Università Cattolica
del Sacro Cuore
Milano
La pluralità di tabulae testamentarie: fonti letterarie e
casistica giurisprudenziale
ABSTRACT: In the classical age Romans were very
concerned with preparing wills, which explains why a number of sources show the
use among Roman testators of keeping their wills constantly updated by
preparing new ones or adding codicils to those that had already been performed.
The purpose of this essay is to gather literary sources on this topic and
jurisprudential problematic texts concerning the exhibitio and opening of the tablets, the grant of bonorum possessio secundum tabulas, the
interpretation and the revocation of the will.
SOMMARIO: Premessa. – 1a. – 1b. - 1c. – 2a. – 2b. – 3. – 4.
Per i romani dell’età
classica disporre per testamento della propria familia costituiva un vero e proprio officium e questo spiega la ragione per cui numerose fonti
attestano l’uso di tenere costantemente aggiornate le proprie ultime volontà, o
redigendo sempre nuovi testamenti, o aggiungendo codicilli a quelli già
compilati[1].
Tale esigenza doveva dipendere sia dal normale mutare, fausto o infausto, delle
circostanze della vita – nascite, adozioni, emancipazioni, morti di sui heredes etc. – sia dall’acquisizione di nuovi amici o da sopraggiunte
inimicizie, tali da indurre il testatore a mutare le proprie ultime volontà[2].
Da qui l’abitudine dei patres familias
di fare testamento più volte nel corso della vita, ma anche, come attestano
numerose fonti, di lasciare due o più esemplari validi dello stesso testamento
oppure l’originale e una sua copia giuridicamente inefficace.
La tematica, a mia
notizia, non è stata oggetto di grande interesse in dottrina e, anche laddove
richiamata, lo è di regola in via meramente incidentale, cioè in occasione
della trattazione di argomenti più ampi.
Pare quindi utile
raccogliere qui in un unico contesto una serie di fonti sul tema (§ 1a, b, c),
per poi passare all’esegesi di alcuni testi giurisprudenziali problematici in
materia di esibizione e apertura delle tavole testamentarie (§ 2), di
concessione della bonorum possessio
secundum tabulas (§ 3), di interpretazione e revoca del testamento (§ 4).
Si è notato che nel
mondo romano il testamento era un atto così importante e diffuso da indurre i
disponenti a redigerlo più volte nel corso della vita al fine di adeguarlo alle
nuove esigenze che via via si fossero verificate.
Ciò, ad esempio,
risulta da Svetonio, De vit. Caes., Div. Iul., LVXXXIII a proposito di
Cesare:
Postulante ergo Lucio Pisone socero
testamentum eius aperitur recitaturque in Antoni domo, quod Idibus Septembribus
proximis in Lavicano suo fecerat demandaveratque virgini Vestali maximae.
Quintus Tubero tradit heredem ab eo scribi solitum ex consulatu ipsius primo
usque ad initium civilis belli Cn. Pompeium, idque militibus pro contione
recitatum. Sed novissimo testamento tres instituit heredes sororum nepotes,
Gaium Octavium ex dodrante, et Lucium Pinarium et Quintum Pedium ex quadrante
reliquo[s]; in ima cera Gaium Octavium etiam in familiam nomenque adoptavit;
plerosque percussorum in tutoribus fili, si qui sibi nasceretur, nominavit,
Decimum Brutum etiam in secundis heredibus. Populo hortos circa Tiberim publice et viritim trecenos
sestertios legavit.
Si sta qui narrando
degli eventi successivi all’assassinio del dittatore (LXXII) e si comincia
appunto dalla descrizione dell’apertura e pubblica lettura delle sue ultime
volontà avvenute nella casa di Antonio (LXXXIII). Svetonio ci informa in
particolare che l’apertura e recitatio
ebbero per oggetto il testamento che Cesare aveva redatto il 15 settembre del
45 (?) nella sua villa sulla via Lubicana e che aveva poi dato in custodia alla
Vestale Maggiore. Ci riferisce inoltre che, in base alla tradizione riportata
da Quinto Tuberone, Cesare, dall’epoca del suo primo consolato fino all’inizio
della guerra civile (cioè dal 59 a.C. al 49 a.C. ad avviso di Champlin[3])
aveva sempre indicato come erede Pompeo: del che erano al corrente le truppe da
lui stesso informate durante un’adunanza. Ma – aggiunge l’Autore – il
testamento di cui si dà lettura e in cui risultano designate come eredi persone
diverse[4],
è novissimum e, secondo Champlin[5],
potrebbe essere stato confezionato tra il 49 a.C. e il 45 a.C.[6].
Un’attestazione della
stessa pratica – sempre secondo Champlin – si può ricavare da un altro testo di
Svetonio, De vit. Caes., Div. Claud., V 1, in cui si pone in
rilievo l’immenso amore di Augusto per Druso, figlio di Livia e fratello minore
di Tiberio, che l’A. dichiara essere s e
m p r e stato istituito come coerede
insieme ai suoi figli (coheredem s e m p e r
filiis instituerit)[7].
L’avverbio «semper» potrebbe infatti
far pensare alla redazione da parte del princeps
di una pluralità di testamenti diversi, nei quali però, per il grande amore del princeps, l’istituzione di Druso
rimaneva un punto fermo.
... Quod equidem magis ne praetermitterem
rettuli, quam quia verum aut veri simile putem, cum Augustus tanto opere et
vivum dilexerit, ut coheredem semper filiis instituerit, sicut quondam in
senatu professus est, et defunctum ita pro contione laudaverit, ut deos
precatus sit, similes ei Caesares suos facerent sibique tam honestum quandoque
exitum darent quam illi dedissent ...
Lo stesso risulta
ancora dalla Pro Archia V 11 in cui,
com’è noto, Cicerone difende il poeta di Antiochia dall’accusa di usurpazione
della cittadinanza romana. Infatti, nell’89 a.C., la lex Plautia Papiria de
civitate sociis danda aveva concesso la cittadinanza romana ai membri delle
comunità italiche federate con Roma che, al momento dell’entrata in vigore
della legge, fossero iscritti nelle rispettive liste del censo ed entro
sessanta giorni avessero legittimato la loro posizione dinanzi al pretore
urbano[8].
Ma gli abusi a cui l’applicazione della legge aveva dato luogo indussero
all’istituzione nel 65 a.C. (con la lex
Papia de peregrinis) di un’apposita quaestio extraordinaria[9],
in forza della quale anche Archia viene accusato: fra l’altro, nonostante
l’avvenuta sua iscrizione nei registri del pretore Quinto Metello come
cittadino di Eraclea, Cicerone fa notare che, al momento della celebrazione del
processo, la documentazione manca in quanto perita in un incendio durante la
guerra sociale[10].
D’altronde il nome di Archia non compare neanche nelle liste censorie perché,
in occasione dei censimenti romani, Archia si trovava in Oriente al seguito di
Lucio Lucullo il giovane nelle campagne militari condotte contro Mitridate (V
11):
Scilicet; est enim obscurum proximis
censoribus hunc cum clarissimo imperatore L. Lucullo apud exercitum fuisse,
superioribus cum eodem quaestore fuisse in Asia, primis Iulio et Crasso nullam
populi partem esse censam. ...
Ma – prosegue l’oratore (V 11) – ciò conta fino a un certo punto
perché, se l’iscrizione nelle liste del censo non prova il ius civitatis ma soltanto il suo esercizio di fatto, tale esercizio
di fatto risulta già dalla pluralità di testamenti che egli ha redatto secondo
le leggi romane (testamentum saepe fecit
nostris legibus)[11], dal
fatto di aver adito le eredità di cittadini romani[12] e da
quello di essere stato indicato all’erario in
beneficiis L. Lucullo pro consule[13]:
Sed, quoniam census non ius civitatis
confirmat ac tantum modo indicat eum qui sit census ita se iam tum gessisse,
pro cive, eis temporibus quibus tu criminaris ne ipsius quidem iudicio in
civium Romanorum iure esse versatum et testamentum saepe fecit nostris legibus,
et adiit hereditates civium Romanorum, et in beneficiis ad aerarium delatus est
a L. Lucullo pro consule.
Analoga pratica risulta da Petr., Sat., CXVII: Eumolpo, vecchio e squattrinato letterato, a Crotone
con gli amici Encolpio e Gitone, propone ai due di travestirsi da suoi schiavi
e di fingere che lui sia ricco, malandato e senza figli. Così sarà facile
trovare cacciatori di eredità[14] pronti
ad accattivarsi le sue simpatie con donativi e servizi di ogni genere, nella
speranza di essere istituiti eredi. Con la collaborazione degli amici dovrà
quindi inscenare, fra le altre cose, di disporre di un ingente patrimonio e di
un numero sconfinato di schiavi, ma di aver perso in un naufragio più di venti
milioni di sesterzi e di avere a che fare con terreni così poco fruttuosi da
essere costantemente impegnato e nelle rese dei conti e in continui rifacimenti
– ogni quindici del mese – delle sue disposizioni testamentarie (... sedeat praeterea quotidie ad rationes
tabulasque testamenti omnibus <idibus> renovet. ...)[15].
Lo stesso appare da un
epigramma di Marziale (V 39) in cui il poeta, scaltro ma sfortunato cacciatore
di eredità[16], si scaglia contro Charinus, reo di averlo condotto in
rovina per averlo indotto a fargli regali ognuna delle trenta volte all’anno in
cui aveva fatto sigillare le proprie tavole testamentarie (Supremas tibi triciens in anno signanti tabulas ...). Marziale,
quindi, esorta l’uomo a signare rarius
o, in alternativa, a fare una volta per tutte ciò che la sua tosse «lascia
spesso erroneamente presagire», cioè morire.
In Tac., Ann., XV 55.2, poi, si tratta
dell’accusa di congiura contro Nerone a carico di Flavio Scevino: una delle
prove addotte contro di lui è il fatto che abbia sigillato il suo testamento
proprio il giorno prima della congiura. Ma Scevino si giustifica asserendo di
farlo saepius, cioè «piuttosto
spesso»[17] e sempre senza tenere conto delle
date (... Tabulas testamenti saepius a se
et incustodita dierum observatione signatas ...).
Anche la prassi di confezionare il
testamento in due o più copie originali
è attestata da varie fonti di epoche diverse: fra quelle giuridiche vi sono, ad
esempio, le epistulae di Proculo, le
Istituzioni di Fiorentino e il passo corrispondente delle Istituzioni
giustinianee.
Proculo, in D.31.47 6 epist., ricorda ad esempio l’uso comune
di redigere il testamento in due copie originali:
... Binae tabulae testamenti eodem tempore
exemplarii causa scriptae (ut volgo fieri solet) eiusdem patris familias
proferuntur ...
Con l’espressione binae tabulae testamenti si
intendono due originali di testamento: l’aggettivo binae, infatti, vale qui come numerale riferito al plurale «tabulae», espressione con cui, di
regola, le fonti alludono al singolo testamento[18] che
poteva essere, a seconda dell’ampiezza, costituito da due (dittico), tre
(trittico) o più tabulae[19]
(polittico)[20]. A conferma di ciò si veda la voce bina del TLL e in
particolare, fra le fonti ivi citate, Quint., Declamat., 308, 210; D.28.3.11 Ulp. 46 ad ed. [21]; Caper
Gramm., De verbis dubiis, VII 108.8:
nella controversia immaginaria
riportata dal primo testo, intitolata Duo
testamenta, si dice a un certo punto che è inutile pretendere l’eredità
quando si è stati diseredati in due testamenti (... Nihil est ergo quod nos onerare temptent nomine isto propinquitatis,
iactatione sanguinis et naturae homines
b i n i s iam t a b u l i s
exheredati. ...) e a questo riguardo si usa proprio l’ablativo «binis … tabulis»; nel testo ulpianeo la
locuzione «binae tabulae» si
riferisce appunto a due testamenti redatti in tempi diversi (Si b
i n a e t a b u l a e proferantur diversis temporibus factae
...); nel De verbis dubiis si afferma
che, se in genere si dice balneum et balneas, non balineum, b i n a s
t a b u l a s dicimus, non duas:
s e m p e r enim p l u r a l i t e r t a b u l a s
d i c i mu s : at epistolas duas,
non binas, quoniam singulariter epistola dicitur.
Anche Fiorentino, in
D.28.1.24 10 inst., spiega che il de cuius poteva consegnare (al
depositario) il testamento in più exempla
(unum testamentum pluribus exemplis
consignare)[22], uso – aggiunge – rivelatosi
utile soprattutto per chi stesse per mettersi in viaggio per mare portando con
sé un esemplare valido del testamento e lasciandone per sicurezza un altro a
casa[23]. La
parola exemplum è qui impiegata nel
senso di “esemplare valido” dello stesso testamento, come è anche precisato nel
TLL sotto la voce Exemplum[24]
nonché in uno scritto di De Sarlo risalente al 1935 [25]:
Unum testamentum pluribus exemplis
consignare quis potest idque interdum necessarium est, forte si navigaturus et
secum ferre et relinquere iudiciorum suorum testationem velit.
Lo stesso risulta dal passo corrispondente delle Istituzioni
giustinianee, Inst. 2.10.13 [26], che
conferma l’abitudine di redigere unum
testamentum pluribus codicibus – purché naturalmente tutti confezionati nel
rispetto delle regole – e, come Fiorentino, sottolinea l’utilità di tale
pratica sia per chi stesse per mettersi in viaggio per mare e intendesse
portare con sé una copia originale dell’atto lasciandone un’altra domi, sia per chiunque volesse tutelarsi
dal rischio di perimento del testamento[27]:
Sed et
unum testamentum pluribus codicibus conficere quis potest, secundum optinentem
tamen observationem omnibus factis. Quod interdum et necessarium est, si quis
navigaturus et secum ferre et domi relinquere iudiciorum suorum contestationem
velit, vel propter alias innumerabiles causas, quae humanis necessitatibus
imminent.
In luogo della parola exemplum
utilizzata da Fiorentino, Giustiniano usa il termine codex nel senso di “copia originale”[28]. In
effetti la letteratura specialistica[29] è
solita intendere per codex «un
insieme di tavolette legate l’una all’altra»[30] le cui
singole «unità o “pagine”» si chiamavano tabulae
o cerae a seconda del «tipo di
specchio scrittorio» che caratterizzava il codex
stesso. I testamenti, infatti, come già rilevato, potevano essere composti di due
(dittico), tre (trittico) o più tabulae
(polittico) a seconda dell’ampiezza del contenuto e «in these multiples [scil. tabulae] <can> be called a codex or codices»[31]. A
volte il testamento poteva essere talmente ampio da essere formato da «più
polittici»[32], come nei casi, citati da
Amelotti[33], del testamento di Dasumio[34] e di
quello di un civis Romanus
proveniente dal popolo dei Galli Lingoni[35] (la cui
identità è sconosciuta): di essi, peraltro, rimangono soltanto copie
epigrafiche e, per il primo, nemmeno nella versione integrale.
Tale motivo del timore della perdita delle tavole testamentarie
in un naufragio emerge anche dall’oratio
de testamentis transmarinis di Marco Cornelio Frontone[36].
Intitolata così dal suo primo editore, Angelo Mai[37], in
realtà essa consiste in un passo tratto dall’orazione vera e propria (di cui è
ignota la versione integrale) come riportato da Marco Aurelio a Frontone (Epistula ad Marcum Caesarem et invicem,
I 6)[38] in
risposta all’invio da parte del maestro di alcuni suoi scritti perché l’allievo
li declamasse dinanzi ad Antonino Pio. In particolare nell’epistula citata Marco Aurelio informa Frontone di quanto il padre
adottivo abbia apprezzato un passo[39], che
riporta, dell’oratio de testamentis
transmarinis. Non si sa molto riguardo al caso da cui l’oratio avrebbe tratto occasione[40]; forse
si trattava di una controversia ereditaria sorta in una provincia asiatica[41] in
seguito alla scelta del proconsole locale di non autorizzare l’apertura di un
testamento. La dottrina ha a lungo discusso sulle ragioni di questo diniego
senza giungere a una conclusione comunemente accolta. Quel che pare certo è che
contrari all’apertura delle tavole fossero gli eredi ab intestato[42]. La
causa fu rimessa alla cognitio di
Adriano[43], non si
sa se su domanda degli eredi ex
testamento o per volontà del governatore[44].
Frontone (I 6.2-5), facendo leva sul fatto che i decreti imperiali
costituiscono un precedente, cerca di convincere Adriano a non ratificare la
decisione del proconsole: in caso contrario si potrebbe secondo lui diffondere
l’uso di sottoporre alla cognitio dell’imperatore
i testamenti provenienti dalle province più remote, con il rischio che, nelle
lungaggini della procedura, gli eredi legittimi, chiesta e ottenuta la bonorum possessio sine tabulis, potessero
godere o addirittura dissipare i beni del de
cuius. Inoltre – ed è questa la parte che interessa in questa sede – i
testamenti, invece di essere custoditi in luoghi sicuri, andrebbero inviati a
Roma per mare, mischiati magari alle merci più infime (e addirittura gravati da
portorium !), con il grave pericolo
di perire durante il viaggio. Sul punto particolare Frontone, Ep. ad M. Caes., I 6.5 si esprime così:
Qui
mos si fuerit inductus, ut defunctorum testamenta ex provinciis transmarinis
Romam mittantur, indignius et acerbius sic testamentorum periculum erit
<quam> sit, si corpora <huc> defunctorum trans maria trahantur
<adflicta in>iuriose. T<um
detrime>ntum ne<que mortuus neque p>eculium <capiet. Sepu>ltura
enim cadaveribus in ipsis iniuriis praesto est: sive maria naufragos devorent
sive flumina praecipites trahant sive harenae obruant seu ferae lacerent sive
volucres discerpant, corpus humanum satis sepelitur, ubicumque consumitur. At
ubi testamentum naufragio submersum est, illa demum et res et domus et familia
naufraga atque insepulta est. Olim testamenta ex deorum munitissimis aedibus
proferebantur aut tabulariis aut <th>ecis aut archieis aut opisthodomis;
at iam testamenta pro<fe>ru<nt sicut> iactitarint inter onera
mercium et sarcinas remigum. Id etiam superest, si quando iactu opus est, ut
testamenta cum leguminibus iactentur. | Quin etiam portorium constituendum,
<quod> pro testamentis exigatur. Antehac non constitutum, quia
testamenta nondum navigarent salis ad exemplar sicque replerent navem aliquo
ducente teste.
