Università di Ferrara
Cesare
Beccaria, la tortura e i “romani legislatori”
Abstract –
In Cesare Beccaria’s On Crimes and Punishments the chapter on
torture, one of the most famous of the book, contains a significant recall of
Roman law. The author refers to ancient experience to strengthen his arguments
against torture. The article explores the use of Roman law done by Beccaria,
especially with regard to the controversial relationship between torture and veritas.
In particular, through the reading of some sources (including texts of
D. 48.18 De quaestionibus), it is
intended to demonstrate how this relationship appears overly simplified in
Beccaria’s point of view.
Nel libro di Cesare
Beccaria Dei delitti e delle pene il
capitolo dedicato alla tortura, uno dei più famosi dell’intera opera, contiene
un significativo richiamo al diritto romano: l’esperienza giuridica antica è
utilizzata qui dall’autore per rafforzare i suoi argomenti contro la tortura.
Nell’articolo si approfondisce l’uso che del diritto romano viene fatto dal
Beccaria, soprattutto con riguardo al controverso rapporto tra tortura e
ricerca della veritas nell’esperienza
antica. In particolare, attraverso la lettura di alcune fonti (tra cui passi di
D. 48.18 De quaestionibus), si
intende dimostrare come tale rapporto appaia
eccessivamente semplificato.
1.
–
Le pagine in materia di tortura de Dei delitti e delle pene sono forse fra
le più celebri dell’intera opera, insieme a quelle sulla pena di morte[1],
e ciò per diversi motivi. Fra questi, la forza che sprigionano ancora oggi per
le loro implicazioni sempre attuali, in un momento storico in cui continua, nel
nostro Paese, la discussione circa l’opportunità dell’approvazione di una legge
sulla tortura. Ampliando poi lo sguardo verso l’orizzonte internazionale ci si
imbatte in un acceso dibattito a proposito dell’utilizzo della tortura nella
lotta al terrorismo[2].
Rimangono dunque valide le parole di Piero Calamandrei, espresse nelle Avvertenze alla seconda edizione da lui
curata del libro di Beccaria: «Cesare Beccaria non ha ancora fatto tutto il suo
tempo, non ha ancora ricominciato ad essere un antico: sui problemi dei delitti
e delle pene, che continuano a dibattersi tra noi, egli ha ancora, prima di
poter tornare alla onorata quiete del suo scaffale, da terminare un discorso
che non può essere lasciato a mezzo»[3].
Nonostante l’indubbio interesse dei profili
relativi all’attualità del discorso di Beccaria non è di questo che intendiamo
occuparci: il lavoro sarà dedicato ad altri aspetti del capitolo sulla tortura
(cap. XVI). Esso contiene infatti un significativo richiamo al diritto romano:
le nostre riflessioni saranno incentrate proprio sull’uso del diritto romano da
parte dell’autore nell’ambito degli argomenti contro la tortura ed
investiranno, tra l’altro, il problema del rapporto tra tortura e verità
nell’esperienza giuridica antica[4].
2.
–
Anzitutto è bene osservare più da vicino la
struttura del cap. XVI de Dei delitti e
delle pene per una generale ricostruzione delle argomentazioni impiegate da
Cesare Beccaria contro l’applicazione della tortura[5].
Nel momento in cui Beccaria scriveva era
ampiamente utilizzata nella procedura penale: il corpo dell’accusato, da
secoli, era il locus veritatis, e i
tormenti venivano percepiti come mezzo per il raggiungimento della verità
processuale[6].
Pur essendo all’epoca possibile anche la tortura dei testimoni, l’attenzione
dello scrittore si appunta sulla tortura che veniva inflitta all’imputato. Alla
fine del Settecento era mezzo legale di prova per ottenere la confessione del
reo e veniva applicata in presenza di sufficienti indizi di colpevolezza[7].
Nello stesso tempo erano già in circolazione
numerose critiche alla pratica della tortura: Dei delitti e delle pene funse così da «catalizzatore per gli
oppositori del sistema vigente, ponendo le premesse per un suo più ampio e
stabile superamento»[8].
Il cap. XVI è caratterizzato dall’utilizzo
di immagini molto forti e vivide a partire dall’incipit dove si legge: «Una crudeltà consacrata dall’uso nella
maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o
per costringerlo a confessare un delitto, o per le contraddizioni nelle quali
incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed
incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui
potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato»[9].
Una crudeltà consacrata dall’uso:
queste poche parole evidenziano subito la disumanità della tortura e precisano
che la sua inveterata applicazione non ha radici nella legge bensì nell’uso. Come è stato ben evidenziato si
tratta di un mero accenno, di uno spunto icastico, che rimane però privo di
approfondimento[10].
Prima di introdurre le sue argomentazioni
contro l’impiego della tortura Cesare Beccaria ne descrive le funzioni: essa si
utilizza, nei confronti degli imputati, per strappare la confessione; per
sanare contraddizioni nelle quali il reo incorre nell’ambito delle sue
dichiarazioni; per scoprire i complici e chiamarli in correità; per “purgare
l’infamia”[11],
ossia per rafforzare le dichiarazioni di un reo macchiato da una precedente
condanna e, infine, per svelare ulteriori reati di cui non è ancora stato
accusato[12].
Le critiche che Beccaria avanza sono
essenzialmente di due ordini: quelle fondate sulla presunzione di innocenza,
sull’idea che attraverso la tortura si infligge sofferenza a chi non è certo
sia colpevole, e quelle rivolte contro la convinzione che la tortura sia
strumento utile per il raggiungimento della verità.
In particolare l’autore sostiene che l’imputato
non può subire lo stesso trattamento del colpevole: «un uomo non può chiamarsi
reo prima della sentenza»[13].
La probabilità che sia innocente deve condurre ad abbandonare l’utilizzo dei
tormenti, per evitare il rischio che vengano applicati a chi successivamente
verrà invece assolto dalle accuse.
Ancora, nel pensiero dell’autore lo
strumento della tortura è in conflitto con la ricerca della verità che dovrebbe
essere il cuore del processo criminale. La tortura può portare a risultati
opposti rispetto a quelli che si propone: la reazione è infatti soggettiva,
dipende dalla resistenza fisica e psicologica dell’individuo rispetto al
dolore. Di conseguenza la tortura diviene talvolta «…il mezzo sicuro di
assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti»[14].
Non sono argomenti nuovi: Beccaria si serve
nelle sue pagine di materiale risalente, pur senza indicarne esplicitamente la
provenienza, e pur allontanandosi, in alcuni casi, dall’originario significato
delle fonti.
È risaputo che l’autore - nella composizione
del libro in generale e per il capitolo XVI in particolare- utilizza i
risultati delle indagini effettuate dagli amici dell’Accademia dei Pugni,
soprattutto delle ricerche che in quel periodo andavano conducendo i fratelli
Alessandro e Pietro Verri[15].
In effetti, nelle Osservazioni sulla
tortura di Pietro Verri, pubblicate postume solo nel 1804[16],
il materiale storico utilizzato per fondare alcune delle argomentazioni contro
la tortura è esplicitamente richiamato e le fonti sono espressamente citate e
commentate[17].
3.
–
Nel quadro di riferimento per sommi capi
descritto si inserisce il richiamo al diritto romano da parte di Cesare
Beccaria.
Il rapporto fra Cesare Beccaria e il diritto
romano è stato indagato dagli studiosi a più riprese. Ciò che preme qui
evidenziare è l’approccio tendenzialmente critico, che avvicina la visione del
Beccaria a quella in circolazione tra gli Illuministi italiani. Basti pensare
all’avvertenza dedicata A chi legge[18],
dove l’autore impiega parole estremamente dure nei confronti della compilazione
giustinianea: caratterizzata da gravissimi difetti, tra cui la frammentarietà e
l’oscurità, sarebbe stata la base di partenza per la costruzione di una
“tradizione di opinioni” che la avrebbero poi soppiantata, causandone un
completo snaturamento[19].
Eppure nel cap. XVI il richiamo al diritto
romano pare compiuto, a nostro modo di vedere, in un’ottica positiva, a
sostegno cioè delle ragioni avanzate per contrastare l’utilizzo di questo
strumento probatorio: al contrario di quanto sostenuto da alcuni studiosi che
vedono invece nelle parole di Beccaria una chiara «dissociazione dagli schemi
romani» nonché una «frattura rispetto all’antico»[20].
Vediamo direttamente come Cesare Beccaria si
esprime. Il primo punto è il seguente: «Questo è il mezzo sicuro di assolvere i
robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali
inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un
cannibale, che i Romani, barbari anch’essi per più d’un titolo, riservavano ai
soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtù»[21].
Dopo l’esposizione dei primi argomenti
contro la tortura, tra i quali quello secondo cui la tortura sarebbe in
contrasto con la presunzione di innocenza, Beccaria richiama il diritto romano.
I romani sono definiti “barbari” – e qui si scorge l’atteggiamento tipico
dell’Illuminismo italiano, che sembra far coincidere l’antichità romana con
un’epoca di barbarie[22] –
ma in questo frangente si può comunque rinvenire una connotazione positiva,
legata alla circostanza che i romani avrebbero riservato la tortura ai soli
schiavi.
Più chiaro in tal senso ci pare il secondo
punto in cui vi è un riferimento al diritto romano, laddove si parla del legame
fra tortura e verità. Seguiamo il Beccaria: «L’esame di un reo è fatto per
conoscere la verità, ma se questa verità difficilmente scuopresi all’aria, al
gesto, alla fisionomia d’un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo
in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto
della maggior parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la
verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime differenze degli
oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso. Queste verità sono state
conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna
tortura che sui soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità: sono
adottate dall’Inghilterra, nazione in cui la gloria delle lettere, la
superiorità del commercio e delle ricchezze, e per ciò della potenza, e gli
esempii di virtù e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle
leggi…»[23].
Qui entrano in gioco i “romani legislatori”,
i quali, nella visione del Beccaria, non avendo fiducia nella tortura quale
mezzo per il raggiungimento della verità, ne circoscrivono l’applicazione agli
schiavi: non trovasi usata alcuna tortura
che sui soli schiavi.
La limitazione della tortura ai soli
schiavi, che non erano soggetti di diritto, bensì res, sembra, nella
ricostruzione offerta da Beccaria, legata proprio alla sua incapacità di
portare alla veritas. A nostro modo di vedere tutto ciò è indicativo di una
lettura in senso positivo del diritto romano da parte dell’autore[24].
Che Cesare Beccaria utilizzi nel capitolo
sulla tortura il diritto romano come esempio positivo da utilizzarsi nella
lotta contro la tortura può essere ulteriormente provato.
