praticamente tutti sono legati tra
loro attraverso matrimoni o parentele, non c'è bisogno di istituzioni o di
organi coercitivi per mantenere l'ordine interno: se due individui sviluppano
un conflitto, i molti parenti e affini che hanno in comune tenteranno comunque
di risolverlo 'informalmente' per non lasciarlo diventare violento[50].
Nonostante
il notevole aumento di dimensioni rispetto a quella delle bande, le tribù
continuano a esibire dei sistemi di governo ancora sostanzialmente egualitari,
caratterizzati da informazioni e processi decisionali condivisi. Se a volte
emerge la figura di un 'capo', questi non può prendere le decisioni da solo,
non ha 'segreti' che gli altri debbano ignorare e non può fare più di un
tentativo di modificare le deliberazioni della comunità. I capi acquisiscono
prestigio solo grazie alle loro qualità e la carica non è ereditaria. Non solo
il prestigio non è ereditario, ma anche la ricchezza non è facilmente
accumulabile, perché tutti sono legati tra loro da una rete di reciprocità
fondata su debiti e obblighi morali[51]. Il
grado di specializzazione individuale è minimo o del tutto assente: non ci sono
artigiani a tempo pieno e ogni membro del gruppo partecipa alle attività di
coltivazione, di caccia o di raccolta. Tra le 'fonti' normative, accanto agli
usi originari cominciano a stratificarsi le tradizioni orali delle
consuetudini; agli strumenti di conciliazione interni ai gruppi familiari si
affiancano sempre più spesso dei metodi arbitrali per risolvere le controversie
interfamiliari. Iniziano a mostrarsi i primi segni di edifici e luoghi
stabilmente dedicati al culto religioso[52].
Se
attualmente le tribù sopravvivono ancora nelle zone remote ed economicamente
marginali del pianeta, gli stati moderni hanno invece eliminato da almeno un
secolo tutti i chiefdoms, che erano insediati su aree decisamente più
grandi ed economicamente interessanti. Salvo vederli risorgere quando in
qualsiasi maniera entrano in crisi[53].
Anche questo tipo di organizzazione sociale che giunge a comprendere migliaia,
e talvolta decine di migliaia, di individui ha origine durante il VI millennio
a.C. nella Mezzaluna fertile; si riprodurrà più tardi nell'Africa subsahariana,
nel centro e nel sud America, in Polinesia. Il chiefdom controlla più
villaggi e tribù; a volte riesce perfino a fondare una vera e propria città.
I chiefdoms
traggono il loro nome dalla figura del capo, che in essi assume una
posizione ufficialmente riconosciuta, spesso ereditariamente trasmissibile: è
un'autorità centrale permanente che prende le decisioni importanti e detiene il
monopolio di alcune informazioni strategiche (le minacce di un altro capo, il
probabile andamento del raccolto...). Ma soprattutto comincia a concentrare su
di sé il diritto all'esercizio della forza, perché in aggregazioni di così
grande dimensione si possono originare continuamente seri problemi di
conflittualità interna, dato che la grande maggioranza degli abitanti non hanno
legami di sangue e neppure si conoscono per nome: nei chiefdoms, gli
esseri umani dovettero insomma imparare a incrociare un estraneo senza sentire
il bisogno impellente di aggredirlo.
Le
dimensioni demografiche e territoriali raggiunte dai chiefdoms
consentono, per la prima volta nella storia umana, la produzione di eccedenze
alimentari e di altri beni; la cui gestione diventa cruciale per la
legittimazione e il mantenimento del potere da parte del capo e del suo clan
dominante. Sotto forma di tributo dovuto dalla popolazione, servono
direttamente a mantenere i capi, le loro famiglie, i funzionari, gli artigiani[54]. Ma
servono anche a vincolare la popolazione alla classe dirigente attraverso il
senso del debito e della gratitudine, quando vengono redistribuite in forma
differita e apparentemente donativa. Uno dei miti di fondazione della scienza
economica, che si fa risalire almeno a Adam Smith, vede nell'operazione 'a
pronto' del baratto la forma originaria dello scambio; e nella successiva
invenzione del denaro lo strumento che
dovrebbe sopperire alle inevitabili a-sincronie e a-simmetrie. Ma gli
antropologi non hanno mai trovato nessuna conferma di tutto ciò. E' invece molto
più probabile che fin dall'inizio sia esistito il 'pronto contro termine'
tipico del rapporto debito-credito: «Vuoi quel bene? Prendilo»; ma poi sarai in
debito con me e dovrai restituirmene uno di uguale o maggior valore[55].