Se divenisse usuale inviare dalle province transmarine i
testamenti a Roma – scrive – il periculum
cui questi sarebbero sottoposti sarebbe più indecoroso e crudele di quello in
cui incorrerebbero i cadaveri dei defunti se fossero trascinati a Roma
oltremare, sbattuti brutalmente dalla forza delle acque. Eppure, anche in
questo modo, né il morto né il peculio subirebbero un danno: i cadaveri,
infatti, anche se inghiottiti dal mare, trascinati vorticosamente dalla
violenza dei fiumi, ricoperti di sabbia, sbranati dalle fiere o dilaniati dagli
uccelli, si considererebbero comunque sepolti, perché il corpo riceve sepoltura
ovunque si dissolva. Ma ciò non vale per un testamento che perisca in un
naufragio perché, in questo caso, a naufragare senza sepoltura sarebbero il
patrimonio familiare, la casa e la famiglia. Un tempo i testamenti – prosegue
Frontone – venivano estratti da templi, archivi, casseforti, forzieri o tesori,
mentre ora, se spediti dalle province, verrebbero estratti dal luogo sudicio in
cui erano stati sbattuti alla partenza, insieme al carico e ai bagagli dei
rematori: mancherebbe solo che fossero gettati in mare con i legumi per
alleggerire la nave o che, addirittura, si pagasse per essi un portorium, come per il sale e ogni altra
mercanzia che usa riempire le nostre stive. Sarebbe, infine, come vedere i
nostri legati dibattersi in balia
delle onde, strappati alla nostra vista dal vento e dalla tempesta insieme con
il testamento che li contiene, dispersi e sparsi qua e là nelle insenature
delle correnti dell’Adriatico e inghiottiti dai flutti del mare (Ep. ad M. Caes., I 6.6):
...
legata in arbitrio marium versantur, illarum procellarum dolo e conspectu
avulserint venti superruentes, item cum testamento auferentur. Mox inde illa
nave vel con<tr>a voluntatem soluta <aut s>parsa, pos<t in>
Hadriae fluminum sinu<s disiecta> ac dilata m<arisque aestu
a>bsorpta er<adicantur>.
Un altro esempio dell’uso di redigere il testamento in due copie
originali si trova in Valer. Mass., Fact.
et Dict. memor. lib., VII 8.4: vi si parla di un uomo, tal Pompeo Regino,
di provenienza transalpina, che, preterito nel testamento del fratello, legge
in pubblico binae tabulae testamentorum
suorum in comitio incisae. Egli
desidera infatti ostentare la propria generosità nei confronti del fratello,
avendolo istituito erede di gran parte dell’asse ereditario e reso destinatario
di un prelegato del valore di quindici milioni di sesterzi[45]:
Item Pompeius Reginus vir transalpinae
regionis, cum testamento fratris praeteritus esset et ad coarguendam
iniquitatem eius binas tabulas testamentorum suorum in comitio incisas habita
utriusque ordinis maxima frequentia recitasset, in quibus magna ex parte heres
frater erat scriptus, praelegabaturque ei centies et quinquagies sestertium,
multa ac diu inter adsentientes indignationi suae amicos questus, quod ad
hastae iudicium adtinuit, cineres fratris quietos esse passus est. Et erant ab
eo instituti heredes neque sanguine Regino pares neque proximi, sed alieni et
humiles, ut non solum flagitiosum silentium,
sed etiam praelatio contumeliosa videri posset.
Anche in questo passo, come in D.31.47 Proc. 6 epist.,
l’espressione «binas
tabulas testamentorum» allude a «due testamenti». La pubblica lettura di entrambe le copie
originali del testamento ivi attestata si potrebbe spiegare con l’esigenza di
dimostrare che si tratta del medesimo atto (che al momento del perfezionamento
era documentato da più di un supporto scrittorio) e non di esemplari di testamento
perfezionati in tempi diversi[46].
Ma nelle fonti non mancano neppure esempi, a partire dalla tarda
repubblica, di testamenti confezionati in due copie originali valide da parte
di personaggi del ‘gran mondo’, re o imperatori. Cesare, De bell. civ., III 108, menziona ad esempio il caso del faraone
Tolomeo XII Aulete (morto nel 51 a.C.), autore di due esemplari validi di
testamento, di cui l’uno (... tabulae
testamenti unae ...) portato a Roma da una delegazione reale per essere
depositato nell’Erario[47] (anche
se poi in realtà venne trasferito a casa di Pompeo a causa dei torbidi politici[48]),
l’altro, di identico contenuto (... alterae
eodem exemplo ...) e sigillato, rimasto ad Alessandria dove venne letto in
pubblico[49]. Ciascuna copia originale del testamento è nel passo identificata
con il plurale tabulae[50],
secondo l’uso – già richiamato da De Sarlo[51] in una
monografia del 1935 – di indicare (fatte salve le dovute eccezioni[52]) con
questa espressione il supporto materiale del documento contenente le ultime
volontà del defunto e con testamentum
il negozio giuridico di ultima volontà. Inoltre il vocabolo exemplum della frase conclusiva allude
al contenuto delle tabulae testamenti,
come emerge anche dal TLL sotto la
voce Exemplum: perciò l’espressione «eodem exemplo» contribuisce a chiarire
che si tratta di due esemplari validi del medesimo testamento aventi «lo stesso
contenuto»[53]. Si allude, com’è noto, al
testamento di Tolomeo XII che istituiva eredi Tolomeo XIII e Cleopatra VII e
pregava il popolo romano, in nome degli dei e dell’amicizia con Roma, di fare
rispettare le sue ultime volontà[54]. Tale
amicizia era stata ufficialmente sancita nel 59 a.C., sotto il consolato di
Cesare, con l’assegnazione a Tolomeo Aulete del titolo di socius et amicus populi Romani
ed era stata confermata nel 55 con l’aiuto che Pompeo aveva fornito al faraone
per riprendersi il trono dopo essere stato cacciato dal suo regno in seguito a
una rivolta popolare nel 57. Cesare parla del duplice originale del testamento
di Tolomeo Aulete verso la fine dell’ultimo libro della sua opera, ove narra di
come, arrivato ad Alessandria subito dopo l’uccisione di Pompeo, fosse venuto a
conoscenza del conflitto fra il tredicenne Tolomeo XIII e la sorella ventenne
Cleopatra VII: un conflitto sorto in seguito alla lettura delle ultime volontà
del padre, in cui era disposto che, alla morte del faraone, il figlio maggiore
regnasse insieme alla sorella maggiore. Ma Tolomeo, indotto da Potino, l’aveva
cacciata dall’Egitto causando, così, il conflitto armato. Cesare, per cui
questa controversia è un affare del popolo romano, si propone, in qualità di
console, di porre fine al conflitto convocando i belligeranti per discutere
davanti a lui le rispettive ragioni.
... In testamento Ptolomaei patris heredes
erant scripti ex duobus filiis maior et ex duabus filiabus ea, quae aetate
antecedebat. Haec uti fierent, per omnes deos perque foedera, quae Romae
fecisset, eodem testamento Ptolomaeus populum Romanum obtestabatur. Tabulae
testamenti unae per legatos eius Romam erant allatae, ut in aerario ponerentur
(hic cum propter publicas occupationes poni non potuissent, apud Pompeium sunt
depositae), alterae eodem exemplo relictae atque obsignatae Alexandriae
proferebantur.
Un altro illustre esempio di testamento redatto in due copie
originali conformi si trova in Svet., De
vit. Caes., Aug., II 101, a proposito del testamento di Augusto, scritto
appunto in due codici (duobus codicibus)[55] in
parte dall’imperatore, in parte dai suoi liberti (Polibio e Ilarione)[56], con
allegati tre rotoli contrassegnati nello stesso modo (cum tribus signatis aeque voluminibus)[57], e
successivamente depositato presso le Vestali[58]:
Testamentum L. Planco C. Silio cons. III.
Non. Apriles, ante annum et quattuor menses quam decederet, factum ab eo ac
duobus codicibus, partim ipsius partim libertorum Polybi et Hilarionis manu,
scriptum depositumque apud se virgines Vestales cum tribus signatis aeque
voluminibus protulerunt. ...
La pratica di depositare in un tempio o affidare a persone di
fiducia gli atti di ultima volontà e i documenti contenenti accordi di
carattere politico e militare[59] allo
scopo di garantirne la conservazione[60], è
attestata fin dall’età repubblicana – anche se, come osserva Dumont[61], «les
sources litéraires» ci informano soprattutto sui testamenti di «grands
personnages»[62] e dei casi particolari del
loro deposito nel tempio di Vesta – . Oltre all’esempio di Augusto si possono
menzionare sia quello di Cesare, che depositò il suo testamento presso la
Grande Vestale[63], sia quello di Antonio, che
affidò il proprio alle Vergini vestali[64]. Lo
stesso, secondo Dumont[65],
nonostante il silenzio delle fonti[66],
potrebbe valere per i testamenti di Tiberio e Claudio.
Del resto, come pare dal già cit. Front., ep. ad M. Caes. et invic.,
I 6.5, tale uso doveva essere diffuso anche fra i comuni cives[67], il che
è confermato sia da Papiniano (8 resp.
D.31.77.26) che da Ulpiano (68 ad ed. D.43.5.3.3). Il primo testo presenta
il caso di una madre che, all’insaputa del figlio, deposita in un tempio una
lettera in cui dispone una donazione di terreni senza ricorrere alle
espressioni proprie di un fedecommesso e al custode del tempio invia
contestualmente un’altra lettera in cui esprime il desiderio che il documento
depositato sia consegnato dopo la sua morte al figlio:
Donationis praediorum epistulam ignorante
filio mater i n a e d e
s a c r a verbis fideicommissi non
subnixam deposuit et litteras tales ad aedituum misit: ‘Instrumentum voluntatis
meae post mortem meam filio meo tradi volo’ ...
Il secondo testo tratta del deposito delle tabulae testamenti presso il custode o un archivista di un tempio[68]:
Proinde et si c u s t o d i a m tabularum
a e d i t u u s vel tabularius
suscepit, dicendum est teneri eum interdicto.
È noto che la scelta delle Vestali come depositarie di testamenti
o altri atti particolarmente delicati dipendeva dalla generale considerazione
di queste sacerdotesse come simbolo di equilibrio e concordia, messaggere di
pace e dunque persone agenti «super
partes»[69]. Eppure le Vestali, in un racconto
di Plutarco[70], non riescono a impedire a
Ottaviano di sottrarre al tempio il testamento di Antonio (ancora in vita)[71]. Ma ciò
dovette dipendere dal clima di guerra civile già diffuso al momento del
sacrilego atto. Infatti Augusto stesso, una volta ristabilito l’ordine, avrebbe
collocato il suo testamento nel tempio delle Vestali[72] secondo
l’antica tradizione. Nel testamento, aperto e letto in senato[73],
furono, com’è noto, istituiti eredi di primo grado il figliastro Tiberio[74] per due
terzi e la moglie Livia per un terzo; in secondo grado, Druso (figlio di
Tiberio) per un terzo, Germanico (figlio di Druso) e i suoi tre figli per la
quota rimanente; in terzo grado, molti amici e parenti[75]. Furono
anche disposti legati a favore del popolo romano, delle tribù, dei pretoriani,
delle coorti urbane, dei legionari e di terze persone[76]. Nei
tre rotoli allegati, invece, erano contenute le disposizioni riguardanti il
funerale, poi le res gestae del
defunto con l’ordine di inciderle su tavole bronzee da sistemare di fronte al
Mausoleo e infine una relazione sommaria sull’amministrazione di tutto l’Impero
(numero dei soldati collocati sotto le insegne e relativo dislocamento, cifre
dell’erario e del fisco, imposte ancora da riscuotere, liberti e schiavi cui
domandare il rendiconto)[77].
Un ulteriore esempio di duplice confezione del testamento è
narrato da Svetonio, De vit. Caes., Tib.,
III 76 a proposito di Tiberio[78]: questi
redasse l’atto due anni prima di morire in due validi esemplari (testamentum duplex) dello stesso contenuto (eodem exemplo), l’uno scritto di sua mano, l’altro per mano di un
liberto, entrambi controfirmati da persone di modestissima condizione (obsignaveratque etiam humillimorum signis)[79].
Testamentum
duplex ante biennium fecerat, alterum sua, alterum liberti manu, sed eodem
exemplo, obsignaveratque etiam humillimorum signis. ...
Anche in questo testo, come in
Fiorentino 10 inst. D.28.1.24, il sintagma exemplum
indica il tenore dell’atto mortis causa
(cfr. voce Exemplum del TLL)[80]. Nel testamento di Tiberio, com’è noto, i due nipoti, Caio
(figlio di Germanico) e Tiberio (figlio di Druso), erano istituiti in parti
uguali e l’uno era nominato reciprocamente erede dell’altro[81]; erano
anche disposti legati a favore di varie persone, tra cui le vergini Vestali, i
soldati, i singoli componenti della plebe e i capi dei quartieri urbani[82].
Un’altra pratica frequente attestata dalle fonti doveva essere quella di accompagnare al perfezionamento
del testamento la redazione di una copia priva di efficacia giuridica[83]. Lo si può ricavare da un testo del Satyricon di Petronio[84], da una
lettera di Plinio il Giovane all’imperatore Traiano[85] e da
due frammenti di Ulpiano[86] in tema,
rispettivamente, di apertura del testamento e di concessione della bonorum possessio secundum tabulas (su
cui si vedano rispettivamente i §§ 2 e 3).
In Petr., Sat., LXXI,
Trimalcione, dopo aver radunato gran parte della servitù nella sala del banchetto
e preannunciato ad alta voce alcune delle sue volontà testamentarie
(istituzione di erede della moglie Fortunata, manomissione di tutti gli
schiavi, predisposizione di legati a favore di alcuni di questi) chiede che gli
venga consegnato un exemplar testamenti,
verosimilmente una minuta del testamento, «essendo l’originale chiuso secondo
le prescrizioni del Senatoconsulto Neroniano»[87]: della
copia dà completa lettura[88] agli
astanti, fra cui gli schiavi, che si commuovono dinanzi alla sua generosità (totum a primo ad ultimum ingemescente
familia recitavit)[89]. Che la
parola exemplar significhi «copia»,
in contrapposizione al documento originale (authenticum)
del testamento, trova conferma nella voce corrispondente TLL.
Diffusus
hac contentione Trimalchio: “Amici, inquit, et servi homines sunt et aeque unum
lactem biberunt, etiam si illos malus fatus oppresserit. Tamen
me salvo cito aquam liberam gustabunt. Ad summam, omnes illos in testamento meo
manu mitto. Philargyro etiam fundum lego et
contubernalem suam, Carioni quoque insulam et vicesimam et lectum stratum. Nam
Fortunatam meam heredem facio, et commendo illam omnibus amicis meis. Et haec
ideo omnia publico, ut familia mea iam nunc sic me amet tanquam mortuum”.
Gratias
agere omnes indulgentiae coeperant domini, cum ille oblitus nugarum exemplar
testamenti iussit afferri et totum a primo ad ultimum ingemescente familia
recitavit. ...
Come rileva Champlin[90], la
scelta di Trimalcione di non limitarsi a rivelare il contenuto del suo
testamento ma addirittura di farsene consegnare una copia da leggere per
intero, alla presenza non soltanto della moglie e degli amici ma anche
dell’intera familia di schiavi,
denota un chiaro bisogno di autocelebrarsi, ottenere l’approvazione degli
astanti e garantirsi il loro compianto dopo la morte[91]. Del
resto Champlin[92] ricorda che i testatori
romani erano soliti non soltanto esporre apertamente le proprie ultime volontà[93]
«despite the privacy of the will», ma anche leggerle in pubblico[94]. La
redazione di una o più copie del testamento poteva dunque servire a questo
scopo[95]. Ma non
si può nemmeno escludere che la minuta del testamento potesse fungere da
semplice promemoria al fine, ad esempio, di evitare di rompere i sigilli
dell’originale tutte le volte in cui al testatore sorgesse qualche dubbio
riguardo al contenuto.
Un’altra attestazione della stessa pratica si trova in una
lettera che Plinio il Giovane scrisse a Traiano (X 70) durante il suo
governorato in Bitinia riguardo al luogo della città di Prusa da lui scelto, su
autorizzazione imperiale, per la costruzione di bagni pubblici. Plinio ricorda
che in quell’area sorgeva un tempo una grande casa, ora in rovina, appartenuta
a Claudio Polieno, il quale l’aveva legata all’imperatore Claudio con la
prescrizione che nel peristilio fosse eretto un tempio in onore del princeps e che il resto dell’edificio
venisse locato. Per qualche tempo la città aveva beneficiato di questo lascito;
poi però la struttura era decaduta un po’ per i saccheggi, un po’ per
l’incuria, con il risultato che di essa ormai non rimaneva nulla più che la
superficie. Plinio propone quindi di donare o vendere il suolo alla città per
realizzarvi dei bagni, di circondare con esedre e portici lo spazio della
vecchia residenza, di dedicarlo a Traiano e innalzarvi una nuova costruzione
recante il nome dell’imperatore. Infine – ed è questa la parte che ci interessa
– Plinio informa l’imperatore di avergli inviato un exemplar testamenti, quamquam mendosum, di Polieno: da questo egli potrà apprendere che il
testatore aveva lasciato in casa molte cose preziose nel frattempo scomparse
(insieme alla domus), che Plinio si
impegna, per quanto possibile, a recuperare. Qui è verosimile che il termine exemplar alluda a una mera copia
(giuridicamente inefficace) del testamento: tale accezione è attestata dal TLL sotto la relativa voce e, d’altra
patre, se così non fosse, sarebbe difficile comprendere perché Plinio abbia
qualificato tale exemplar come mendosum, cioè scorretto.
