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TUTELARE LA SARDEGNA.
LIMITI E PROSPETTIVE
DELL’APPLICAZIONE
DELLA DISCIPLINA UNESCO IN
AMBITO ARCHEOLOGICO[1]
Università di Sassari
Università di Sassari
Università dell’Insubria
SOMMARIO: 1. Il contesto. – 2. Il disallineamento tra meritevolezza di tutela e tutela nella
cornice della convenzione UNESCO. – 3. La natura
aspecifica della tutela penale (anche nelle linee di riforma in discussione).
– 4. Spunti dalla convenzione UNESCO per una concezione
del patrimonio culturale come bene giuridico. – Abstract.
– Riferimenti bibliografici. – Fonti.
Partiamo da un perché: quale sia la
motivazione profonda sottesa alla scelta del complesso nuragico Su Nuraxi
di Barumini per l'inserimento nella World Heritage List UNESCO come primo (e
per ora unico) sito archeologico sardo. Il dispositivo UNESCO è in questo
inequivocabile[2], e la nostra lettura è quella di una scelta anche simbolica,
che inquadra la “fantasiosa marginalità” dell'intero e in qualche senso
indivisibile patrimonio preistorico-nuragico della Sardegna come oggetto di
ampia e globale tutela.
Ma al perché segue inevitabilmente il come. E
l'attualità ci offre, come ben evidenziato nell'articolo di Costantino Cossu su
“il manifesto”, una situazione normativa con conseguenze critiche, in
particolare in riferimento alle specificità territoriali della Sardegna: «[...] è stato tagliato di netto, insomma, il
rapporto tra valorizzazione e tutela e, conseguentemente, anche il legame che
intrecciava la vita dei musei a quella del loro territorio»[3]. All’indomani della riforma per la
riorganizzazione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del
Turismo, quindi, la netta separazione tra l'ambito museale, cui viene delegata
la valorizzazione delle testimonianze, e le Soprintendenze, cui invece è
affidata la tutela, raggiunge in Sardegna un livello allarmante: nell’isola non
è infatti presente nessuno dei super-musei previsti dalla riforma, a scapito di
un patrimonio archeologico importantissimo e diffuso in tutto il territorio. E
naturalmente la cesura tra musei e territorio, conseguente alla cesura tra
tutela e valorizzazione, ha le stesse implicazioni se si parla di un ancor più
fragile patrimonio come è il complesso archeologico di Barumini, e come lo è
l'intero tessuto archeologico isolano.
Ricordiamo che la funzione fondamentale
dell’UNESCO non è tanto la tutela dei beni, quanto il riconoscimento di un
valore. L'esempio sardo può essere utile per una valutazione degli effetti
della disciplina UNESCO in un contesto fortemente identitario, eccezionalmente
connesso e intrecciato, essenzialmente inscindibile in singoli elementi.
L'analisi da un punto di vista giuridico vuole aprirsi alle potenzialità
positive di meditate applicazioni disciplinari che, laddove possibile e laddove
strutturalmente necessario, trascendano la sola tutela “dell'eccezionale”, che,
in un territorio come la Sardegna, rischia di deviare – come già una lunga
storia di possessi ha insegnato - verso
una frammentata collezione di tesori di fatto extra-territoriali.
Da sempre le vicende storiche dell’isola
(troppo articolate e complesse per essere anche solo accennate in questa sede)
si sono alternate con un susseguirsi di differenti equilibri, di continuità e
di rotture nel rapporto tra uomo, territorio e paesaggio: il legame tra uomo e
ambiente – già prima del “tempo industriale” - è stato condizionato da diversi
conflitti, nel corso dei quali le ripetute colonizzazioni dell’isola hanno
tentato di rendere il territorio più produttivo possibile, introducendo però
modelli e metodi di gestione esterni (ed estranei). Chiari esempi, in ambito
agro-pastorale, sono la chiusura degli usuali percorsi dei pastori e le nuove
regolamentazioni nella gestione dei terreni agricoli. E poi c'è il caso dei
muretti a secco, così “tradizionali” e riconoscibili quali elementi essenziali
del paesaggio sardo, ma espressione dell’istituzione della proprietà “perfetta”
instauratasi in Sardegna dopo le riforme sabaude[4], nel tentativo di limitare l’economia locale in favore di una
nascente classe di piccoli proprietari terrieri.
Alcune affermazioni di Antonio Cederna,
pubblicate nel 1967 sul Corriere della Sera, appaiono anche oggi difficilmente
contestabili:
«Si dice comunemente che
gli italiani non amano la natura, e gli episodi che ogni giorno la cronaca
riferisce sembrano provarlo a sufficienza. È una questione che esigerebbe un
lungo discorso: tuttavia, per evitare generalizzazioni, si potrebbe almeno
osservare che non si può pretendere che la gente ami ciò che nessuno le ha mai
insegnato a conoscere. Inoltre, troppe sono le forze interessate a sfruttare
quella constatazione di comodo: ad esempio, quelle che continuamente vanno
predicando le necessità della cosiddetta “valorizzazione turistica”, intendendo
in realtà la lottizzazione indiscriminata di parchi, litorali, colline e
pinete, col risultato di annientare il prestigio naturale dei luoghi, cioè la
stessa materia prima del turismo moderno»[5].
Lo stesso Cederna, in una serie di articoli dedicati
alla Sardegna e pubblicati tra gli anni ’70 e i primi anni ’80, ha più volte
denunciato l’assedio verso le coste, nato con le prime consistenti pietre
posate per la realizzazione degli alberghi, delle ville e dei villaggi
turistici in Costa Smeralda e, in breve tempo, diffuso lungo tutto il perimetro
costiero. Erano gli anni, in tutta Italia, delle battaglie per la tutela di
aree naturali di assoluto pregio, in opposizione a una valorizzazione delle
potenzialità dei luoghi che però, nei fatti, non metteva in moto alcun tipo di
processo economico virtuoso. Dai tentativi di ricreare villaggi marinari, al
falso mimetismo dei mega-hotel, passando per le lottizzazioni a tappeto
(tecnicamente, un tappeto sopra la natura) destinate a cancellare ogni carattere
distintivo dei luoghi. La valorizzazione turistica in Sardegna si è spesso
tradotta nella costruzione di ghetti turistici, sistematicamente disinteressati
alla realtà sociale, naturale e storica dell’isola. Il boom economico ha
certamente mosso una enorme quantità di denaro, ma – sul territorio e per il
territorio – non ha provocato che scarsissimi investimenti, e la Regione, in
breve tempo e con forte ritardo, si è trovata costretta a difendere le coste,
invece di promuoverle, e a tentare di tamponare un fenomeno non governato e
ormai quasi incontrollabilmente diffuso su tutto il territorio regionale, che
vedeva le aree depresse guardare con invidia agli esempi costieri.
Questo contesto critico è lo stesso nel quale
si sono sviluppate le politiche di tutela, valorizzazione e gestione del
patrimonio culturale in Sardegna, in un ambito politico di consolidamento
dell’idea di economia della cultura (ricordiamo,
a titolo simbolico, il «Fatevi un panino
con la Divina Commedia!»[6] del 2010, dell'allora Ministro del Tesoro Giulio Tremonti),
abbracciata da governi di ogni colore, in cui temi come pianificazione
territoriale, tutela dell’ambiente e valorizzazione del patrimonio culturale
sono terreni di tensione e ambiti di scontro tra schieramenti e orientamenti politici
differenti[7]. E il patrimonio archeologico, in particolare, proprio in virtù
del suo stato residuale e dell’impossibilità di porsi al centro di grandi
progetti di valorizzazione territoriale, appare particolarmente a rischio.
A livello nazionale, il castello giuridico dei
beni culturali sembra aderire a caratteri ed aspettative sempre più globali,
alla ricerca di siti "simbolo" e immagine dell’universo italiano.
L’idea di patrimonio come identità della nazione, al centro delle idee politiche
del XX secolo, sembra ormai essere stata sostituita da una dimensione
sovranazionale[8]. L’adesione alle regole dettate dall’UNESCO, l’Ente più
autorevole in materia di tutela del patrimonio e promotore di una lista di siti che esprimono, appunto, un valore universale eccezionale[9], sembra di fatto limitare la sovranità dei
singoli paesi in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio.
In quest’ottica, discutere di tutela UNESCO
con riferimento al caso della Sardegna è insieme significativamente
esemplificativo e fuorviante. Se da un punto di vista strettamente giuridico,
come si vedrà nei paragrafi seguenti, l’azione di tutela si struttura in due
distinti ambiti, da un punto di vista archeologico è centrale analizzare e
valutare il rapporto, mediato dai limiti imposti dalla normativa, tra le aree
oggetto di tutela ed il loro contesto territoriale.