Anche l'economia del dono studiata da Marcel Mauss si fonda su una regola
implicita, ma non per questo meno vigente: al dono di maggior valore del
superiore rispetto a quello dell'inferiore corrisponde, da parte di
quest'ultimo, un impegno di sottomissione e di lealtà, su cui si fonda l'ordine
sociale. Si pensi al vincolo di fides che nella Roma arcaica legava cliens
e patronus nell'antico – ma in realtà mai scomparso – rapporto di
clientela[56].
Oppure all' «offerta che non si può rifiutare» fatta dal mafioso alla sua
vittima: per trasformare un rapporto di violenza e di estorsione in qualcosa di
'morale', capace addirittura di far sentire in colpa la vittima, lo si presenta
come un rapporto fondato sul debito.
Con i
chiefdoms siamo per la prima volta di fronte a delle società non
egualitarie. La concentrazione del potere può essere utilizzata per realizzare
imprese, organizzare opere e distribuire servizi che nessun villaggio da solo
potrebbe mai neppure immaginare di compiere. Ma il monopolio della forza può
servire anche semplicemente a tenere in piedi delle vere e proprie cleptocrazie,
il cui unico scopo è il trasferimento di ricchezza da una classe sociale
all'altra. Sia per l'uno che per l'altro fine, in tutti i chiefdoms i
gruppi dominanti producono e diffondono delle ideologie che anticipano le
religioni istituzionalizzate, e che servono a rafforzare l'autorità dei capi:
nelle bande e nelle tribù esistono diverse forme di credenza in entità
soprannaturali, ma non giustificano mai l'autorità o il trasferimento di
ricchezze. Comincia l'opera di divinizzazione del capo, che sarà fondamentale
per l'istituto della regalità; e
s'inaugura anche quella sovrapposizione tra potere secolare e potere sacrale
che sarà destinata ad avere un grande futuro.
L'istituzionalizzazione della religione porta inoltre altri due
importanti vantaggi a queste prime società centralizzate: aiuta a risolvere il
problema della convivenza pacifica tra estranei perché fornisce un legame
comune che supera quello di parentela; offre delle motivazioni di carattere
idealistico per far credere che valga la pena di morire in guerra.
Coerentemente
con la concentrazione del potere, nei chiefdoms la risoluzione dei
conflitti comincia a essere più centralizzata. Accanto agli usi e ai costumi
tradizionali basati su negoziati e arbitrati tra famiglie e clan, si afferma
sempre più la decisione fondata su leggi orali e convenzioni[57].
L'ultima
forma evolutiva di aggregazione sociale e di istituzione politico-economica
della classificazione di Service, la conosciamo bene. Comparsi per la prima
volta nel corso del IV millennio a.C. in Mesopotamia e nella valle del Nilo,
due millenni più tardi in Cina, intorno al IV secolo a.C. in America Centrale,
gli stati oggi si spartiscono e governano l'intero pianeta. Hanno inventato la
scrittura e la legge, costruito città, cercato di diventare imperi. Ancora una
volta è la forza del numero a determinare il salto qualitativo: le migliaia di
individui dei chiefdoms diventano i milioni (in qualche caso i miliardi)
di abitanti degli stati. L'invenzione della città costituisce una sintesi, insieme
simbolica e funzionale, della novità rappresentata dallo stato; anzi, a lungo
coinciderà praticamente con esso, come nelle poleis, le città-stato
della Grecia classica. La città non è soltanto un villaggio più grande: nella
sua forma si manifesta chiaramente la concentrazione del potere, la
stratificazione della società, l'organizzazione specialistica dell'economia.