Quaerenti mihi, domine, Prusae ubi posset
balineum quod indulsisti fieri, placuit locus in quo fuit aliquando domus, ut
audio, pulchra, nunc deformis ruinis. Per hoc enim consequemur, ut foedissima
facies civitatis ornetur, atque etiam ut ipsa civitas amplietur nec ulla
aedificia tollantur, sed quae sunt vetustate sublapsa relaxentur in melius. (2)
Est autem huius domus condicio talis: legaverat eam Claudius Polyaenus Claudio
Caesari iussitque in peristylio templum ei fieri, reliqua ex domo locari. Ex ea
reditum aliquamdiu civitas percepit; deinde paulatim partim spoliata, partim
neglecta cum peristylio domus tota collapsa est, ac iam paene nihil ex ea nisi
solum superest; quod tu, domine, sive donaveris civitati sive venire iusseris,
propter opportunitatem loci pro summo munere accipiet. (3) Ego, si permiseris,
cogito in area vacua balineum collocare, eum autem locum, in quo aedificia
fuerunt, exedra et porticibus amplecti atque tibi consecrare, cuius beneficio
elegans opus dignumque nomine tuo fiet. (4) Exemplar testamenti, quamquam
mendosum, misi tibi; ex quo cognosces multa Polyaenum in eiusdem domus ornatum
reliquisse, quae ut domus ipsa perierunt, a me tamen in quantum potuerit
requirentur.
Al caso già esaminato
della pluralità di testamenti successivi si riferiscono spesso anche i giuristi
in relazione al problema dell’esibizione e dell’apertura delle tavolette.
Infatti, com’è noto, se dopo il decesso dell’ereditando il detentore delle
tavole testamentarie non le avesse presentate spontaneamente all’autorità
preposta alla procedura di apertura e pubblica lettura dell’atto (di regola il
pretore a Roma, il governatore in provincia), chiunque vi fosse interessato[96]
poteva domandare l’emanazione di un interdictum
de tabulis exhibendis[97]. Tale exhibitio, come precisa Ulpiano 68 ad ed. in D.43.5.3.8, consisteva
nel materiae ipsius adprehendendae copiam facere. ..., cioè nell’attribuire la
facoltà di apprendere materialmente la cosa[98]
(ossia le tabulae testamenti) e,
avverte lo stesso giurista nel successivo § 9 del fr. 3 D. eod., doveva essere
fatta dinanzi al pretore in modo che, in base all’auctoritas di questo, i signatores
fossero convocati ai fini del riconoscimento dei rispettivi sigilli. Se poi
costoro non avessero ottemperato all’ordine del magistrato, secondo Labeone
dovevano esservi costretti dal pretore[99].
Nel caso, allora,
dell’esistenza di più testamenti confezionati in tempi diversi, Ulpiano
sottolinea a più riprese che l’interdictum
de tabulis exhibendis poteva essere domandato ai fini dell’esibizione di
tutte le tavole, non soltanto delle ultime. Ciò risulta in particolare da
D.43.5.1.4 Ulp. 68 ad ed. dove appunto l’autore ribadisce che l’interdictum de tabulis exhibendis valeva
sia per le supremae tabulae, che per
le priores:
Sive
supremae tabulae sint sive non sint, sed priores, dicendum interdictum hoc
locum habere.
Ma il principio è ribadito da Ulpiano anche in altri due testi,
tratti rispettivamente dal libro L (D.29.3.2.3) e dal libro LXVIII (D.43.5.1.6)
del commentario ad edictum:
Si plura
sint testamenta, quae quis exhiberi desideret, universorum ei facultas facienda
est.
Proinde et si plures tabulae sint
testamenti, quia saepius fecerat, dicendum est interdicto locum fore: est enim
quod ad causam testamenti pertineat, quidquid quoquo tempore factum exhiberi
debeat.
Il caso è sempre quello di un pater familias deceduto lasciando più testamenti perfezionati in
tempi diversi[100]: costui – precisa l’ultimo testo – era
solito testare ‘saepius’, cioè
‘piuttosto spesso’. La domanda è, in ambedue i passi, se si debba pretendere la
sola esibizione dell’ultimo testamento o di tutti e la risposta è in questo
secondo senso[101]. La ratio della soluzione è indicata nel fr. 1.6 nel senso che ‘tutto
ciò che ha a che vedere con la questione del testamento, di qualsiasi cosa si
tratti e in qualunque momento sia stata fatta, deve essere esibito’. Se,
infatti, l’ultimo testamento si fosse per caso rivelato nullo e il precedente
valido, in caso di mancata esibizione di questo (ai fini della dissuggelazione
e recitatio) si sarebbe aperta la
successione legittima pur in presenza di tabulae
testamenti valide ed efficaci.
L’esibizione di tutti i
testamenti consentiva di evitare il rischio sopra indicato, come dimostra un
altro frammento ulpianeo (D.28.3.11 46 ad ed.). Si considera qui il caso
dell’esibizione di due testamenti, confezionati e sigillati dal disponente in
tempi diversi: se le tabulae posteriores, una volta aperte, fossero
risultate vacue, cioè prive di contenuto, il testamento precedente (superius testamentum) non sarebbe stato ruptum dal successivo, essendo
quest’ultimo nullo (sequens nullum est):
Si binae tabulae proferantur diversis
temporibus factae, unae prius, alia<e> postea, utraeque tamen septem
testium signis signatae, et apertae posteriores vacuae inventae sint, id est
nihil scriptum habentes omnino, superius testamentum non est ruptum, quia
sequens nullum est.
Ma, come visto in
esordio di questo lavoro, era anche d’uso fra i romani redigere due ‘originali’
dello stesso testamento oppure un originale e la sua copia priva di efficacia.
E la casistica giurisprudenziale riguarda anche tali ipotesi.
Un primo testo
attinente al caso della compilazione di due esemplari validi di testamento è il
fr. 3.1 D.43.5 tratto dal LXVIII libro del commentario di Ulpiano all’editto,
ancora relativo all’interdictum de
tabulis exhibendis:
Si tabulae in pluribus codicibus scriptae sint, omnes interdicto
isto continentur, quia unum testamentum est.
Qui, infatti, si ha un testamento
redatto in più codices
(verosimilmente dal contenuto diverso l’uno dall’altro), tutti sigillati
separatamente ma nel medesimo contesto di luogo e di tempo[102]
(come nel caso di D.37.11.1.6 Ulp. 39 ad ed., su cui infra). Essi, per il fatto di essere stati presentati ai testimoni
nello stesso momento, costituiscono un unico testamento, perciò dovranno essere
esibiti tutti insieme in base all’interdetto de tabulis exhibendis emanato dal pretore.
Altri casi discussi dai
giuristi sul punto attengono all’apertura delle tavolette: sempre Ulpiano, ad
esempio, si domanda se, nel caso di redazione di due validi esemplari dello
stesso contenuto, entrambi si debbano aprire o basti l’apertura di uno solo. Il
giurista risponde che, poiché ciascuna copia originale vale come testamento,
basta che venga aperto l’uno per considerarsi aperto anche l’altro. D.29.3.10 pr. 13 ad leg. Iul. et Pap.:
Si in
duobus exemplariis scriptum sit testamentum, alterutro patefacto apertae
tabulae sunt.
Al
contrario, se non esistono due originali, ma il testamento valido e la sua
copia (exemplum), lo stesso Ulpiano
in D.29.3.12 13 ad leg. Iul. et Pap. scrive che, a rilevare, è soltanto
l’apertura dell’originale, perché le altre, che il de cuius non ha ufficialmente presentato come proprie tramite nuncupatio «alla vista e al sigillo dei
testimoni», sono mere tabulae ‘di
comodità’ ma prive di valore giuridico[103]:
Si quis fecerit testamentum et exemplum eius, exemplo
quidem aperto nondum apertum est testamentum: quod si authenticum patefactum
<est, tum>[104] apertum.
Il tema della pluralità di testamenti emerge ancora in un passo
di Ulpiano del titolo 39 ad ed. (D.37.11.1.5-7 Ulp.[105]) in
relazione alla concessione pretoria della bonorum
possessio secundum tabulas:
5. Si quis in duobus exemplaribus fecerit testamentum et
aliud exstet, aliud non exstet, tabulae extare videntur petique potest bonorum
possessio. 6. Sed et si in duobus codicibus simul signatis alios atque alios
heredes scripserit et utrumque extet, ex utroque quasi ex uno competit bonorum
possessio, quia pro unis tabulis habendum est et supremum utrumque accipiemus.
7. Sed si unum fecerit testator quasi testamentum, aliud quasi exemplum, si
quidem id extat quod voluit esse testamentum, bonorum possessio petetur: si
vero id quod exemplum erat, bonorum possessio peti non poterit, ut Pomponius
scripsit.
Nel primo paragrafo (§ 5) si tratta di un pater familias che ha confezionato due esemplari validi dello
stesso testamento[106]: il
giurista sottolinea che, se all’apertura della successione esiste un solo exemplar, questo è sufficiente ai fini
della richiesta della bonorum possessio
secundum tabulas perché ciascuno dei due esemplari vale come testamento
vero e proprio.
Nel secondo paragrafo (§ 6) l’ereditando ha redatto due codices in cui sono istituiti eredi
diversi e li ha sigillati separatamente l’uno dall’altro ma nello stesso
contesto di tempo e di luogo: Ulpiano sottolinea che in tal caso, se i
testamenti sussistono entrambi al momento della richiesta della bonorum possessio secundum tabulas,
questa può essere concessa in base ai due scritti come se si trattasse di uno
solo: infatti, di per sé, sia l’uno che l’altro valgono come «l’ultimo» («supremum»). Infatti, essendo la
sigillazione un requisito di validità del testamento iure honorario, la simultanea sigillazione fa sì che essi si
considerino perfezionati contemporaneamente – con la conseguenza che ognuno dei
due è come se fosse l’ultimo redatto[107] – e
che entrambi si intendano come un unico testamento contenente più istituzioni
di erede a favore di soggetti diversi. Quindi occorrono entrambi ai fini della
richiesta al pretore della bonorum
possessio secundum tabulas[108].
Nel terzo paragrafo (§ 7) il de cuius ha perfezionato il testamento e
ne ha redatto una semplice copia[109]:
Ulpiano precisa che, se al momento della morte del disponente emerge soltanto
l’originale del testamento, questo basta ai fini dell’agnitio bonorum possessionis perché si tratta dell’originale;
viceversa, se alla morte dell’ereditando esiste la sola copia dell’atto, questa
non consente agli istituiti di domandare la bonorum
possessio secundum tabulas[110]. Ciò
non dipende dall’inefficacia iure
honorario della copia dovuta alla mancata sigillazione del documento:
infatti, come sottolineano Paolo 3 ad Sab. D.37.2.1 [111] e
Ulpiano 39 ad ed. D.37.11.1.2 e 3 [112], per ammettere la bonorum possessio secundum tabulas, è
sufficiente la prova dell’esistenza dell’originale all’apertura della
successione e del suo contenuto. Il motivo della soluzione, invece, è, come già
rilevava De Sarlo[113], che,
mentre l’authenticum incorporava in
sé la voluntas posta alla base del
negozio giuridico mortis causa, l’exemplum ne poteva fornire soltanto la
prova indiretta per mezzo della prova «della formazione o dell’esistenza del
documento originale». E, d’altronde, la copia potrebbe anche contenere errori
non presenti nell’originale – si ricordino le parole significative di Plinio il
Giovane nella lettera a Traiano già riportata (X 70.4) «exemplar testamenti, quamquam m
e n d o s u m , misi tibi» –[114].
Esiste infine un passo del Digesto in cui si descrive il caso di
due originali dello stesso testamento, in ciascuno dei quali è disposto un
legato a favore della stessa persona ma di contenuto differente (Proc. 6 epist. D.31.47):
Sempronius
Nepo<s> Procul<o>[115] suo salutem. Binae tabulae
testamenti eodem tempore exemplarii causa scriptae (ut volgo fieri solet)
eiusdem patris familias proferuntur: in alteris centum, in alteris quinquaginta
aurei legati sunt Titio: quaer<o>[116],
utrum centum[117] et quinquaginta aureos an centum[118] dumtaxat habiturus sit. Proculus
respondit: in hoc casu magis heredi parcendum est, ideoque utrumque legatum
nullo modo debetur, sed tantummodo quinquaginta aurei.
Proculo
riporta il testo di una lettera speditagli da Sempronio Nepote e la sua
risposta. Nella lettera sono esposti il caso e la domanda: due esemplari di
testamento dello stesso pater familias
scritti in contemporanea[119] (come
si usava fare presso la gente comune) sono stati letti pubblicamente[120]. In
uno era stato disposto a favore di Tizio un legato di cento aurei, nell’altro
di cinquanta. Nel testo della Fiorentina (e nella versione attuale dell’editio minor) si chiede se Tizio abbia
diritto a centocinquanta aurei[121] (cioè
a entrambi i legati) o soltanto a cento[122] (cioè al legato di maggior valore):
«... quaer<o>, utrum centum et quinquaginta aureos an centum dumtaxat
habiturus sit ....».
Mommsen,
invece, suggerisce di sostituire al secondo centum
il termine quinquaginta (quaeris utrum utrum centum et quinquaginta aureos an quinquaginta dumtaxat habiturus sit)
intendendo così che l’alternativa fosse non tra centocinquanta (ambedue i
legati) e cento (legato di maggior valore), ma fra centocinquanta (tutti e due
i legati) e cinquanta (legato di minor valore).
La
versione dell’editio minor pare
tuttavia preferibile, perché è più coerente pensare che la domanda sia stata
posta nell’interesse del legatario, il quale poteva desiderare il cumulo dei
due legati (centocinquanta assi) o, tutt’al più, il legato contenente la somma
più alta (cento).
Il responsum di Proculo, al contrario, è
dichiaratamente a favore dell’erede (in
hoc casu magis heredi parcendum est): il giurista, infatti,
all’attribuzione di entrambi i legati, o quanto meno di quello di maggior
valore, preferisce il conferimento del legato di minor valore (cioè di
cinquanta aurei)[123].
Su questa base si può ora
passare a esaminare un testo problematico concernente il caso di un testamento
confezionato in più esemplari validi.
Si tratta di D.28.4.4 Pap. 6
resp.[124], ove
è riportata anche l’opinione di Paolo:
Pluribus tabulis eodem
exemplo scriptis unius testamenti voluntatem eodem tempore dominus sollemniter
complevit[125]. Si quasdam tabulas in
publico depositas abstulit atque delevit, quae iure gesta sunt, praesertim[126] cum ex ceteris tabulis quas
non abstulit res gesta declaretur, non constituentur irrita. Paulus notat: sed si, ut intestatus moreretur, incidit
tabulas et hoc adprobaverint hi qui ab intestato venire desiderant[127],
scriptis avocabitur hereditas.
Il giurista severiano presenta
qui il caso di un testatore[128] che ha
solennemente espresso le sue ultime volontà in più originali dello stesso
testamento aventi uguale contenuto e redatti simultaneamente. Dalle sue parole
(... Si quasdam tabulas in publico
depositas abstulit atque delevit ...) si ricava inoltre che, subito dopo la
confezione dell’atto, il disponente ha depositato alcuni esemplari in publico, esemplari che ha poi
asportato e cancellato.
In tal caso – osserva
Papiniano – le disposizioni assunte conformemente al diritto, soprattutto
quando il loro contenuto risulti chiaramente dalle altre tavole che egli non ha
asportato, non saranno considerate irrita.
Paolo, invece, afferma che, se
il de cuius ha reciso lo spago e i
sigilli delle tavole allo scopo di morire intestato e i legittimati a succedere
ab intestato riusciranno a provarlo,
l’eredità sarà sottratta agli eredi testamentari.
Nella complessa costruzione
del periodo iniziale, le parole «pluribus
tabulis eodem exemplo ... unius testamenti» alludono a «più esemplari» («pluribus tabulis») «dello stesso testamento» («unius
testamenti») aventi «il medesimo contenuto»[129] («eodem exemplo»). Allo stesso modo
ricordiamo che, sia in Caes., De bell.
civ. III 108 (... alterae <scil.
tabulae> eodem exemplo relictae atque obsignatae Alexandriae proferebantur)
che in Svet., De vit. Caes., Tib., III 76 (Testamentum duplex ante biennium
fecerat, alterum sua, alterum liberti manu, sed eodem exemplo, ...), già esaminati, l’espressione «eodem exemplo» alludeva al caso della redazione di due copie originali di
testamento aventi uguale contenuto.
Ma in D.28.4.4 si precisa
anche che le plures tabulae sono state
confezionate nello stesso momento: «scriptis
... eodem tempore».
È verosimile che il testamento di cui parla Papiniano fosse
efficace iure civili dal momento che,
nella descrizione iniziale della fattispecie, si usano espressioni tipiche del
linguaggio del ius civile: il de cuius, infatti, voluntatem ... s o l l e m n i t e r
complevit e le disposizioni quae i u r e
g e s t a sunt si dichiarano
non i r r i t a. Iure civili, infatti, il testamento rimane valido nonostante l’atto
eversivo perché la sua efficacia su questo piano non sta strettamente nello
scritto, ma dipende dal compimento da parte del testatore degli atti formali e
solenni previsti per il testamentum per
aes et libram. Tuttavia l’atto di eversione delle tavolette in publico depositae può rilevare sul
piano del ius honorarium ai fini
della revoca del testamento, se gli eredi legittimi (interessati a ottenere la bonorum possessio ab intestato)
riusciranno a dimostrare che il disponente ha tagliato lo spago e rotto i
sigilli[130] allo scopo di morire
intestato (... sed si, ut intestatus
moreretur, incidit tabulas et hoc adprobaverint hi qui ab intestato venire
desiderant ...)[131], cioè
avendo mutato le sue iniziali volontà. Ed è forse proprio sulla base
dell’opinione espressa da Paolo che Lenel[132] ha
scelto di collocare il passo nella parte del sesto libro dei responsa papinianei che tratta della bonorum possessio secundum tabulas[133].