L'intero universo culturale italiano sembra,
intanto, correre a due velocità: da una parte un valore riconosciuto
unanimemente a livello internazionale, dall'altra l'endemica difficoltà nel
riuscire ad assicurare anche solo la possibilità di accesso e minima fruizione,
ostacolata dalla cronica mancanza di personale e di risorse. A chi si occupa di tutela sembra rimasta solo
la possibilità di denunciare una realtà incardinata e concentrata su isolate
eccellenze, senza poter volgere lo sguardo all’insieme del patrimonio, con il
complemento di un abbandono diffuso e incentivato, peraltro, dai continui
processi di semplificazione promossi dalle pubbliche amministrazioni[10]. Recentemente l’UNESCO ha deciso di
aggiungere nella sua lista del patrimonio dell’umanità ventuno siti, di cui due
italiani: alcune faggete primordiali dell’Appenino e le opere di difesa della
Repubblica veneziana, dalle mura di Bergamo alla forma di Palmanova[11]. L’Italia ha dunque riconquistato il primato
mondiale per numero di siti iscritti nella World
Heritage List (WHL), raggiungendo quota cinquantatré e superando la Cina
che, ad oggi, ne conta cinquantadue. E a testimoniare emblematicamente le “due
velocità” di cui sopra, nelle stesse ore di questo sorpasso crollava parte
dell’intonaco della volta del Duomo di Acireale, provocando il ferimento di chi
assisteva alla cerimonia religiosa in atto[12].
Tornando alla Sardegna, vi sono ufficialmente
riconosciuti quattro patrimoni UNESCO: uno culturale (villaggio nuragico di Su Nuraxi – Barumini), uno
culturale-naturale, inserito nella rete Geoparks
UNESCO (il Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna - Iglesias) e
due immateriali (la celebrazione dei Candelieri di Sassari ed il canto a
tenore)[13]. L’interesse dell’UNESCO ha sicuramente
portato alcuni benefici rilevanti, come l’aumento di visibilità globale e, non
certo trascurabile, l’acquisizione di fondi nazionali ed internazionali
finalizzati a tutela e valorizzazione, fondi comunque gestiti a livello
nazionale, poiché nell'applicazione della disciplina UNESCO gli Stati
mantengono un margine di autonomia nel rispetto delle diversità e dei caratteri
locali[14]. Tale riconoscimento, però, non costituisce
un automatico valore aggiunto in sé, ma dovrebbe essere utilizzato come
elemento distintivo o dispositivo utile per strutturare, a livello locale,
politiche e strategie adeguate a migliorare la capacità attrattiva e – in
ultima analisi – la vivibilità del territorio. A questo proposito, per
garantire una protezione ed una conservazione il più efficace ed attiva
possibile, la World Heritage Convention
(WHC) chiede il rispetto di alcune condizioni fondamentali tra cui quella
contenuta nell’art. 5, comma A, in cui si prevede l’adozione di «una politica generale intesa ad assegnare
una funzione al patrimonio culturale e naturale nella vita collettiva e a
integrare la protezione di questo patrimonio nei programmi di pianificazione
generale».
Ma è proprio in questa situazione che si
manifestano le prime criticità, riproponendo tutti i limiti di un processo di
salvaguardia tanto attento alla preservazione della dimensione materiale dei
beni, quanto distratto nella protezione di valori più immateriali, di cui il
bene si fa portatore. Tali debolezze appaiono particolarmente evidenti nel caso
di Barumini, dove il riconoscimento dell’eccezionalità architettonica del
complesso sembra aver distolto l’attenzione dai valori complessivi del
territorio, contribuendo ad una rottura della continuità esistente tra sito e
contesto. Eppure, come si diceva all'inizio, proprio nell'inscindibile rapporto
con il suo contesto sta il fondamentale perché della scelta di un sito simbolo
di un'intera rete archeologico-territoriale. Al fine di garantire le condizioni
di integrità necessarie (§87) le Operational
Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention prevedono
diverse soluzioni operative, applicabili in base ai criteri che hanno permesso
l’inserimento del sito nella WHL. Nel caso di Barumini è possibile fare
riferimento al §89 delle linee-guida, che per i siti nominati in base ai
criteri (I) e (IV)[15] prevede che «il tessuto fisico della proprietà o le sue caratteristiche
significative debbano essere in buone condizioni di conservazione»; lo
stesso paragrafo prevede, inoltre, che le relazioni e le funzioni dinamiche che
legano il sito con il contesto territoriale siano mantenute. In maniera del
tutto contraddittoria però, al §100, richiede la definizione di una
delimitazione utile ad includere tutti i caratteri che hanno reso possibile
l’inserimento del sito nella WHL. Delimitazioni tutt'altro che marginali, tanto
che risultano strutturali nella definizione di una protezione effettiva delle
aree tutelate (§99). La loro eventuale assenza, infatti, deve essere
opportunamente giustificata (§106).
È certamente plausibile che il sito di
Barumini rappresenti l’espressione maggiore della cultura nuragica della
Sardegna, sicuramente quella meglio esportabile. Simbolica, si diceva. Ma è
bene evidenziare con forza come l’area di Su
Nuraxi sia solo uno dei numerosi esempi censiti nell’isola, con una
eccezionale densità che va da 3 ad 1 per kmq, a formare un fitto reticolo nel
territorio, testimonianza dell’organizzazione dell’insediamento umano in cui i
diversi elementi (o siti) appaiono interdipendenti l’uno dall’altro[16]. L’individuazione di singoli poli attrattivi,
di fatto, distoglie l’attenzione dalla complessità del fenomeno. Ed è in questa
complessità la reale eccezionalità del patrimonio, intessuto profondamente nel
territorio. Diventa allora importante anche per capire l'evolversi passato e
futuro della tutela archeologica analizzare, tra le numerose – e gravi –
conseguenze del processo di urbanizzazione costiera, il fenomeno di ghettizzazione
delle aree interne dell’isola, sapientemente rappresentato nel 1968 da un
manifesto di Costantino Nivola[17]. A partire dal 1962, sulla scia dei primi
massicci interventi in Gallura e con i successivi fenomeni edilizi nelle
restanti aree costiere, le zone interne si sono progressivamente isolate,
dimenticate dal boom economico che investiva l’isola e lasciate in una
condizione di arretratezza percepibile ancora oggi nella quasi totale assenza
di infrastrutture e nella grave carenza di servizi.
Quei territori, inizialmente abbandonati al
loro destino, proprio grazie al loro aspetto ancora così apparentemente
tradizionale, sono poi diventati meta di un nuovo turismo, votato alla
riscoperta dell’archeologia della Sardegna. Ancora Antonio Cederna spiega:
«[...] c’è una parola che
usiamo molto spesso quando andiamo in vacanza o percorriamo l’Italia, ed è
l’avverbio ancora. Diciamo ad esempio: questo litorale è ancora intatto, qui il
cemento non è ancora arrivato, come è ancora bello questo promontorio, quelle
colline si salvano ancora, questo bosco non è ancora stato bruciato, ecc. E ci
rallegriamo: ma così dicendo riconosciamo implicitamente che la buona salute di
quelle parti del nostro territorio è precaria e a termine, e che quindi ci
muoviamo in una topografia temporanea e provvisoria»[18].
In una così articolata storia di
valorizzazioni turistiche che investono a ondate diverse parti del territorio,
con le più varie (e temporanee) motivazioni, il sito nuragico di Barumini si
pone, proprio per il suo riconoscimento ufficiale, quale simbolica chiave di
volta di tutto il sistema; ma i dati sugli afflussi turistici, registrati a
cavallo dell’inserimento nella WHL, testimoniano con chiarezza come la nomina
UNESCO non abbia nei fatti giovato. A fronte di un aumento rilevante del numero
dei visitatori, registrato nell’anno di inserimento nella lista, gli accessi
all’area sono diminuiti in maniera importante negli anni successivi,
stabilizzandosi su una media di 71.197 visitatori tra il 1997 ed il 2006,
comunque inferiore ai numeri registrati prima della nomina UNESCO (75.783
visitatori per l’anno 1996)[19].
Sicuramente si tratta di numeri alti, se
confrontati a quelli dei principali poli culturali statali dell’isola.