Col
crescere della popolazione crescono anche esponenzialmente le possibilità di
conflitti. Il problema, che già esisteva per i chiefdoms, si presenta
enormemente amplificato per gli stati: non ci si può più affidare soltanto alle
forme tradizionali di risoluzione 'spontanea'; bisogna dotarsi di leggi,
preferibilmente scritte, di organi giudiziari che prendano decisioni, di forze
di polizia che mantengano l'ordine. Una società grande e complessa, composta
sempre più da individui e non da clan o gruppi familiari, non può funzionare
con la vecchia 'democrazia diretta' tribale cui guardava con nostalgia Rousseau[58]: che
siano autocratici o democratici, assolutistici o liberali, gli stati per
funzionare hanno tutti bisogno di ricondurre i processi decisionali a un potere
centrale di governo. Anche la dimensione delle interazioni economiche cambia
radicalmente nell'ambito della nuova compagine statale. Se in una società
semplice i trasferimenti di risorse necessari alla sopravvivenza del gruppo
vengono effettuati direttamente dagli individui e dalle famiglie mediante
strumenti basati sulla reciprocità, in una società grande e complessa si
riproduce lo stesso problema che si presenta per la gestione dei conflitti: le
strategie tradizionali diventano inefficienti e c'è bisogno di un'autorità
centrale che organizzi un'economia redistributiva delle risorse. Infine le
società più complesse non sono soltanto più numerose, ma presentano anche una
maggiore densità di popolazione. Se il rapporto popolazione/territorio doveva
restare necessariamente basso per le bande di cacciatori-raccoglitori, esso
cresce rapidamente nelle altre forme di aggregazione sociale, per raggiungere
il suo massimo all'interno degli stati; e per molti di questi, specie quelli
dotati di un'identità più inflazionata, lo 'spazio vitale' non basterà mai.
Il
controllo sulla risoluzione dei conflitti, la concentrazione dei processi
decisionali, la gestione delle risorse economiche, l'organizzazione dello
spazio sono tra i fattori determinanti che portano le società più numerose a
dotarsi di autorità centrali di governo; le quali inevitabilmente, detenendo il
potere che deriva dal possesso delle informazioni strategiche e dalla
redistribuzione delle risorse, tenderanno a diventare 'più uguali' di tutti gli
altri abitanti. Gli stati non si formano per via di un contratto sociale, di
una decisione razionale cui si giunge dopo aver considerato i propri interessi
e avere scoperto che sarebbero meglio tutelati in una società complessa: si
formano per aggregazione sotto la minaccia di forze esterne, quelle stesse che
possono inglobarli conquistandoli. Nello spazio in cui si dispiegano le loro
relazioni, non c'è nessun Leviatano che possa dominare sullo 'stato di natura'.
Nel
lungo passaggio dalle bande agli stati, gli esseri umani perdono libertà e
acquistano sicurezza; perdono comunità e acquistano collettività. Diventano
quegli individui soli e separati su cui i contrattualisti fonderanno le loro
geometrie politiche.
Individuals, communities, collectivities: introduction
to an anthropology of conflicts
The different conceptions of 'state of nature' on which
modern theorists of social contract (Hobbes, Locke, Rousseau) based their
political constructions are not, on closer inspection, than theories of
conflict. Theories that at the time, due to the lack of anthropological
investigations, could only be postulative; and therefore useful above all to
justify the respective philosophical geometries
These different theories of conflict management through
the contract, in particular that of Hobbes and Rousseau, share a substantially
identical conception of the original condition: the human being is described by
both as an individual who is unrelated to his fellow beings and avulsed from
any Community context. A single individual, waiting for the State. No family,
clan, tribe; no 'intermediate group' to which to belong to receive an identity.
In these new societies,
the alternative to violence must shift its center of gravity from the
possibility of communication, more or less direct, between the protagonists of
a conflict, towards the certainty of a judgment produced by an external power
holding the only legitimate force
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Leviatano, 6, 46.
[2] Ivi, 10, 62.
[3] Ivi, 11, 70.
[4] Ivi, 10, 62.
[5] Ivi, 17, 13.
[6] Secondo Trattato sul Governo, § 4.
[7] Ivi, § 6.
[8] Ivi, § 8. La punizione, con la sua funzione esemplare, prende il
posto dell'aggressione preventiva di Hobbes.
[9] Ivi, § 13.
[10] Ivi, § 149.
[11] Sul
concetto di fiducia in Locke, cfr. il mio Legge,
Diritto, Giustizia, Torino 2013, 198 ss.
[12] Così
all’art. 3 della Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776.