È discusso in dottrina a quale luogo di deposito delle tavolette
Papiniano faccia riferimento con l’espressione «in publico»[134]; le
opinioni, al riguardo, sono state le più disparate: potrebbe trattarsi di un
tempio qualsiasi[135], di quello delle Vestali[136], di un archivio pubblico[137], di un
opistodomo[138] o, ancora, del «notaro presente a
testamento»[139]. Ma, verosimilmente, la vaghezza
dell’espressione è frutto di una scelta consapevole del giurista, cui bastava
descrivere come “pubblico” il luogo di deposito di alcune delle copie originali
del testamento, in contrapposizione a quello “privato” in cui erano forse
custodite le altre (la casa di un amico o di una persona di fiducia[140] se
non addirittura la dimora del testatore).
In effetti il problema posto dal giurista non sta tanto nel
luogo, quanto nella disciplina da applicare qualora l’ereditando asporti e
cancelli le tavole depositate in publico[141]. E,
sul punto, Papiniano pensa che le disposizioni assunte conformemente al diritto
(quae iure gesta sunt), nonostante la
condotta eversiva, non dovranno essere considerate irrita, soprattutto quando il loro contenuto (res gesta) risulti chiaramente dalle altre tavole che il disponente
non ha asportato. Paolo, al contrario, sostiene che, se gli eredi ab intestato che domandano la bonorum possessio sine tabulis (hi qui ab intestato venire desiderat) riescono
a dimostrare che il testatore ha tagliato lo spago delle tavole e rotto i
sigilli allo scopo di morire intestato, l’eredità debba essere sottratta agli
eredi scripti.
Papiniano dunque dà una risposta che si fonda sul principio del ius civile riportato da Gai II 151[142],
secondo cui sono privi di efficacia revocatoria gli atti di eversione del
testamento valido iure civili, anche
se poi è difficile provare il contenuto del testamento[143].
Infatti, se è vero che di regola la cancellazione o distruzione di un
testamento iure factum non provoca la
revoca di questo, salva tuttavia la difficoltà di provare il contenuto del supremum iudicium, così, a maggior
ragione (praesertim), nel caso in cui
siano stati cancellati soltanto alcuni esemplari validi di un testamento iure factum, il gestum per aes et libram che ha dato vita al negozio (documentato
in più copie originali) non sarà posto nel nulla (... quae iure gesta sunt, ... non constituentur irrita. ...) quando
dalle tabulae rimaste intonse è
possibile acclarare la volontà dell’ereditando solennemente manifestata (res gesta)[144]. Si
potrebbe pertanto pensare insieme a Vidal[145] che,
ad avviso di Papiniano, il deposito in
publico non attribuisca alle copie
originali un valore incontrastabile, visto che, affinché possa esistere un
testamento iure factum, bastano le
copie originali depositate presso terzi o lasciate a casa del testatore e
rimaste intatte.
Paolo, al contrario, fornisce una soluzione che si basa sul
principio del ius honorarium
riconducibile sia a Gai II 151 e
151a-prima parte[146] (come
integrata da Girard e Krüger) sia a Ulp. 44 ad ed. D.38.6.1.8[147]. In
base a tale principio, se il de cuius
ha reciso lo spago e i sigilli delle tavole[148], ha
cancellato o bruciato le tavole stesse[149] oppure
ha cambiato idea per un’altra ragione e ha voluto morire intestato[150], il pretore, che tiene conto iure honorario dei mutamenti di volontà
del testatore, concederà al successore ab
intestato, naturalmente su richiesta, la bonorum possessio sine tabulis e, qualora l’erede testamentario
esperisca l’hereditatis petitio
contro il bonorum possessor ab intestato,
il pretore accorderà a quest’ultimo un’exceptio
doli mali[151]: sarebbe infatti iniquo
consentire di conservare l’eredità a colui cui il de cuius ha voluto toglierla tranciando lo spago, cancellando o
distruggendo le tavole[152]. La bonorum possessio sine tabulis, dunque,
deve, ad avviso di Paolo, prevalere sul diritto dell’erede civile istituito nel
testamento (bonorum possessio cum re).
Il giurista, infatti, dichiara che, se hi
qui ab intestato venire desiderant riescono a dimostrare che il de cuius ha rotto i sigilli di alcuni
esemplari depositati in publico per
revocare iure honorario il
testamento, nel contrasto fra successori testamentari ed eredi legittimi, debbano
prevalere i secondi, cui quindi spetterà la bonorum
possessio sine tabulis[153] cum re (scriptis avocabitur hereditas) nonostante gli altri esemplari non
depositati in publico siano rimasti
intatti[154].
In conclusione, se esistono più esemplari di identico contenuto
del medesimo testamento valido utroque
iure e il testatore ha compiuto atti eversivi soltanto su quelli depositati
in publico, secondo Papiniano tali
atti di eversione, in quanto attuati dopo il perfezionamento del testamento,
sono iure civili irrilevanti, secondo
Paolo essi revocano il testamento iure
honorario nella misura in cui attestino un mutamento di volontà da parte
del de cuius.
Questa è la spiegazione del testo a mio parere più immediata e
convincente. Bisogna cionondimeno ricordare che, sin da Mühlenbruch[155], è
emersa in dottrina[156] l’idea
che, nella seconda parte del frammento che riporta il responso di Paolo, si
alluda propriamente a un caso di indegnità degli eredi istituiti: il verbo avocabitur sarebbe evocativo, infatti,
dell’azione del fisco che “toglie” agli heredes
scripti l’eredità.
Tuttavia, come notato anche da Nardi[157], non
soltanto mancano attestazioni nelle fonti di espressioni tecniche in materia di
indegnità, ma lo stesso verbo avocare
nemmeno rientra fra le locuzioni più ricorrenti in tema di indegnità.
Questa dottrina basa essenzialmente il proprio assunto su Gai II 151 e 151a:
151 [158].
Potest ut iure facta testamenta contraria uoluntate infirmentur. Apparet
<autem> non posse ex eo solo infirmari testamentum, quod postea testator
id noluerit ualere, usque adeo, ut si linum eius inciderit, nihilo minus iure
ciuili valeat. Quin etiam si deleuerit quoque aut combusserit tabulas
testamenti non ideo nihilo minus <non> desinent ualere quae ibi fuerunt
scripta, licet eorum probatio difficilis sit. 151a[159]. Quid ergo est? Si quis ab intestato
bonorum possessionem petierit et is, qui ex eo testamento heres est, petat
hereditatem, per exceptionem doli mali repelletur; si uero nemo ab intestato
bonorum possessionem petierit, populus scripto heredi quasi indigno auferet
hereditatem, ne ullo modo ad eum quem testator heredem habere noluit perueniat
hereditas; et hoc ita rescripto imperatoris Antonini significatur.
Tuttavia, a ben vedere, i due paragrafi si limitano ad affermare
che, qualora il de cuius rompa i
sigilli, cancelli o bruci il supporto scrittorio del proprio testamento e non
vi siano heredes ab intestato intenzionati
a reclamare la bonorum possessio sine
tabulis, in base a un rescritto (secondo la dottrina prevalente) di Antonino
Pio[160],
l’erario toglierà l’eredità all’heres
scriptus «quasi indigno», cioè
«come se fosse indegno»[161]. Il
testo mostra quindi una mera estensione della disciplina dell’indegnità a
questa fattispecie, non l’attribuzione della qualifica di indegno al successore
ex testamento.
Si ricordi poi che la seconda parte di Gai II 151a, in cui è sancita tale estensione del regime
dell’indegnità, è in verità il frutto di una integrazione degli editori (Girard
e Krüger), integrazione peraltro non
accolta da tutti i sostenitori della tesi qui criticata[162].
In ogni caso, le fattispecie descritte da Gai II 151a e D.28.4.4 sono totalmente diverse. Nel primo
l’avocazione da parte dell’erario dell’hereditas
della persona istituita erede in un testamento dissigillato, cancellato o
totalmente bruciato dal de cuius
presuppone la mancanza di successori ab
intestato che chiedano la bonorum
possessio sine tabulis. Nella nota di Paolo, al contrario, si dice che l’eredità
sarà tolta agli eredi testamentari se gli eredi legittimi, domandando la bonorum possessio ab intestato, dimostreranno
che il testatore ha rotto i sigilli con l’intento di revocare l’atto.
D’altronde, Voci[163], uno
dei principali esponenti della dottrina qui criticata, pur riferendo il caso di
D.28.4.4 alla fattispecie dell’indegnità, non solo non condivide l’integrazione
del § 151a proposta dagli editori[164], ma è
anche dell’opinione che il testamento di cui in D.28.4.4 sia valido soltanto iure honorario: il che, a ben vedere,
pare in contrasto con quanto si legge in Gai
II 151 e la seconda parte del § 151a[165], e
cioè che l’estensione del regime dell’indegnità alla fattispecie della rottura
dei sigilli, cancellazione o distruzione delle tabulae da parte del de cuius
post consummationem testamenti
presuppone la validità iure civili
del testamento stesso. Questo Autore[166]
peraltro nota tale differenza ma, non volendo rinunciare all’idea che D.28.4.4
riguardi un caso di indegnità, è costretto a proporre una serie di complessi
artifici interpretativi a mio parere inaccettabili. Queste le sue parole al
riguardo[167]: in D.28.4.4 «si tratta di
un testamento pretorio, la cui validità si conserva per le circostanze
eccezionali del caso»; «Può ritenersi che tra Papiniano e Paolo sia intervenuta
qualche costituzione imperiale» simile a quella di Alessandro Severo[168] che
statuiva l’indegnità «in una ipotesi, in cui si può trattare anche di
testamento pretorio ...».
Si rileva tuttavia che la suddetta costituzione di Alessandro Severo,
contenuta in C.6.35.4 [169],
prevede un caso di indegnità fondato su una dichiarazione contenuta in un
codicillo, non in un testamento valido iure
honorario:
Idem
[Imp. Alexander] A. Philomuso. Hereditas in testamento data per epistulam vel
codicillos adimi non potuit. Quia tamen testatrix voluntatem suam non mereri
unum ex heredibus declaraverat, merito eius portio non iure ad alium translata
fisco vindicata est. Libertates
autem in eadem epistula datae peti poterunt. PP ii
Dec. Maximo
ii et Aeliano conss. [a. 223 d.C.]
Qui, infatti,
Alessandro Severo, dopo aver premesso che l’eredità lasciata per testamento non
può essere tolta né per lettera né con un codicillo, con riguardo al caso
sottoposto al suo esame afferma che, nonostante la testatrice abbia espresso al
di fuori del testamento (forse in una lettera o in un codicillo)[170]
la volontà di togliere l’eredità a uno degli istituiti, la quota di costui non
accrescerà quelle degli altri eredi ma sarà a buon diritto rivendicata dal
Fisco[171].
[Per la pubblicazione degli articoli della
sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] E. Champlin,
Creditur Vulgo Testamenta Hominum Speculum Esse Morum: Why the Romans Made Wills, in Classical
Philology, LIIIIV, 3 (1989), 209 e nt. 44; Id.,
Final Judgments. Duty and Emotions in
Roman Wills, 200 b.c.-a.d. 250, Berkeley-Los
Angeles-Oxford 1991, 21 e nt. 71 (ma cfr. anche 61 s., 64 ss. – in part. 67 e nt. 6 –, 70, 75, 81), 183.
[4] Cfr. però Amelotti,
Le forme classiche, cit., I, 12 e nt.
2, che, basandosi su altre fonti, ricorda che nell’ultimo testamento Antonio
compare tra i sostituti, insieme a Decimo Bruto, uno dei congiurati.
[6] Champlin, Final Judgments,
cit., 67 nt. 6, ipotizza dal 59 al 49 a.C. il
testamento in cui era istituito erede Pompeo; così, a suo avviso, si dovrebbe
presumere l’esistenza di un terzo testamento, fra il 49 e il 45 a.C., e di
almeno un altro confezionato prima del 59. Amelotti,
Le forme classiche, cit., I, 12 e nt.
2, invece, basandosi anche su altre fonti, ritiene che in tutto i testamenti di
Cesare furono due.
[8] G. Rotondi, Leges publicae populi Romani. Elenco
cronologico con una introduzione sull’attività legislativa dei comizi romani.
Estratto dall’Enciclopedia Giuridica Italiana, Hildesheim 1966, 340 s.
[10] Giacché Metello è dalla parte di Archia, esiste comunque il
sospetto che i registri siano stati falsificati al momento della compilazione
dell’iscrizione di Archia. Inoltre, Marco Lucullo, sotto la cui protezione si
trova Archia al momento del processo, e i legati di Eraclea che, dopo quasi
trent’anni dall’iscrizione del poeta nei registri, si presentano come testimoni
pronti a confermare con le loro dichiarazioni l’iscrizione di Archia nei
registri andati perduti della città della Lucania, rischiano di essere
considerati testimoni compiacenti.
[12] La testamentifactio
passiva spetta soltanto ai cives Romani
e, se Archia non fosse stato tale, non avrebbe potuto accettare le eredità a
lui devolute da altri cives Romani.
[13] Archia rientra nella lista che contiene il rendiconto delle
spese affrontate dal proconsole durante la guerra contro Mitridate a favore dei
suoi comites (di regola i magistrati,
entro sessanta giorni dalla cessazione delle operazioni militari o delle loro
amministrazioni, dovevano presentare questa lista all’erario ai fini del
rimborso). La presenza del nome del poeta in questo documento prova, secondo
Cicerone, che costui era considerato cittadino romano al momento della
redazione del rendiconto.
[14] Impresa in cui peraltro riusciranno: cfr. Petr., Sat., CXXIV e CXXV. Sulla piaga dei
cacciatori di eredità cfr. J. Michel,
Gratuité en droit romain, Bruxelles
1962, 563 s.; Champlin, Creditur
Vulgo, cit., 211 s.; Id., Final Judgments, cit., 19, 24 s., 87
ss., 201 s.; Mart., Epigr. lib., IV
56.
[15] L’indicazione della metà del mese è verosimilmente dovuta al
fatto che «in quella scadenza si procedeva alla riscossione del denaro dato in
prestito e a una sorta di bilancio consuntivo» (Petronio, Satiricon. Introduzione, traduzione e note di G. Reverdito, 8a ed,
Milano 2012, 299 nt. 237.
[16] Anche in Epigramm., X
8, Marziale si presenta come captator:
egli spiega infatti che Paola, una donna anziana, vorrebbe sposarlo, ma lui non
vuole perché ella non è abbastanza vecchia da lasciargli presto, morendo, il
proprio patrimonio (del resto, negli
Epigrammi, compare
spesso la figura del captator, che corteggia ricchi anziani privi di
prole, puntando all’eredità, oppure vedove abbienti, confidando in un
matrimonio vantaggioso: tra i numerosi componimenti
incentrati sulla figura del captator,
cfr., ad es., VI 63, ove il poeta rimprovera Mariano di essersi lasciato
incantare dai doni di un avido individuo, al punto da istituirlo suo unico
erede, il quale in realtà mirava soltanto al suo testamento; VIII 27, in cui si
afferma che chi fa dei doni a Gauro, che è ricco e anziano, in realtà è come se
dicesse a costui: «Muori»; I 10, in cui Gemello desidera sposare Maronilla,
sebbene molto brutta, perché è gravemente malata e dunque destinata a morire
presto lasciando al futuro marito il proprio patrimonio; II 65, in cui Marziale
si prende gioco di Saleiano, apparentemente triste per la morte della ricca
Secondilla, in realtà felice in vista dell’eredità che otterrà). In Epigramm.,
IV 56, il poeta, che mostra spesso se stesso come privo di mezzi di
sussistenza, incita Gargiliano a elargire doni a lui, rinunciando alla propria
grettezza e ai tentativi sfacciati di abbindolare anziani e vedove. Sulla figura di Marziale, poeta cliente che non ha altro mezzo di
sussistenza se non le liberalità dei ricchi patroni cui di volta in volta si
rivolge per ottenere «sussidi necessari all’esistenza», cfr. C. Marchesi, Disegno storico della letteratura latina, 7a ed., Milano 1975, 235
ss.
[17] Saepius, nella stessa
funzione di comparativo assoluto, si trova anche in Ulp. 68 ad ed. D.43.5.1.6, che si esaminerà oltre, nel testo.
[18] Cfr. G. Pugliese,
La preuve dans le procès romain de
l’époque classique, in Recueils de la
Société Jean Bodin 16. La preuve (Bruxelles 1964), 334
[ora in Scritti giuridici scelti I.
Diritto romano, Napoli 1985, 398]; FORCELLINI, tom. iv, Bononiae 1965, s.v.
Tabula, 652.
[19] Sull’aspetto esteriore e conformazione delle tabulae cfr. M. Amelotti, Il
testamento romano attraverso la prassi documentale. Le forme classiche di
testamento, I, Firenze 1966, 173 ss.; G.I. Luzzatto,
voce “Tabulae”, in Novissimo Digesto Italiano, XVIII, Spi -
Ten, Torino 1971, 1019 s.; L. Bove,
Le tabulae ceratae, in Atti del XVII Congresso internazionale di
papirologia (Napoli, 19-26 maggio 1983), Napoli 1984, 1189 s.; G. Cavallo, Gli usi della cultura scritta nel mondo romano, in Princeps urbium, cultura e vita sociale
dell’Italia romana, iia ed.,
Milano 1993, 172 ss.; E.A. Meyer, Legitimacy and Law in the Roman World. Tabulae in Roman
Belief and Practice, Cambridge 2004, 22, 24 ss.;
F. Reduzzi Merola, Forme non convenzionali di dipendenza nel mondo
antico, 2a ed. ampl., Napoli 2010, 50 s. Come si sottolinea in Inst. 2.10.12, Nihil autem interest, testamentum in tabulis an in chartis membranisve
vel in alia materia fiat; analogo concetto si trova espresso in Paul. Sent. IV 7.6 in fine (... Tabularum autem appellatione chartae
quoque et membranae continentur); D.29.3.2.2 Ulp. 50 ad ed. (Ad causam autem testamenti pertinere videtur id quodcumque quasi ad
testamentum factum sit, in quacumque materia fuerit scriptum, quod contineat
supremam voluntatem: ...); D.37.11.1 pr.