L’andamento altalenante riscontrabile per l’area di Su Nuraxi però si riflette in maniera simile in tutta la Sardegna,
manifestando una tendenza diffusa su tutto il territorio regionale,
indipendente da qualsiasi tipo di riconoscimento. Mentre calano gli accessi
all’area di Barumini sembra però esplodere l’interesse verso la produzione
statuaria della necropoli di Mont’e Prama
(Cabras, Oristano), recentemente restaurata e già proiettata verso un “grande
successo mondiale”. Il recente accordo tra la Regione ed il Comune di Cabras
per la valorizzazione a fini culturali e turistici sembra non lasciare scampo
alle statue: per farle conoscere in tutto il mondo verranno promosse una lunga
serie di iniziative ed una grande campagna di marketing. D’altra parte «i
turisti vengono se hanno una motivazione ed i Giganti di Mont’e Prama sono una
motivazione molto molto forte»[20].
In conclusione, sembra che per certi aspetti
lo stesso fenomeno turistico possa mettere in crisi alcuni principi nella
gestione di territori più o meno estesi e di aree particolarmente fragili come
quelle archeologiche. In virtù da una parte dell’idea consolidata che
l’economia della Sardegna possa sopravvivere solo grazie a consistenti flussi
turistici, e dall'altra dei flussi di altra natura che la investono e
attraversano, così come investono e attraversano in generale l'Italia, sono
sempre più necessarie politiche territoriali con una visione globale e una
gestione di lungo periodo, adatte - o adattabili - a differenti contesti.
Soprattutto capaci di rinunciare all’idea di portare turisti ovunque e per
tutto l’anno[21].
Recentemente è stato rilevato che, su oltre
duecento siti riconosciuti come eredità naturale dell’umanità, circa il 60%
risulta danneggiato a causa dell’intervento umano negli ultimi anni[22]. Più della metà sembra aver perso mediamente
tra il 10% ed il 20% di superficie protetta, e le cause principali sarebbero
riconducibili ad una pressione antropica eccessiva, individuata anche
nell’aumento della popolazione e delle infrastrutture.
E mentre il Ministero insegue isolati
patrimoni su cui monetizzare, a distanza di diversi anni sui tetti abruzzesi
svettano ancora le gru della ricostruzione. Il caso de L’Aquila e, più in
generale, del terremoto del 2009 non è solo una metafora dell’Italia; rischia
di rappresentarne anche il futuro. Quello di un Paese che affianca
all’inarrestabile occupazione e sfruttamento del territorio la distruzione,
l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale[23].
Un chiaro segnale di allarme sembra arrivare
proprio dall’UNESCO che recentemente, pur apprezzando i progressi e le azioni
messe in campo nella protezione della città di Venezia, ha chiesto ulteriori
interventi da rendere effettivi entro la fine del 2018[24]. La crisi
veneziana non è recente e ha trovato un chiaro avvertimento già in un rapporto
del 2016, redatto dall’organismo delle Nazioni Unite, che chiedendo un freno al
passaggio delle grandi navi da crociera ha minacciato l’esclusione della città
dalla WHL[25]. In quell’occasione si è registrata una
grande reattività, ma preme sottolineare come molte proposte non abbiano
contemplato una sostanziale riduzione del passaggio delle navi all’interno
della laguna, quanto invece la pianificazione e lo scavo di nuovi canali.
Progetti che destano grande preoccupazione e che, se realizzati, potrebbero
stravolgere ulteriormente la natura stessa della laguna, con gravi conseguenze
per la città.
Ma Venezia è solo uno dei casi critici
riconoscibili sul territorio italiano. Mentre si celebra con orgoglio l’aumento
del numero di visitatori nei musei e negli istituti di cultura[26], negli ultimi anni hanno rischiato di essere
esclusi dalla WHL anche Villa Adriana a Tivoli, minacciata prima da una
discarica, poi da un insediamento residenziale, e l’area archeologica di
Pompei. L’UNESCO ha avviato una procedura di verifica anche per Vicenza e per
il paesaggio palladiano: qui un gigantesco complesso edilizio è sorto a qualche
centinaio di metri dalla Villa La Rotonda.
Per tutte queste ragioni, in Sardegna può
perfino spaventare il recente inserimento nella rete Geoparks UNESCO dell’area del Parco Geominerario Storico e
Ambientale di Iglesias. La rete include territori in cui è riconoscibile un
notevole patrimonio geominerario e in cui possono trovare fertile applicazione
politiche e strategie di sviluppo territoriale sostenibile. Anche in questo
caso, come per quanto discusso in relazione alla WHL, si prevede che le aree
iscritte siano gestite da enti o strutture capaci di applicare politiche di
rafforzamento della protezione, della valorizzazione e della sostenibilità dei
territori iscritti e viene richiesto che ciascuna area abbia un ruolo attivo
nello sviluppo economico del territorio, tale da favorire il cosiddetto Geoturismo[27].
Chiaramente si tratta di una nomina molto
recente, ed è difficile, al momento, riuscire a prevederne gli effetti. Ma al
di là della possibilità di valutare l’attività turistica in senso positivo o
negativo è opportuno sottolineare che il parco minerario di Iglesias è al
centro di uno dei territori maggiormente isolati della Sardegna ed è plausibile
che proprio tale isolamento abbia contribuito a conservarne intatti alcuni
aspetti di naturalità, di percezione paesaggistica e di bellezza indiscutibile.
Se da un lato la possibilità di attirare su questi territori una grande
attenzione mediatica e turistica potrebbe avere risvolti positivi, è comunque
opportuno domandarsi entro quali limiti si debba permettere che gli equilibri
del complesso territoriale siano alterati.
Le soluzioni adottate dalle Operational Guidelines for the
Implementation of the World Heritage Convention non sembrano essere adatte
per affrontare in un'unica soluzione problematiche che riguardano siti
sostanzialmente differenti tra loro, ma la cui protezione deve rispondere ad
indicazioni standardizzate. All’interno del documento, a fronte di otto
articoli che definiscono le differenti forme in cui il patrimonio mondiale può
presentarsi[28], ne corrispondono circa venti che indicano
strategie e soluzioni operative per la protezione dei beni[29]. In nessun caso però, vengono raccomandate
soluzioni o azioni da applicare in maniera diversificata per beni parte del
patrimonio culturale, naturale, misto, ecc.
Se la definizione di un perimetro di
protezione può apparire giustificata dalla presenza delle strutture, è più
complicato comprendere i criteri riconducibili alla definizione della buffer zone indicata nel §§ 103-107, i
cui limiti dovrebbero preservare i caratteri territoriali e naturali del
contesto.
Chi decide dove finisce l’eccezionale naturalità di un
territorio? E soprattutto, attraverso quali criteri?
I limiti prescritti dall’UNESCO sono
ovviamente intangibili, invisibili e assolutamente valicabili, ma trasmettono
un messaggio in qualche senso opposto rispetto agli obiettivi che le soluzioni
adottate dovrebbero perseguire: separazione invece di continuità, privazione
invece di coinvolgimento. Vengono a crearsi nuovi isolamenti in cui agli spazi
sottratti alla comunità viene riconosciuta una nuova dimensione, di grande
valore certamente, ma comunque immobile, seppure costretta ad un continuo
confronto con un territorio che invece è in costante movimento[30]. Vero è, naturalmente, che il concetto stesso
di confine, e di vincolo, prevede una delicatissima questione di inclusione ed
esclusione. C'è poi un ulteriore aspetto che può essere considerato
discutibile, pur insito nei principi cardine dell’azione UNESCO. Gli artt. 1 e
2 della WHC prevedono l’inserimento nella WHL esclusivamente per beni culturali
e beni naturali che esprimano un valore eccezionale universale. Nell’ottica di
un’azione di tutela diffusa il più possibile sul territorio, tale carattere
sembra ridurre notevolmente le possibilità di intervento, rendendo la
salvaguardia inadeguata per la sopravvivenza del “patrimonio minore”[31]. Inoltre, le Operational Guidelines UNESCO non pongono limiti formali al numero
di siti che possono far parte della WHL, che hanno superato quota mille e che
appaiono in continuo aumento[32]. Chiaramente, più siti sono inseriti nella
lista più aumenta il rischio che il valore eccezionale e universale dei nuovi
sia minore rispetto ai precedenti, fino a diventare di fatto nullo e a rendere
sempre più necessaria una diversa e aggiuntiva tutela delle singole realtà, più
aperta e legata al territorio.
È impossibile contestare l’idea che luoghi o
territori eccezionali esistano “davvero”. L’incomprensione più diffusa,
tuttavia, sembra discendere dalle continue richieste di attenzione verso un
patrimonio sempre più sopraffatto da interessi terzi. In Sardegna, al di là di
ciò che potrebbe essere considerato universalmente eccezionale, risulterebbe
forse più stimolante provare a ricalibrare l’attenzione comune verso quei
luoghi e quei territori apparentemente perduti.
