Tradizione-Romana

 

 

SilviaSchiavo - CopiaSILVIA SCHIAVO

Università di Ferrara

 

Cesare Beccaria, la tortura e i “romani legislatori”

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Abstract –

In Cesare Beccaria’s On Crimes and Punishments the chapter on torture, one of the most famous of the book, contains a significant recall of Roman law. The author refers to ancient experience to strengthen his arguments against torture. The article explores the use of Roman law done by Beccaria, especially with regard to the controversial relationship between torture and veritas.  In particular, through the reading of some sources (including texts of D. 48.18 De quaestionibus), it is intended to demonstrate how this relationship appears overly simplified in Beccaria’s point of view.

 

Nel libro di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene il capitolo dedicato alla tortura, uno dei più famosi dell’intera opera, contiene un significativo richiamo al diritto romano: l’esperienza giuridica antica è utilizzata qui dall’autore per rafforzare i suoi argomenti contro la tortura. Nell’articolo si approfondisce l’uso che del diritto romano viene fatto dal Beccaria, soprattutto con riguardo al controverso rapporto tra tortura e ricerca della veritas nell’esperienza antica. In particolare, attraverso la lettura di alcune fonti (tra cui passi di D. 48.18 De quaestionibus), si intende dimostrare come tale rapporto appaia eccessivamente semplificato.

 

 

1. –

Le pagine in materia di tortura de Dei delitti e delle pene sono forse fra le più celebri dell’intera opera, insieme a quelle sulla pena di morte[1], e ciò per diversi motivi. Fra questi, la forza che sprigionano ancora oggi per le loro implicazioni sempre attuali, in un momento storico in cui continua, nel nostro Paese, la discussione circa l’opportunità dell’approvazione di una legge sulla tortura. Ampliando poi lo sguardo verso l’orizzonte internazionale ci si imbatte in un acceso dibattito a proposito dell’utilizzo della tortura nella lotta al terrorismo[2]. Rimangono dunque valide le parole di Piero Calamandrei, espresse nelle Avvertenze alla seconda edizione da lui curata del libro di Beccaria: «Cesare Beccaria non ha ancora fatto tutto il suo tempo, non ha ancora ricominciato ad essere un antico: sui problemi dei delitti e delle pene, che continuano a dibattersi tra noi, egli ha ancora, prima di poter tornare alla onorata quiete del suo scaffale, da terminare un discorso che non può essere lasciato a mezzo»[3].

Nonostante l’indubbio interesse dei profili relativi all’attualità del discorso di Beccaria non è di questo che intendiamo occuparci: il lavoro sarà dedicato ad altri aspetti del capitolo sulla tortura (cap. XVI). Esso contiene infatti un significativo richiamo al diritto romano: le nostre riflessioni saranno incentrate proprio sull’uso del diritto romano da parte dell’autore nell’ambito degli argomenti contro la tortura ed investiranno, tra l’altro, il problema del rapporto tra tortura e verità nell’esperienza giuridica antica[4].

 

 

2. –

Anzitutto è bene osservare più da vicino la struttura del cap. XVI de Dei delitti e delle pene per una generale ricostruzione delle argomentazioni impiegate da Cesare Beccaria contro l’applicazione della tortura[5].

Nel momento in cui Beccaria scriveva era ampiamente utilizzata nella procedura penale: il corpo dell’accusato, da secoli, era il locus veritatis, e i tormenti venivano percepiti come mezzo per il raggiungimento della verità processuale[6]. Pur essendo all’epoca possibile anche la tortura dei testimoni, l’attenzione dello scrittore si appunta sulla tortura che veniva inflitta all’imputato. Alla fine del Settecento era mezzo legale di prova per ottenere la confessione del reo e veniva applicata in presenza di sufficienti indizi di colpevolezza[7].

Nello stesso tempo erano già in circolazione numerose critiche alla pratica della tortura: Dei delitti e delle pene funse così da «catalizzatore per gli oppositori del sistema vigente, ponendo le premesse per un suo più ampio e stabile superamento»[8].

Il cap. XVI è caratterizzato dall’utilizzo di immagini molto forti e vivide a partire dall’incipit dove si legge: «Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contraddizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato»[9].