Ulp. 39 ad ed. (Tabulas testamenti accipere debemus omnem materiae figuram: sive igitur
tabulae sint ligneae sive cuiuscumque alterius materiae, sive chartae sive
membranae sint vel si corio alicuius animalis, tabulae recte dicentur).
[20] Anche secondo L. Bove,
Documentazione privata e prova: le
«tabulae ceratae», in Labeo. Rassegna
di diritto romano, 31 (1985), 162, il polittico è «di norma usato per i testamenta». Un esempio illustre di
polittico «meravigliosamente intatto» (Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 174) appartenente alla prassi testamentaria dell’Oriente romanizzato
è, com’è noto, il testamento di Antonio Silvano, su cui cfr., fra gli altri, M.
Talamanca, voce Documento e documentazione (dir. rom.),
in Enciclopedia del diritto, XIII,
Dis – Dopp, Milano 1964, 549 e nt. 7; Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 38 s.; Bove, Le tabulae, cit., 1191; Champlin, Final Judgments, cit., 54, 78, passim; S. Schiavo,
Il falso documentale tra prevenzione e
repressione. Impositio fidei. Criminaliter agere civiliter agere, Milano
2007, 9 nt. 27.
[22] Cfr. già C. F. Mühlenbruch,
in C. F. Glück, Commentario alle Pandette (trad. e annot.
da A. Ascoli), XXVIII, Parte terza, Milano 1903, 315 nt. 46.
[23] Cfr., sul punto, Champlin,
Final Judgments, cit., 76 s. La stessa esigenza di precostituzione di un mezzo di prova è
avvertita anche nell’ambito dei negozi inter
vivos, come ricorda Bove, Le tabulae, cit., 1195 ss.; Id., Documentazione privata, cit., 167; Id., voce Documento (Storia del
diritto), in Digesto delle Discipline
Privatistiche. Sezione Civile, VII, Torino 1991, 20.
[25] L. De Sarlo, Il documento oggetto di rapporti giuridici
privati. Studio di diritto romano. Con prefazione del prof. S. Cugia,
Firenze 1935, 82 e nt. 2; contra C.
F. Mühlenbruch, in C.F. Glück, Commentario alle Pandette (trad. e annot. da A. Ascoli), XXVIII,
Parte prima, Milano 1900, 418, secondo cui in questo testo exemplum sarebbe utilizzato impropriamente al posto di exemplar e che (416) è dell’avviso che
le parole codices, tabulae testamenti, exemplaria
siano «espressioni equivalenti» che alludono a più esemplari validi dello
stesso testamento. Si ritiene tuttavia che questi termini assumano un diverso
contenuto a seconda del contesto, come si cercherà di dimostrare in occasione
dell’esegesi delle fonti in questo e nei successivi paragrafi.
[26] Cfr. anche Theoph. II
10.13, su cui cfr. Mühlenbruch, in
Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte prima, 417.
[28] Nella stessa accezione il sostantivo codex è ad es. impiegato in Svet., De vit. Caes., Div. Aug., II 101 (Testamentum ... factum ab eo
ac duobus codicibus partim ipsius partim libertorum Polybi et Hilarionis manu
scriptum ...). De Sarlo, Il documento, cit.,
36, afferma che in Inst. 2.10.13 con
il plurare codices si allude ai
«documenti, ciascuno autonomo e di per sé completo», su cui chiunque può
redigere il proprio testamento per tutelarsi dalla perdita di uno di quelli.
[30] P. Degni, Usi delle tavolette lignee cerate nel mondo
greco e romano, Messina 1998, 37 s. Le tabulae
«potevano essere riunite insieme con apposite cerniere sul lato più lungo» (M. Amelotti, Le forme classiche di testamento I. Lezioni di Diritto romano raccolte da Remo Martini, Torino 1966,
14; cfr. anche, sul punto, Cavallo,
Gli usi della cultura, cit., 191).
[31] Meyer, Legitimacy and Law,
cit., 22. Cfr. Sen., De Brev. Vit., XIII 4:
Hoc quoque quaerentibus
remittamus, quis Romanis primus persuaserit nevem conscendere – Claudius is fuit, Caudex ob hoc ipsum
appellatus, quia p l u r i u m t a b u l a r u m c o n t e x t u s c a u d e x
apud antiquos v o c a b a t u r
, undae publicae tabulae codices
dicuntur et naves nunc quoque ex
antiqua consuetudine, quae commeatus per Tiberim subvehunt, codicariae vocantur
–.
[32] Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 174 e nt. 2; Id., Le forme classiche, cit., I, 14.
[33] Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 174 e nt. 2; Id., Le forme classiche, cit., I, 14.
[34] Sul testamento di Dasumio cfr., in particolare, Talamanca, voce Documento, cit., 549 e nt. 3; Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 17 e nt. 4; Fontes iuris Romani
antejustiniani in usum scholarum, III, Florentiae 1940 (rist. Florentiae
1968), 133; V. Giuffrè, Documenti testamentari romani, Milano
1974, 7; L. Migliardi Zingale, Le forme classiche di testamento.
Supplemento al corso di Diritto romano del prof. Mario Amelotti, Torino
1984, 33 ss.; Champlin, Final Judgments, cit., 37, 91, 198, passim.
[35] Sul testamento del «cittadino romano appartenente alla nazione
dei Galli Lingoni» cfr. Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 19; Champlin, Creditur Vulgo, cit., 214; Id., Final
Judgments, cit., 26 s.
[36] G. Bortolucci, Corn. Frontone, Ep. ad Marcum Caes. 1.6 e la
‘dilatio instrumentorum vel personarum gratia’, in Studi in onore di Salvatore Riccobono nel xl anno del suo insegnamento, II, Palermo 1936, 440, giudica
«brillante» «la dimostrazione dei pericoli di far navigare con le merci i
testamenti» contenuta nell’oratio de
testamentis transmarinis.
[37] Cfr. G. Boyer,
Reflexions sur l’oratio de testamentis
transmarinis de M. Cornelius Fronto (Ep. ad Marcum Caesarem et invicem I.6),
in Mélanges dédiés a M. le Professeur
Joseph Magnol, Doyen Honoraire de la Faculté de Droit de Toulouse, Paris
1948, 22; cfr. anche Bortolucci, Corn. Frontone, cit., 437 nt. 6; F. Portalupi (a cura di), Opere di Marco Cornelio Frontone,
Torino 1997, 13.
[38] Sul contenuto dell’epistula
e sull’interpretazione in chiave giuridica del caso giudiziario cui l’oratio si riferisce, cfr., in
particolare, H.E. Dirksen, Beitrag zur Auslegung
einiger Stellen in des «Corn. Fronto» Reden und Briefen, in Hinterlassene
Schriften zur Kritik und Auslegung der Quellen römischer Rechtsgeschichte und
Alterthumskunde, I, Leipzig 1871, 243 ss.; Bortolucci,
Corn. Frontone, cit., 433 ss.; Boyer, Réflexions, cit., 21 ss.; Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 36 s.; Id., Le forme classiche, cit., I, 12; F. Arcaria, Oratio Marci. Giurisdizione e processo nella normazione di Marco
Aurelio, Torino 2003, 179 s. nt. 99 (con ampia bibliografia); Id., Per
la storia dei testamenti pubblici romani: il «testamentum apud acta
conditum» ed il «testamentum principi
oblatum», in Studi per Giovanni Nicosia,
I, Milano 2007, 181 nt. 51
[40] Bortolucci, Corn. Frontone, cit., 437; Boyer, Réflexions, cit., 27; Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 36.
[41] Sul problema dell’identificazione esatta del luogo geografico
cui il termine Asia si riferisce in
Front., Ep. ad M. Caes., I 6.4 e 6,
cfr. Boyer, Reflexions, cit., 27.
[42] Bortolucci, Corn. Frontone, cit., 437; Boyer, Réflexions, cit., 27; Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 36.
[43] La dottrina prevalente (Boyer,
Réflexions, cit., 24; Dumont,
Le testament, cit., 87 s.; Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi, cit., I, 36; Id., Le
forme classiche, cit., I, 12) ritiene che l’orazione sia stata pronunciata
davanti ad Adriano fra il 136 e il 138 d.C.; contra Dirksen, Beitrag, cit., 277; Bortolucci, Corn. Frontone, cit., 438 s.
[45] Cfr., sul punto, Champlin, Creditur Vulgo, cit., 202, 211; Id., Final
Judgments, cit., 24; Meyer, Legitimacy and Law, cit., 41 s.
[46] Cfr.
la ben diversa traduzione di R. Faranda
in Detti e fatti memorabili di Valerio
Massimo, Rist., Torino 1987, 591: «Parimenti Pompeo Regino, transalpino di
nascita, ... dopo aver letto ... le sue due tavole testamentarie ...».
[47] Cioè nel tempio di Saturno, ove i Romani erano soliti depositare
documenti come foedera, pactiones, testamenta, ad avviso di N.L. Achaintre
et N.E. Lemaire in Caius Julius Caesar ad codices Parisinos
recensitus cum varietate lectionum Julii Celsi commentariis tabulis
geographicis et selectissimis eruditorum notis quibus suas adjecerunt N.L.
Achaintre et N.E. Lemaire, II, Parisiis 1820, 327. Più di cent’anni prima
una copia originale di un altro testamento, quello di Tolomeo VIII (o VII)
Evergete II, in cui questi lasciava in eredità al popolo romano il proprio regno
(la Cirenaica), era stata inviata a Roma (cfr. D. Braund, Royal Wills
and Rome, in Papers of the British
School at Rome, 51 (1983), 16 ss.).
[48] Secondo H. Vidal,
Le dépôt in aede, in Revue historique de droit français et
étranger, 4e Série-XLIII (1965), 550, con le parole propter publicas occupationes si intenderebbe la guerra civile. Ad avviso di Braund, Royal Wills,
cit., 33, il richiamo sarebbe alla fine degli anni ’50 del I sec. a.C., «after
Aulete’s restoration through Gabinius in 55 b.c.
and before his death in 51 b.c.,
though the possibility of an earlier date cannot be excluded». Ad avviso di Braund (33), premesso che la collocazione del
testamento del faraone nell’aerarium
richiede prima l’autorizzazione del senato, è probabile che all’arrivo a Roma
del documento il senato sia troppo impegnato per occuparsi della questione. Una
volta che il testamento viene consegnato nelle mani di Pompeo, prosegue Braund
(33), l’esigenza di collocare l’atto nell’erario si riduce se non addirittura
viene meno. D’altronde, conclude questo Autore (33), Pompeo è a Roma il grande
sostenitore di Aulete, il che spiega perché il testamento sia depositato presso
Pompeo stesso in mancanza di meglio.
[49] L’interpretazione che qui si propone del tratto alterae eodem exemplo relictae atque
obsignatae Alexandriae proferebantur si discosta un poco ad es. dalla
traduzione di Bruno (in Caio Giulio Cesare,
La guerra civile, Milano 2000, 379), «la seconda copia, identica alla prima
e con il sigillo di autenticità, era rimasta ad Alessandria, esposta in
pubblico».
[50] Come sottolineano De Sarlo,
Il documento, cit., 69; Bove, Le tabulae, cit., 1190; Id.,
Documentazione privata, cit., 162; Id., voce Documento, cit., 18, con la parola tabulae si allude direttamente al testamento.
[53] «Eodem exemplo» nel
medesimo significato si trova anche in Svet., De vit. Caes., Tib., III 76: Testamentum duplex ante biennium
fecerat, alterum sua, alterum liberti manu, sed eodem exemplo, ... . Cfr.
la voce exemplum del TLL.
[54] Sul significato politico e sul contenuto di questa disposizione
cfr. in particolare Braund, Royal Wills, cit., 34, il quale ritiene che
nel testamento di Tolomeo Aulete il popolo romano sia nominato tutore degli
eredi e che in questo ruolo rientri anche la funzione di garante
dell’esecuzione delle ultime volontà testamentarie del faraone defunto. Cassio
Dione, nella sua Storia romana, XLII
35.5, dice espressamente che nel testamento di Tolomeo Aulete era stabilito che
il figlio Tolomeo XIII e Cleopatra VII convivessero secondo le tradizioni
egiziane e governassero insieme sotto la tutela del popolo romano. Sulla nomina
di Pompeo come tutore da parte del senato e sui fatti successivi a tale nomina
cfr. Braund, Royal Wills, cit., 34 s.
[55] Cfr. già E. Otto, Thesaurus Juris Romani continens rariora
meliorum interpretum opuscula, In quibus Jus Romanum emendatur, explicatur,
illustratur; Itemque classicis aliisque Auctoribus haud raro lumen accenditur
cum praefatione Everardi Ottonis, Tom. ii,
2a ed., Traiectum ad Rhenum 1733, 1381 s.; Mühlenbruch,
in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte prima, 416 s.; Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi, cit., I, 15 e nt. 4; Id., Le
forme classiche, cit., I, 9. Ritengono invece che nel passo di Svetonio
l’ablativo duobus codicibus alluda
«probabilmente» a «una tavoletta bivalve» F.
Citti-A. Ziosi, «Diptycha ex
ebore»: osservazioni per uno studio lessicale, in Eburnea Diptycha. I dittici d’avorio tra Antichità e Medioevo, a
cura di M. David, Bari 2007, 52.
[56] Cfr. Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 15 e nt. 4; Id., Le forme classiche, cit., I, 9; E. Champlin, The Testament of Augustus, in Rheinisches Museum für Philologie, 132 (1989), 155 nt. 4, che cita in questo senso E. Hohl, Zu den Testamenten des Augustus, in Klio, 30 (1037), 323 ss.; la traduzione di F. Dessì in Svetonio,
Vite dei Cesari, I, 12a ed., 2001,
301; contra L. Homo, Augusto 63 a.C.-14 d.C. (trad. it. di M. Bacchelli), Firenze 1938,
320, il quale afferma che il 3 aprile (il terzo giorno delle none di aprile)
«Augusto diede l’ultimo ritocco al suo testamento, a cui aggiunse due codicilli,
scritti in parte di proprio pugno, in parte di mano dei suoi liberti Polibio e
Ilarione».
[57] Per la verità, Dio, Storia
romana, LVI 33, parla di quattro allegati che dopo la lettura del
testamento di Augusto sarebbero stati portati in senato e ivi letti da Druso.
Sul testamento di Augusto e i documenti supplementari allegati cfr. Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi, cit., I, 15 s. e nt. 4; Id., Le
forme classiche, cit., I, 9; Champlin,
The Testament, cit., 154 ss., 163
ss.; Id., Final Judgments, cit., 170 s. Mentre Amelotti, Testamento
romano attraverso la prassi, cit., I, 15 nt. 4, 16, definisce genericamente
«allegati» i rotoli di cui parlano Svetonio e Cassio Dione, Champlin, The Testament, cit., 163 e nt. 38, considera questi documenti come
veri e propri codicilli testamentari confermati.
[58] Cfr. anche Dio, Storia
romana, LVI 32. Sul deposito del testamento di Augusto presso le Vestali
cfr. Vidal, Le dépôt, cit., 551 e nt. 42; Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 15; Id., Le forme classiche, cit., I, 9.
[59] Come quelli, ad es., intercorsi tra Ottaviano e Antonio,
successivi alla battaglia di Filippi, o le tavolette su cui sono redatte le
decisioni dei veterani relative a tali accordi e quelle in cui è scritto il
nuovo patto concluso da Ottaviano e Antonio con Sesto Pompeo a Misene (cfr., al
riguardo, Dio, Storia romana, XLVIII
12, 32, 37; F. Dumont, Le testament d’Antoine, in Droits
de l’antiquité et sociologie juridique. Mélanges H. Lévy-Bruhl, Paris 1959,
87; S. Toso, Fabulae Graecae. Miti greci nelle gemme romane del I sec. a.C.,
Roma 2007, 14; D. Mattiangeli, I privilegi giuridici delle Vestali e
l’utilizzo sociale e politico di una funzione “religiosa”, in Liber Amicorum David Pugsley, Bruxelles
2013, 31).
[60] Cfr. V. Arangio-Ruiz,
La successione testamentaria secondo i
papiri greco-egizi, Napoli 1906, 242 e nt. 1; Dumont, Le testament,
cit., 87 s.; Vidal, Le dépôt, cit., 550 ss.; Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi, cit., I, 183 s. (e
bibliografia citata nella nt. 2); Id.,
Le forme classiche, cit., 241; Id., Testamento
e donazione mortis causa, in Scritti
giuridici, a cura di L. Migliardi Zingale, Torino 1996, 408; Champlin, Final Judgments, cit., 76 s.; Meyer,
Legitimacy and Law, cit., 42; Arcaria, Per la storia dei testamenti, cit., 401.
[62] Cfr. anche, al riguardo, Amelotti,
Testamento, cit., 403; Id., Le
forme classiche, cit., I, 7 ss.
[63] Cfr. Svet., De vit. Caes.,
Div. Iul., I 83 (Postulante ergo
Lucio Pisone socero, testamentum eius aperitur recitaturque in Antoni domo,
quod Idibus Septembribus proximis in Lauicano suo fecerat demandaueratque
uirgini Vestali maximae ...); Dumont,
Le testament, cit., 87 nt. 2, ricorda
tuttavia che App., De bell. civil.,
II 135, indica il patrigno Pisone come depositario esclusivo del testamento di
Cesare.
[64] Cfr. Plut., Ant., 58.5-8; più generici, invece, sul
punto sono Svet., De vit. Caes., Div.
Aug., II 17, che parla del deposito del testamento di Antonio a Roma: ... testamentum, quod is [scil. M. Antonius] Romae ... reliquerat, ..., e Dio, Storia romana, L 3.3, che allude al deposito di questo testamento
senza tuttavia indicare il depositario.