Il rapido quanto tumultuoso processo di industrializzazione
che ha investito l’isola a partire dall’inizio degli anni ’60 rappresenta
perfettamente questa esigenza. Con la convinzione che si trattasse di un
passaggio necessario e fondamentale per lo sviluppo, numerosi settori
dell'isola vennero selezionati per diventare nuclei produttivi e poli
industriali di grandi dimensioni[33], ma gli effetti contraddittori della grande
industria appaiono oggi assolutamente evidenti. Se da un lato ha favorito un
(momentaneo) incremento regionale di occupazione, dall’altra ha causato una
distorsione dello sviluppo produttivo dell’isola inducendo, anche per la totale
assenza di una programmazione complessiva degli interventi, enormi problemi
relativi agli assetti del territorio e accelerando, ciò che è più grave, la
sconnessione del tessuto sociale[34].
A titolo di esempio, il territorio del Sulcis,
con il suo complesso minerario e la sua rilevanza geologica, è oggi uno dei
settori più poveri di un’isola tra le più economicamente arretrate della
nazione. Immaginare di poterne risolvere i problemi solo attraverso il
riconoscimento di valore di una porzione di territorio può essere un’operazione
tanto utile ad attirare l’attenzione globale, quanto miope, se limitata alla
realizzazione di eventi, feste e manifestazioni di durata eccezionalmente breve
e se non accompagnata da efficienti politiche territoriali e sociali. Come è
difficile pensare ad un effettivo sviluppo integrato della zona sulla sola
spinta di progetti scientifici senza dubbio ambiziosi e importanti, come tra
gli altri la recentissima ricerca legata
alle onde gravitazionali nel sito di Lula, le cui gallerie «sono state considerate il luogo ideale per
portare avanti questo tipo di ricerca»[35]. Soprattutto perché, mentre un nuovo paesaggio
si compone di singoli luoghi meritevoli, lo spazio restante sembra perdere il
carattere di filtro, diventando terra di nessuno[36], e il rischio, già sperimentato, che si
accompagna a un momentaneo incentivo esogeno è appunto quello di una
sconnessione dal complesso territoriale, a tutti i livelli inteso, che
inevitabilmente tende a portare ad un (ennesimo) drammatico abbandono.
Compito fondamentale dell’UNESCO, come si
diceva, non è tanto la tutela dei beni, quanto il riconoscimento di un valore. Come tutte le agenzie
dell'ONU si tratta di un ente i cui organi decisionali sono costituiti dai
rappresentanti dei governi nazionali, ed è dunque molto difficile che possa
esprimersi contro la volontà dei governi.
A ciascuno Stato spetta dunque provvedere ad
identificare, segnalare e delimitare i differenti beni sul proprio territorio,
garantendo la protezione, conservazione e valorizzazione del patrimonio
culturale e naturale[37]. Secondo le stime dell’UNESCO, l’Italia
possiede più della metà del patrimonio mondiale dei beni culturali. Ma pensare
di poter inseguire la chimera di una tutela dell’eccezionale appare una sfida
rischiosa, non solo a livello internazionale ed in relazione al futuro della
Convenzione UNESCO, ma anche, forse soprattutto, per la sopravvivenza delle
realtà locali, così caratterizzanti il Paese, così caratterizzanti e proprie
della Sardegna. Si tratta dunque di interpretare la normativa UNESCO e provare
ad integrarla, in sede di applicazione, con una tutela che vorremmo definire
“di contesto”. Che non escluda, che non isoli, che riconosca l'eccezionalità di
un complesso.
La Convenzione UNESCO sulla protezione del
patrimonio culturale e naturale mondiale del 1972 ingenera forti
aspettative circa la tutela dei beni, che siano stati selezionati per entrare a
far parte della WHL ai sensi dell’art. 11 della Convenzione stessa. Ciò in
quanto l’inclusione nella lista consegue, come noto, al riconoscimento del valore
eccezionale del bene in questione
«dal punto di vista storico, estetico, etnologico o antropologico», tanto per
focalizzare subito l’attenzione sui «siti» di interesse archeologico[38]. In altre parole, la
presenza di un insediamento nella WHL è di per sé indice di una particolare meritevolezza di tutela della stesso.
Simile
conclusione è confortata dalla circostanza che è proprio il criterio della
meritevolezza di tutela a definire l’ambito di applicazione della Convenzione
UNESCO, dato che il «patrimonio culturale e naturale mondiale» oggetto di
attenzione è soltanto quello dotato di «valore universale eccezionale» in base
ai diversi «punt[i] di vista» considerati agli artt. 1 e 2 della Convenzione.
Una speciale meritevolezza di tutela
emerge anche dalla corrispondente legislazione italiana, che attribuisce
espressamente un «valore simbolico» ai «siti italiani UNESCO», da valutare «per
la loro unicità, [come] punte di eccellenza del patrimonio culturale,
paesaggistico e naturale italiano e della sua rappresentazione a livello
internazionale»[39].
Se ci
si sposta tuttavia sul piano – teoricamente consequenziale – della tutela
effettivamente prestata, le aspettative sfioriscono al cospetto non solo della
legislazione nazionale, ma ancor prima dell’impianto della stessa Convenzione
UNESCO. La strategia delineata in tale sede presenta cioè alcune
caratteristiche, che non sembrano pienamente funzionali alla tutela rinforzata
di cespiti del patrimonio culturale e naturale dotati di eccezionale valore.
In primo luogo, il meccanismo
delineato dalla Convenzione ai fini della compilazione della WHL, basato com’è
sulla candidatura dei siti per iniziativa dello Stato di appartenenza e
sull’imprescindibilità del consenso di questo all’inserimento di un bene
nell’elenco (art. 11 Conv. UNESCO 1972), sconta evidentemente la particolare visione delle istituzioni nazionali in
merito al riconoscimento – in via provvisoria, ma propedeutica – della
particolare meritevolezza di tutela dei beni in questione[40].
In
secondo luogo, come lo strumento in sé della “lista” (rectius delle “liste”: WHL e WH Danger
List)[41] chiaramente evidenzia,
l’approccio della Convenzione UNESCO è fortemente selettivo rispetto all’oggetto che mira a presidiare. Come è stato
ricordato[42], la Convenzione opera, in
sostanza, nel senso di enucleare il
bene selezionato dal contesto di riferimento, interpretando la cesura come
misura di protezione. Gli Stati hanno infatti l’onere (più che l’obbligo) di
«definire e delimitare i diversi beni, situati sul [proprio] territorio» (art.
3 Conv. UNESCO 1972) riconducibili alle tipologie enucleate dalla Convenzione
medesima (artt. 1 e 2) e, in base alle Operational
Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention (2016),
è richiesto che il sito UNESCO sia caratterizzato da «confini adeguatamente
delineati» (§. 97) e protetto da un “cordone di territorio” contro eventuali
sconfinamenti di persone o dagli effetti dell’antropizzazione o dello
sfruttamento delle risorse (§. 98 e §. 101). La previsione di “zone-cuscinetto”
(buffer zone) attorno al sito
protetto è considerata normale, al
punto che la mancanza di tale accorgimento necessita di puntuale motivazione in
sede di candidatura (§. 106).
In terzo luogo, la
Convenzione UNESCO configura in capo allo Stato territorialmente competente
obblighi di salvaguardia del bene, che – anche grazie alla scelta dei termini –
risultano generici e blandi, evidentemente tesi a preservare la discrezionalità
del legislatore nazionale circa gli esatti contorni della disciplina di tutela
da approntare, più che ad affermare la necessità di misure di protezione
consone al «valore universale eccezionale» espressamente attribuito al bene[43]. Né
pare svolgere un ruolo supplente la facoltà – riconosciuta allo Stato – di
ricorrere alla cooperazione internazionale per fronteggiare gli obblighi di
protezione di un bene incluso nella WHL: da un alto, tale supporto è
subordinato appunto ad una specifica «domanda di assistenza internazionale»
formulata dallo Stato stesso ai sensi dell’art. 13 Conv. e sconta dunque
eventuali contingenze della politica nazionale e internazionale; dall’altro
lato, la Convenzione richiama espressamente il dovere dello Stato di
«utilizzar[e] al massimo le proprie risorse» a scopo di tutela, limitando le
richieste di aiuto al verificarsi di un «caso di necessità» (art. 4 Conv.);
dall’altro lato ancora, l’attivazione autonoma del canale internazionale di
protezione risulta del tutto eccezionale, essendo limitata al verificarsi di
«circostanze straordinarie» tali da indurre il Comitato del patrimonio mondiale ad inserire autonomamente un bene
nella WH Danger List (art. 11 Conv.).