Anzitutto, nel brano poco sopra riportato il
cenno ai “romani legislatori” è inserito fra quelli che potremmo definire
‘modelli da imitare’: è seguito infatti dal richiamo ad esperienze straniere,
come quella inglese e quella svedese, nell’ambito delle quali, sostiene
l’autore, la tortura è stata abolita.
Ancora, un feroce critico del Beccaria,
l’abate Ferdinando Facchinei, nel tentativo di demolire le argomentazioni
avanzate dall’autore a favore dell’abolizione della tortura, ritorna sulla
questione del diritto romano, mostrando di intendere che il suo richiamo è
stato utilizzato ne Dei delitti e delle
pene come ulteriore argomento ad
adiuvandum, a sostegno della abolizione della tortura.
Scrive infatti Facchinei: «I Romani
Legislatori non ànno usata la Tortura per ricavare la confessione de’ Rei,
perché non avevano ancora sentita la necessità d’un tale uso; perché non erano
a portata d’esaminare questa materia così come si conveniva; e perché le
Rivoluzioni della loro Repubblica, non ànno quasi mai lasciato il loro Stato
tranquillo intieramente, né ridotte le differenti classi, e condizioni di
persone, ad un sistema fisso, per poter esaminare, e stabilire, quale fosse il
miglior metodo di procedere criminalmente; ed infatti è stato imperfettissimo
in tutte le sue parti, e più irregolarmente eseguito, come sappiamo da mille
Fatti»[25].
In conclusione, nonostante la più generale
posizione di Beccaria a proposito del diritto romano, posizione che lo
avvicina, come si è detto, agli illuministi italiani, nella trattazione della
tortura l’esperienza giuridica antica è vista ed utilizzata come esempio di un
sistema che, conoscendo i difetti dello strumento in esame, ne limita
l’applicazione agli schiavi: esempio, dunque, da certi punti di vista positivo[26].
L’uso del diritto romano nelle pagine sulla
tortura del Dei delitti e delle pene
presenta alcuni aspetti di criticità, taluni dei quali già evidenziati nella
storiografia. Due, in particolare, le questioni che si aprono: la prima
riguarda l’ambito di applicazione della tortura a Roma, che secondo Cesare
Beccaria era limitata agli schiavi; la seconda, invece, più complessa, investe
il problema del rapporto fra tortura e verità nel diritto romano.
4.
–
L’affermazione del Beccaria secondo cui il
diritto romano avrebbe limitato l’impiego della tortura sui soli schiavi è
fuorviante: è a tutti noto, infatti, che la quaestio (l’interrogatorio con
tortura[27]),
applicata a testimoni e imputati[28],
veniva usata anche nei confronti dei liberi.
Da iniziali eccezioni al divieto di tortura sugli uomini liberi si arrivò ad
una «stabile consuetudine e infine legge»[29],
tesa appunto a disciplinare la quaestio
nei loro confronti[30].
Questo cambiamento sarebbe avvenuto con l’avvento del Principato e con
l’affermarsi delle cognitiones extra
ordinem[31].
Diverse le fonti significative in argomento.
Fra molte, si può ricordare un celebre passo di Callistrato:
D. 48.18.15 pr. (Call. 5 de cogn.) Ex libero homine pro testimonio non vacillante
quaestionem haberi non oportet.
Il brano, che riguarda la quaestio dei
testimoni, si presta a più livelli di lettura. Da un lato, infatti, la
riflessione di Callistrato è orientata dall’intento di limitare l’uso della
tortura nei confronti dei liberi.
Nello stesso tempo, però, dal passo emerge che la prassi di sottoporli a
tortura fosse assai diffusa e che venisse rimessa alla piena discrezionalità
del giudice. Emerge inoltre da qui che la tortura dei liberi era da applicarsi
senza remore nel caso in cui la testimonianza resa fosse incerta[32].
Se dal brano si può ricavare l’idea di una
posizione del diritto ufficiale molto cauta nei confronti dell’applicazione
della tortura ai liberi ancora in età
severiana[33],
nello stesso tempo è indubbio che le parole del giurista dimostrano con
chiarezza l’avvenuta estensione della quaestio
anche ai soggetti di diritto.
Ancora, significativa appare il principium di una costituzione di
Diocleziano del 290 dove è citato un provvedimento di Marco Aurelio. Si tratta
di
C. 9.41.11 pr. Diocletianus et Maximianus AA. Boetho.
Divo Marco placuit eminentissimorum nec non etiam perfectissimorum virorum
usque ad pronepotes liberos plebeiorum poenis vel quaestionibus non subici, si
tamen prioris gradus liberos, per quos id privilegium ad ulteriorem gradum
transgreditur, nulli violati pudoris macula adspergit. PP.
v k. Dec. ipsis IIII et III AA. conss.
La costituzione presenta una
regolamentazione di dettaglio in tema di applicazione della quaestio ai liberi: l’attenzione dell’imperatore si concentra specialmente
sulle categorie di soggetti che debbono essere escluse dai tormenta. Si tratta dunque di una testimonianza che mostra l’oramai
diffuso utilizzo della tortura sui liberi,
nei confronti dei quali vengono stabilite numerose esenzioni[34].
Non essendo possibile approfondire qui la
questione della applicazione della tortura ai liberi, certo ben testimoniata nelle fonti, ci limitiamo ad
osservare che essa appare rafforzarsi particolarmente in età severiana e poi
via via nel corso dell’età tardo antica (si pensi in particolare alle
persecuzioni dei cristiani) dove sovente da mezzo probatorio diviene vera e
propria punizione[35].
È stato osservato che nel corso del IV e V
secolo pare offuscarsi la tendenza ad una regolamentazione per così dire
tecnica della quaestio: prevale
invece, nella legislazione imperiale, l’aspetto repressivo della tortura, della
quale viene esaltata particolarmente la funzione intimidatoria e afflittiva.
Tutto ciò non solo con riferimento agli schiavi bensì anche ai liberi, in relazione ai quali peraltro
gli imperatori intervengono spesso per stabilire esenzioni tenendo conto della dignitas personarum, ed dispensando quindi dai tormenta tutta una serie di persone in virtù del rango o della
carica ricoperta[36].
Insomma, l’asserzione, forte, proveniente
dal Beccaria, secondo cui l’esperienza giuridica romana avrebbe limitato
l’applicazione della tortura ai soli schiavi è infondata[37].
Che il discorso di Cesare Beccaria presenti
aspetti di debolezza e fragilità nella ricostruzione storica che funge da
cornice è cosa nota, e rilevata da molti autori[38].
Qual è la ragione di queste affermazioni del
Beccaria? Si tratta forse di mancata conoscenza del diritto romano o di un
errore consapevolmente compiuto, che riveste la funzione di rafforzare le
argomentazioni contro la tortura? Noi propendiamo per questa ipotesi, come
spiegheremo nelle prossime pagine[39].
Un aspetto degno di rilievo è quello della
diffusione di tale idea presso i contemporanei di Beccaria. Solo per citare
alcuni esempi, si può ricordare che Voltaire, nel suo commento a Dei delitti e delle pene, sembra
condividere le parole di Beccaria sulla limitazione della tortura agli schiavi
nel diritto romano[40].
Oscillante, da questo punto di vista, appare Pietro Verri, il quale, nelle Osservazioni sulla tortura, in alcuni
punti della trattazione pare accogliere la medesima visione edulcorata del
diritto romano[41].
Più avanti nel tempo, anche Alessandro Manzoni, nella Storia della Colonna infame, sostiene che la tortura era impiegata
dai romani solo nei confronti degli schiavi[42].
Di particolare interesse è inoltre
l’influenza che questa idea ebbe anche presso i pratici.
Nel 1772 il governo milanese chiese ai membri
del Consiglio di Giustizia di Mantova un parere sulla legittimità ed utilità
della tortura nei processi criminali[43].
Orbene, diversi giuristi favorevoli
all’abolizione (o quantomeno ad una limitazione) della tortura utilizzarono
l’argomento della natura servile della quaestio.
Per esempio, il Presidente del Consiglio di Giustizia, il Barone Giorgio de
Waters, si schierò fra i favorevoli all’abolizione, con un discorso chiaramente
ispirato all’opera di Beccaria, che pure non viene da lui citata espressamente[44].
Qui, fra gli argomenti del giurista mantovano, vi è quello secondo cui nel
diritto romano la tortura era riservata ai soli schiavi e che dunque, cessata
la schiavitù, sarebbe dovuta venire meno. La descrizione della tortura come
istituto servile torna pure nella riflessione di altri componenti del
Consiglio, che fanno uso anche di questa ragione per propugnare l’abolizione
dei tormenta[45].
5.
–
Il secondo problema da affrontare, più
complesso, è quello relativo al rapporto fra tortura e ricostruzione della
veritas nel diritto romano, rapporto eccessivamente semplificato nelle pagine
di Cesare Beccaria, e sul quale, ci sembra, si è appuntata meno l’attenzione
dei critici di Beccaria e, più in generale, della dottrina.
Se ben cogliamo l’argomentare dell’autore,
nei due punti del cap. XVI in cui viene richiamata l’esperienza giuridica
romana egli sembra dire che l’uso della tortura solo sugli schiavi era
ricollegabile ai difetti della tortura medesima, ai suoi fatali inconvenienti:
come si è visto, l’applicazione dei tormenta conduceva a confondere il reo e
l’innocente, con la conseguenza che difficilmente si poteva ottenere
l’accertamento della verità.
Parte del discorso del Beccaria contro la
tortura è costruito su questi assunti, e l’esperienza romana appare qui
utilizzata per rafforzarli, dunque alla stregua di un modello positivo. Come si
è già rilevato[46],
nella scrittura delle pagine di cui ci stiamo occupando l’autore si servì del
materiale e delle fonti che amici come i fratelli Verri andavano raccogliendo.
Queste fonti non vengono espressamente citate da Cesare Beccaria ma le sue
parole rievocano con una certa chiarezza argomenti dalla lunga tradizione
storica.
Si pensi, per esempio, all’idea secondo cui
l’applicazione della tortura fa sì che il colpevole e l’innocente vengano
confusi: il dolore che viene inflitto attraverso la tortura è «il mezzo sicuro
di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti».
Si tratta di un argomento che affonda le sue
radici nel mondo antico[47].
Un noto passo dell’Institutio Oratoria di Quintiliano contiene affermazioni del
tutto simili[48]:
Inst. Orat. 5.4.1
Sicut in tormentis quoque, qui est locus frequentissimus, cum pars altera
quaestionum vera fatendi necessitatem vocem, altera saepe etiam causa falsa
dicendi, quod aliis patientia facile mendacium faciat, aliis infirmitas
necessarium…
In
questa parte del brano Quintiliano mette in evidenza la contraddizione insita
nei tormenta: sotto tortura mente chi
resiste alla sofferenza, ma anche chi non riesce ad opporre resistenza al
dolore. In alcune persone la capacità di resistere facilita la menzogna, mentre
in altre la debolezza la rende necessaria. Dunque, inevitabilmente, la tortura
è fonte di falsità[49].