[66] Dio, Storia romana,
LIX 1 (testamento di Tiberio); LXI 1; Tac.,
Ann., XII 69 (testamento di
Claudio).
[69] F F. Guizzi, Aspetti giuridici del sacerdozio romano. Il
sacerdozio di Vesta, Napoli 1968, 182, 183 nt. 75; L. Sanz Martín,
La maternidad y el sacerdocio femenino:
excepciones a la tutela perpetua de la mujer en Roma, in Anuario Jurídico y Económico Escurialense,
44 (2011), 21 e nt. 30; Mattiangeli,
I privilegi giuridici delle Vestali,
cit., 30, parla di «purezza» e «credibilità» delle Vestali, come cause
giustificatrici del ruolo «quasi “notarile” di queste sacerdotesse». Cfr. anche J. Marquardt,
Le culte chez les Romains, tom. i, in
Manuel des antiquités romaines,
tom. xiie, Paris 1889, 261 s. e
note 2 e 3; Id., Le culte chez les Romains, tom. iie, in Manuel des antiquités romaines, tom. xiiie, Paris 1890, 26 s.
[70] Plut., Ant., 58.5-8; ma cfr. anche Svet., De vit. Caes., Div. Aug., II 17;
Dio, Storia romana, L 3.
[71] Cfr., sul punto, Dumont,
Le testament, cit., 89, 103; Champlin, Creditur Vulgo, cit., 202,
208; Id., Final Judgments, cit., 10, 20; Toso,
Fabulae, cit., 14; Mattiangeli, I privilegi giuridici delle Vestali, cit., 31.
[73] Cfr. Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 15; Id., Le forme classiche, cit., I, 9. Nella
narrazione di Svet., De vit. Caes., Tib., III 23, è Tiberio che convoca il
senato e dà ordine a un liberto di leggere il testamento di Augusto.
Diversamente, secondo Dio, Storia romana,
LVI 32, sarebbe stato Druso a ricevere il testamento dalle Vestali e a portarlo
nella Curia dove questo sarebbe stato letto da coloro i quali avevano sigillato
l’atto, previo esame da parte dei medesimi dei sigilli; tuttavia, subito dopo,
Cassio afferma che le disposizioni testamentarie di Augusto vennero lette dal
liberto Polibio. Dal canto suo, Tac., Ann., I 8, si limita a riferire che
nella prima adunanza del senato dopo la morte di Augusto Tiberio stabilì che
l’unico argomento da trattare fossero le estreme onoranze ad Augusto, il cui
testamento – precisa l’Autore – venne portato dalle Vestali.
[75] Svet., De vit.
Caes., Aug., II 101. Sul punto
cfr. Champlin, Creditur Vulgo,
cit., 206; Id., Final Judgments, cit., 17.
[76] Svet., De vit.
Caes., Aug., II 101. In questa rubrica Svetonio precisa anche che, oltre a tutte
queste disposizioni, Augusto vietò che le due Giulie, rispettivamente figlia e
nipote, fossero tumulate insieme a lui nello stesso sepolcro. Sul contenuto del
testamento di Augusto cfr. anche Tac., Ann., I 8; Dio, Storia romana,
LVI 32.
[77] Svet., De vit.
Caes., Aug., II 101. Nella narrazione di Dio, Storia
romana, LVI 33, il quarto documento supplementare avrebbe contenuto ordini e
raccomandazioni per Tiberio e il senato. Cfr., sul
punto, Homo, Augusto, cit., 321 s.; Braund,
Royal Wills, cit., 18.
[80] Thesaurus, cit., V-Pars altera, E, s.v. Exemplum, col. 1350; Forcellini, cit., tom. ii, s.v.
Exemplum, 348.
[82] Svet., De vit.
Caes., Tib., III 76. Per il mondo
greco un esempio di testamento redatto in più validi esemplari è quello di
Teofrasto (371 a.C.-287 a.C.), allievo di Aristotele. Ne parla Diogene Laerzio
nelle Vite e dottrine dei più celebri
filosofi V 57 inerente al deposito del testamento del filosofo. Diogene Laerzio informa qui
che tre originali del testamento di Teofrasto, sigillati in questo modo, furono
depositati, uno nelle mani di Egesia al cospetto dei testimoni Callippo di
Pallene, Filomelo di Euonimea, Lisandro di Iba, Filone di Alopece, un altro
presso Olimpiodoro in presenza degli stessi testimoni appena citati, il terzo
nelle mani di Adimanto per il tramite del figlio Androstene con testimoni
Arimnesto figlio di Cleobulo, Lisistrato figlio di Fidone di Taso, Stratone
figlio di Arcesilao di Lampsaco, Tesippo figlio di Tesippo del demo Ceramei,
Dioscuride figlio di Dionisio del demo Epicefisia.
[83] Sia sul piano del ius
civile, sia su quello del ius
honorarium perché si tratta di tabulae
che il de cuius non ha ufficialmente
presentato come proprie tramite nuncupatio
«alla vista e al sigillo dei testimoni»: esse, per questa ragione, «non sono un
testamento» (le parti fra virgolette sono tratte da Amelotti, Il
testamento romano, cit., 170). Così già Otto,
Thesaurus Juris Romani cit., 1382; P.
Voci, Diritto ereditario romano. Parte speciale. Successione ab intestato.
Successione testamentaria, II, 2a ed. rif., Milano 1963, 82. Cfr. il § 5b.
del presente contributo.
[87] Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 16 nt. 5, 171 nt. 1. Sul
senatoconsulto Neroniano cfr. H. Erman,
La falsification des actes dans
l’antiquité, in Mélanges Nicole.
Recueil de mémoires de philologie classique et d’archéologie offerts à Jules
Nicole, professeur à l’Université de Genève à l’occasion du XXXe anniversaire
de son professorat. Avec un portrait, 19 vignettes et 20 planches, Genève 1905, 116 ss.; Pugliese, La preuve, cit., 336 ss.; Bove, Documentazione privata, cit., 157 s.; Id., voce Documento, cit., 18; Degni, Usi delle tavolette, cit., 51; Meyer,
Legitimacy and Law, cit., 163 ss.; Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi, cit., I, 177 ss.; Id., Le
forme classiche, cit., I, 227 ss.; Id.,
Genesi del documento e prassi negoziale,
in Scritti giuridici, a cura di L.
Migliardi Zingale, Torino 1996, 176; Id.,
Testamento, cit., ibidem, 408; Id., Prassi
testamentaria e diritto romano, ibidem,
441; G. Camodeca, Dittici e trittici nella documentazione
campana (8 a.C.-79 d.C.), in Eburnea
Diptycha. I dittici d’avorio tra Antichità e Medioevo, a cura di M. David,
Bari 2007, 100 ss.; Schiavo, Il falso documentale, cit., 9 s. nt. 28
(e bibliografia ivi indicata); Reduzzi
Merola, Forme non convenzionali,
cit., 52; F. Scotti, Il testamento
nel diritto romano. Studi esegetici, Roma 2012, 391 ss. (e bibliografia
essenziale ivi segnalata).
[88] Tra le varie disposizioni è prevista l’erezione di un monumento
funebre a cura dell’amico Abinna, al quale Trimalcione, dopo la recitatio dell’exemplar testamenti,
spiega quali caratteristiche dovrà avere l’opera. Sul punto cfr. Champlin, Final Judgments, cit., 173 s. Sul contenuto del testamento di
Trimalcione cfr. Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 16; Id., Le forme classiche, cit., I, 12 s.
[89] Si noti l’uso del verbo recitare
per indicare la pubblica lettura, che si trova anche, a proposito del
testamento di Cesare, in Svet., De vit.
Caes., Div. Iul., I 83 (Postulante ergo Lucio Pisone socero,
testamentum eius aperitur recitaturque in Antoni domo, quod Idibus Septembribus
proximis in Lauicano suo fecerat demandaueratque uirgini Vestali maximae ...)
e, riguardo a quello di Augusto, ancora in Svet., De vit. Caes., Aug., II
101 (... Quae omnia in senatu aperta
atque recitata sunt. ...) e Tib.
III 23 (... Inlatum deinde Augusti
testamentum, ... recitavit per libertum. ...). Tra le fonti giuridiche, si
ricordano, al riguardo, Paul. Sent.
IV 6.1 e 2 (1. ... testamentum: ita
ut agnitis signis rupto lino aperiatur et recitetur ...;
2. Testamenta ... aperiri recitarique debebunt ...); C.6.32.1 (Ut testamentum, quod dicis factum,
proferatur et publice recitetur, competens iudex iubebit). Cfr. anche Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 187 e nt. 2. Sulla recitatio del
testamento cfr. G. G. Archi, Interesse privato e interesse pubblico nell’apertura
e pubblicazione del testamento romano (storia di una vicenda), in Iura. Rivista internazionale di diritto
romano e antico, 20 (1969-Parte Prima-Fasc. ii), 375 ss.
[93] Promettendo benefici o minacciando svantaggi sul piano successorio,
economico o dell’acquisto della libertà ai potenziali destinatari delle
disposizioni testamentarie. Per gli esempi più significativi indicati nelle
fonti cfr. Amelotti, Le forme classiche, cit., I, 13 s.; Champlin, Creditur Vulgo, cit., 210; Id., Final
Judgments, cit., 23.
[94] Sull’uso di leggere in pubblico il contenuto del proprio
testamento cfr. anche Meyer, Legitimacy and Law, cit., 41. Le fonti
forniscono al riguardo esempi di testatori più o meno illustri che, per ragioni
diverse, danno pubblica lettura del proprio testamento (sul punto cfr. Champlin, Creditur Vulgo, cit., 211; Id., Final
Judgments, cit., 24 e note 80 e 81): in Dio, Storia romana, LV 9.8, Tiberio che, forse per dimostrare la sua lealtà
verso Augusto, legge il proprio testamento alla madre e ad Augusto stesso; in Valer. Mass., Fact. et Dict. memorab. lib., VII 8.4, Pompeo Regino (di cui si è
già trattato nel testo), di provenienza transalpina, che, preterito nel
testamento del fratello, legge in pubblico i due validi esemplari del proprio
testamento (binae tabulae testamentorum
suorum) scritte alla presenza del popolo (in comitio incisae) per mostrare, invece, la propria generosità nei
confronti del fratello, ivi istituito erede di gran parte dell’asse ereditario
e destinatario di un prelegato del valore di quindici milioni di sesterzi; in
Dio, Storia romana, LVII 4.5, Gaio
Fufio Gemino che, per difendersi dall’accusa di lesa maestà nei confronti di
Tiberio, dà pubblica lettura del proprio testamento, confezionato alla presenza
del popolo, in cui l’eredità è divisa in parti uguali tra i figli del
disponente e l’imperatore. Ma si può anche citare Dio, Storia romana, LIII 31.1, ove si riferisce che Augusto, nel 23 a.C., dopo essere guarito
da una grave malattia, porta dinanzi al senato il proprio testamento per darne
pubblica lettura allo scopo di fare sapere che in quelle tavole non è indicato
alcun successore al principato, anche se poi nessuno fra i presenti gli
permetterà di compiere un simile gesto.
[96] Come erede legittimo o testamentario, come legatario o schiavo
manomesso nel testamento in questione (cfr., sul punto, Biondi, Successione
testamentaria, cit., 604; Talamanca,
voce Documento, cit., 559; Archi, Interesse privato, cit., 349, 352; Schiavo,
Il falso documentale, cit., 20 nt.
8).
[97] Di questo interdictum
si tratta in particolare nel titolo del Digesto 43.5 De tabulis exhibendis (nel fr.1 pr.
D. eod. è riportato il testo della clausola edittale) e nelle Pauli Sententiae IV 7.6. Sull’interdictum de tabulis exhibendis cfr. De
Sarlo, Il documento, cit., 336
ss.; Dumont, Le testament, cit., 92 ss.; Archi,
Interesse privato, cit., 344 ss.
[98] Così già R. G. Pothier, Le pandette di Giustiniano riordinate da R.
G. Pothier con le leggi del Codice e
le Novelle che confermano, spiegano od abrogano le disposizioni delle Pandette.
Versione notabilmente corretta ed in gran parte rifatta col testo delle leggi a
pie’ di pagina per cura di A. Bazzarini, v,
Venezia 1835, 706 («... Esibire è dar facoltà di prendere la cosa di cui si
tratta»). Analogamente
in A. Watson,
The Digest of Justinian, ii, Philadelphia 1998, sub hoc titulo («...
To produce is to make available the material document itself so that it may be
taken hold of»).
[99] Sulla convocazione dei testimoni cfr., in particolare, R. Martini, Sulla presenza dei «signatores» all’apertura del testamento, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, I,
Torino 1968, 485 ss.
[100] Un’analoga lettura della fattispecie si trova in Pothier, Le pandette di Giustiniano, cit., v,
704; F. Foramiti, Corpo del diritto civile in cui si
contengono le Instituzioni di Giustiniano, i Digesti o Pandette, il Codice, Le
Autentiche ossiano Novelle Costituzioni, e gli Editti, nonché Le Novelle
Costituzioni di Leone e di altri imperatori, i canoni de’ Santi e degli
Apostoli e i Libri de’ feudi con brevi note indicanti le leggi simili, quelle
che a vicenda si illustrano, le contrarie e le abrogate, premessa la storia
cronologica del diritto civile romano, Nuova edizione eseguita su quella di
Parigi del 1830, Prima Versione Italiana, II, Venezia 1843, 2747 s. Meno chiaro sul
punto appare il pensiero di F. Caffi,
Confronto testuale del codice civile dato
dall’imperatore e re Napoleone I colle leggi romane pubblicate dall’imperatore
Giustiniano, VI, Venezia 1812, 20.
[101] Riguardo, in particolare, a D.29.3.2.3, Voci, Diritto
ereditario, cit., II, 2a ed. rif., 108 e nt. 24, sembra invece intendere le
parole exhiberi desideret come
allusive della richiesta rivolta al pretore da un privato dell’esibizione delle
tavolette ai fini dell’esame e della copiatura di queste, successivamente
all’espletamento della procedura di apertura e pubblica lettura del testamento,
esame e copiatura che sono di regola concessi dal magistrato sulla base della
clausola dell’Editto perpetuo che si trova nel titolo xxvi, § 167, la cui rubrica reca le parole Testamenta quemadmodum aperiantur
inspiciantur et describantur (cfr. O. Lenel,
Das Edictum Perpetuum. Ein
Versuch zu seiner Wiederherstellung,
3a ed., Leipzig 1927 (rist. Aalen 1985), xxi).
Su questo diritto di esame e copiatura del documento
testamentario cfr. Dumont, Le testament, cit., 99 ss.; Archi, Interesse privato, cit., 346 ss.; Schiavo, Il falso documentale, cit., 23 nt. 17 (e
bibliografia ivi citata).
[102] Contra Mühlenbruch, in Glück, Commentario
alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 314 s. e nt. 44, che intende le
parole «Si tabulae in pluribus codicibus
scriptae sint» di cui in D.43.5.3.1 nel senso di «se il medesimo testamento
è stato redatto in parecchi esemplari» dello stesso contenuto e (416 ss.) cita
i passi a suo avviso paralleli in base all’interpretazione da lui proposta di
questo testo. Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 174 e nt. 2, invece, ritiene che il fr. 3.1 D. eod. si riferisca a un
testamento (tabulae) caratterizzato
da un contenuto così ampio da essere formato da codices consistenti ciascuno in più polittici (in pluribus codicibus scriptae), senza tuttavia specificare se i codices siano tenuti insieme da un’unica
sigillazione o se ciascuno abbia i propri sigilli apposti nel medesimo contesto
di tempo e di luogo.
[104] Al posto di est totum
di cui nell’editio minor Krüger suggerisce
la versione est, tum: in effetti totum è superfluo perché è chiaro che
l’originale è «totalmente» aperto; la contrapposizione è in realtà fra le
conseguenze derivanti dall’apertura della copia del testamento, da un lato, e
quelle conseguenti all’apertura dell’originale, dall’altro: proprio perché la
copia non rileva sul piano giuridico, la sua apertura esclude che si consideri
aperto anche l’originale del testamento, mentre, se si apre questo, allora (tum)
anche la copia si intende aperta. Si ritiene qui preferibile
l’emendazione di Krüger, a patto, però, che si tolga la virgola dopo tum.
[105] Sul § 5 già Otto, Thesaurus Juris Romani cit., 1381 s.; De Sarlo, Il documento, cit., 82; sulla diversità delle due fattispecie
rispettivamente esaminate nei §§ 5 e 6 cfr. Mühlenbruch,
in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 315 ss.
[106] Cfr. già Mühlenbruch,
in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 4 s. e nt.
45. Secondo M. BoháČek, Il problema della revoca non formale del
testamento nel diritto classico e giustinianeo, in Studi in onore di Pietro Bonfante, IV, Pavia 1929, 312 e nt. 23, si
tratta di esemplari efficaci esclusivamente in base al diritto pretorio, con la
conseguenza che «la validità del test[amento] si spiega coll’esistenza del
secondo esemplare».
[107] Cfr., sul punto, Mühlenbruch,
in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 317 ss. In particolare questo Autore, 317, paragona
la fattispecie di cui in D.37.11.1.6 con quella esposta da Ulpiano 4 disp.
D.29.1.19 pr. del militare che ha confezionato più testamenti «tutti insieme»
in modo che iure singulari il primo
non sia revocato dall’ultimo.
[108] Sul punto cfr. anche Biondi,
Successione testamentaria, cit., 29,
64; Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed. rif., 82 e nt. 79.
[109] Cfr. già Mühlenbruch,
in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte prima, 418; Id., in Glück,
Commentario alle Pandette, cit.,
XXVIII, Parte terza, 314 s. e nt. 46.
[111] Paul.