Una crudeltà consacrata dall’uso: queste poche parole evidenziano subito la disumanità della tortura e precisano che la sua inveterata applicazione non ha radici nella legge bensì nell’uso. Come è stato ben evidenziato si tratta di un mero accenno, di uno spunto icastico, che rimane però privo di approfondimento[10].

Prima di introdurre le sue argomentazioni contro l’impiego della tortura Cesare Beccaria ne descrive le funzioni: essa si utilizza, nei confronti degli imputati, per strappare la confessione; per sanare contraddizioni nelle quali il reo incorre nell’ambito delle sue dichiarazioni; per scoprire i complici e chiamarli in correità; per “purgare l’infamia”[11], ossia per rafforzare le dichiarazioni di un reo macchiato da una precedente condanna e, infine, per svelare ulteriori reati di cui non è ancora stato accusato[12].

Le critiche che Beccaria avanza sono essenzialmente di due ordini: quelle fondate sulla presunzione di innocenza, sull’idea che attraverso la tortura si infligge sofferenza a chi non è certo sia colpevole, e quelle rivolte contro la convinzione che la tortura sia strumento utile per il raggiungimento della verità.

In particolare l’autore sostiene che l’imputato non può subire lo stesso trattamento del colpevole: «un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza»[13]. La probabilità che sia innocente deve condurre ad abbandonare l’utilizzo dei tormenti, per evitare il rischio che vengano applicati a chi successivamente verrà invece assolto dalle accuse.

Ancora, nel pensiero dell’autore lo strumento della tortura è in conflitto con la ricerca della verità che dovrebbe essere il cuore del processo criminale. La tortura può portare a risultati opposti rispetto a quelli che si propone: la reazione è infatti soggettiva, dipende dalla resistenza fisica e psicologica dell’individuo rispetto al dolore. Di conseguenza la tortura diviene talvolta «…il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti»[14].

Non sono argomenti nuovi: Beccaria si serve nelle sue pagine di materiale risalente, pur senza indicarne esplicitamente la provenienza, e pur allontanandosi, in alcuni casi, dall’originario significato delle fonti.

È risaputo che l’autore - nella composizione del libro in generale e per il capitolo XVI in particolare- utilizza i risultati delle indagini effettuate dagli amici dell’Accademia dei Pugni, soprattutto delle ricerche che in quel periodo andavano conducendo i fratelli Alessandro e Pietro Verri[15]. In effetti, nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, pubblicate postume solo nel 1804[16], il materiale storico utilizzato per fondare alcune delle argomentazioni contro la tortura è esplicitamente richiamato e le fonti sono espressamente citate e commentate[17].

 

 

3. –

Nel quadro di riferimento per sommi capi descritto si inserisce il richiamo al diritto romano da parte di Cesare Beccaria.

Il rapporto fra Cesare Beccaria e il diritto romano è stato indagato dagli studiosi a più riprese. Ciò che preme qui evidenziare è l’approccio tendenzialmente critico, che avvicina la visione del Beccaria a quella in circolazione tra gli Illuministi italiani. Basti pensare all’avvertenza dedicata A chi legge[18], dove l’autore impiega parole estremamente dure nei confronti della compilazione giustinianea: caratterizzata da gravissimi difetti, tra cui la frammentarietà e l’oscurità, sarebbe stata la base di partenza per la costruzione di una “tradizione di opinioni” che la avrebbero poi soppiantata, causandone un completo snaturamento[19].

Eppure nel cap. XVI il richiamo al diritto romano pare compiuto, a nostro modo di vedere, in un’ottica positiva, a sostegno cioè delle ragioni avanzate per contrastare l’utilizzo di questo strumento probatorio: al contrario di quanto sostenuto da alcuni studiosi che vedono invece nelle parole di Beccaria una chiara «dissociazione dagli schemi romani» nonché una «frattura rispetto all’antico»[20].

Vediamo direttamente come Cesare Beccaria si esprime. Il primo punto è il seguente: «Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch’essi per più d’un titolo, riservavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtù»[21].

Dopo l’esposizione dei primi argomenti contro la tortura, tra i quali quello secondo cui la tortura sarebbe in contrasto con la presunzione di innocenza, Beccaria richiama il diritto romano. I romani sono definiti “barbari” – e qui si scorge l’atteggiamento tipico dell’Illuminismo italiano, che sembra far coincidere l’antichità romana con un’epoca di barbarie[22] – ma in questo frangente si può comunque rinvenire una connotazione positiva, legata alla circostanza che i romani avrebbero riservato la tortura ai soli schiavi.