La normativa italiana
rispecchia l’impostazione della Convenzione, posto che al formale riconoscimento del «valore simbolico dei siti italiani
UNESCO» (art. 1 l. 77/2006) corrisponde soltanto la previsione di un canale di
finanziamento ad hoc per gli
interventi in tali aree e l’introduzione di uno strumento di governo del bene
(il c.d. «piano di gestione»)[44] che,
al di là della denominazione, non appare innovativo rispetto ad analoghi
istituti già contemplati dal Codice dei
beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42), ai quali la
l. 77/2006 espressamente rinvia, pur potendo rappresentare un elemento per
valutare il corretto adempimento da parte dello Stato degli obblighi di tutela
scaturenti dalla Convenzione stessa[45].
Come è stato recentemente affermato dalla Corte costituzionale, «nel nostro
ordinamento i siti UNESCO non godono di una tutela a sé stante, ma, anche a
causa della loro notevole diversità tipologica, beneficiano delle forme di
protezione differenziate apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo
le loro specifiche caratteristiche»[46].
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, dunque, non contempla
alcuna particolare misura di
salvaguardia in ragione della qualificazione di un bene come “sito UNESCO”. E
tale aspetto non ha mancato di ingenerare perplessità nella giurisprudenza
amministrativa, che in più occasioni ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale delle norme poste dal d.lgs. 42/2004 a presidio dei c.d. «beni
paesaggistici» nella parte in cui non contengono una disciplina di tutela
rafforzata e specifica per le realtà in questione[47].
Infatti, anche se formalmente
l’art. 132 c. 1 d.lgs. 42/2004 richiama il dovere della Repubblica italiana di
conformarsi «agli obblighi ed ai principi di cooperazione tra gli Stati fissati
dalle convenzioni internazionali in materia di conservazione e valorizzazione
del paesaggio» – richiamo simbolico,
tenuto conto del vincolo per il legislatore sancito in tal senso a fortiori dall’art. 117 c. 1 Cost. –, i
siti UNESCO risultano assimilati ad un qualsiasi
altro bene ai fini della normativa paesaggistica.
Anzitutto, essi non rientrano
in quanto tali – ossia in quanto
inclusi nella WHL – nel novero delle «Aree
tutelate per legge» elencate all’art. 142 d.lgs. 42/2004, fermo restando
che a simile protezione potranno aspirare qualora siano riconducibili ad una
delle categorie considerate dalla norma[48]. In
secondo luogo, i siti UNESCO non costituiscono di per sé beni di «notevole interesse pubblico» ai sensi dell’art.
136 d.lgs. 42/2004, potendo essere ricondotti a tale alveo solo a fronte di uno
specifico provvedimento amministrativo, la cui adozione sarà quindi influenzata
dai fattori eventualmente incidenti sull’azione della Pubblica Amministrazione
(ad es. con riferimento alla speditezza dell’intervento e alla discrezionalità
delle valutazioni rimesse all’organo amministrativo)[49].
Vi è infine un terzo gruppo
di beni, destinatari di tutela in quanto (semplicemente) ricompresi
nell’attività di «pianificazione paesaggistica», che può attagliarsi alla
multiforme fisionomia dei siti UNESCO: «gli ulteriori immobili ed aree
specificamente individuati a termini dell’art. 136»[50],
ossia rientranti nelle tipologie elencate in tale ultima disposizione. Il
possibile legame con i beni inclusi nella WHL discende dalle lettere c) e d)
della norma citata, che menzionano: «c)
i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore
estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici; [e] d) le bellezze panoramiche e così pure
quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda
lo spettacolo di quelle bellezze». Ed è proprio con riferimento alle finalità
dei c.d. «piani paesaggistici» l’unico richiamo esplicito operato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio ai
«siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO»: i predetti
piani dovranno infatti prestare particolare attenzione alla salvaguardia di
tali realtà nell’individuazione delle «linee di sviluppo urbanistico ed
edilizio»[51].
Le censure di
incostituzionalità mosse dalla giurisprudenza rispetto alla disciplina di
tutela delineata dal d.lgs. 42/2004 poggiavano sul rilievo che la mancata
inclusione dei siti UNESCO tra i beni soggetti a vincolo paesaggistico ex lege o per effetto di un
provvedimento sottratto all’apprezzamento discrezionale della pubblica
amministrazione finiva per frustrare i principi affermati all’art. 9 Cost. e
all’art. 117 c. 1 Cost. (quest’ultimo in ragione dell’ipotizzata violazione
degli artt. 4 e 5 Conv. UNESCO quali “obblighi internazionali – norme
interposte” nel giudizio di legittimità costituzionale). La normativa in
questione è stata viceversa salvata dalla Corte costituzionale, che ha ritenuto
inammissibili le questioni sollevate dai giudici a quibus «in quanto rivolt[e] ad ottenere una pronuncia additiva e
manipolativa non costituzionalmente obbligata in una materia rimessa alla
discrezionalità del legislatore»[52].
Il riconoscimento della
discrezionalità esistente in capo al legislatore nazionale nella definizione
della disciplina di tutela dei siti UNESCO appare in linea, come s’è detto, con
l’approccio della Convenzione. Nondimeno, il carattere frammentario e, in
ultima analisi, spesso eventuale del regime di salvaguardia appena descritto
risulta disarmonico rispetto al giudizio di meritevolezza di tutela formulato,
per tali beni, a livello di fonti sia internazionali, sia nazionali[53].
Non sfugge peraltro che la
mancata inclusione dei siti UNESCO in
quanto tali tra gli oggetti presidiati dal d.lgs. 42/2004 si riflette
sull’effettività della tutela. Per un verso, essa impatta sugli obblighi di
condotta gravanti sui privati, i cui interventi sono assoggettati al previo
provvedimento di autorizzazione solo rispetto alle realtà selezionate dall’art.
146 c. 1 del Codice dei beni culturali e
del paesaggio; ma tra queste i siti UNESCO rientreranno solo eventualmente,
come s’è visto[54]. Per
altro verso, simile impostazione può rendere precario il supporto sanzionatorio
garantito dalle disposizioni che prevedono illeciti amministrativi e
fattispecie di reato a presidio dei beni paesaggistici e che opereranno anche
rispetto ai siti UNESCO solo nei limiti in cui questi ultimi siano
riconducibili ai primi[55].
La particolare meritevolezza
di tutela enunciata con riferimento ai beni inclusi nella WHL non traspare
neppure dalle norme del Codice penale poste a tutela dei beni culturali. I siti
UNESCO non risultano d’emblée
presidiati da tale comparto di legislazione penale, peraltro disorganico,
maldestramente mite e affetto da alcune incoerenze[56]:
dovrà invece di volta in volta essere verificata la possibilità di sussumere
un’offesa ad essi portata al dettato delle singole fattispecie incriminatrici.
Così, per le ipotesi di danneggiamento aggravato, il presidio penale opererà
solo rispetto a «cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o
immobili ricompresi nel perimetro dei centri storici» (art. 635 c. 2 n. 1 c.p.)[57],
mentre il blando reato di danneggiamento di bene culturale proprio troverà applicazione rispetto a «un monumento o un’altra
cosa propria di (…) rilevante pregio» (art. 733 c.p.).
Curiosamente, proprio
nell’eventualità che il bene offeso in concreto sia un sito UNESCO potrebbe
riacquisire insperata vitalità la condizione oggettiva di punibilità, che
nell’art. 733 c.p. richiede che «dal fatto deriv[i] un nocumento al patrimonio
archeologico, storico o artistico nazionale». Come noto, la presenza di simile
condizione è stata aspramente criticata in dottrina in quanto affetta da
“gigantismo” e tale da bloccare l’operatività della fattispecie, dato che solo
in casi eccezionali una singola condotta di danneggiamento è in grado di
causare il macroscopico nocumento richiesto[58].
Invece, se la condotta interessasse un bene incluso nella WHL, la condizione in
questione potrebbe risultare integrata, tenuto conto del valore esplicitamente
riconosciuto a siffatte realtà dal legislatore nazionale, permettendo così di
applicare la sanzione penale prevista.
Sembrerebbe a prima vista
candidato a tutelare anche i siti
UNESCO il reato di Distruzione o
deturpamento di bellezze naturali (art. 734 c.p.). Tuttavia, il presidio
penale è qui espressamente limitato alle «bellezze naturali dei luoghi soggetti
alla speciale protezione dell’Autorità», ossia alle «bellezze naturali che
possono dirsi tali soltanto perché sottoposte al vincolo previsto dalle norme
amministrative»[59].