Tutto ciò è ribadito in
Inst. Orat. 5.10.70
… Mentietur in tormentis qui dolorem pati potest, mentietur qui non potest…
dove
il maestro di retorica afferma di nuovo che la tortura conduce a risultati
inaffidabili, poiché causa la menzogna di chi riesce a resistere ai tormenti ma
anche di chi non li sopporta.
Orbene,
si diceva che una riflessione del tutto analoga è presente nel capitolo XVI de Dei delitti e delle pene, come d’altra
parte nelle Osservazioni sulla tortura di
Pietro Verri[50]. Nel discorso
dei due intellettuali milanesi si tratta di un’argomentazione fondamentale per
la demolizione dell’istituto della tortura.
Se
l’approccio di Beccaria è più asciutto, particolare forza rivestono le parole
di Pietro Verri il quale, compiuto un nutrito excursus delle opinioni «d’alcuni rispettabili scrittori intorno la
tortura ed usi odierni d’alcuni stati»[51],
tra cui proprio l’opinione di Quintiliano, afferma: «Da questa serie di
autorità sembra bastantemente chiaro il torto di coloro che asseriscono che sia
un nuovo ritrovato de’ moderni filosofi l’orrore per la tortura; essi non
possono aspirare a questa gloria d’aver i primi sentita la voce della ragione e
della umanità su di tale proposito, ma tanto è antica la contraddizione a
questa barbara costumanza quanto lo è antico il ragionare e l’aborrire le
inutili crudeltà…»[52].
Ciò
che nelle opere di Cesare Beccaria e di Pietro Verri appare – rispettivamente
in maniera implicita ed esplicita – come la rievocazione di un pensiero già
prodotto, risulta a ben vedere un’abile ‘manipolazione’ delle fonti antiche.
Per
esempio, in tema di quaestio, le
fonti retoriche presentano un approccio estremamente contraddittorio che, lo si
vedrà, influenza pesantemente anche la successiva riflessione dei giuristi.
Infatti, l’idea che la tortura conduca a dichiarazioni inattendibili, che
dipendono anche dalla resistenza fisica e psicologica di chi è ad essa
sottoposta, si accompagna alla consapevolezza che la quaestio è strumento irrinunciabile, la cui utilità non viene messa
in discussione.
Conseguenza
è il raggiungimento di «un risultato compromissorio: pur continuando a
propagandare la tortura come fonte di verità, vengono progressivamente additati
criteri e confini in ordine al momento applicativo e valutativo»[53].
Torniamo
infatti all’Institutio Oratoria di
Quintiliano, leggendo la continuazione del passo poco sopra visto:
Inst. Orat. 5.4.2.
Quaedam tamen in hac parte erunt propria cuiusque litis. Nam sive de habenda
quaestione agetur, plurirum intererit quis et quem postulet aut offerat et in
quem et ex qua causa: sive iam erit habita, quis ei praefuerit, quis et quo
modo sit tortus, an credibilia dixerit, an inter se constantia, perseveraverit
in eo quod coeperat an aliquid dolore mutarit, prima parte quaestionis an procedente
cruciatu. Quae utrimque tam infinita sunt quam ipsa rerum varietas.
Quintiliano,
dopo aver ricordato nel paragrafo precedente i problemi che possono scaturire
dalla tortura, e aver sottolineato la relatività di tale strumento, si sposta
ora su di un piano metodologico. Invitando ad una cauta valutazione afferma
che, in caso di quaestio, è
necessario considerare da quale parte provenga la richiesta, chi sia il
soggetto da torturare e per quale ragione debba essere applicata la quaestio. Se essa è già avvenuta, si
dovrà tenere conto del ruolo di chi l’ha condotta e di chi l’ha subita, le
modalità con cui è stata portata avanti, e le dichiarazioni che sono state rese
sotto tortura.
In
particolar modo, devono essere vagliate credibilità e coerenza delle stesse;
bisogna verificare se il torturato abbia portato avanti le dichiarazioni
iniziali o se a causa del dolore le abbia modificate, all’inizio
dell’interrogatorio o successivamente. Quintiliano conclude osservando che le
considerazioni restano infinite quanti sono i casi che possono presentarsi[54].
L’approccio
del maestro di retorica al problema della quaestio,
dunque, non risulta ‘granitico’ così come Cesare Beccaria e Pietro Verri
vorrebbero far credere, bensì più sfaccettato. Pur consapevole dei rischi cui
l’applicazione dei tormenta conduceva
Quintiliano non giunge infatti ad una netta condanna della tortura, che rimane
strumento irrinunciabile[55].
6. –
L’argomento
secondo cui la tortura porta a dichiarazioni non sempre attendibili essendo dunque
connotata da un controverso rapporto con la veritas
è assai radicato anche nelle fonti giuridiche di età classica.
Da
questo punto di vista i testi che potrebbero essere richiamati sono molteplici.
Ci limitiamo a ricordare solo alcuni passi.
Paradigmatico
è un celebre brano di Ulpiano tratto dal libro ottavo del de officio proconsulis. Si tratta di un frammento da sempre
considerato «un argomento a favore dell’abolizione dell’istituto»[56]:
D. 48.18.1.23 (Ulp. 8 de off. procons.). Quaestioni fidem non
semper nec tamen numquam habendam constitutionibus declaratur: etenim res
fragilis et periculosa et quae veritatem fallat. Nam plerique patientia sive
duritia tormentorum ita tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo
possit: alii tanta sunt impatientia, ut quodvis mentiri quam pati tormenta
velint: ita fit, ut enim vario modo fateantur, ut non tantum se, verum etiam
alios criminentur.
Ulpiano[57]
afferma che, sulla base delle costituzioni imperiali, se non in ogni occasione
si deve prestare fede alle risultanze della quaestio[58],
nello stesso tempo non sempre la tortura va considerata come fonte di menzogna.
L’inizio del paragrafo segnala dunque una profonda antinomia in tema di
tortura: se da un lato può portare all’inganno, dall’altro può anche condurre
alla verità. Il discorso del giurista continua poi con una serie di
osservazioni che paiono quasi richiamare le argomentazioni di Quintiliano in Inst. Orat. 5.4.1: Ulpiano infatti afferma che molti, dotati di capacità
di sopportazione del dolore, disprezzano a tal punto la tortura che da loro non
si può ottenere la verità; altri invece si piegano facilmente al dolore,
preferendo lasciarsi andare a dichiarazioni non veritiere.
Tutto ciò però non comporta come conseguenza
l’abbandono dello strumento. Nei paragrafi successivi del passo, Ulpiano
applica questa visione a diverse situazioni. Per esempio, al caso della tortura
dei nemici, che mentono facilmente: nonostante ciò, non va negata in via
assoluta la attendibilità della quaestio
‘sub praetextu inimicitiarum’[59].
Lo
stesso giurista, in un ulteriore celebre brano proveniente dai libri ad edictum, dedicato al contesto
delle indagini private (l’editto sulle iniuriae
quae servis fiunt) afferma:
D.
47.10.15.41 (Ulp. 77 ad edictum).
Quaestionem intellegere debemus tormenta et corporis dolorem ad eruendam
veritatem. Nuda ergo interrogatio vel levis territio non pertinet ad hoc
edictum. Quaestionis verbo etiam ea, quam malam mansionem dicunt, continebitur.
Cum igitur per vim et tormenta habita quaestio est, tunc quaestio intelligitur.
Nello spiegare il significato della parola quaestio, lemma polisemico, Ulpiano
asserisce che per l’editto non vi è strettamente quaestio in presenza della sola nuda
interrogatio o di levis territio.
Ciò che qualifica tale strumento probatorio sono i tormenta e, di conseguenza, il corporis
dolor che viene inflitto, la vis che
ne scaturisce. Nell’evidenziare appunto la violenza e il dolore connaturati
alla tortura, il giurista afferma che si tratta di mezzo per la ricerca della
verità: quaestionem intellegere debemus
tormenta et corporis dolorem ad eruendam veritatem[60].
Pur riguardando l’ambito delle indagini private, come si è detto, è del tutto
plausibile che il pensiero di Ulpiano risenta della quaestio applicata nella cognitio
extra ordinem criminale[61].
Di un certo interesse nell’ottica del
rapporto fra quaestio e verità è poi
un altro brano, proveniente dal de
iudiciis publicis di Marciano, che si riferisce all’applicazione della
tortura (degli schiavi) nelle cause pecuniarie[62]:
D. 48.18.9 pr. (Marc. 2 de iud. publ). Divus Pius rescripsit posse de servis haberi
quaestionem in pecuniaria causa, si aliter veritas inveniri non possit. Quod et
aliis rescriptis cavetur. Sed hoc ita es, ut non facile in re pecuniaria
quaestio habetur: sed si aliter veritas inveniri non possit nisi per tormenta,
licet habere quaestionem, ut et divus Severus rescripsit. Licet
itaque et de servis alienis haberi quaestionem, si ita res suadeat.
Il giurista Marciano richiama un rescritto
di Antonino Pio attraverso il quale sarebbe avvenuta l’estensione della tortura
dei servi anche ai giudizi civili. Questo ulteriore impiego della quaestio
appare poi disciplinata da successivi interventi imperiali, tra cui un
rescriptum di Settimio Severo[63].
Ciò che importa evidenziare è anzitutto la
tensione degli imperatori verso il contenimento della quaestio degli schiavi
nei processi civili, da non usare indiscriminatamente. Ancora, e forse questo è
l’aspetto ai nostri fini più interessante, va notato che tale limitazione si
fonda sull’assunto per cui l’utilizzo della tortura è ammissibile solo se non
vi sono altri strumenti per ottenere la verità.
Emerge dunque dal passo una stretta
connessione fra quaestio e ricerca della verità: si aliter veritas inveniri non possit. Se quindi da un lato vi è il
tentativo di circoscrivere la tortura nelle cause pecuniarie, dall’altro non si
può negare che, nel pensiero degli imperatori richiamato da Marciano, essa
viene riconnessa alla veritas, ed è posta sullo stesso piano degli altri mezzi
probatori quanto a funzione di ricostruzione del vero[64].
Proprio la necessaria conoscenza della veritas
è alla base della estensione della tortura alle cause pecuniarie[65].
Il brano, insieme a quelli precedenti,
mostra dunque un atteggiamento ambivalente. Pur nella consapevolezza
dell’incertezza cui questo mezzo può condurre, il suo legame con la veritas non viene radicalmente negato;
ci sono anzi diversi casi nei quali la quaestio
è ricollegata strettamente alla ricerca della verità. Anche quando vi è un atteggiamento più
scettico nei confronti della tortura la sua applicazione non è mai comunque
sconfessata[66].