Più chiaro in tal senso ci pare il secondo punto in cui vi è un riferimento al diritto romano, laddove si parla del legame fra tortura e verità. Seguiamo il Beccaria: «L’esame di un reo è fatto per conoscere la verità, ma se questa verità difficilmente scuopresi all’aria, al gesto, alla fisionomia d’un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto della maggior parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime differenze degli oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso. Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna tortura che sui soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità: sono adottate dall’Inghilterra, nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità del commercio e delle ricchezze, e per ciò della potenza, e gli esempii di virtù e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi…»[23].

Qui entrano in gioco i “romani legislatori”, i quali, nella visione del Beccaria, non avendo fiducia nella tortura quale mezzo per il raggiungimento della verità, ne circoscrivono l’applicazione agli schiavi: non trovasi usata alcuna tortura che sui soli schiavi.

La limitazione della tortura ai soli schiavi, che non erano soggetti di diritto, bensì res, sembra, nella ricostruzione offerta da Beccaria, legata proprio alla sua incapacità di portare alla veritas. A nostro modo di vedere tutto ciò è indicativo di una lettura in senso positivo del diritto romano da parte dell’autore[24].

Che Cesare Beccaria utilizzi nel capitolo sulla tortura il diritto romano come esempio positivo da utilizzarsi nella lotta contro la tortura può essere ulteriormente provato.

Anzitutto, nel brano poco sopra riportato il cenno ai “romani legislatori” è inserito fra quelli che potremmo definire ‘modelli da imitare’: è seguito infatti dal richiamo ad esperienze straniere, come quella inglese e quella svedese, nell’ambito delle quali, sostiene l’autore, la tortura è stata abolita.

Ancora, un feroce critico del Beccaria, l’abate Ferdinando Facchinei, nel tentativo di demolire le argomentazioni avanzate dall’autore a favore dell’abolizione della tortura, ritorna sulla questione del diritto romano, mostrando di intendere che il suo richiamo è stato utilizzato ne Dei delitti e delle pene come ulteriore argomento ad adiuvandum, a sostegno della abolizione della tortura.

Scrive infatti Facchinei: «I Romani Legislatori non ànno usata la Tortura per ricavare la confessione de’ Rei, perché non avevano ancora sentita la necessità d’un tale uso; perché non erano a portata d’esaminare questa materia così come si conveniva; e perché le Rivoluzioni della loro Repubblica, non ànno quasi mai lasciato il loro Stato tranquillo intieramente, né ridotte le differenti classi, e condizioni di persone, ad un sistema fisso, per poter esaminare, e stabilire, quale fosse il miglior metodo di procedere criminalmente; ed infatti è stato imperfettissimo in tutte le sue parti, e più irregolarmente eseguito, come sappiamo da mille Fatti»[25].

In conclusione, nonostante la più generale posizione di Beccaria a proposito del diritto romano, posizione che lo avvicina, come si è detto, agli illuministi italiani, nella trattazione della tortura l’esperienza giuridica antica è vista ed utilizzata come esempio di un sistema che, conoscendo i difetti dello strumento in esame, ne limita l’applicazione agli schiavi: esempio, dunque, da certi punti di vista positivo[26].

L’uso del diritto romano nelle pagine sulla tortura del Dei delitti e delle pene presenta alcuni aspetti di criticità, taluni dei quali già evidenziati nella storiografia. Due, in particolare, le questioni che si aprono: la prima riguarda l’ambito di applicazione della tortura a Roma, che secondo Cesare Beccaria era limitata agli schiavi; la seconda, invece, più complessa, investe il problema del rapporto fra tortura e verità nel diritto romano.

 

 

4. –

L’affermazione del Beccaria secondo cui il diritto romano avrebbe limitato l’impiego della tortura sui soli schiavi è fuorviante: è a tutti noto, infatti, che la quaestio (l’interrogatorio con tortura[27]), applicata a testimoni e imputati[28], veniva usata anche nei confronti dei liberi. Da iniziali eccezioni al divieto di tortura sugli uomini liberi si arrivò ad una «stabile consuetudine e infine legge»[29], tesa appunto a disciplinare la quaestio nei loro confronti[30]. Questo cambiamento sarebbe avvenuto con l’avvento del Principato e con l’affermarsi delle cognitiones extra ordinem[31].