Sicché la fattispecie finisce per incunearsi nella medesima direzione del
d.lgs. 42/2004, già esaminato.
Si può infine notare che la
particolare meritevolezza di tutela dei beni ricompresi nella WHL non emerge
neppure dalla riforma c.d. “Franceschini-Orlando”, attualmente al vaglio del
Parlamento. Il disegno di legge intitolato Disposizioni
in materia di reati contro il patrimonio culturale, già approvato dalla
Camera dei Deputati il 22 giugno 2017 e ora all’esame del Senato, prevede
l’introduzione di un nuovo titolo nel Libro II del Codice penale,
specificamente dedicato ai «delitti contro il patrimonio culturale»[60].
Nondimeno il catalogo delle fattispecie potenzialmente di nuovo conio assume
come oggetto di tutela «i beni culturali o paesaggistici» tout court, senza
ricollegare un particolare disvalore alla condotta che risulti offensiva di un
sito UNESCO[61]. Nel
nuovo scenario normativo che prenderebbe forma a partire dalla novella (con
l’abrogazione, tra l’altro, delle fattispecie codicistiche di reato attualmente
vigenti e testé esaminate), la sola disposizione che potrebbe farsi carico di
una risposta in tal senso pare – con i relativi limiti – la circostanza
aggravante prevista dal prospettato art. 518-quinquiesdecies c.p., che disporrebbe un aumento di pena «da un
terzo alla metà», «quando un reato avente ad oggetto beni culturali o
paesaggistici cagiona un danno di rilevante gravità».
Peraltro, la Convenzione del
Consiglio d’Europa sui reati relativi ai beni culturali, adottata a Nicosia il
19 maggio 2017, pur richiamandosi espressamente nel preambolo alla Convenzione
UNESCO 1972, riferisce la propria strategia di tutela penale al “patrimonio
culturale mobile o immobile”[62] in
quanto tale, tralasciando eventuali misure di salvaguardia rafforzata per siti
inclusi nella WHL.
Nonostante
i limiti segnalati in termini di tutela, la Convenzione UNESCO rappresenta un
punto di riferimento essenziale per la focalizzazione del bene da presidiare
nell’ambito considerato.
Se si prende nuovamente in
considerazione il meccanismo della “lista”, dalla circostanza che tale elenco
sia soggetto ad aggiornamento periodico e che gli Stati possano ricevere
assistenza internazionale anche per avviare le ricerche preliminari per
l’identificazione di un bene potenzialmente dotato di «valore universale
eccezionale» (art. 13 c. 2 Conv.), si può desumere la non esaustività e la provvisorietà
del censimento di particolare meritevolezza di tutela, di volta in volta
condotto dal “Comitato del patrimonio universale” ai sensi dell’art. 11 Conv.
Sottotraccia
è dunque possibile cogliere l’assunto che la particolare meritevolezza di
tutela di un bene culturale discende dal «valore universale eccezionale» ad
esso attribuibile, inteso come qualità
intrinseca, a prescindere cioè dall’attuale inclusione o meno del bene
nella WHL stessa[63].
Tale elemento pare confermato
dal tenore della Dichiarazione UNESCO
riguardante la distruzione intenzionale del patrimonio culturale (2003)
che, analogamente all’art. 6 c. 3 Conv. UNESCO 1972, riconosce la
responsabilità internazionale dello «Stato che distrugge intenzionalmente il
patrimonio culturale che riveste una grande importanza per l’umanità, o che si
astiene intenzionalmente dal prendere misure appropriate per interdire, far
cessare e sanzionare ogni distruzione intenzionale di tale patrimonio, che sia o meno iscritto nella lista gestita
dall’UNESCO o da un’altra organizzazione internazionale» (§. VI Dich.). In
coerenza con il descritto profilo di responsabilità in capo allo Stato, la
Dichiarazione impegna le Parti sovrane ad accertare la responsabilità e a
«fissare le sanzioni penali adeguate da applicare» alle persone fisiche «che
commettono od ordinano di commettere atti di distruzione intenzionale del patrimonio culturale che riveste una grande
importanza per l’umanità, che sia o no iscritto sulla lista gestita dall’UNESCO
o da un’altra organizzazione internazionale» (§. VII Dich.).
Il particolare valore
riconosciuto al patrimonio culturale in
sé nel sistema UNESCO si comprende anche grazie al termine Heritage (eredità), che figura nella
versione inglese della Convenzione UNESCO 1972 [64]. Si
tratta di una vera e propria parola-chiave, che illumina il senso della tutela: i beni selezionati
appaiono meritevoli di protezione, conservazione e valorizzazione in vista
dell’avvicendamento tra generazioni,
poiché essi rappresentano realtà in grado di tramandare forme uniche della
cultura dell’uomo e della natura, nelle quali i discendenti potranno
riconoscersi e coltivare il proprio senso di appartenenza al genere umano.
Simile prospettiva è stata
confermata di recente dalla già citata Convenzione del Consiglio d’Europa sui
reati relativi ai beni culturali (2017), che nel preambolo riconosce: «the diverse cultural property belonging to
peoples constitutes a unique and important testimony of the culture and
identity of such peoples, and forms their cultural heritage». Un approccio
in linea con la tradizione culturale e giuridica italiana, così come filtrata
nell’art. 9 Cost.: nel raccordo con gli altri principi costituzionali, la
disposizione valorizza la funzione
sociale del patrimonio culturale, nel quale ravvisa uno strumento
fondamentale per lo sviluppo della persona, singolarmente e quale componente di
una collettività[65].
Ed evidentemente l’accento
sulla responsabilità intergenerazionale
riecheggia la “grammatica” dei c.d. “beni comuni” (commons)[66],
definiti in chiave giuridica come «cose che esprimono utilità funzionali
all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona»
e «devono essere tutelat[e] e salvaguardat[e] dall’ordinamento giuridico, anche
a beneficio delle generazioni future»[67].
Per un verso, l’accostamento
ai commons conferma la correttezza
della declinazione del patrimonio culturale in termini penalistici come bene
giuridico essenzialmente pubblicistico,
a prescindere dal rapporto dominicale di volta in volta insistente sulla res che ne rappresenta un cespite[68]. Per
altro verso, dalla teoria dei beni comuni si può trarre un argomento a favore
di una concezione, appunto, unitaria di
realtà assai diversificate (beni culturali mobili e immobili, beni
paesaggistici, ecc.) e di una risposta conseguentemente organica alle corrispondenti istanze di tutela. A parte l’analisi
di dettaglio ed ogni valutazione di efficacia, il già citato disegno di legge
A.S. n. 2864 del 2017, che introduce nel Codice penale un titolo dedicato ai «delitti
contro il patrimonio culturale», pare muoversi in questa direzione
sistematizzando l’intervento penale rispetto alla tradizionale frammentazione
dei beni protetti (dal patrimonio individuale nelle ipotesi di danneggiamento
aggravato ex artt. 635 e 639 c.p.
agli interessi pubblicistici considerati dalle contravvenzioni di cui agli
artt. 733 e 734 c.p.) e coagulando la strategia di difesa attorno, appunto, al
«patrimonio culturale» in quanto tale.
PROTECTING SARDINIA.
LIMITS AND PERSPECTIVES ON THE
APPLICATION OF THE UNESCO DISCIPLINE IN ARCHAEOLOGICAL FIELD
G.
Azzena – R. Busonera – C. Perini
This paper aims to re-read some archaeological reality in Sardinia. It
tries to develop a critical discussion on the local solutions adopted for the
protection, enhancement, use of sites and the UNESCO discipline, which states a
hierarchy about cultural assets - based on the worth - and provides a stronger
protection for those included in the World Heritage List. For this reason, it
is proposed to investigate if the inclusion in the UNESCO List is really
reflected in the Italian protection system. Significant overlaps appear in
relation to the skills and strategies to be adopted for the valorization of
archaeological heritage. This work arises from a legal analysis, from a
correlation between some archaeological sites and from the analogy between
“material” cultural heritage and “identifying" cultural heritage. The
results are useful to recognize possible corrections of the protection system
and, moreover, towards an updated definition of the object that needs to be
protected
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dell’uomo che minaccia i siti tutelati dall’UNESCO, in Altreconomia, 07.02.2017, (https://altreconomia.it/impronta-umana-unesco/).
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-
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(2017).
(b) Normative nazionali
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D.lgs. 22 gennaio 2004 n.
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paesaggio).