Nella
riflessione dei giuristi la consapevolezza dei limiti della tortura non porta
al suo rifiuto; la condanna della sua efferatezza e i dubbi sulla attendibilità
dei suoi risultati non conducono al rigetto della quaestio ma piuttosto ad una sua minuziosa regolamentazione[67].
I giuristi e anche gli imperatori, consci dei difetti della tortura, arrivano
ad elaborare una serie di direttive e successivamente di vere e proprie regole
fondamentali nell’ambito dell’istruzione probatoria[68].
Tali principi mirano a “salvaguardare la fides”
delle dichiarazioni ottenute attraverso la quaestio:
«l’obiettivo perseguito è mantenere priva di scalfitture la fede in quella che
si vuole propagandare come ontologica attitudine dei tormenta a far emergere il vero»[69].
Se ci muoviamo verso il tardo antico, la
situazione è ancora diversa: talvolta infatti, nella legislazione imperiale, il
rapporto tra tortura e veritas appare addirittura esaltato[70].
In conclusione, i giuristi (e anche gli
imperatori) non arrivano a negare in via definitiva la possibilità che la quaestio possa condurre alla verità,
riproponendo invece quel “compromesso con la tortura” già individuabile nel
pensiero dei retori[71].
Siamo dunque di fronte ad un quadro diverso
rispetto a quello che viene dipinto da Cesare Beccaria, nel pensiero del quale
il diritto romano negherebbe in assoluto che la tortura può condurre alla
verità.
Come si è già visto con riguardo all’idea
dell’applicazione della quaestio solo agli schiavi, anche con riferimento alla
ricostruzione del rapporto quaestio-veritas
nel diritto romano la posizione di Cesare Beccaria non è isolata, ma, al
contrario, abbastanza diffusa.
In quest’ottica, molto significative
appaiono le parole di Pietro Verri, il quale sembra condividere la medesima
visione. Nelle sue Osservazioni sulla
tortura si rinviene un approccio del tutto simile, e ciò è forse normale se
si tiene conto del fatto che il materiale storico utilizzato da Cesare Beccaria
veniva proprio dalle ricerche dei fratelli Alessandro e Pietro Verri.
Per esempio, in § 10. Se le leggi e la pratica
criminale risguardino la tortura come un mezzo per avere la verità, Pietro
Verri scrive: «Ho stabilito di provare in secondo luogo che le leggi e la
pratica istessa de’ criminalisti non considerano la tortura come un mezzo per
distinguere la verità. Ciò si conosce facilmente osservando che non trovasi
prescritto alcun metodo o regolamento nel Codice Teodosiano e nessuno parimenti
nel Codice Giustinianeo per applicare ai tormenti i sospetti rei. In que’
sterminati ammassi di leggi e prescrizioni ove si sminuzzano le minime
differenze de’ casi civili e criminali niente si prescrive per la tortura…»[72].
Attraverso affermazioni molto forti Pietro Verri sembra addirittura negare che
il Codex Theodosianus ed il Codex Iustinianus contengano una qualsivoglia disciplina
della tortura: le “leggi” e la pratica criminale non la considerano strumento
che porta alla verità.
E ancora, proseguendo, a proposito di D.
48.18.1.23 di Ulpiano, Pietro Verri asserisce: «Se poi il solo argomento
negativo non sembrasse bastante a dimostrare questa verità veggasi la legge 2 §
23, ff. De quaestionibus ove ben lontano lo spirito delle leggi Romane dal
riguardare la tortura come un mezzo da rinvenire la verità… Così s’esprime
positivamente il Digesto e tale era l’opinione de’ Romani nostri legislatori e
maestri i quali conoscevano l’uso della tortura sopra gli schiavi siccome
vedremo poi. Dunque la legge non riguarda la tortura come un mezzo per la
scoperta della verità»[73].
Di nuovo, con vigore, è negato ogni rapporto
fra tortura e conseguimento della verità nell’esperienza romana.
Siamo dunque di fronte ad una forzatura del
diritto antico, che diventa argomento per fondare e sostenere la battaglia
contro la tortura.
È stato detto che nel discorso di Pietro
Verri le numerose ambiguità della ricostruzione storica sono dovute all’intento
polemico che anima l’autore: consapevole della necessità di «combattere l’uso
della tortura in assoluto, e non l’applicazione di essa in forme più o meno
legittime…»[74],
egli sposterebbe il terreno del confronto da un piano storico-giuridico a
quello filosofico, senza un approfondimento scientifico in una prospettiva
storica[75].
Orbene, le medesime osservazioni,
plausibilmente, possono essere estese all’opera di Cesare Beccaria[76]:
l’uso impreciso, a tratti scorretto, del diritto romano da parte dell’autore de
Dei delitti e delle pene si spiega
forse tenendo presente la funzione politica dell’opera, volta a scuotere le
coscienze e a stimolare il dibattito. E proprio l’antichità così rivisitata
offre un argomento prezioso per la lotta contro la tortura[77].
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Secondo P.
Nuvolone, Processo e pena
nell’opera di Cesare Beccaria, in Atti del
convegno internazionale su Cesare Beccaria nel secondo centenario dell’opera
“Dei delitti e delle pene”, Torino- 4-6 ottobre 1964, Torino, 1966, 309,
Cesare Beccaria in materia di tortura avrebbe scritto “proposizioni
definitive”.
[2] Su tutto ciò rimandiamo al recente lavoro
di S. Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura
giudiziaria. L’insegnamento di Beccaria come antidoto contro i ritorni alle
fredde atrocità (Dei delitti e delle pene, § XVI), in Diritto penale XXI secolo europeo storico comparato, XIII, 2/2014,
313 ss. dove la studiosa dà conto del dibattito ed evidenzia appunto
l’attualità dell’opera di Beccaria in tal senso. In particolare, l’autrice si
sofferma sulla visione, ampiamente diffusasi dopo l’11 settembre 2001,
favorevole a tollerare o addirittura a legalizzare la tortura a scopo di
confessione, rappresentata oggi da autori come A.M. Dershowitz, Il
terrorismo. Capire la minaccia, rispondere alla sfida, Roma, 2003. Su
queste posizioni, e per la loro critica, si veda di recente M. La Torre, M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013.
[3] Così P.
Calamandrei, Avvertenza alla
seconda edizione, in C. Beccaria, “Dei Delitti e delle pene”, seconda edizione riveduta e accresciuta,
a cura di P. Calamandrei, Firenze, 1950, 8. Sull’attualità dell’opera di C.
Beccaria si vedano, fra tanti, M. Pisani,
Attualità di Cesare Beccaria, Milano, 1998; M. Cattaneo, La perenne
attualità del pensiero giuridico di Cesare Beccaria, in Critica del diritto, 1,
1999, 118 ss.
[4] La relazione fra tortura e veritas processuale, spesso oggetto di
interesse negli studi romanistici (si pensi ai lavori di Y. Thomas, Arracher la vérité. La Majesté et
L’Inquisition (Ier siècle, IVème siècle ap. J.C.), in Le Juge et Le Jugement dans les traditions juridiques européennes.
Études d’histoire comparé, Paris,
1996, 15 ss., e Id., Confessus pro iudicato. L’aveau civil et
l’aveau pénal à Rome, in L’aveau. Antiquité et Moyen Âge (Actes de la
table ronde de Rome, 28-30 mars 1984), Roma, 1986, 89 ss.) è oggi tornata
al centro dell’attenzione degli studiosi. Di questo rapporto infatti si occupa ex professo la recente monografia di A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem. Profili metodologici
e processuali della quaestio per tormenta, Bologna, 2011. Più in generale sulla veritas si vedano i saggi raccolti nel volume Quid est veritas? Un seminario su verità e forme giuridiche, a cura di C. Masi Doria e C. Cascione,
Napoli, 2013.
[5] Come si è detto si tratta di cap. XVI.
Nelle edizioni successive alla traduzione francese dell’abate André Morellet (A. Morellet, Traité des délits et des peines, traduit de l’Italien d’après la
troisième édition…, Amsterdam, 1766), venne dato un ordine differente ai
capitoli e vennero effettuati alcuni spostamenti (qui il capitolo sulla tortura
è il XII). Beccaria, dal canto suo, pur avendo apprezzato tale traduzione,
nelle successive edizioni -fra cui l’importante edizione pubblicata a Livorno
nel 1766- non riprese l’ordine dato dal Morellet. Quella versione rimase però
diffusissima. Su tutto ciò cenni in G.
Carnazzi, Premessa al testo, in C.
Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di G. Carnazzi, Milano, 2014,
30.
[6] Afferma S.
Carnevale, I fatali inconvenienti
della tortura giudiziaria, cit., 313 s. che la procedura penale era, da
secoli, quasi sinonimo di tortura.
[7] Sul quadro normativo in cui si inserisce
l’applicazione della tortura all’epoca si veda essenzialmente A. Cavanna, Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, in Cesare Beccaria fra
Milano e l’Europa, Bari, 1990,
168 ss. In dettaglio, per la situazione in Lombardia riflessioni in S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena
capitale nella Lombardia austriaca. Introduzione, in Studi Parmensi, XIX, 1977, 302 ss. e nota 87. Lo studioso evidenzia come la
regolamentazione della tortura era presente solo in modo “vago” nella
legislazione statutaria di Milano: fonte della sua legittimità erano il diritto
comune e dunque le fonti di diritto romano, in particolare i testi provenienti
da D. 48,18 De quaestionibus e C.
9,41 De quaestionibus, oltreché D. 48,19 De poenis. Gli Statuti
criminali disciplinavano la tortura presupponendone il fondamento proprio nel
diritto comune. Si veda inoltre Id., Le letture dei giuristi. Aspetti del dibattito sulla tortura nel
Consiglio di Giustizia di Mantova (1772), in La “Leopoldina”. Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del
‘700 europeo, 10, Illuminismo e
dottrine penali, a cura di L. Berlinguer e F. Colao, Milano, 1990, 52 ss.
[8] Cfr. ancora S. Carnevale, I fatali
inconvenienti della tortura giudiziaria,
cit., 315. A proposito dell’influenza che ebbe sull’opera di Beccaria la
tradizione illuminista precedente si veda, fra tutti, M.A. Cattaneo, Cesare
Beccaria e l’Illuminismo giuridico europeo, in Cesare Beccaria tra
Milano e l’Europa, cit., 196 ss.
Inoltre, di recente, M.G. di Renzo
Villata, Quale scienza penale?
Prima e dopo Beccaria, in Dei delitti e delle pene a 250 anni dalla
pubblicazione. La lezione di Cesare Beccaria, Milano, 2015, 133 ss.