Diverse le fonti significative in argomento. Fra molte, si può ricordare un celebre passo di Callistrato:

 

D. 48.18.15 pr. (Call. 5 de cogn.) Ex libero homine pro testimonio non vacillante quaestionem haberi non oportet.

 

Il brano, che riguarda la quaestio dei testimoni, si presta a più livelli di lettura. Da un lato, infatti, la riflessione di Callistrato è orientata dall’intento di limitare l’uso della tortura nei confronti dei liberi. Nello stesso tempo, però, dal passo emerge che la prassi di sottoporli a tortura fosse assai diffusa e che venisse rimessa alla piena discrezionalità del giudice. Emerge inoltre da qui che la tortura dei liberi era da applicarsi senza remore nel caso in cui la testimonianza resa fosse incerta[32].

Se dal brano si può ricavare l’idea di una posizione del diritto ufficiale molto cauta nei confronti dell’applicazione della tortura ai liberi ancora in età severiana[33], nello stesso tempo è indubbio che le parole del giurista dimostrano con chiarezza l’avvenuta estensione della quaestio anche ai soggetti di diritto.

Ancora, significativa appare il principium di una costituzione di Diocleziano del 290 dove è citato un provvedimento di Marco Aurelio. Si tratta di

 

C. 9.41.11 pr. Diocletianus et Maximianus AA. Boetho. Divo Marco placuit eminentissimorum nec non etiam perfectissimorum virorum usque ad pronepotes liberos plebeiorum poenis vel quaestionibus non subici, si tamen prioris gradus liberos, per quos id privilegium ad ulteriorem gradum transgreditur, nulli violati pudoris macula adspergit. PP. v k. Dec. ipsis IIII et III AA. conss.

 

La costituzione presenta una regolamentazione di dettaglio in tema di applicazione della quaestio ai liberi: l’attenzione dell’imperatore si concentra specialmente sulle categorie di soggetti che debbono essere escluse dai tormenta. Si tratta dunque di una testimonianza che mostra l’oramai diffuso utilizzo della tortura sui liberi, nei confronti dei quali vengono stabilite numerose esenzioni[34].

Non essendo possibile approfondire qui la questione della applicazione della tortura ai liberi, certo ben testimoniata nelle fonti, ci limitiamo ad osservare che essa appare rafforzarsi particolarmente in età severiana e poi via via nel corso dell’età tardo antica (si pensi in particolare alle persecuzioni dei cristiani) dove sovente da mezzo probatorio diviene vera e propria punizione[35].

È stato osservato che nel corso del IV e V secolo pare offuscarsi la tendenza ad una regolamentazione per così dire tecnica della quaestio: prevale invece, nella legislazione imperiale, l’aspetto repressivo della tortura, della quale viene esaltata particolarmente la funzione intimidatoria e afflittiva. Tutto ciò non solo con riferimento agli schiavi bensì anche ai liberi, in relazione ai quali peraltro gli imperatori intervengono spesso per stabilire esenzioni tenendo conto della dignitas personarum, ed dispensando quindi dai tormenta tutta una serie di persone in virtù del rango o della carica ricoperta[36].

Insomma, l’asserzione, forte, proveniente dal Beccaria, secondo cui l’esperienza giuridica romana avrebbe limitato l’applicazione della tortura ai soli schiavi è infondata[37].

Che il discorso di Cesare Beccaria presenti aspetti di debolezza e fragilità nella ricostruzione storica che funge da cornice è cosa nota, e rilevata da molti autori[38].

Qual è la ragione di queste affermazioni del Beccaria? Si tratta forse di mancata conoscenza del diritto romano o di un errore consapevolmente compiuto, che riveste la funzione di rafforzare le argomentazioni contro la tortura? Noi propendiamo per questa ipotesi, come spiegheremo nelle prossime pagine[39].