-
L. 20 febbraio 2006 n. 77
(Misure speciali di tutela e fruizione
dei siti italiani di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti
nella «lista del patrimonio mondiale», posti sotto la tutela dell’UNESCO).
-
D.d.l. A.S. n. 2864 del
2017, Disposizioni in materia di reati
contro il patrimonio culturale.
(c) Giurisprudenza
-
Corte cost. sent. 11 febbraio 2016 n.
22, in www.cortecostituzionale.it
.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Nel
presente contributo il paragrafo 1. si deve a G. Azzena e R. Busonera; i
paragrafi 2., 3., 4. si devono a C. Perini.
[2] « […] making an imaginative and
innovative use of the materials and techniques available to a prehistoric
island community», World Heritage Committee, CR n. 833, Napoli 1997.
[3] Cfr.
C. COSSU, Mibact, se la riforma affonda
nel caos “sardo”, in Il manifesto,
5 febbraio 2017, 5.
[4]
Riscatto dei feudi (1830-39); editto delle “chiudende” (1820-39); abolizione
degli ademprivi (1859-65). Cfr. G. LILLIU, Uomo
e ambiente in Sardegna nel suo percorso storico, in G. LILLIU, La costante resistenziale sarda, a cura di A. Mattone, Nuoro 2002, 437.
[5] A.
CEDERNA, L’ostilità circonda ancora il
parco del Gran Paradiso, in Corriere
della Sera, lunedì 13 marzo 1967, 3.
[6]
L'episodio, del 19 ottobre 2010, viene riportato in C. TOSCO, I beni culturali. Storia, tutela e
valorizzazione, Bologna 2014, 128.
[7] In
relazione alla liaisons dangereuses
tra economia e beni culturali si veda TOSCO 2014, 128-141. Di liaisons dangereuses discute anche M.P.
GUERMANDI nel 2013, ma in relazione al rapporto tra beni culturali e turismo: http://www.eddyburg.it/2013/04/liaisons-dangereuses-beni-culturali-e.html
consultato il 26/07/2017).
[9] Cfr. artt. 1-2 UNESCO – Convention concerning the protection of the world cultural and
natural heritage (Parigi, 16/11/1972).
[10] Si
veda il DM 44/2016 – Riorganizzazione del
Ministero dei bene e delle attività culturali e del turismo. Per un
accurato commento si v. anche M.P. GUERMANDI, Chi ha paura della tutela? Attualità e necessità di una pratica
“incompresa”, in Rinnovare la tutela.
Modelli matematici e grafici per una ridefinizione delle prospettive, a
cura di E. Cicalò, M. Solci, Roma
2016, 252-255.
[11] Si
vedano i documenti della 41 sessione del Comitato UNESCO svoltasi a Cracovia
dal 2 al 12 luglio 2017: http://whc.unesco.org/en/sessions/41com/documents/
(consultato il 26/07/2017).
[12] Il
crollo dell’intonaco della volta del Duomo di Acireale è avvenuto l’8 luglio
2017. In assoluta contemporaneità, dunque, con la riunione del Comitato per il
patrimonio mondiale.
[13] Cfr.
L. SOLIMA, La valutazione del ruolo del
marchio Unesco nella valorizzazione turistica del territorio attraverso uno
studio su tre siti italiani: aspetti metodologici, evidenze empiriche ed
indicazioni operative, in Atti del
Convegno Aidea, 19-21 settembre 2013.
Le motivazioni e le finalità che possono determinare l’iscrizione di uno o più
siti nella Lista UNESCO possono essere molto diverse: celebrativa, equivalente ad un riconoscimento; “SOS”, finalizzata alla salvaguardia di
patrimoni considerati in pericolo; quella di marketing e qualità,
utilizzata come leva per attirare maggiori flussi turistici; quella identitaria, legata alla volontà di
generare nuove identità legate al territorio, utili alla nascita e sviluppo di
nuove iniziative in grado di generare nuovi e positivi effetti socio-economici.
Un tentativo di categorizzazione, strutturato sulla base di un recente studio,
è in J.M. REBANKS, World Heritage Status:
Is there opportunity for economic gain? Lake District World Heritage Project, 2009.
[14] Cfr. §98 - Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage
Convention (2016).
[15] «The
Committee decided to inscribe this property on a basis of cultural criteria
(i), (iii) e (iv), considering that the nuraghe of Sardinia, of which Su Nuraxi
is the pre-eminent example, represent an exceptional responde to political and
social conditions, making an imaginative and innovative use of the material and
techniques avaible to a prehistoric island community». World Heritage
Committee Twenty – first session, Committee report n. 833, Napoli 16 dicembre
1997.
[18] Si v.
A. CEDERNA, Per
il futuro 497 milioni di metri cubi. La Sardegna affonderà sotto il peso del
cemento, in La Nuova Sardegna, Sassari, 30 dicembre 1982.
[19] I dati
sul numero di visitatori e gli introiti dei musei, dei monumenti e delle aree
archeologiche statali, tra gli anni 1996-2006, sono pubblicamente consultabili
all’indirizzo: http://www.statistica.beniculturali.it/Visitatori_e_introiti_musei_14.htm (consultato il 26/07/2017).
[20] Si v.
l’articolo pubblicato il 19.07.2017 da Ansa
Sardegna:“Franceschini, fondazione su
Mont’e Prama”: http://www.ansa.it/sardegna/notizie/2017/07/19/franceschini-fondazione-su-monte-prama_433ad199-e9b6-478d-95f2-1f59bfa93980.html
(consultato il 27/07/2017).
[21] Cfr. A. CECCHINI, I’m not a tourisi, I live here. Turismo e territorio, Alghero 2016, 10-11. Un
ulteriore riflessione dell’autore sul fenomeno del turismo di massa è contenuta
in Eddyburg: http://archivio.eddyburg.it/article/articleview/7169/1/150 (consultato il 26/07/2017).
[22] Cfr.
C. CAROVANI, L’impronta dell’uomo che
minaccia i siti tutelati dall’UNESCO, in Altreconomia, 07.02.2017, (https://altreconomia.it/impronta-umana-unesco/).
[23] Cfr.
T. MONTANARI, Tre anni dopo. L’Aquila non
c’è più ed è il futuro dell’Italia, in Eddyburg,
16.03.2012 (http://archivio.eddyburg.it/article/articleview/18731/0/359/
). Si veda anche V. EMILIANI, Terremoto.
Dove è finito il Mibact?, in Eddyburg,
31.10.2016 (http://www.eddyburg.it/2016/10/terremoto-dove-finito-il-mibact.html
).
[24] Si
veda V. CHIERCHIA, Ultimatum UNESCO per
Venezia: interventi entro dicembre 2018 o si rischia la lista dei beni in
pericolo, in Eddyburg, 07.07.2017
(http://www.eddyburg.it/2017/07/ultimatum-unesco-per-venezia-interventi.html
). Nello stesso contributo è pubblicato anche quanto l’UNESCO ha pubblicato sul
proprio sito (www.wch.unesco.org ).
[25]
L’unico caso di esclusione dalla WHL è quello di Dresda, il cui centro storico
è stato iscritto alla Lista nel 2004, ma successivamente escluso (2009) a causa
della realizzazione di un ponte voluto dall’amministrazione cittadina per
l’alleggerimento del flusso di traffico nel centro della città.
[26] Di
recente diverse testate giornalistiche hanno gioito per i dati sugli ingressi
nei musei italiani registrati per i primi mesi del 2017. Si v. ad esempio
quanto riferito in: http://www.repubblica.it/cultura/2017/07/16/news/musei_dati_primo_semestre_duemiladiciassette-170910645/
[27] Artt. 1-2-3 - European Geoparks charter (2000). Si v. http://www.europeangeoparks.org/?page_id=357
[28] Artt. 45-53 Definition of World Heritage - Operational Guidelines for the Implementation
of the World Heritage Convention (2016).
[29] Artt. 96-119 Definition of World Heritage - Operational Guidelines for the
Implementation of the World Heritage Convention (2016).
[30] Si v.
a tale proposito A. RICCI, Attorno alla
nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, Roma 2006, 86-94.
[32] Con
la 41 sessione del comitato UNESCO di Cracovia, il numero dei siti iscritti
alla WHL è salito a 1073. Le nuove iscrizioni sono 21: 18 culturali e 3
naturali.
[33] Cfr.
S. RUJU, Società, economia, politica dal
secondo dopoguerra a oggi (1944-1998), in AA.VV., La Sardegna [Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi], Torino
1988, in particolare 847-858.
[35] Si
veda D. MADEDDU, La seconda vita delle
miniere sarde, in Il Sole24Ore,
18 aprile 2017 (http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2017-04-17/la-seconda-vita-miniere-sarde-155045.shtml?uuid=AEpPyc6&refresh_ce=1
).