[9] C.
Beccaria, Dei delitti e delle pene. Con una raccolta
di lettere e documenti relativi alla nascita dell’opera e alla sua fortuna
nell’Europa del Settecento, a cura di F. Venturi, Torino, 1994, 38.
[10] S.
Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura
giudiziaria, cit., 316. Come si
vedrà ampiamente nel corso di questo lavoro, ad un approfondimento circa l’uso
in tema di tortura, a partire dall’antichità, si dedicherà invece Pietro Verri:
P. Verri, Osservazioni sulla tortura, a
cura di G. Barbarisi, Milano, 1984, 72 ss.
[11] A proposito di questa particolare funzione
della tortura, e la posizione di Cesare Beccaria, si vedano le osservazioni di F.P. Casavola, Diritto e religione nel “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, in Un
Padre del nostro tempo, Roma,
1994, ora in F.P. Casavola, Sententia legum. Tra mondo antico e moderno,
III, Itinerari della civiltà
giuridica, Napoli, 2000, 221 s.,
in cui lo studioso evidenzia che, sottolineando Beccaria la somiglianza fra la
“purgazione d’infamia” attraverso lo “slogamento delle ossa” e la confessione
dei peccati nel Tribunale della penitenza, l’autore utilizza le parole “abuso
della religione” (espressione che torna nel capitolo Dei giuramenti e in quello Della
pena di morte): orbene, si tratterebbe, secondo Casavola, di una
«decantazione catartica del sacro dalla profanità del diritto».
[12] Sulle diverse finalità della tortura
esplicitate dal Beccaria cfr. la ricostruzione di S. Carnevale, I fatali
inconvenienti della tortura giudiziaria, cit., 316.
[14] Cfr. C.
Beccaria, Dei delitti e delle pene,
cit., 38. Come è stato rilevato, la critica che Beccaria avanza nei confronti
della tortura, come accade anche nel capitolo dedicato alla pena di morte, è
caratterizzata da un forte approccio utilitaristico, oggetto di molte critiche
nel corso del tempo. Ci limitiamo a ricordare, per esempio, P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, II, Milano, 1954, 248, nota 7, secondo il quale l’intera
trattazione della tortura ne Dei delitti
e delle pene si regge su puri argomenti logici. Più recentemente, cfr. G. Delitala, Cesare Beccaria e il problema penale, in Riv. it.dir. e proc. pen,
1964, 973, per il quale le pagine sulla tortura vanno annoverate «fra le pagine
speculativamente più deboli e meno moderne del libro». Recentemente, su questi
profili, S. Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura
giudiziaria, cit., 318 s.,
secondo la quale, in realtà, il discorso di Cesare Beccaria non è privo di
carica morale. In tale prospettiva di un certo interesse ci appaiono anche le
riflessioni di P. Calamandrei, Prefazione, cit., 113, il quale, a proposito delle argomentazioni di Beccaria
circa l’inutilità della tortura e della pena di morte afferma: «Problemi di
economia politica, a sentir lui, e quindi soluzioni di ordine relativo e
contingente: a chi guardi alla superficie pare che l’esigenza assoluta
dell’imperativo morale non abbia alcun peso nelle sue valutazioni. Ma in
realtà, questa non è che apparenza: dove l’argomentazione mantenuta sul terreno
dell’utile si rivela meno efficace e meno sicura, basta scavare un po’ entro
quella dialettica friabile per accorgersi che al di sotto, a reggere tutta la
dimostrazione, c’è la roccia della ragione morale». Per Calamandrei, in realtà
è proprio il capitolo dedicato alla tortura quello in cui la valutazione di
utilità si mostra sufficiente nell’argomentazione dell’autore: poiché tutti i
giuristi sono sempre stati concordi nel definire la tortura come indagatio veritatis per tormentum il cui
unico scopo, quindi, è quello del raggiungimento della verità: per il Beccaria
è dunque semplice dimostrare che la tortura non è affatto adatta a questo fine.
«Qui, anche senza chiamare in aiuto la ragione morale che vieta in maniera
categorica di tormentare una creatura umana, l’argomentazione condotta sul
terreno utilitario riusciva, da sé sola, pienamente probante». Forte tensione
morale, al contrario, si rinviene nelle Osservazioni
sulla tortura di Pietro Verri. G.
Barbarisi, Introduzione, in P.
Verri, Osservazioni sulla tortura,
cit., XXXV, sottolinea come nell’opera di Pietro Verri vi sia sempre lo scopo
della persuasione, al contrario dell’impostazione che si può rinvenire nella
trattazione del Beccaria, il quale mirava ad imporre la propria verità.
Più in generale,
sull’utilitarismo di Beccaria, cfr. in particolare G. Francioni, Beccaria
filosofo utilitarista, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, cit., 69 ss. Sul rapporto fra Beccaria
e Bentham si veda M.A. Cattaneo, Cesare Beccaria e l’illuminismo giuridico
europeo, cit., 212 ss. Ritorna
oggi sul problema M. De Caro, Utilitarianism and Retributivism in Cesare
Beccaria, in The Italian Law Journal, 2,
2016, No. 1, 1 ss.
[15] A proposito del materiale che sta alla base
della composizione del capitolo sulla tortura Pietro Calamandrei afferma:
«Sdegnoso e incapace di ricerche erudite, egli si serviva dei materiali storici
raccolti dagli amici dell’“Accademia dei Pugni” come punti di partenza per
esporre le sue idee. Tutte le notizie di storia e di legislazione comparata che
in questo capitolo si trovano appena accennate, ricompaiono, diligentemente
illustrate con precisi riferimenti alle fonti, nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri; che, quantunque redatte
in forma definitiva nel 1777 (e pubblicate nel 1804 dopo la sua morte), si
basarono su materiali raccolti dallo stesso Pietro nel 1764, e certamente
consultati dal B. mentre scriveva questo capitolo» (cfr. nota 1 al Cap. XII, in
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di P. Calamandrei, cit., 212 s.
Uno sguardo complessivo ai ‘precedenti’ delle argomentazioni di Beccaria contro
la tortura in L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla? L’abolizione della
tortura tra cultura universitaria e Illuminismo giuridico. Le Note critiche di
Antonio Giudici e Dei delitti e delle pene, in Formare il giurista. Esperienza nell’area lombarda tra Sette e
Ottocento, a cura e con un saggio introduttivo di M.G. di Renzo Villata, Milano, 2004, 271 s.
La studiosa, rifacendosi al pensiero di J.-M.
Carbasse, Histoire du droit pénal
et de la justice criminelle, Paris, 2000, 353 ss., nota che se le voci
contro la tortura che precedono l’opera di Cesare Beccaria possono definirsi
isolate, insufficienti per incidere concretamente sul tessuto sociale,
l’Illuminismo è invece il momento dell’intervento definitivo per la
soppressione dell’istituto.
[16] Sulle vicende relative alla pubblicazione
dell’opera di Pietro Verri cfr. G.
Barbarisi, Introduzione, cit., in P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., XL s.
[17] A tal proposito si vedano
in particolare il paragrafo 12, Uso delle
antiche nazioni sulla tortura, il
paragrafo 14, Opinione d’alcuni
rispettabili scrittori intorno la tortura ed usi odierni d’alcuni stati e
il paragrafo 15, Alcune obbiezioni che si
fanno per sostenere l’uso della tortura,
in P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 68 ss.
Per l’elenco dei “precedenti” del discorso di Cesare Beccaria si veda inoltre P. Fiorelli, La tortura giudiziaria, II,
cit., 209 ss. Di recente scrive S.
Carnevale, I fatali inconvenienti
della tortura giudiziaria, cit.,
318: «Alle sue spalle vi sono grandi pensatori, ma è lui che sa trarne un testo
che “è tutto sugo”, come chioserà un
commentatore dell’epoca» (la citazione viene dal Giornale enciclopedico di Milano del 18 marzo 1785, riportato in C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a
cura di F. Venturi, cit., 256.
[19] Sulla polemica contro il diritto romano che
affiora nell’avvertenza al lettore si vedano, per esempio, le osservazioni a
suo tempo avanzate da P. Calamandrei,
Prefazione, cit., 63 ss. Per una generale ricostruzione del clima culturale
avverso al diritto romano nell’ambito dell’Illuminismo si vedano, per esempio,
i saggi raccolti in R. Bonini, Crisi del diritto romano, consolidazioni e
codificazioni nel Settecento europeo,
Bologna, 1985; inoltre, Id., Giustiniano nella storia: il mito e la
critica nel Settecento Illuminista, Torino,
1991, 18 ss.; Id., Un “ordinato codice di leggi romane”. Il giudizio
degli Illuministi italiani sulle Istituzioni di Giustiniano, Bologna, 2001. Di recente, anche il
lavoro di F. Fasolino, Il diritto romano e la cultura giuridica
italiana del XVIII secolo, in Teoria e storia del diritto privato, I, 2008, 15 ss.; Id., Il dibattito Settecentesco intorno al diritto romano: prime
considerazioni, in Studi in onore di R. Martini, I, Milano, 2008, 1075 ss. Sulla
postilla introduttiva di Cesare Beccaria si vedano inoltre le riflessioni di F.P. Casavola, Diritto romano e religione, cit., 213 ss., che mette in luce il
legame del pensiero di Beccaria con quello degli esponenti del Caffè; su questi profili anche S. Di Noto, Le letture dei giuristi, cit.,
1061 s. Considerazioni sull’A chi legge anche
in L. Garofalo, Concetti e vitalità del diritto penale
romano durante l’Illuminismo, in Iuris
vincula. Studi in onore di M. Talamanca,
IV, Napoli, 2001, ora in L. Garofalo,
Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova, 2008, 98 ss.
A proposito del giudizio
di Cesare Beccaria sul diritto romano, esso suscitò, tra l’altro, la reazione
di Antonio Giudici, autore di un’opera che, pur mostrando la condivisione di
fondo di molte delle tesi più importanti del Dei delitti e delle pene, sottoponeva il libro ad una puntuale ed
analitica critica, con cui ne vengono svelate inesattezze e imprecisioni,
nonché i travisamenti giuridici. Nel contesto di tale commento critico Antonio
Giudici, già professore di diritto romano all’Università di Pavia (1768-1783),
poi nominato emerito e giudice del Tribunale milanese di prima istanza per le
cause camerali, fiscali, feudali ed ecclesiastiche, esalta la funzione del
diritto romano; anzi, la difesa dell’antica giurisprudenza costituisce il punto
di partenza per le censure avanzate al lavoro di Cesare Beccaria. Il libro in
questione è A. Giudici, Apologia della giurisprudenza romana o note
critiche al libro intitolato: Dei delitti, e delle pene, Milano, 1784. Su
Antonio Giudici e la sua opera si veda R.