Un aspetto degno di rilievo è quello della diffusione di tale idea presso i contemporanei di Beccaria. Solo per citare alcuni esempi, si può ricordare che Voltaire, nel suo commento a Dei delitti e delle pene, sembra condividere le parole di Beccaria sulla limitazione della tortura agli schiavi nel diritto romano[40]. Oscillante, da questo punto di vista, appare Pietro Verri, il quale, nelle Osservazioni sulla tortura, in alcuni punti della trattazione pare accogliere la medesima visione edulcorata del diritto romano[41]. Più avanti nel tempo, anche Alessandro Manzoni, nella Storia della Colonna infame, sostiene che la tortura era impiegata dai romani solo nei confronti degli schiavi[42].

Di particolare interesse è inoltre l’influenza che questa idea ebbe anche presso i pratici.

Nel 1772 il governo milanese chiese ai membri del Consiglio di Giustizia di Mantova un parere sulla legittimità ed utilità della tortura nei processi criminali[43].

Orbene, diversi giuristi favorevoli all’abolizione (o quantomeno ad una limitazione) della tortura utilizzarono l’argomento della natura servile della quaestio. Per esempio, il Presidente del Consiglio di Giustizia, il Barone Giorgio de Waters, si schierò fra i favorevoli all’abolizione, con un discorso chiaramente ispirato all’opera di Beccaria, che pure non viene da lui citata espressamente[44]. Qui, fra gli argomenti del giurista mantovano, vi è quello secondo cui nel diritto romano la tortura era riservata ai soli schiavi e che dunque, cessata la schiavitù, sarebbe dovuta venire meno. La descrizione della tortura come istituto servile torna pure nella riflessione di altri componenti del Consiglio, che fanno uso anche di questa ragione per propugnare l’abolizione dei tormenta[45].

 

 

5. –

Il secondo problema da affrontare, più complesso, è quello relativo al rapporto fra tortura e ricostruzione della veritas nel diritto romano, rapporto eccessivamente semplificato nelle pagine di Cesare Beccaria, e sul quale, ci sembra, si è appuntata meno l’attenzione dei critici di Beccaria e, più in generale, della dottrina.

Se ben cogliamo l’argomentare dell’autore, nei due punti del cap. XVI in cui viene richiamata l’esperienza giuridica romana egli sembra dire che l’uso della tortura solo sugli schiavi era ricollegabile ai difetti della tortura medesima, ai suoi fatali inconvenienti: come si è visto, l’applicazione dei tormenta conduceva a confondere il reo e l’innocente, con la conseguenza che difficilmente si poteva ottenere l’accertamento della verità.

Parte del discorso del Beccaria contro la tortura è costruito su questi assunti, e l’esperienza romana appare qui utilizzata per rafforzarli, dunque alla stregua di un modello positivo. Come si è già rilevato[46], nella scrittura delle pagine di cui ci stiamo occupando l’autore si servì del materiale e delle fonti che amici come i fratelli Verri andavano raccogliendo. Queste fonti non vengono espressamente citate da Cesare Beccaria ma le sue parole rievocano con una certa chiarezza argomenti dalla lunga tradizione storica.

Si pensi, per esempio, all’idea secondo cui l’applicazione della tortura fa sì che il colpevole e l’innocente vengano confusi: il dolore che viene inflitto attraverso la tortura è «il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti».

Si tratta di un argomento che affonda le sue radici nel mondo antico[47]. Un noto passo dell’Institutio Oratoria di Quintiliano contiene affermazioni del tutto simili[48]:

 

Inst. Orat. 5.4.1 Sicut in tormentis quoque, qui est locus frequentissimus, cum pars altera quaestionum vera fatendi necessitatem vocem, altera saepe etiam causa falsa dicendi, quod aliis patientia facile mendacium faciat, aliis infirmitas necessarium…

 

In questa parte del brano Quintiliano mette in evidenza la contraddizione insita nei tormenta: sotto tortura mente chi resiste alla sofferenza, ma anche chi non riesce ad opporre resistenza al dolore. In alcune persone la capacità di resistere facilita la menzogna, mentre in altre la debolezza la rende necessaria. Dunque, inevitabilmente, la tortura è fonte di falsità[49]. Tutto ciò è ribadito in

 

Inst. Orat. 5.10.70 … Mentietur in tormentis qui dolorem pati potest, mentietur qui non potest…

 

dove il maestro di retorica afferma di nuovo che la tortura conduce a risultati inaffidabili, poiché causa la menzogna di chi riesce a resistere ai tormenti ma anche di chi non li sopporta.