[13] Discorso sull'origine e i fondamenti
dell'ineguaglianza, parte II.
[14] Cfr. J. C.
Hall, Rousseau: an Introduction to
his Political Philosophy, London 1973, 80-83.
[15] Cfr.
il Contratto Sociale, libro I, cap.
III.
[16] Ivi, libro I, cap. VI, 24. C'è una forte
carica di misticismo in questa visione olistica della società. Sembra quasi
evocare Menenio Agrippa e il suo antico apologo organicista.
[17] Ivi, libro I, cap. VII, 26.
[18] Ivi, libro III, cap. XIII, 124.
[19] Cfr. C.
Pateman, The problem of Political
Obligation, New York 1979, 151.
[20] Contratto Sociale, libro III, cap. XV,
127.
[21] Ibidem.
[22] Utile
in proposito l’acuta analisi di Hannah Arendt in Sulla
rivoluzione, trad. it. Milano 1983, 77 ss..
[23] Cfr. Contratto Sociale, libro II, cap. III.
[24] Così J. W. Gough, The Social Contract, Oxford 1957, 171.
[25] Cfr.
in proposito R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità,
Torino 1998, 12 ss..
[26] Ivi, 40.
[27] Ivi, 43.
[28]
Fondamentale in proposito K.O. Apel, Comunità e comunicazione, trad. it., Torino 1977.
[29] «In
America hanno tutti paura che gli si faccia causa: perciò ci sono tante regole
e obblighi […]. Se hai la piscina la devi recintare, perché se qualcuno entra e
si fa male il responsabile sei tu. In Nuova Guinea non erano in molti ad avere
una piscina, ma anche nei fiumi dove andavamo a fare il bagno non c'era bisogno
di cartelli che dicessero 'E' pericoloso tuffarsi'. Certo che lo è, ma se ti
tuffi devi essere pronto ad affrontare le conseguenze. Invece in America la
responsabilità non è di chi fa una determinata cosa, ma del proprietario o del
costruttore della casa. Alla minima occasione, si cerca di scaricare la colpa
sugli altri». J. Diamond, Il mondo fino a ieri, trad. it., Torino
2013, 462.
[30] N. Rouland, Antropologia giuridica, trad.it., Milano 1992, 198. Secondo Michel
Alliot, una comunità tradizionale si definisce in base a tre caratteristiche
essenziali: 1. I suoi membri condividono una stessa vita. Hanno cioè in comune
una lingua, gli antenati e le divinità; condividono uno spazio vitale, hanno
gli stessi amici e gli stessi nemici. - 2. Condividono la totalità delle
specificità. Le comunità valorizzano più le specificità delle similitudini, le
gerarchie piuttosto che l'uguaglianza. Ma queste particolarità sono condivise,
poiché non costituiscono cause di tensione tra i singoli o i gruppi che ne sono
portatori: al contrario, tendono a pensarsi come complementari. - 3.
Condividono un comune campo decisionale. Ogni comunità si definisce attraverso
un sistema di regole condiviso e determinato autonomamente. Queste regole sono
essenzialmente consuetudinarie e prodotte dalla stessa comunità: rispetto ad
esse la legge, nel significato moderno del termine, viene percepita come lo
strumento di dominio di una frazione del gruppo sugli altri, o di un'autorità
esterna sul gruppo stesso. (Cfr. M. Alliot, Institutions privées africaines et malgaches, Paris 1971).
[31] Cfr. l'art. 3 della Costituzione
italiana. In qualsiasi società tradizionale, cercare l'obbligazione (morale o
politica che sia) capace di vincolare ogni essere umano in quanto tale,
equivarrebbe invece a cercare il cibo che possa nutrire ogni specie di animale.
[32] Cfr, J.
Henrich, S. Heine, A. Norenzayan, The
Weirdest People in the World, in Behavioral
and Brain Sciences, 33/2010.