Bonini, “Un ordinato codice di
leggi romane”, cit., 32 ss., e inoltre, con indicazione di altra
letteratura, L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla?, cit., 281 ss.
[20] Sono parole di M. Brutti, La tortura e
il giudizio, in Index, 38, 2010,
41 s. Per lo studioso, la posizione di Cesare Beccaria sarebbe di contrapposizione
rispetto al diritto romano, nel solco di un illustre precedente, il Thomasius.
Per C. Thomasius, De tortura ex foribus Christianorum
proscribenda, Halae Magdeuirgicae, 1705, e Id., Fundamenta iuris
naturae et gentium in quibus secernuntur principia honesti, justi ac decori,
1706, I VII. 14-19, la limitazione della tortura ai soli schiavi sarebbe stato
indizio che i romani avvertivano la sua iniquità; tuttavia, il diritto romano
va comunque censurato perché l’applicazione della quaestio, anche se solo nei confronti degli schiavi, è contraria ad
ogni senso di umanità ed è pervasa da intrinseca ingiustizia.
[24] Nello stesso tempo, va segnalata comunque
una sfumatura negativa nel giudizio sul diritto romano laddove Cesare Beccaria
appare riconnettere l’introduzione della tortura proprio all’esperienza
giuridica romana. Lo rileva criticamente A.
Giudici, Apologia della
giurisprudenza romana, cit., nota XCVII, 75, che ricorda che la tortura era
conosciuta anche dai Greci; inoltre, in A.
Giudici, Apologia della
giurisprudenza romana, cit., nota CVI, 80, viene evidenziata la
contraddizione in cui cade Beccaria, il quale successivamente afferma che la
tortura sarebbe invece da ricollegarsi alle esperienze barbariche. Sottolinea
oggi L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla?, cit., 300, nota
85, che si tratta di un errore di prospettiva che si rinviene parimenti nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro
Verri.
[25] F.
Facchinei, Note ed osservazioni sul libro intitolato
Dei delitti e delle pene, s.l., 1765, 72. Su Ferdinando Facchinei, abate di
Vallombrosa, e la sua durissima critica nei confronti dell’opera di Cesare
Beccaria si vedano, fra molti, G.P.
Massetto, La tortura giudiziaria
nella dottrina lombarda dei secoli XVI-XVIII, in Amicitiae pignus. Studi in ricordo di A. Cavanna, II, Milano, 2003,
1422 ss., e L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla?, cit., 278 e
nota 32.
[26] Come si è già accennato, posizione
contraria in M. Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 39 ss.,
nel cui pensiero la posizione di Cesare Beccaria è del tutto uniforme alle istanze
culturali dell’Illuminismo che «…descrive l’appropriazione violenta della
verità da parte del potere e intende contrastarla: il che significa anche
strapparne le radici antiche; rompere, su questo tema, in modo definitivo con
la tradizione romanistica».
[27] Quaestio è appunto il termine tecnico che identifica
la tortura giudiziaria nel diritto romano. A.
Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 17, nota 9,
ricorda che secondo F.G. Wasserschleben,
De quaestionum per tormenta apud romanos
historia, Berolini, 1837, 4, il lessico romano non avrebbe conosciuto il
termine ‘tortura’. Sulla polisemia della parola quaestio si veda D.
Mantovani, ‘Quaerere’, ‘quaestio’.
Inchiesta letterale e semantica, in Index,
37, 2009, 26 ss.
[28] Si vedano, fra tutti, Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig,
1899, 405 ss.; A. Ehrhardt, Tormenta, in RE, VI.A.2, 1937, 1775 ss.; P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, I, Milano, 1953, 16 ss.;
W. Waldstein, Quaestio per tormenta, in RE, XXIV, 1863, 768 s.; P. Garnsey, Social Status and Legal Privilege in the Roman Empire, Oxford, 1970, 213 s. Panoramica,
recentemente, in M. Brutti, La tortura, cit., 36. Sul rapporto fra confessione e tortura nel diritto
romano si veda Y. Thomas, Confessus pro iudicato, cit., 97 ss.
[29] «…legge che nessuna delle varie
disposizioni a noi pervenute contiene, eppure ciascuna presuppone come
naturalmente nota, per non dire come giusta»: sono parole di P. Fiorelli, La tortura giudiziaria, I, cit., 27.
[30] Nota oggi A.
Bellodi Ansaloni, Ad eruendam
veritatem, cit., 323 ss., a proposito dei titoli giustinianei D. 48,18, e
C. 9,41, che «lo sviluppo della ricca ed articolata problematica in tema di modus tormentorum e di fides, e l’intensa riflessione che ne
scaturisce, anomale qualora accostate alla sola classe servile, acquistano
inoltre maggior significato se si pensa ad un’acquisita consapevolezza da parte
dei giuristi circa il fatto che la diffusione della quaestio era un problema che riguardava ormai tutta la popolazione,
liberi inclusi». La studiosa aggiunge
che, con ogni probabilità, le varie regole individuate in tema di quaestiones servorum vennero dai
giuristi traslate naturalmente all’ambito della tortura dei liberi.
[31] In tal senso, per esempio, A. Ehrhardt, Tormenta, cit., 1781 ss.; P. Fiorelli, La tortura
giudiziaria, I, cit., 16 ss., 25
ss.; P. Garnsey, Social Status, cit., 143 ss. Più recentemente, V.
Giuffrè, La repressione criminale
nell’esperienza romana. Profili, 5a ed.,
Napoli, 1998, 160; B. Santalucia,
Diritto e processo penale nell’antica
Roma, 2a ed., Milano, 1998, 246. Il primo ambito di estensione della
tortura ai liberi sarebbe quello del crimen
maiestatis; cfr. in particolare L.
Solidoro Maruotti, Profili storici
del diritto politico, Napoli, 2002,
47 ss. e 50 ss. Non mancano ipotesi interpretative diverse, che anticipano
l’impiego della tortura sugli uomini liberi. Si veda in tal senso C. Russo Ruggeri, Quaestiones ex libero homine. La tortura degli uomini liberi nella
repressione criminale romana dell’età repubblicana e del I secolo dell’Impero, Milano, 2002.
[32] Sul passo si veda, in
particolare, U. Vincenti, Duo genera sunt testium, Padova, 1989, 122 ss. Lo studioso
afferma, dopo aver individuato quella che è la ratio principale della soluzione proposta da Callistrato, ossia
l’intento di delimitare il più possibile la applicazione della tortura agli
uomini liberi, che esso testimonia l’esistenza di una regola giuridica, nel III
sec. d.C., che permetteva la tortura dell’uomo libero incerto nel rendere
testimonianza. Sul brano inoltre, R.
Bonini, I libri “de cognitionibus”
di Callistrato, Milano, 1964,
109; C. Russo Ruggeri, Quaestiones ex libero homine, cit., 18, nota 202; M. Brutti, La tortura, cit., 37 ss.
e di recente, A. Bellodi Ansaloni,
Ad eruendam veritatem, cit., 189, secondo la quale dal passo
traspare l’idea che «… le supposte necessità probatorie finivano comunque, sia
pur a certe, labilissime condizioni, per prendere il sopravvento sul rispetto
della persona dei liberi».
[33] U.
Vincenti, Duo genera sunt testium, cit., 128 s.,
ritiene che probabilmente nel caso prospettato da Callistrato alla tortura si
potesse far ricorso quando si nutrisse il sospetto della falsità o reticenza
del teste; la tortura dunque, oltre ad illuminare sui fatti oggetto del
processo, poteva condurre all’accertamento della responsabilità criminale del
soggetto per falsa testimonianza.
[34] Sulla
costituzione si vedano, fra tutti, in D.
Dalla, Il Manzoni e D. 40.18.1.23:
riflessioni sulla tortura, in Atti
dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, LXIV, 1975-1976, 180
ss. con note. Si tratterebbe di un episodio in cui l’applicazione della
tortura, a scopo inquisitorio, non mira alla ricostruzione della verità, ma ad
ottenere lo scopo politico dell’eliminazione dell’avversario.
[35] Su tutto ciò, ancora D. Dalla, Il Manzoni, cit., 180
ss.; A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 306 ss. e da ultimo, con ampia
rassegna di fonti e letteratura, C.
Cascione, Linee per una storia della
veritas nell’esperienza giuridica romana. II. Diritto tardoantico, in Quid
est veritas?, cit., 118 ss., con osservazioni anche sulla discussa
influenza che il Cristianesimo ebbe sull’impiego della tortura. Riflessioni
sull’atteggiamento degli imperatori cristiani e della Chiesa nei confronti di
questo strumento anche in M. Bianchini,
Cadenze liturgiche e calendario civile
fra IV e V secolo. Alcune considerazioni, in Accademia Romanistica
Costantiniana. Atti del VI Convegno internazionale, Perugia, 1986, ora in M.
Bianchini, Temi e tecniche della
legislazione tardoimperiale, Torino,
2009, 244 ss.
[36] Sulla legislazione tardoantica in tema di
tortura (anche) dei liberi e sulle
progressive delimitazioni si veda in particolare, oggi, A. Bellodi Ansaloni, Ad
eruendam veritatem, cit., 308
ss., la quale sottolinea che uno dei temi principali affrontati nella
legislazione tardoimperiale è «la preoccupazione a che non ricadano sotto i tormenta persone altolocate, sempre
eccezion fatta per le indagini concernenti la sicurezza dello stato e
dell’imperatore». Cenni anche in C.
Russo Ruggeri, Quaestiones ex
libero homine, cit., 185 ss. In
generale, sulla contrapposizione honestiores/humiliores
nel diritto criminale di età imperiale v. R.
Rilinger, Humiliores-honestiores. Zu eine sozialen Dichotomie im Strafrecht
der römischen Kaiserzeit, München,
1988.
[37] Lo rileva un autore come Giudici: A. Giudici, Apologia della
giurisprudenza romana, cit., nota XCVII, 75. A fronte dell’affermazione di
Cesare Beccaria per cui i romani avrebbero limitato l’applicazione della
tortura ai soli schiavi, l’autore scrive: «La Tortura fu in uso presso i Greci,
e presso i Romani, quantunque coltissime nazioni. Egli è vero, che i Romani nei
migliori tempi della Repubblica ne fecero ufo coi soli schiavi, ma poi
l’estesero anche ai liberi sotto agl’Imperatori; sebbene ciò sia avvenuto più
per Fatto che per Diritto …». Inoltre, op. cit., in calce a nota CXIII, n. XI, 90. Ancora, consapevole del fatto che
nel diritto romano l’applicazione della tortura non era riservata agli schiavi
ma avveniva anche sui liberi mostra di essere C.