3 ad Sab. D.37.2.1: Heredi, cuius nomen
inconsulto ita deletum sit, ut penitus legi non possit, dari bonorum possessio
minime potest, quia ex coniectura non proprie scriptus videretur, quamvis, si
post prolatas tabulas deletum sit testamentum, bonorum possessio competat. Nam et si
mortis tempore tabulae fuerint, licet postea interierint, competet bonorum
possessio, quia verum fuit tabulas exstare. Secondo Paolo, all’erede il cui nome è stato involontariamente
cancellato durante la redazione del testamento così da non potersi leggere del
tutto non si può assolutamente dare la bonorum
possessio secundum tabulas perché
costui si considera erede in base a una supposizione, non in forza di una
nomina fatta in modo appropriato. Al contrario, la bonorum possessio spetta sia nel caso in cui il testamento sia
stato cancellato dopo che le tavole sono state presentate al pretore ai fini
della richiesta della bonorum possessio
secundum tabulas (o dopo che sono state lette pubblicamente, a seconda di
come si intenda l’espressione «post
prolatas tabulas»: cfr., ad es., Watson,
The Digest, cit., ii, sub hoc titulo, che traduce «...
after it [= the will] has been made public, ...»), sia in quello in cui esse
siano perite dopo la morte del testatore purché, in questo seconda ipotesi, il
richiedente dimostri che le tavolette sono esistite all’apertura della
successione. In O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae 1889 (rist. Roma 2000), col. 904
(rubrica: De bonorum possessione secundum
tabulas), 1255, questo frammento apre la sottorubrica De his quae in testamento delentur vel adimuntur all’inizio del
terzo libro ad Sabinum introdotto
dalla rubrica De legatis I, mentre
nel Digesto si trova nel titolo 37.2 Si
tabulae testamenti extabunt, corrispondente al titolo xxv A dell’Editto perpetuo Si tabulae testamenti extabunt non minus
quam septem testium signis signatae (cfr. Lenel,
Ed., 3a ed., xx).
[112] Ulp.
39 ad ed. D.37.11.1.2 e 3: 2. Sufficit
autem extare tabulas, etsi non proferantur, si certum sit eas exstare. Igitur
etsi apud furem sint vel apud eum, apud quem depositae sunt, dubitari non
oportet admitti posse bonorum possessionem: nec enim opus est aperire eas, ut
bonorum possessio secundum tabulas agnoscatur. 3. Semel autem exstitisse tabulas mortuo testatore desideratur, tametsi
exstare desierint: quare et si postea interciderunt, bonorum possessio peti
poterit. Nel § 2 si afferma che, ai fini dell’ottenimento della bonorum possessio secundum tabulas,
basta che le tavole esistano, anche se non vengono presentate al pretore,
purché sia certo che esse esistono; dunque, sebbene si trovino presso il ladro
o presso colui cui sono state date in deposito, la bonorum possessio è ammissibile: non occorre infatti aprirle perché
sia concessa la bonorum possessio
secundum tabulas. Nel § 3, si stabilisce che è sufficiente che le tavole
siano esistite al momento della morte del testatore: anche se in seguito esse
hanno cessato di sussistere, si può ugualmente domandare la bonorum possessio. In questo senso
esiste piena armonia fra il § 3 ulpianeo e il tratto conclusivo nam et si mortis tempore-tabulas exstare di Paul. 3 ad Sab. D.37.2.1, in base al quale, se le
tavole esistevano all’apertura della successione, ma in seguito sono perite, la
bonorum possessio spetta perché basta
la prova dell’esistenza delle tavole al momento della morte dell’ereditando.
Nei §§ 2 e 3 del fr. 1 D.37.11 si allude alla nuova disposizione dell’editto
adrianeo (rispetto alla versione primitiva dell’editto) in base alla quale non
è più indispensabile che le tavolette siano fisicamente mostrate al magistrato
perché questi conceda la bonorum
possessio secundum tabulas, ma è sufficiente che si provi che esse siano
esistite al tempo della morte del testatore (il che vale anche nel caso in cui,
ad es., le tabulae si trovino presso
il depositario che non le restituisce o siano state rubate: per le fonti
letterarie che attestano una certa frequenza con cui avvenivano i furti ad es.
nei templi in cui le tavole venivano lasciate in custodia, cfr. Vidal, Le dépôt, cit., 548 ss., 555 s.). Com’è noto, al tempo di Cicerone
(cfr. in Verr., II 1.45.117), nella
redazione primitiva dell’editto, il pretore prometteva invece la bonorum possessio secundum tabulas a chi
gli presentasse le tavolette testamentarie sigillate con le firme delle persone
indicate dalla Legge delle dodici Tavole (cfr. sul punto, fra gli altri, BoháČek, Il problema della revoca, cit., 309; Amelotti, Genesi del
documento, cit., 175). Con l’avvento dell’editto adrianeo le tavole non
devono più essere materialmente mostrate al magistrato, ma è sufficiente che
sia fornita al pretore la prova della loro esistenza al tempo del decesso del disponente
(titolo xxv A: Si tabulae testamenti extabunt non minus
quam septem testium signis signatae: cfr. Lenel,
Ed., 3a ed., xx): cfr., al riguardo, Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 175 nt. 5, 191 e nt. 2; Id.,
Testamento, cit., 409; P. Voci, Diritto ereditario romano.
Introduzione. Parte generale, I,
2a ed. riv., Milano 1967, 131 ss. Il fr. 1.2 e 3 D.37.11 è posto, nell’opera di
Ulpiano, sotto la rubrica Si tabulae
testamenti extabunt (cfr. Lenel,
Palingenesia, cit., II, 686 s.); i
compilatori giustinianei, invece, hanno preferito collocarlo sotto il titolo
37.11 De bonorum possessione secundum
tabulas.
[114] Cfr. Biondi, Successione testamentaria, cit., 64, secondo
cui la copia del testamento non prova di per se stessa che «il suo contenuto
corrisponda alla effettiva ed attuale volontà del disponente». Cfr. anche Otto, Thesaurus Juris Romani cit., 1382.
[115] Fabro osserva che in P
c’è Sempronius Nepos Proculo in luogo
di Sempronius Proculus Nepoti, che è
presente nella Fiorentina. Sembra preferibile la lezione di cui in P perché logicamente coerente con il
successivo Proculus respondit:
Sempronio Nepote sottopone un quesito a Proculo e Proculo gli risponde.
[116] In S c’è quaero al posto di quaeris (presente nell’editio
minor); la lezione quaero pare
migliore in quanto logicamente congruente con le premesse del frammento, Sempronius Nepo<s> Procul<o> suo salutem: Sempronio Nepote scrive una
lettera a Proculo, nella quale esordisce salutando il giurista in prima
persona, poi descrive il caso problematico, dopodiché richiede a Proculo,
sempre in prima persona, la soluzione.
[118] Mommsen suggerisce di sostituire quinquaginta a centum
(presente nell’editio minor), ma sembra più opportuno lasciare
centum: cfr. al riguardo nt. 122.
[119] In questo caso «... nessuno degli exemplaria è exemplarium rispetto
all’altro» (De Sarlo, Il documento, cit., 82), trattandosi di
documenti originali e giuridicamente validi dello stesso testamento.
[120] Contra Dumont, Le testament, cit., 93, il quale ritiene che il verbo proferre alluda in D.31.47
all’esibizione dinanzi al pretore delle tavolette alla quale mira chi domanda
l’emissione dell’interdictum de tabulis
exhibendis. Ma, dato il contesto, è plausibile che la voce verbale «proferuntur»
alluda alla pubblica lettura delle tavole secondo le modalità indicate in D.29.3
Testamenta quemadmodum aperiantur
inspiciantur et describantur e in Paul.
Sent. IV 6 De vicesima. Subito
dopo «proferuntur», infatti, si
riferisce il contenuto di una dispozione testamentaria ambigua, conoscibile da
parte degli interessati soltanto se prima sia stata data pubblica lettura delle
tavole testamentarie.
[121] Se si accoglie la versione di cui in F1 priva di centum, il
senso non cambia: si domanda infatti se siano dovuti anche cinquanta aurei
(sottinteso oltre ai cento): quaeris
utrum et quinquaginta aureos …
habiturus sit.
[122] Cioè al legato di valore superiore. Se si adotta la correzione
di Mommsen, che propone, come si vedrà tra poco nel testo, di sostituire quinquaginta a centum, il senso cambia perché l’alternativa è fra centocinquanta (sia
in base alla versione attuale dell’editio
minor, sia in base a quella di cui in
F1) e cinquanta (quaeris utrum et
quinquaginta aureos an quinquaginta dumtaxat
habiturus sit) al posto di cento (dell’attuale versione dell’editio minor).
[123] Bisogna, cioè, far risparmiare soldi all’erede: cfr., sul punto,
Otto, Thesaurus Juris Romani cit., 1383.
[124] Per la letteratura in lingua tedesca più risalente su D.28.4.4,
cfr. Arcaria, Per la storia dei testamenti, cit., 179 nt. 43.
[125] Ad avviso di BoháČek, Il problema della revoca, cit., 310, le
parole unius testamenti
voluntatem-dominus sollemniter complevit sono di natura compilatoria.
Secondo E. Betti, «Declarare voluntatem» nella dogmatica
bizantina, in Studi in memoria di
Emilio Albertario, 2 (1953), 438, il tratto voluntatem-complevit è un «superfluo chiarimento didattico», perciò
«un evidente glossema postclassico».
[127] Mommsen e Krüger condividono la tesi di Gradenwitz secondo cui
sarebbe interpolato il tratto et hoc
adprobaverint-desiderant (che
nell’editio minor, infatti, è riportato fra parentesi uncinate): così P. De Francisci, Nuovi studi intorno alla legislazione giustinianea durante la
compilazione delle Pandette, in BIDR,
27 (1914), 16 (il quale ritiene compilatoria anche l’ultima frase, scriptis avocabitur hereditas), e Betti, «Declarare voluntatem», cit., 438. Per la dottrina che giudica
insiticio il tratto et hoc adprobaverint-desiderant cfr. B. Santalucia, Le note paoline ed ulpianee alle «Quaestiones» ed ai «Responsa» di
Papiniano, in BIDR., 68 (1965),
92 nt. 119; Arcaria, Per la storia dei testamenti, cit., 178
nt. 39. Per la bibliografia interpolazionistica completa relativa a questo
testo, cfr. Arcaria, Per la storia dei testamenti, cit., 177
s. nt. 39, 180 nt. 47. Le diagnosi interpolazionistiche citate nelle note 125, 126 e nella presente nota e non si ritengono accoglibili
come cercherà di provare l’esegesi contenuta nel testo.
[128] Nel testo dominus:
cfr. Gai II 77; D.28.4.1 pr. Ulp. 15 ad Sab.; Talamanca, voce Documento, cit., 558 e nt. 85; Champlin,
Creditur Vulgo, cit., 198 s.; Id.,
Final Judgments, cit., 6. Sul tema
controverso della proprietà del documento, cfr. G. Scherillo, Corso di
diritto romano. Il testamento (a cura di F. Gnoli), 2a ed. riv. e ampl.,
Bologna 1999, 42 s.; (con un occhio anche alla posizione dell’erede del
testatore) De Sarlo, Il documento, cit., 123 ss.
[129] Così già Mühlenbruch,
in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 314 e ntt. 42
e 43, 381; R. G. Pothier, Le pandette di Giustiniano riordinate da R.
G. Pothier (trad. it. di A. Bazzarini), III, Venezia 1834, 705; BoháČek, Il
problema della revoca, cit., 310; C.
Sanfilippo, Studi sull’hereditas, I, in AUPA,
17 (1937), 95; Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed.
rif., 82 e nt. 79, 512 s.; Santalucia,
Le note pauline, cit., 91; Vidal, Le dépôt, cit., 551; Serangeli,
Studi sulla revoca, I, cit., 220 nt.
35; Arcaria, Per la storia dei testamenti, cit., 178, 180. Contra Biondi, Successione testamentaria, cit., 64,
secondo cui il de cuius avrebbe
confezionato un solo testamento consistente in più codices di diverso contenuto, ognuno sigillato separamente
dall’altro ma tutti nello stesso momento (... tabulis ... scriptis ... eodem tempore). L’Autore trae questa
conclusione dal confronto con D.37.11.1.6 Ulp. 39 ad ed. (in tema di bonorum possessio secundum tabulas) ove
un pater familias confeziona e
sigilla simultaneamente due codices (in duobus codicibus simul signatis) in
cui sono istituiti eredi diversi: poiché i due codices di diverso contenuto sono stati sigillati nello stesso
momento, essi costituiscono un unico testamento, con la conseguenza che la bonorum possessio secundum tabulas può
essere concessa soltanto se all’apertura della successione ci sono entrambi i codices. Mentre in base
all’interpretazione che si propone nel testo di D.28.4.4 l’ablativo «eodem exemplo» allude allo «stesso
tenore» o allo «stesso contenuto» delle tavole, secondo la lettura suggerita da
Biondi tale ablativo si riferirebbe a un «unico esemplare» di testamento. Dello stesso parere di Biondi è G. Gandolfi, «Prius
testamentum ruptum est», in Studi in
onore di Emilio Betti, III, Milano 1962, 222 e nt. 38. Betti, «Declarare voluntatem», cit., 438 s., esplora due a suo avviso
possibili interpretazioni del caso esposto in D.28.4.4 – confezione di un unico
exemplum «composto di più elementi
(tabulae)» o di «più esemplari o copie (Flor. D. 28, 1, 24) condotte su un
medesimo paradigma (exemplum)» – optando, in ultimo, per la seconda (più
esemplari o copie valide dello stesso testamento): sull’esegesi di Betti cfr. Santalucia, Le note pauline, cit., 92 nt. 118. M. Amelotti, Le forme
classiche di testamento II. Lezioni di Diritto romano raccolte da Remo Martini,
Torino 1967, 23, suggerisce, ritenendole entrambe adattabili alla soluzione di
Papiniano, le stesse letture già proposte da Betti.
[130] Nel testo sono le tabulae
a essere incisae (... sed si, ... incidit tabulas ...), ma incidere, che significa “tagliare”,
“recidere”, non può avere per oggetto se non il linum in cui le tavolette cerate sono avvolte e su cui i sigilli
dei testimoni sono impressi (cfr. Paul.
Sent. V 25.6). Cfr. anche D.28.3.20 Scaev. 13 dig.; D.29.1.20.1 Iul. 27
dig.; D.34.9.16.2 Pap. 18 resp.; D.37.11.11.2 Pap. 13 quaest.; D.38.6.1.8 Ulp.
44 ad ed. In D.28.4.3 Marcell. 29 dig.
si trova l’espressione inciderit
testamentum. S. Serangeli, Studi sulla revoca del testamento in diritto
romano. Contributo allo studio delle forme testamentarie, I, Milano 1982, 7
e nt. 3, 218, traduce l’espressione incidere
tabulas con «dissuggellare le tavole testamentarie».
[131] L’accertamento della natura del testamento perfezionato è la
questione fondamentale su cui si imperniano i dibattiti della dottrina, come
rilevano Santalucia, Le note pauline, cit., 92, e Arcaria, Per la storia dei testamenti, cit., 179. Mentre alcuni ritengono
che l’atto produca effetti sul solo piano del ius civile (BoháČek, Il problema della revoca, cit., 310, 312
nt. 23, 327 nt. 85; Sanfilippo, Studi sull’hereditas, I, cit., 96; Santalucia, Le note pauline, cit., 93 e nt. 124, 94; Amelotti, Testamento
romano attraverso la prassi, cit., I, 171 nt. 1, 183 nt. 5; Serangeli, Studi sulla revoca, cit., 25, 219), altri sostengono che sia
efficace esclusivamente iure honorario
(De Francisci, Nuovi studi intorno alla legislazione
giustinianea, cit., in BIDR, 27
(1914), 16; E. Nardi, I casi di indegnità nel diritto successorio
romano, Milano 1937, 149 nt. 5; Biondi,
Successione testamentaria, cit., 169
e nt. 5; Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed.
rif., 512 s.).
[132] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889 (rist. Roma 2000), col. 904 (rubrica: De bonorum possessione secundum tabulas).
[133] Anche Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed.
rif., 82 e nt. 79, 512 s., ritiene che D.28.4.4 sia stato «tolto da un contesto
, ove si trattava della bpsect».
[134] Secondo Arcaria, Per la storia dei testamenti, cit., 180,
D.28.4.4 è l’unico passo che, in riferimento alla sede del deposito di tavole
testamentarie, usa questa locuzione un po’ vaga.
[135] Così già J. Cuiacio,
Opera Omnia, IV, Napoli 1722, 955 (il
quale però prevede anche, in alternativa, come luogo di deposito indicato dalle
parole in publico, il tabularium civitatis – l’archivio
pubblico – o il sanctuarium principis
– l’archivio segreto dell’imperatore –); poi Mühlenbruch,
in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 381; infine Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed. rif., 107 e nt. 8; Vidal, Le dépôt, cit., 551 s.
[136] Amelotti, Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 183 e nt. 5 (meno chiara è la posizione di questo Autore sul punto nel
manuale Le forme classiche, cit., I, 241).
Si sono già citati nel testo, come esempi autorevoli di deposito del testamento
presso le Vestali, quello del testamento di Augusto, menzionato in Svet., De vit. Caes., Aug., II 101, e quello del testamento di Antonio, citato da Plut.,
Ant., 58.5-8. Come già osservato nella nt. 58, in Svet., De vit. Caes., Div. Iul., I 83, Cesare colloca il proprio testamento presso la Grande Vestale. Si è anche osservato nel testo come
sia verosimile, pur nel silenzio delle fonti, la custodia nel tempio di Vesta
anche dei testamenti di Tiberio e Claudio.
[137] Cuiacio, Opera, cit., 118 (cfr. nt. 135 del presente contributo); Mühlenbruch, in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 381; Dumont, Le testament, cit., 88; Arcaria,
Per la storia dei testamenti, cit.,
181, il quale fonda la tesi secondo cui «la frase “tabulas in publico depositas”» alluderebbe «al deposito di tavole
testamentarie» negli archivi di «“magistrati” o “funzionari imperiali”» su
D.31.77.26 Pap. 18 resp.; Frag. Vat.