[33]
Appartenenza che ovviamente si riflette in strutture psicologico-culturali che
condizionano profondamente le strategie cognitive individuali: «Più sei WEIRD,
più tendi a vedere un mondo fatto di oggetti distinti anziché di relazioni. E'
stato notato già da tempo che gli occidentali hanno un'idea di sé molto più
indipendente e autonoma delle popolazioni dell'Estremo Oriente. Se per esempio
si chiede a un soggetto di scrivere venti frasi che comincino con 'io sono...',
in America le risposte punteranno soprattutto sulle caratteristiche
psicologiche (sono felice, socievole, appassionato di jazz), in Estremo Oriente
sui ruoli e sulle relazioni (sono figlio, marito, dipendente Fujitsu). […] Si
comprende come filosofi WEIRD, a partire da Kant o Stuart Mill, abbiano
prodotto quasi sempre sistemi morali individualistici, basati su regole e
universalistici: è questa infatti la morale che serve per governare una società
di individui autonomi» (J. Haidt,
Menti tribali, trad. it., Roma 2013,
124-5).
[34] Cfr. S. Pinker, Il declino della violenza, trad. it., Milano 2013.
[35] Ivi, cap. VIII.
[36] Cfr,
in proposito S. Berni, G. Cosi, Fare giustizia. Due scritti sulla vendetta,
Milano 2014.
[37] Cfr.
in proposito F. Remotti, Contro l'identità, Bari 1996, 45 ss..
[38] Cfr. A. Sen, Identità e violenza, trad.it., Bari 2006: «La cittadinanza, la
residenza, l'origine geografica, il genere, la classe, la politica, la
professione, l'impiego, le abitudini alimentari, gli interessi sportivi, i
gusti musicali, gli impegni sociali e via discorrendo ci rendono membri di una
serie di gruppi. Ognuna di queste collettività a cui apparteniamo
simultaneamente, ci conferisce un'identità specifica. Nessuna di esse può
essere considerata la nostra unica identità, o la nostra unica categoria di
appartenenza». (Ivi, 6).
[39] Nella
forma della com-passione è centrale in alcune grandi esperienze spirituali,
come quella buddista. Recentemente la neurologia ne ha individuato le probabili
basi fisiologiche (cfr.G. Rizzolati, C.
Sinigaglia, So quel che fai. Il
cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano 2006).
[40] Non
sempre però il senso morale fa diminuire la violenza: quando viene preso in
gestione esclusiva da 'agenzie etiche' in qualsiasi modo autoritarie o
fondamentaliste, può invece fomentarla, al pari delle ideologie. Secondo
Jonathan Haidt (Op.cit., 192 ss.) la nostra specie
possederebbe cinque principi morali di base, innati nel senso di 'organizzati
prima dell'esperienza', e variamente valorizzati a seconda dei contesti
culturali di appartenenza: 1) Il principio di protezione/danno, sviluppato in
risposta alla sfida di offrire protezione ai bambini, che sono vulnerabili e
indifesi. Ci rende sensibili ai segnali di sofferenza e di bisogno; ci spinge a
disprezzare la crudeltà e a prenderci cura di chi soffre. 2) Il principio di
correttezza/inganno, sviluppato in risposta alla sfida di raccogliere i frutti
della collaborazione senza essere sfruttati dai profittatori. Ci rende
sensibili ai segnali che indicano se un individuo può o meno essere un buon
partner in un rapporto di collaborazione e di mutuo sostegno; ci spinge a
evitare o punire i truffatori. 3) Il principio di lealtà/tradimento, sviluppato
in risposta alla sfida di formare e mantenere gruppi e coalizioni. Ci rende
sensibili ai segnali che indicano se un individuo può o meno essere un buon
compagno di squadra; ci spinge a fidarci di questo genere di persone e a
ricompensarle, mentre ci porta a ostracizzare o perfino uccidere chi tradisce
noi o il gruppo cui apparteniamo. 4) Il principio di autorità/sovversione,
sviluppato in risposta alla sfida di stringere relazioni da cui trarre
beneficio all'interno di una gerarchia. Ci rende sensibili ai segnali attinenti
allo status o al rango sociale e a quelli che indicano se un individuo si stia
o meno comportando in maniera consona alla propria posizione. 5) Il principio
di sacralità/degradazione, probabilmente originato da necessità di prevenzione
igienica (si pensi alle prescrizioni alimentari presenti in molte tradizioni
religiose), che sviluppa una sorta di sistema immunitario comportamentale utile
a renderci diffidenti nei confronti di una serie disparata di oggetti simbolici
e minacce. Spesso arriva a investire gli oggetti di significati irrazionali ed
estremi in senso sia positivo che negativo (tabù), ma importanti ai fini della
coesione interna del gruppo.