Cantù, Beccaria e il diritto
penale, Firenze, 1862, 36 s.,
dove, a proposito della trattazione della tortura da parte del Beccaria, si
afferma: «Se bisognasse appoggio d’autorità, vi soccorreva la sapienza de’
Romani, i quali, non rispettando l’uomo come uomo, ma sol come cittadino,
applicarono la tortura agli schiavi. Cicerone riprova i Rodi e gli Ateniesi che
vi sottoponeano anche persone libere. Pure v’aveva casi, dove altrettanto
usavano i suoi Romani …».
[38] Si veda, in particolare, F. Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano: le fonti, leggi e scienza, Roma, 1895, 766, e ancora P. Fiorelli, La tortura giudiziaria, II, cit.,
249, e nota 9, il quale, proprio richiamando la trattazione della tortura nel Dei delitti e delle pene, afferma che il
capitolo è caratterizzato da “falsità storiche”: fra queste, le «due leggende
secondo cui in Roma antica si sarebbe usata la tortura per i soli schiavi, e in
Inghilterra non si sarebbe conosciuta affatto …», che proprio Cesare Beccaria
avrebbe convalidato con la propria autorità. Ancora, sulla mancanza di senso
storico di Beccaria, si veda P.
Calamandrei, Prefazione, cit., 62. Quadro ricostruttivo degli
errori compiuti dal Beccaria nel capitolo sulla tortura, più di recente, in L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla?, cit., 299 ss.
[40] Per il commento di Voltaire cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Edizione rivista, corretta e disposta secondo
l’ordine della traduzione francese approvato dall’autore con l’aggiunta del
commentario alla detta opera di M. de Voltaire. Traduzione del celebre autore,
Londra, 1774, 135. Il Voltaire sembra aderire completamente alle argomentazioni
svolte dal Beccaria contro la tortura, e, a proposito dei riferimenti storici,
afferma solo: «Io non dirò qui che S. Agostino esclama contro la tortura nella
sua Città di Dio. Io non dirò che a Roma non ci fosse tortura ad altri che agli
schiavi, e di Quintiliano sovvenendosi che gli schiavi son uomini, disapprovi
simili barbarie».
[41] P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit.,
87 s. sembra addirittura escludere che il diritto romano della compilazione giustinianea
conoscesse la regolamentazione della tortura, che, esclusa dalle sue “leggi”,
sarebbe invece legata ad uno sviluppo successivo, legato all’interpretazione
dei dottori quali Claro, Bossi, Farinaccio. In altri punti dell’opera, la
posizione dell’autore appare invece più sfumata. Nel paragrafo 10, Se le leggi e la pratica criminale
risguardino la tortura come un mezzo per avere la verità, egli, per
esempio, richiamando D. 48,18,2,23 di Ulpiano (su cui v. infra, par. 5), afferma
che i Romani non credevano che la tortura fosse strumento per ricostruire la
verità e che l’applicavano agli schiavi (si veda op. cit., 64). Successivamente, nel paragrafo 12, Uso delle antiche nazioni sulla tortura, l’idea che nel diritto romano si
applicasse la tortura solo agli schiavi è ribadita (op. cit., 71), mentre nel
paragrafo successivo, Come siasi
introdotto l’uso di torturare ne’
processi criminali, Pietro Verri, in contraddizione rispetto alle posizioni
assunte negli altri punti dell’opera, ammette che con l’avvento dell’Impero a
Roma si arrivò ad estendere la tortura anche ai liberi (op. cit., 73). Torneremo
più avanti (infra, par. 6) sulla ricostruzione storica
della tortura offerta nelle pagine di Pietro Verri.
[42] Si veda A.
Manzoni, Storia della colonna
infame, a cura di L. Caretti, Milano, 1965, 834 s. Osservazioni in D. Dalla, Il Manzoni, cit., 173 ss.
[43] Sulla vicenda rimandiamo alle pagine di S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale, cit., 272 ss.,
e Id., Le letture dei giuristi, cit., 39 ss. e, più di recente, a E. Pagano, “Questa turba infame a comun danno unita”. Delinquenti, marginali,
magistrati nel Mantovano asburgico (1750-1899), Milano, 2014, 85 ss.
[44] Cfr. S.
di Noto, Le letture dei giuristi,
cit., 75. Sulla figura del Barone de Waters v. op.ult.cit., 40, nota 3. La mancata espressa citazione dell’opera
di Cesare Beccaria dipendeva da diversi fattori: non tanto il fatto che il
libro fosse stato messo all’Indice, ma soprattutto l’idea che il pensiero di
Cesare Beccaria non potesse essere considerato “autorità” nella cultura dei
giuristi dell’epoca, per l’estraneità, nel suo riformismo, «non solo alle forme
tràdite ma alle ragioni permanenti della scienza e dell’esperienza del
diritto»: v. F.P. Casavola, Diritto romano e religione, cit., 114.
Sull’influenza dell’opera di Beccaria sui consiglieri favorevoli all’abolizione
della tortura, si vedano anche le pagine di G.P.
Massetto, La tortura giudiziaria
nella dottrina lombarda, cit., 1412 s.
[45] Si veda ancora S. Di Noto, Le letture dei
giuristi, cit., 75 ss., che ricorda l’influenza del Beccaria anche nel
discorso di un altro consigliere mantovano favorevole all’abolizione della
tortura, Felice Nonio; pure nel suo argomentare l’impronta di Dei delitti e delle pene è forte. Sempre
S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena di morte, cit., 277,
ricorda il discorso del Sindaco Fiscale Codè su quella che sarebbe “l’origine
servile” della quaestio, nonché la
posizione del Capitano di Giustizia Guaita per il quale, essendo stata abolita
la schiavitù, anche la tortura sarebbe dovuta venire meno.
[47] E
ripreso, per esempio, già nell’opera di C.
Thomasius, De tortura, cit.,
cap. II, par. I, 22 s.; in L. Muratori,
Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni prìncipi, a cura di C.
Mozzarelli, Roma, 1996, 70: «Si può massimamente osservare che molto pericoloso
mezzo per ricavare la verità dai pretesi colpevoli è il crudele de’ tormenti…
perché può far patire e talvolta anche far perire gli innocenti»; e che tornerà
anche in autori influenzati dall’opera del Beccaria, tra cui il tedesco J. Von Sonnenfels, Ueber die Abschaffung der Tortur, Zurigo, 1775, 64 ss., il quale
sottolinea come la tortura è mezzo che porta il giudice a condannare gli innocenti.
Sulle analogie, ma anche sulle differenze, fra il pensiero di Beccaria e di
Sonnenfels in tema di tortura v. M.A.
Cattaneo, Cesare Beccaria e
l’illuminismo giuridico europeo, cit., 208 ss.
[48] Sul ruolo fondamentale
della retorica in materia di tortura prima del II d.C. v. G. Pugliese, La preuve dans le procès romain de l’époque classique, in La preuve, 1-Antiquité (=Recueils de la
Société Jean Bodin pur l’histoire comparative des institutions, XVI.1,
Bruxelles, 1964, 284 ss.
[49] Si veda già la Rhetorica ad Herennium, in particolare Rhet. ad Her. 2.7.10, dove è presente l’assunto relativo al fatto
che la tortura, con il dolore fisico e psicologico che infligge, può portare a
confondere chi è colpevole e chi è innocente (v. fra tutti, di recente, S. Roncati, L’interrogatorio degli schiavi ereditari in una legge di Giustiniano
(C. 9,41,18), in Princìpi generale e
tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C., a cura
di S. Puliatti e U. Agnati, Parma, 2010, 262 ss., e M. Brutti, La tortura e
il giudizio, cit., 50 ss.) Il motivo si legge anche in Cicerone, per
esempio in Pro Sulla 78: …illa tormenta moderatur dolor, gubernat
natura cuiusque tum animi tum corporis. Regit quesitor, flectit livido,
corrumpit spes, infirmat metus, ut in tot rerum angustiis nihil veritati locus
relinquatur. Di Cicerone si veda anche Top.
20,74. Facit etiam necessitas fidem,
quae tum a corporibus, tum ab animis nascitur. Nam et verberibus, tormentis,
igni fatigati quae dicunt, ea videtur veritas ipsa dicere, et quae
perturbationibus animi, dolore, cupiditate, iracundia, metu, quia necessitatis
vim habent, afferunt auctoritatem et fidem. Nel brano, ampiamente discusso,
Cicerone parrebbe ricollegare le dichiarazioni rilasciate sotto tortura alla
‘verità’: come si dà indiscutibilmente credito alle dichiarazioni che vengono
fatte sotto la spinta delle emozioni e del dolore, dalla cupidigia, dalla
rabbia e, in generale, da tutti gli stati emotivi che hanno forza di necessità,
così anche ciò che viene dichiarato sotto tortura parrebbe corrispondere a
verità. Si veda, con approccio critico rispetto a questa lettura del brano di
Cicerone, S. Roncati, L’interrogatorio degli schiavi ereditari,
cit., 261. M. Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 52 ss.,
sottolinea come, sebbene il discorso ciceroniano contenga i presupposti per una
critica radicale della tortura, presente per esempio nelle fonti aristoteliche,
manca comunque una visione generale che porti in primo piano la sfiducia nella quaestio.
Di recente, si vedano
anche A. Triggiano, Evidence given under torture in Aristotle
and Cicero, in Teoria e storia del
diritto privato, 2, 2009, 1 ss. e C.
Masi Doria, Linee per una storia
della veritas, nell’esperienza
giuridica romana, I. Dalle basi culturali al diritto classico,
in Quid est veritas?, cit., 31 ss.,
che evidenzia efficacemente la consapevolezza, nei retori, e poi in imperatori
e giuristi, dell’«incertezza del risultato veritativo della tortura».
Approccio critico alla
posizione di Cicerone sulla tortura in C.
Cantù, Beccaria e il diritto
penale, cit., 37: «…e se questo rappresentante del buon senso riconosceva
la tortura un modo non di ottenere la verità ma di scoprire la forza muscolare
del tormentato, la domandava poi quando giovasse ai suoi clienti…».
[53] Sono parole di A. Bellodi Ansaloni, Ad
eruendam veritatem, cit., 195. La studiosa, nell’affrontare il rapporto fra
la tortura e le opere retoriche, sottolinea come tendenzialmente i retori
vedano nella quaestio, nonostante i
limiti che essa presenta, uno strumento che in giudizio può condurre al
rafforzamento delle loro tesi.
[54] Per l’analisi di Inst. Orat. 5.4.2 rinviamo ora a A.
Bellodi Ansaloni, Ad eruendam
veritatem, cit., 207 s.
[55] M.
Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 50, a
proposito della posizione dei retori nei confronti della quaestio, afferma che nelle loro opere si trova l’origine del
«compromesso con la tortura» che connota anche il pensiero dei giuristi. Nota A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 199 la
grande contraddittorietà che caratterizza le fonti retoriche, nelle quali,
accanto al dubbio sulla fides da
riservare alle dichiarazione che scaturiscono dai tormenta sovente vi è l’idea che la tortura possa condurre alla
ricostruzione della verità.
Difficile dunque vedere in
un autore quale Quintiliano un atteggiamento di «… contraddizione a questa
barbara costumanza», come afferma P.
Verri, Osservazioni sulla tortura,
cit., 78 s.
[57] Il frammento viene da un lungo passo di Ulpiano,
D. 48.18.1, che «introduce subitamente alle norme cardine della materia,
regolamentando non soltanto il momento esecutivo della quaestio ma fissando altresì una procedura in criminibus eruendis in vista dell’utilizzabilità in sede
giudiziaria delle sue risultanze»: così A.
Bellodi Ansaloni, Ad eruendam
veritatem, cit., 80.
[58] In D. 48.18.1 pr. il giurista ricorda un
editto di Augusto che stabiliva il divieto di iniziare le indagini dalla
tortura e di riconoscere piena affidabilità alle risultanze della quaestio.
[59] Cfr. D. 48.18.1.24. A proposito di questa
fattispecie, A. Bellodi Ansaloni,
Ad eruendam veritatem, cit., 215:
«Ancora una volta il commento del giurista appare teso a fare salvo lo
strumento processuale della quaestio per
tormenta: le perplessità che emergono dall’analisi dei casi critici
assumono valore di metodo e di supporto all’attività del giudicante e si
concludono con l’invito ad una valutazione giudiziosa, accurata e motivata,
qualunque sia la soluzione scelta. Il caso del teste ostile richiede dunque un
vaglio specifico, che non sia criticamente adesivo ma neppure aprioristicamente
svalutativo».
[60] Sull’espressione eruere veritatem (presente anche in altre fonti, come D. 22.5.7 e
D. 48.18.1 pr.) si veda in particolare il lavoro di Y. Thomas, Arracher la
verité. La Majesté et
L’Inquisition (Ier siècle, IVème siècle ap. J.C.), cit., 21.
[61] Così A.
Bellodi Ansaloni, Ad eruendam
veritatem, cit., 6. Sul passo v. anche C.
Masi Doria, Linee per una storia
della veritas, I, cit., 35.
[62] Sulla quaestio degli schiavi nell’ambito delle cause civili si vedano ora
le pagine di S. Roncati, L’interrogatorio degli schiavi ereditari,
cit., 265 ss.
[63] Cfr. A.
Bellodi Ansaloni, Ad eruendam
veritatem, cit., 265 ss., con indicazione di altra letteratura. La studiosa
ricorda che l’applicazione della tortura nei giudizi civili era del tutto
eccezionale, come parrebbe emergere dal celebre passo di Scevola riportato in
D. 49.5.2.
[64] Si veda in tal senso V. Marotta, Multa de iure sanxit, cit., 325 ss., ove lo studioso sottolinea
anche che il rescritto Antonino Pio introdurrebbe, forse per la prima volta, un
principio di giustizia materiale: «l’uso di un mezzo istruttorio, nel quale
sono prevalenti i connotati dell’inquisitio,
si impone sulla regola generale, che affida alle parti soltanto la ricerca e
l’esibizione del materiale probatorio».
Interessante, in modo
affine, un rescritto di Diocleziano e Massimiano, sempre in tema di tortura
degli schiavi nel processo civile: C. 9.41.12. Impp. Diocletianus et
Maximianus AA. Aspro. Quotiens de dominio
mancipiorum tractatur, si alii probationibus veritas illuminari non possit, de
se ipsa esse cum tormentis interroganda iuris auctores probant. (a. 291). Anche in questo
testo sembra essere sottolineato un forte legame con la veritas: la tortura è infatti utilizzabile si alii probationibus veritas illuminari non possit. Sul testo S. Roncati, L’interrogatorio degli schiavi ereditari, cit., 267.
[66] I passi qui riportati costituiscono solo
pochi esempi. Sono in realtà molti i casi in cui i giuristi, i quali mostrano
di avere consapevolezza del difficile rapporto fra tortura e verità, accentuano
i limiti di questo mezzo raccomandandone un cauto impiego ma non negandone mai
l’utilità. Tra molti altri, per esempio, si veda D. 48.18.1.27, in cui Ulpiano
torna ad evidenziare le numerose contraddizioni sulla possibilità che
l’applicazione della tortura conduca alla verità, ma nello stesso tempo non
spinge nel senso dell’abbandono di questo mezzo. Sul passo, cfr. da ultima A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 218 ss.,
che significativamente afferma: «Le perplessità che emergono dall’analisi degli
aspetti critici, i dubbi sull’attitudine del dolor ad indurre il tortus a
confessare il vero, i problemi derivanti dagli articolati intrecci delle
posizioni soggettive di teste, di reo, di correo e dai meccanismi che
scaturiscono dalla confessione in se o
contra alios non riescono a portare
alla demolizione dell’utilità del mezzo. Laddove i retori avevano avuto buon
gioco a insufflare il dubbio nelle molteplici pieghe che l’impiego razionale
dei tormenta comportava, imperatori e
giuristi, senza perciò abdicare all’approccio empirico al tema ma senza nemmeno
ricorrere a criteri legali pregiudiziali, continuano a preoccuparsi di
inquadrare la quaestio tra gli
strumenti comunque necessari in
criminibus eruendis ed attribuiscono all’apprezzamento del giudice la quadratura
di ogni criticità, rimettendo a questi l’ultima e decisiva parola sulla fides quaestionum».
Ancora, di estremo
interesse è D. 48.18.8 pr. (Paul. 2 de
adulteriis), ove è ricordato un editto di Augusto in tema di quaestiones servorum, che sono definite
in maniera significativa come efficacissimas…
ad requirendam veritatem. Sul brano v. C.
Masi Doria, Linee per una storia
della veritas, I, cit., 35 s.
[67] Si vedano, per esempio, le parole di M. Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 38, nota 8, ove lo studioso afferma
che l’impiego della tortura nel diritto romano è da ricollegarsi ad un modello
“potestativo” di processo ed alla convinzione, secondo Brutti non simulata dai
giuristi, ma effettivamente condivisa, che la verità si possa estorcere.
[68] Cfr. sul punto le riflessioni di A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 9 e,
inoltre, con ampia rassegna di fonti, 208 ss.
[70] Cfr. per esempio CTh. 9.40.1; CTh. 11.36.1;
CTh. 11.36.4. Cenni a questi testi in Y.
Thomas, Confessus pro iudicato,
cit., 117, nota 122. Anche in età postclassica non mancano le voci contro la
tortura. Si pensi per esempio ad Agostino d’Ippona, in Epist. 133.2.1-2, e De civ.
Dei 19.6, testimonianze fortemente dibattute dagli studiosi. Per una
ricostruzione di questa discussione, v. oggi C.
Cascione, Linee per una storia
della veritas, II, cit., 130 ss. Lo studioso propende per l’idea che
Agostino effettivamente abbia assunto una posizione di contrarietà rispetto
alla tortura, pur accettandone l’uso; evidenzia inoltre come il suo
atteggiamento polemico nei confronti della quaestio
abbia scarsamente potuto incidere sulla legislazione, dato che la tortura era
percepita comunque come una prova “logica”. Sulla posizione degli imperatori
cristiani riguardo alla tortura si veda il già richiamato lavoro di M.G. Bianchini, Cadenze liturgiche e calendario civile fra IV e V secolo, cit., 244
ss.
[72] P.
Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 63.
Critica puntuale di queste affermazioni di Pietro Verri in S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale, cit., 328 ss. Lo
studioso correttamente afferma che l’indagine sulle origini dell’istituto
appare essere «la parte più caduca» dell’opera del Verri, e sottolinea appunto,
contro quanto affermato dall’autore, che tutto un titolo del Digesto… era
dedicato all’argomento. Preferiva, piuttosto, cogliere “la metodica
introduzione dei tormenti… dopo il secolo XI”, facendo suo un luogo comune
dell’illuminismo propenso ad attribuire ogni colpa al medioevo…». Ancora, lo
studioso secondo noi coglie nel segno quando scrive: «Le espressioni usate da
Pietro rivelano una certa ambiguità, essendo più adatte alla polemica, che non
ad una scientifica analisi del problema sotto il profilo storico» (op. ult. cit., 330).
[73] P.
Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 63 s. Da
notare la somiglianza con il brano del capitolo XVI de Dei delitti e delle pene dove Cesare Beccaria affermava che i
‘romani legislatori’ erano consapevoli del fatto che la tortura non poteva
condurre alla verità.
[75] Ancora,
S. Di Noto, Documenti del
dibattito su tortura e pena capitale, cit., 330. Lo studioso si sofferma
(si veda op. ult. cit., 301 ss.)
sulla forte contrapposizione fra Pietro Verri e il padre, Gabriele Verri,
Presidente del Senato della Stato di Milano, esponente di un atteggiamento
fortemente conservatore nel dibattito relativo all’abolizione della tortura.
Sul Senato milanese nell’amministrazione della giustizia, v., per tutti, A. Cavanna, Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, cit., 168 ss.; in
particolare, sul suo ruolo nell’applicazione della tortura si veda l’analisi di
G.P. Massetto, Aspetti della prassi penalistica lombarda
nell’età delle riforme: il ruolo del Senato milanese, in G.P. Massetto, Saggi di storia del diritto penale lombardo, Milano, 1994, 352 ss.
[76] Sulla profonda affinità fra l’opera di
Cesare Beccaria e quella di Pietro Verri v. già M. Cattaneo, Illuminismo
e legislazione, Milano, 1966, 51; S.
Di Noto, Documenti del dibattito
su tortura e pena capitale, cit., 330, nota 152, sottolinea particolarmente
i punti di contatto fra le Osservazioni
sulla tortura e il cap. XVI di Dei
delitti e delle pene.
[77] A proposito della
mancanza di senso storico in Beccaria afferma in modo significativo Pietro
Calamandrei: «Quella asserta mancanza di comprensione storica, che gli fu
rimproverata come un demerito, era in realtà la sua forza; sua, e di tutti gli
scrittori più significativi di quel periodo, ai quali è comune questo senso di
insofferenza e di riprovazione verso un passato a cui negano ogni solidarietà,
questo anelito a rompere bruscamente ogni continuità con esso, come se quello
che è esistito fin qui si potesse ripudiare come tutto sbagliato di sana
pianta, e il mondo si dovesse ricostruire dalle fondamenta in base ai nuovi
dogmi dettati dalla ragione». V. P.
Calamandrei, Prefazione, cit., 65 s.