Orbene, si diceva che una riflessione del tutto analoga è presente nel capitolo XVI de Dei delitti e delle pene, come d’altra parte nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri[50]. Nel discorso dei due intellettuali milanesi si tratta di un’argomentazione fondamentale per la demolizione dell’istituto della tortura.

Se l’approccio di Beccaria è più asciutto, particolare forza rivestono le parole di Pietro Verri il quale, compiuto un nutrito excursus delle opinioni «d’alcuni rispettabili scrittori intorno la tortura ed usi odierni d’alcuni stati»[51], tra cui proprio l’opinione di Quintiliano, afferma: «Da questa serie di autorità sembra bastantemente chiaro il torto di coloro che asseriscono che sia un nuovo ritrovato de’ moderni filosofi l’orrore per la tortura; essi non possono aspirare a questa gloria d’aver i primi sentita la voce della ragione e della umanità su di tale proposito, ma tanto è antica la contraddizione a questa barbara costumanza quanto lo è antico il ragionare e l’aborrire le inutili crudeltà…»[52].

Ciò che nelle opere di Cesare Beccaria e di Pietro Verri appare – rispettivamente in maniera implicita ed esplicita – come la rievocazione di un pensiero già prodotto, risulta a ben vedere un’abile ‘manipolazione’ delle fonti antiche.

Per esempio, in tema di quaestio, le fonti retoriche presentano un approccio estremamente contraddittorio che, lo si vedrà, influenza pesantemente anche la successiva riflessione dei giuristi. Infatti, l’idea che la tortura conduca a dichiarazioni inattendibili, che dipendono anche dalla resistenza fisica e psicologica di chi è ad essa sottoposta, si accompagna alla consapevolezza che la quaestio è strumento irrinunciabile, la cui utilità non viene messa in discussione.

Conseguenza è il raggiungimento di «un risultato compromissorio: pur continuando a propagandare la tortura come fonte di verità, vengono progressivamente additati criteri e confini in ordine al momento applicativo e valutativo»[53].

Torniamo infatti all’Institutio Oratoria di Quintiliano, leggendo la continuazione del passo poco sopra visto:

 

Inst. Orat. 5.4.2. Quaedam tamen in hac parte erunt propria cuiusque litis. Nam sive de habenda quaestione agetur, plurirum intererit quis et quem postulet aut offerat et in quem et ex qua causa: sive iam erit habita, quis ei praefuerit, quis et quo modo sit tortus, an credibilia dixerit, an inter se constantia, perseveraverit in eo quod coeperat an aliquid dolore mutarit, prima parte quaestionis an procedente cruciatu. Quae utrimque tam infinita sunt quam ipsa rerum varietas.

 

Quintiliano, dopo aver ricordato nel paragrafo precedente i problemi che possono scaturire dalla tortura, e aver sottolineato la relatività di tale strumento, si sposta ora su di un piano metodologico. Invitando ad una cauta valutazione afferma che, in caso di quaestio, è necessario considerare da quale parte provenga la richiesta, chi sia il soggetto da torturare e per quale ragione debba essere applicata la quaestio. Se essa è già avvenuta, si dovrà tenere conto del ruolo di chi l’ha condotta e di chi l’ha subita, le modalità con cui è stata portata avanti, e le dichiarazioni che sono state rese sotto tortura.

In particolar modo, devono essere vagliate credibilità e coerenza delle stesse; bisogna verificare se il torturato abbia portato avanti le dichiarazioni iniziali o se a causa del dolore le abbia modificate, all’inizio dell’interrogatorio o successivamente. Quintiliano conclude osservando che le considerazioni restano infinite quanti sono i casi che possono presentarsi[54].

L’approccio del maestro di retorica al problema della quaestio, dunque, non risulta ‘granitico’ così come Cesare Beccaria e Pietro Verri vorrebbero far credere, bensì più sfaccettato. Pur consapevole dei rischi cui l’applicazione dei tormenta conduceva Quintiliano non giunge infatti ad una netta condanna della tortura, che rimane strumento irrinunciabile[55].