[41] Cfr. R.
Schweder, Thinking Through
Cultures: Expeditions, in Cultural Psychology, Harvard U.P. 1991. «Non
si può studiare la mente ignorando la cultura, come fanno di solito gli psicologi,
perché le menti funzionano solo dopo essere state riempite di una determinata
cultura. E non si può studiare la cultura senza tener conto della psicologia,
come sono soliti fare gli antropologi, perché concetti e desideri profondamente
radicati nella mente umana contribuiscono a modellare pratiche e istituzioni
sociali (per esempio i riti di iniziazione, la stregoneria o la religione), che
per questo assumono forme simili anche da un continente all'altro» (J. Haidt, Op. cit., 127).
[42] Così
all'inizio del romanzo di L.P. Hartley,
The Go-Between, London 1953.
[43] Siamo
gli ultimi arrivati di una lunga serie di tentativi di speciazione iniziata
intorno ai 6-7 milioni di anni fa, quando la linea genetica degli ominidi
cominciò a separarsi da quella delle grandi scimmie: ancora oggi, il nostro DNA
è per il 98,6% identico a quello degli scimpanzé.
[44]
Probabilmente a seguito di una grande catastrofe ambientale che aveva ridotto
la popolazione dei sapiens a poche migliaia di individui. Il che spiegherebbe
anche la singolare omogeneità genetica della nostra specie.
[45] Come
i denisoviani e i neandertaliani, gli incroci con i quali hanno lasciato tracce
nel nostro patrimonio genetico.
[46]
Riprendo qui l'ormai classica divisione delle società umane in quattro tipi fondamentali
proposta da Elman Service: banda, tribù, chiefdom (spesso tradotto in italiano
con 'dominio', 'capitanato'), stato (cfr. E.
Service, Primitive Social
Organization: an Evolutionary Perspective, New York 1962).
[47] Si calcola
che intorno al 10.000 a.C. la popolazione umana complessiva non superasse il
milione di individui.
[48] Cfr. N.
Rouland, Op. cit. 192 ss..
[49] Il
riferimento è al classico V. Gordon
Childe, Preistoria della civiltà
europea, trad. it., Firenze 1979.
[50]
«Nelle società tradizionali della Nuova Guinea, quando due perfetti sconosciuti
si incontravano al di fuori dei loro rispettivi villaggi iniziavano subito una
lunga discussione per cercare di stabilire se avessero qualche parente o amico
in comune, e quindi una valida ragione per cui l'uno non dovesse uccidere
l'altro.» (J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, trad. it.,
Torino 2014, 214).
[51] Il
riferimento esemplare d'obbligo è all'economia del dono basata sul potlatch,
praticata dalle tribù di nativi americani della costa nord-occidentale del
Pacifico, e a quella analoga del kula polinesiano. Cfr., rispettivamente, i
classici M. Mauss, Saggio sul dono, trad. it., Torino 2002
e B. Malinowski, Argonauti del Pacifico Occidentale,
trad. it., Milano 2011.
[52] Recentemente
un'importante scoperta archeologica nel sud-est della Turchia ha messo in
discussione la teoria paleontropologica dominante, secondo cui solo a seguito
del consolidarsi dell'economia stanziale di agricoltura-allevamento avrebbero
cominciato a emergere le prime forme di edifici dedicati al culto. Nel sito di
Göbekli Tepe, vicino alla città di Şanliurfa e al confine siriano, a
partire dagli anni '90 del secolo scorso è stato scavato e indagato un
complesso monumentale megalitico l'inizio della cui costruzione viene datato
intorno al 9500 a.C.: oltre 5000 anni prima dei più antichi edifici religiosi
finora noti (alcune ziggurat sumere). L'edificazione del complesso impegnò
molte centinaia di individui nell'arco di più secoli. Individui che all'epoca erano
ancora sicuramente dei cacciatori-raccoglitori, perché intorno al sito non è
stata trovata alcuna traccia di coltivazione, di allevamento di animali o di
insediamento. I bassorilievi che decorano i grandi monoliti del complesso
raffigurano gli animali selvatici che all'epoca vivevano in quel territorio; il
culto che vi veniva praticato era verosimilmente di tipo sciamanico. Göbekli
Tepe invita a prendere in considerazione l'eventualità che, almeno in quel
caso, sia stata la 'religione' a favorire l'aggregazione sociale e, in
prospettiva, la stanzialità; non viceversa. Il sito fu improvvisamente
abbandonato intorno al 7500 a.C., dopo essere stato deliberatamente interrato. (Cfr. in proposito K.