252a (Pap. xii responsorum); Front., Ep. ad M. Caes. et invic., I 6.5.
[139] Mühlenbruch, in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 381. Com’è noto,
il ricorso all’assistenza di un notaio (tabularius)
ai fini della corretta confezione del testamento si riscontra soprattutto in
provincia (cfr., in proposito, Amelotti,
Testamento romano attraverso la prassi,
cit., I, 114 s.; Id., Le forme classiche, cit., I, 85 ss.). Vidal, Le dépôt, cit., 550 e nt. 36, da parte sua, considera in generale
quello presso il tabularius un
esempio di deposito «confié à un ami». Di un deposito delle tavole
testamentarie presso un tabularius
parla Ulpiano 68 ad ed. D.43.5.3.3: Proinde et si custodiam tabularum aedituus vel tabularius suscepit,
dicendum est teneri eum interdicto [scil. de tabulis exhibendis]. Ma qui, dato il
contesto, sembra preferibile intendere la parola tabularius nel significato di “archivista”, “cancelliere”; infatti,
l’alternativa fra deposito presso l’aedituus
e deposito presso un tabularius è
introdotta dalla debole disgiuntiva vel,
che, più che indicare una netta contrapposizione, tende a porre sullo stesso
piano le due ipotesi tra le quali si può scegliere indifferentemente:
trattandosi di deposito “pubblico”, si ha la possibilità di depositare presso
il guardiano del tempio o presso un archivista (cfr., in questo senso, Arcaria, Per la storia dei testamenti, cit., 181 e nt. 51). Sul deposito del
testamento presso il guardiano di un tempio cfr. J. Marquardt, Le culte,
cit., tom. i, 261 e nt. 5; F. Elia, In tema di ‘aeditui’ e newkÒroi, in Annali della Facoltà
di Scienze della Formazione dell’Università di Catania, 1 (2002), 29.
[140] Per i testi che riguardano il deposito delle tavole
testamentarie presso privati cfr. Vidal, Le dépôt, cit., 550 e note 30-36.
[141] Si tratta di tutte le tavole depositate in publico e non di alcune di esse (sono state infatti asportate e
cancellate quaedam tabulae in publico
depositae, non quaedam tabularum in
publico depositarum). BoháČek, Il problema della revoca, cit., 310, ad
es., ipotizza il deposito di un solo esemplare in publico e la successiva asportazione e cancellazione di questo.
[142] Così già Santalucia,
Le note pauline, cit., 94 s. Gai II 151: Potest ut iure facta testamenta contraria uoluntate infirmentur. Apparet <autem> non posse ex eo solo infirmari testamentum, quod postea testator id noluerit ualere, usque adeo, ut
si linum eius inciderit, nihilo minus iure ciuili valeat. Quin etiam si
deleuerit quoque aut combusserit
tabulas testamenti non ideo nihilo
minus <non> desinent ualere quae ibi fuerunt scripta, licet eorum probatio
difficilis sit. (cfr. Collectio librorum iuris anteiustiniani in
usum scholarum (a cura di P. Krüger, T. Mommsen e G. Studemund), tomus i, Berolini 1923, 76; Fontes iuris Romani antejustiniani, II,
Florentiae 1940 (rist. Florentiae 1968), 76).
[143] Com’è noto, secondo Gai
II 151 il testamento per
aes et libram può essere invalidato per effetto di una volontà contraria (contraria
voluntate), successiva al perfezionamento dell’atto, purché questa si
manifesti nella confezione di un nuovo
testamento valido (cfr. Gai II
§144; Gai. Epit. II 3.4; Ulp. XXIII 2; D.28.3.2 Ulp. 2 ad Sab.; Inst. 2.17.2; arg. ex D.34.9.12 Pap. 16 quaest; Mühlenbruch,
in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 382; BoháČek, Il
problema della revoca, cit., 307; Biondi,
Successione testamentaria cit., 168; Amelotti, Testamento, cit., 415). Non basta,
quindi, a revocare il testamento «un atto qualsiasi che denoti
inequivocabilmente tale volontà» (B. Biondi,
Istituzioni di diritto romano, 4a ed. ampl. e aggior., Milano 1972,
699), come, ad es., l’incisione dello spago (o la rottura dei sigilli impressivi sopra), la
cancellazione o la distruzione totale delle tavolette: in tutti questi casi il
testamento continua a essere civilmente valido, benché sia poi difficile
provarne il contenuto (cfr., sinteticamente, sul punto, Scherillo, Corso di
diritto cit., 54, 236). La volontà testamentaria nel suo contenuto
materiale è indicata nel documento, ma giuridicamente si trasfonde nella nuncupatio, «rispetto alla quale le tabulae hanno un valore probatorio» (Amelotti, Genesi del documento, cit., 166 – ma cfr. anche, dello stesso
Autore, Le forme classiche, cit., I,
79; Testamento e donazione. cit.,
406; Prassi testamentaria e diritto
romano, in Scritti giuridici, a
cura di L. Migliardi Zingale, Torino 1996, 439 –; Biondi, Successione
testamentaria, cit., 44 s.; G. G. Archi,
Oralità e scrittura nel testamentum
per aes et libram, in Studi in onore di
Pietro De Francisci, IV, Milano 1956, 293 ss. – nel descrivere questa come
l’opinione della dottrina prevalente –; Voci,
Diritto ereditario, cit., II, 2a ed.
rif., 66 ss.). Infatti, anche se il de
cuius ha distrutto il testamento credendo così di revocarlo, l’atto
tuttavia è ancora valido iure civili
«in tutte le sue disposizioni, se si riesce per altra via a provarle» (Amelotti, Genesi del documento, cit., 166; Id.,
Prassi testamentaria, cit., 439). In
pratica, però, poiché le disposizioni testamentarie «trovano esclusiva
enunciazione nel documento, ben difficilmente al di fuori di questo se ne potrà
avere certezza» (Amelotti, Testamento e donazione. cit., 406; ad
avviso di Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed.
rif., 493, non è da escludere che il de
cuius, «distruggendo o alterando il documento, abbia appunto mirato alla conseguenza»
che l’erede non riesca, «sia pure per mere ragioni probatorie», a ottenere ciò
che gli toccherebbe ex testamento).
Sulla funzione probatoria delle tavolette cerate in generale cfr. Archi, Oralità e scrittura, cit., 306 s.; Bove,
Le tabulae, cit., 1195 ss.; Id., Documentazione
privata, cit., 163 ss.; Id.,
voce Documento, cit., 19 s.
[144] Cfr. già Santalucia,
Le note pauline, cit., 94 s. Betti, «Declarare voluntatem», cit., 439 afferma che «... il “declarari”
significa semplicemente r i s u l t a r
e ,
apparire» (la spaziatura è dell’Autore); ad avviso dello studioso, 438
s., se invece si accoglie la tesi di chi sostiene che il disponente abbia
redatto un unico exemplum testamenti costituito da più tabulae, la frase res gesta declaretur si riferisce a «una integrazione r i c o s t r u t t i v a » del contenuto
delle tavole cancellate mediante «illazioni interpretative col sussidio degli
elementi documentali residui» (la spaziatura è dell’Autore).
[146] Gai II 151. Potest ut iure facta testamenta contraria uoluntate infirmentur. Apparet <autem> non posse ex eo solo infirmari testamentum, quod postea testator id noluerit ualere, usque adeo, ut
si linum eius inciderit, nihilo minus iure ciuili valeat. Quin etiam si deleuerit
quoque aut combusserit
tabulas testamenti non ideo nihilo
minus <non> desinent ualere quae ibi fuerunt scripta, licet eorum probatio
difficilis sit. 151a. Quid ergo est? Si quis ab intestato bonorum
possessionem petierit et is, qui ex
eo testamento heres est, petat hereditatem,
per exceptionem doli mali repelletur; ...
(cfr., per questa citazione, Collectio
librorum iuris anteiustiniani, cit., tomus i,
76; Fontes Iuris Romani, II, cit.,
76). Sul § 151 cfr. BoháČek, Il problema della revoca, cit., 307 s.
[147] Ulp. 44 ad ed. D.38.6.1.8: Si
heres institutus non habeat voluntatem, vel quia incisae sunt tabulae vel quia
cancellatae vel quia alia ratione voluntatem testator mutavit voluitque
intestato decedere, dicendum est ab intestato rem habituros eos, qui bonorum
possessionem acceperunt.
[149] ... si deleverit quoque
aut combusserit tabulas testamenti ... (Gai
II 151); ... quia cancellatae
<scil. tabulae> (D.38.6.1.8).
[150] Il riferimento qui è alle parole «... vel quia alia ratione
voluntatem testator mutavit voluitque intestato decedere, ...» di cui in
D.38.6.1.8, che sono da intendere non ai fini dell’apertura della successione legittima
(come sostengono invece Biondi, Successione testamentaria, cit., 171 e
nt. 2, e Mühlenbruch, in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 372 ss.), ma
della concessione della bonorum possessio
sine tabulis (in questo significato cfr. già De Francisci, Nuovi
studi intorno alla legislazione giustinianea, cit., in BIDR, 27 (1914), 10): d’altronde, questo frammento di Ulpiano si
trova nel titolo 6 Si tabulae testamenti nullae extabunt, unde
liberi del libro 38 del Digesto, il quale titolo si occupa dell’editto in
cui si concede la bonorum possessio ab
intestato e, secondo Weyhe, il § 8 del fr.1 D.38.6 apparterrebbe non al
libro 44 – come risulta dall’inscriptio del
Digesto – del commentario all’editto di Ulpiano relativo alla bonorum possessio secundum tabulas,
bensì al 46, che inerisce ai primi quattro paragrafi (Unde liberi; Unde legitimi;
Unde cognati; Unde familia patroni) del titolo dell’editto Si tabulae testamenti nullae extabunt, le cui rubriche
corrispondono ad altrettante e identiche rubriche nel libro 46 del commentario
ulpianeo (Lenel, Palingenesia, cit., II, 720 s., pone
D.38.6.1.5-9 nel libro 46 del commentario all’editto di Ulpiano, sotto la
rubrica Unde liberi, in Pal. Ulpianus 1196.8); ancora, le
stesse parole di Ulpiano 44 ad ed. D.38.6.1.8, dicendum est ab intestato rem
habituros eos, qui bonorum possessionem acceperunt,
contengono un richiamo esplicito alla bonorum
possessio ab intestato a favore degli eredi legittimi con l’ulteriore
precisazione che questa bonorum possessio
ab intestato è cum re (dicendum est ab intestato rem habituros eos, qui bonorum
possessionem acceperunt): sarebbe infatti iniquo consentire di trattenere
l’eredità a colui cui il de cuius abbia
voluto toglierla rompendo lo spago e i sigilli, cancellando o addirittura
distruggendo il testamento, perciò la bonorum
possessio sine tabulis prevale sul diritto dell’erede civile.
[151] ... Quid ergo est? Si quis
ab intestato bonorum possessionem petierit et is, qui ex eo testamento heres est, petat hereditatem, per exceptionem doli mali repelletur; ... (Gai II 151a); ... dicendum est ab intestato rem habituros eos, qui bonorum possessionem
acceperunt (D.38.6.1.8; cfr. nt. 150 in fine).
[152] È in dolo, secondo il ius honorarium, chi approfitta di
un’iniquità del ius civile: in questo
caso, tale iniquità consisterebbe nel consentire di trattenere l’eredità a
colui cui il de cuius abbia voluto
toglierla tagliando il linum,
cancellando o distruggendo le tavole, piuttosto che confezionando un nuovo
testamento civilmente valido. A un caso analogo a quello indicato da Gai II 151 e 151a (prima parte) si
riferirebbe, secondo De Francisci,
Nuovi studi intorno alla legislazione
giustinianea, cit., in BIDR, 27
(1914), 10, D.44.4.4.10 Ulp. 76 ad ed. (Praeterea
sciendum est, si quis quid ex testamento contra voluntatem petat, exceptione
eum doli mali repelli solere: et ideo heres, qui non habet voluntatem, per
exceptionem doli repellitur), ove si dice che, se si domanda qualcosa in base
al testamento contro la volontà del disponente, la pretesa di chi il testatore
non ha voluto che gli succedesse come erede può essere respinta con
un’eccezione di dolo. In particolare De Francisci sostiene che
questo passo riguardi la bonorum
possessio ab intestato cum re, protetta con l’exceptio doli opponibile
contro l’hereditatis petitio dell’erede testamentario nel
caso della revoca iure honorario di
un unico testamento mediante la distruzione di questo o dei sigilli oppure
tramite la cancellazione dell’istituzione dell’erede; contra Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed.
rif., 522, che è del parere che il fr.4.10 D.44.4. si occupi dello stesso caso
di cui in D.37.11.11.2 Pap. 13 quaest. dell’ereditando che, dopo aver fatto un
primo testamento, ne perfeziona un secondo, che poi distrugge per far rivivere iure honorario il primo. Sul punto cfr.
anche Mühlenbruch, in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 382 ss. Sul
fr. 4.10 D.44.4 in particolare cfr. anche BoháČek, Il problema della revoca, cit., 324 s.
[153] Nella frase hi qui ab intestato
venire desiderant è verosimile che sia sottintesa la locuzione ad bona che allude alla bonorum possessio ab intestato (cfr., ad es., D.38.2.29 Marcian. 9 inst.: ... tam contra tabulas quam ab intestato ad bona eius venire potest ...),
non alla successione legittima prevista dal ius
civile. Di conseguenza, benché nella proposizione ut intestatus moreretur l’aggettivo intestatus evochi apparentemente la successione legittima (ad es. arg. ex D.38.16.1 pr.
Ulp. 12 ad Sab.), la frase stessa può ciononostante alludere al desiderio del pater familias di revocare iure honorario il testamento ai fini
della bonorum possessio sine tabulis
(cfr. anche, in questo senso, D.38.6.1.8 Ulp. 44 ad ed. e nt. 150).
[154] Cfr., sul punto, Mühlenbruch,
in Glück, Commentario alle Pandette, cit., XXVIII, Parte terza, 381.
Dell’autenticità della nota paolina non dubita Santalucia,
Le note pauline, cit., 56. Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed. rif., 512 s., che giudica
“pretorio” il testamento in oggetto, sostiene che la tesi di Papiniano
differisca da quella di Paolo per il fatto che essa richiede, ai fini della
revoca dell’atto, la distruzione di tutti gli esemplari esistenti (analogamente
già De Francisci, Nuovi studi, cit., 16): cfr., al
riguardo, anche Santalucia, Le note pauline, cit., 92 s.
[156] Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed.
rif., 512 s.; Santalucia, Le note pauline, cit., 95 e nt. 132.
[158] Cfr. Collectio librorum
iuris anteiustiniani, cit., tomus i,
76; Fontes Iuris Romani, II, cit.,
76.
[159]) Paragrafo fortemente lacunoso, integrato da P. F. Girard,
Manuel élémentaire de droit Romain,
Paris 1918, 834 nt. 1, e da P. Krüger
nell’edizione delle Istituzioni gaiane contenuta in Collectio librorum iuris anteiustiniani, cit., tomus i, 76 – ma cfr. anche Fontes Iuris Romani, II, cit., 76 –).
Non condividono questa integrazione Nardi,
I casi di indegnità, cit., 136 ss.; Voci,
Diritto ereditario, cit., II, 2a ed.
rif., 498 nt. 33.
[160] G. Gualandi, Legislazione imperiale e giurisprudenza,
I, Milano 1963, 59; Voci, Diritto ereditario, cit., II, 2a ed.
rif., 498.
[161] Analoga espressione nel medesimo significato si trova in
D.34.9.12 Pap. 16 quaest. (... ut
indignis heredibus ...).
[169] Su cui cfr. Serangeli,
Studi sulla revoca, cit., 34 ss.; Id., Epistulae
e negotia nel diritto romano classico, in Societas-Ius. Munuscola di allievi a Feliciano Serrao, Napoli 1999,
307 ss.
[170] Le epistulae,
utilizzate «per la trasmissione di notizie e di messaggi», sono «tabelle
cerate, legate con lino e sigillate» (Degni,
Usi delle tavolette, cit., 41; cfr.
anche 44, 48, 52). Codicilli ed epistula sono messi qui insieme forse perché,
come in D.32.37.3 Scaev. 18 dig., «talvolta i codicilli rivestivano la forma di epistula» (Schiavo, Il falso documentale, cit., 7; sul punto
cfr. già De Sarlo, Il documento, cit., 37). Pare invece non
dubitare che i codicilli contenenti disposizioni mortis causa siano «scritti in forma epistolare» e «redatti
generalmente su polittici cerati o lignei», salva la possibilità di ricorrere
al papiro o alla pergamena, Degni,
Usi delle tavolette, cit., 52. Di
Cicerone, ad es., è attestata l’abitudine «di inviare lettere su tavolette
cerate o lignee, chiamate nelle epistole ciceroniane per la prima volta codicilli» (Degni, Usi delle
tavolette, cit., 42). In un diverso ambito, ma analogamente, le fonti
letterarie definiscono codicilli gli
scritti spediti dal princeps o da lui
ricevuti che contengono notizie od ordini da rispettare, «organizzati nella
forma di brevi epistole. Nelle testimonianze di Svetonio e Plinio il Vecchio il
termine rimanda a piccoli polittici, affini per formato ai pugillares, e realizzati in legni tagliati probabilmente assai
sottili» (Degni, Usi delle tavolette, cit., 48). Inoltre,
al genere del codice ligneo, di regola nella forma del dittico, resta collegata
anche «la produzione di lettere», definite anch’esse codicilli perché «delle epistole dovevano evidentemente riprodurre
la tipologia formale e testuale», con cui l’imperatore conferiva le cariche più
importanti, che risulta attestata fino al iv
sec. d.C. (Degni, Usi delle tavolette, cit., 49). Sulla
struttura e il contenuto delle epistulae
riportate nelle fonti giuridiche cfr. De
Sarlo, Il documento, cit., 37
ss.