[36] Cfr.
S. SETTIS, Paesaggio, Costituzione,
cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino 2010,
7.
[39] In
tal senso, rubrica e testo dell’art. 1 l. 20 febbraio 2006 n. 77 (Misure speciali di tutela e fruizione dei siti
italiani di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella
«lista del patrimonio mondiale», posti sotto la tutela dell’UNESCO).
[40] Si
noti infatti che è del tutto marginale l’ipotesi di iscrizione automatica di un
sito negli elenchi previsti dalla Convenzione UNESCO; il che si verifica per
iniziativa del Comitato del patrimonio
mondiale «in circostanze straordinarie» solo rispetto alla c.d. “Danger List”, ossia all’«Elenco del
patrimonio culturale in pericolo» (art.
11 c. 4 ultimo periodo Conv.).
[43] Cfr.
artt. 4 e 5 Conv. UNESCO 1972 ed espressioni come: lo Stato «si sforza di agire
a tale scopo [di protezione del bene]» (art. 4); «gli Stati parti della
presente Convenzione si adopereranno nella misura del possibile» per adottare
le misure di tutela elencate all’art. 5.
[44] Ex art. 3 l. 77/2006. Per le Dichiarazioni UNESCO che nel 2002 e nel
2004 hanno individuato nel piano di gestione un requisito per la presentazione
della candidatura e per la stessa permanenza di un sito nella WHL, cfr. S. MARCHETTI – M. ORREI, La gestione dei Siti Unesco di Villa Adriana
e di Villa D’Este a Tivoli, in Aedon.
Rivista di arti e diritto, 1, 2011 (http://www.aedon.mulino.it/archivio/2011/1/marchetti.htm
).
[45] Cfr. G. GARZIA, Tutela e valorizzazione dei beni culturali nel sistema dei piani di
gestione dei siti Unesco, in Aedon.
Rivista di arti e diritto, 2, 2014 (http://www.aedon.mulino.it/archivio/2014/2/garzia.htm
), spec. §. 4.; nonché A. CASSATELLA,
Tutela e conservazione dei beni culturali
nei Piani di gestione Unesco: i casi di Vicenza e Verona, ivi, 1, 2011 (http://www.aedon.mulino.it/archivio/2011/1/cassatella.htm
), spec. §. 1.
[46] Corte
cost. sent. 11 febbraio 2016 n. 22, §. 6.1., in www.cortecostituzionale.it . In
merito alla natura giuridica e agli effetti del piano di gestione, cfr. G. GARZIA, Tutela e valorizzazione dei beni culturali, cit., §. 4., ove si
sottolinea come tale istituto «non possa prevedere nuovi vincoli di natura
conformativa» e sia uno «strumento di coordinamento del sistema di
pianificazione – programmazione degli interventi volti alla
tutela/valorizzazione del sito».
[48] Cfr. in primis, per ciò che qui interessa,
art. 142 c. 1 lett. m) d.lgs.
42/2004: «le zone di interesse archeologico».
[49] Certo
che apparirebbe in linea di principio illogico e irragionevole un giudizio
della Pubblica Amministrazione competente che negasse l’attribuzione della
qualifica di “notevole interesse pubblico” a un bene inserito nella WHL.
[51] Art.
135 c. 4 d.lgs. 42/2004. Sull’ulteriore «valvola di sicurezza» rappresentata, a
fini di tutela, dall’art. 143 c. 1 lett. e)
d.lgs. 42/2004, che permette al piano paesaggistico di individuare «eventuali,
ulteriori contesti, diversi da quelli indicati all’articolo 134, da sottoporre
a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione», cfr. L. UCCELLO BARRETTA, Quale tutela per i siti patrimonio
dell’UNESCO?, in Osservatorio
costituzionale, 30 gennaio 2016 (http://www.osservatorioaic.it/download/0ff2ikqhOJabxOz38ObJGcQq1083zOzNCtwTTe8-6T4/laura-uccello-barretta-osservatorio-gennaio-2016.pdf
), 9 s.
[53] Con riferimento
cioè, per un verso, alla Convenzione UNESCO e, per altro verso, alla l. 77/2006
e, nelle parti segnalate, al d.lgs. 42/2004.
[54] In
base ai rinvii operati dall’art. 146 c. 1 d.lgs. 42/2004, le aree interessate
dall’obbligo di autorizzate sono quelle tutelate ex lege, dichiarate di notevole interesse pubblico o già
individuate come particolarmente meritevoli di tutela in base alle normative
precedenti al d.lgs. 42/2004 (come, ad es., le aree di interesse archeologico
riconosciute in base al d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490).
[55] Cfr.
art. 167 per le sanzioni amministrative e art. 181 d.lgs. 42/2004 per le
previsioni di reato.
[56] In
merito, cfr. C. PERINI, Programmi di tutela penale per l’archeologia
urbana, in Rinnovare la tutela. Modelli
matematici e grafici per una ridefinizione delle prospettive, a cura di E.
Cicalò e M. Solci, Roma 2016, 294 s. Con
riferimento alle prospettive di riforma, si veda da ultimo il Disegno di legge
C. 4220 presentato il 12 gennaio 2017 alla Camera dei Deputati dal Ministro dei
beni culturali e dal Ministro della Giustizia.
[57]
Analogamente, l’art. 639 c. 2 II° periodo c.p. (Deturpamento e imbrattamento di cose altrui) trova applicazione
rispetto a «cose di interesse storico o artistico».
[58] Cfr. F. MANTOVANI, Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, in Rivista italiana di diritto e procedura
penale, 1976, 77.
[59] F. MUCCIARELLI, Voce Bellezze naturali (distruzione o
deturpamento di), in Digesto delle
Discipline Penalistiche, vol. I, 435.
[60] In
base al d.d.l. A.S. n. 2864 del 2017, si tratterebbe del nuovo «Titolo VIII-bis» del Libro II c.p., successivo – con
scelta sistematica non del tutto convincente – rispetto al Titolo VIII relativo
ai «delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio».
[61] Il
riferimento è ai progettati artt. 518-novies
e 518-decies c.p., che
incriminerebbero i fatti di «danneggiamento, deturpamento, imbrattamento e uso
illecito di beni culturali o paesaggistici», commessi sia con dolo sia con
colpa.
[62] Cfr. in tal senso art. 10, par. 1,
Council of Europe Convention on Offences relating to Cultural Property
(Nicosia, 19th May 2017).
[63] Un
elemento di ambiguità si ricava tuttavia dall’art. 12 Conv., in base al quale
«il fatto che un bene del patrimonio culturale o naturale non è stato inserito
in uno dei due elenchi [WHL e WH Danger List] (…) non significa in alcun modo
che esso non ha un valore universale eccezionale per fini diversi da quelli che
risultano dalla iscrizione in questi elenchi». Atteso che i predetti fini sono
caratterizzati da una certa ampiezza riguardando la tutela, la conservazione e
la valorizzazione del patrimonio culturale e naturale (cfr. art. 5 Conv.), la
disposizione in parola sembra infatti riservare ai beni esclusi dalle liste un
giudizio di “particolare meritevolezza” su piani assolutamente marginali.
[64] Cfr.
il Preambolo della Convenzione UNESCO
1972, nonché il testo della Convenzione stessa a partire dal titolo, sempre
nella versione inglese. Il termine Heritage
non compare invece nella versione della Convenzione in lingua francese, né nella traduzione italiana.
[66] Cfr.
per limitare le citazioni ai primi animatori del dibattito sui beni comuni, G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, in «Science», vol. 162, 13 December
1968, 1243 ss.; E. OSTROM, Governing the Commons. The Evolution of
Institutions for Collective Action, Cambridge 1990.
[67] Così
l’art. 1 c. 3 dell’articolato licenziato il 14 giugno 2007 dalla Commissione
ministeriale presieduta dal Prof. Stefano Rodotà. In merito a tale proposta,
cfr. U. MATTEI, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari
2013, 82 ss. In senso critico, cfr. F.
MARINELLI, Voce Beni comuni,
in Enciclopedia del diritto. Annali,
vol. VII, 165 s.
[68] Cfr.
da ultimo U. MATTEI, Beni culturali, beni comuni, estrazione,
in Patrimonio culturale. Profili
giuridici e tecniche di tutela, a cura di E. Battelli, B. Cortese, A. Gemma
e A. Massaro, Roma 2017, 152 s. In
merito sia consentito anche il rinvio a C.
PERINI, Programmi di tutela penale,
cit., 283 ss.