Schmidt, Sie bauten die ersten
Tempel. Das rätselhafte
Heiligtum der Stienzeitjäger, München 2006).
[53] Si
pensi al fenomeno attuale dei cosiddetti 'stati falliti', che vedono riemergere
al proprio interno le tribù e i chiefdoms originari, quasi sempre guidati da
'signori della guerra'.
[54]
Comincia anche a svilupparsi il fenomeno della schiavitù, alimentato dai
prigionieri catturati durante le razzie.
[55] Cfr,
in proposito D. Graeber, Debito. I primi 5000 anni, trad. it.,
Milano 2012.
[56] V. il
mio La responsabilità del giurista,
Torino 1998, 160 ss..
[57] Le
forme tradizionali di gestione dei conflitti resistono tuttavia a lungo anche
in società con le dimensioni demografiche dei chiefdom. Uno degli esempi
classici è quello dei Nuer sudanesi studiati negli anni '30 del secolo scorso
da Evans-Pritchard: un gruppo sociale di circa 200.000 individui che per la
soluzione delle dispute si affidava ancora alla figura del capo
'pelle-di-leopardo' (cfr. E.E.
Evans-Pritchard, I Nuer:
un'anarchia ordinata, trad. it, Milano 2002). Si tratta di un personaggio
che presiede a un sistema di regolazione dei conflitti, alternativo alla
vendetta di sangue, ricorrendo a una serie di regole e di rituali per sedare il
ricorso immediato alla violenza e favorire il cauto riavvicinamento delle
parti. Il 'capo con la pelle di leopardo' non è un'autorità politica; è
soltanto un personaggio autorevole che spende il suo 'carisma' per favorire una
soluzione mediata del conflitto, facendo leva sui valori sociali condivisi dai
contendenti: «Quando un uomo ne ha ucciso un altro, deve immediatamente recarsi
dal capo, che incide il suo braccio fino a farne uscire il sangue. Finché
questo 'marchio di Caino' resta visibile, l'uccisore non può né mangiare né
bere. Per sfuggire alla vendetta, di solito rimane nella dimora del capo, che è
luogo sacro e inviolabile. Il capo comincia allora a fare pressioni sui parenti
dell'uccisore affinché si preparino a pagare una compensazione che eviti
rappresaglie, e sui parenti della vittima affinché l'accettino. Durante questo
periodo le parti non possono mangiare o bere a una mensa comune [...]. Si
potrebbe avere l'impressione che il capo giudichi il caso e obblighi ad
accettare la sua decisione. Niente di più falso. Non viene chiesto al capo di
pronunciare un giudizio; e a nessun Nuer verrebbe mai in mente di
chiederglielo. Se può sembrare che con la sua insistenza il capo forzi i
parenti del morto ad accettare il risarcimento, se necessario minacciandoli di
maledizione, la spiegazione è che questo suo comportamento consente ai parenti
della vittima di conservare il loro prestigio sociale. Il riconoscimento dei
legami comunitari tra le parti, l'esistenza di un obbligo morale ad accettare
la compensazione tradizionale e il desiderio di evitare il ricorso alle
ostilità, sembrano gli unici elementi che entrano realmente in gioco [...]. In
senso stretto, i Nuer non hanno diritto. Nessuno è investito di funzioni
legislative o giudiziarie.» (E.E. Evans-Pritchard, Les
Nuer du Sudan méridional", in Meyer-Fortes,
Evans-Pritchard (edd.), Systèmes politiques africaines, Paris
1964, 251-256).
[58] Anche
i tentativi di alcuni soggetti politici contemporanei di resuscitarla per mezzo
di Internet, per ora di fatto si riducono, a ben vedere, a una serie di
limitate e passive ratifiche di decisioni prese da delle élites tutt'altro che
democraticamente controllate.