 

 

6. –

L’argomento secondo cui la tortura porta a dichiarazioni non sempre attendibili essendo dunque connotata da un controverso rapporto con la veritas è assai radicato anche nelle fonti giuridiche di età classica.

Da questo punto di vista i testi che potrebbero essere richiamati sono molteplici. Ci limitiamo a ricordare solo alcuni passi.

Paradigmatico è un celebre brano di Ulpiano tratto dal libro ottavo del de officio proconsulis. Si tratta di un frammento da sempre considerato «un argomento a favore dell’abolizione dell’istituto»[56]:

 

D. 48.18.1.23 (Ulp. 8 de off. procons.). Quaestioni fidem non semper nec tamen numquam habendam constitutionibus declaratur: etenim res fragilis et periculosa et quae veritatem fallat. Nam plerique patientia sive duritia tormentorum ita tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit: alii tanta sunt impatientia, ut quodvis mentiri quam pati tormenta velint: ita fit, ut enim vario modo fateantur, ut non tantum se, verum etiam alios criminentur.

 

Ulpiano[57] afferma che, sulla base delle costituzioni imperiali, se non in ogni occasione si deve prestare fede alle risultanze della quaestio[58], nello stesso tempo non sempre la tortura va considerata come fonte di menzogna. L’inizio del paragrafo segnala dunque una profonda antinomia in tema di tortura: se da un lato può portare all’inganno, dall’altro può anche condurre alla verità. Il discorso del giurista continua poi con una serie di osservazioni che paiono quasi richiamare le argomentazioni di Quintiliano in Inst. Orat. 5.4.1: Ulpiano infatti afferma che molti, dotati di capacità di sopportazione del dolore, disprezzano a tal punto la tortura che da loro non si può ottenere la verità; altri invece si piegano facilmente al dolore, preferendo lasciarsi andare a dichiarazioni non veritiere.

Tutto ciò però non comporta come conseguenza l’abbandono dello strumento. Nei paragrafi successivi del passo, Ulpiano applica questa visione a diverse situazioni. Per esempio, al caso della tortura dei nemici, che mentono facilmente: nonostante ciò, non va negata in via assoluta la attendibilità della quaestio ‘sub praetextu inimicitiarum’[59].

Lo stesso giurista, in un ulteriore celebre brano proveniente dai libri ad edictum, dedicato al contesto delle indagini private (l’editto sulle iniuriae quae servis fiunt) afferma:

 

D. 47.10.15.41 (Ulp. 77 ad edictum). Quaestionem intellegere debemus tormenta et corporis dolorem ad eruendam veritatem. Nuda ergo interrogatio vel levis territio non pertinet ad hoc edictum. Quaestionis verbo etiam ea, quam malam mansionem dicunt, continebitur. Cum igitur per vim et tormenta habita quaestio est, tunc quaestio intelligitur.

 

Nello spiegare il significato della parola quaestio, lemma polisemico, Ulpiano asserisce che per l’editto non vi è strettamente quaestio in presenza della sola nuda interrogatio o di levis territio. Ciò che qualifica tale strumento probatorio sono i tormenta e, di conseguenza, il corporis dolor che viene inflitto, la vis che ne scaturisce. Nell’evidenziare appunto la violenza e il dolore connaturati alla tortura, il giurista afferma che si tratta di mezzo per la ricerca della verità: quaestionem intellegere debemus tormenta et corporis dolorem ad eruendam veritatem[60]. Pur riguardando l’ambito delle indagini private, come si è detto, è del tutto plausibile che il pensiero di Ulpiano risenta della quaestio applicata nella cognitio extra ordinem criminale[61].

Di un certo interesse nell’ottica del rapporto fra quaestio e verità è poi un altro brano, proveniente dal de iudiciis publicis di Marciano, che si riferisce all’applicazione della tortura (degli schiavi) nelle cause pecuniarie[62]:

 

D. 48.18.9 pr. (Marc. 2 de iud. publ). Divus Pius rescripsit posse de servis haberi quaestionem in pecuniaria causa, si aliter veritas inveniri non possit. Quod et aliis rescriptis cavetur. Sed hoc ita es, ut non facile in re pecuniaria quaestio habetur: sed si aliter veritas inveniri non possit nisi per tormenta, licet habere quaestionem, ut et divus Severus rescripsit. Licet itaque et de servis alienis haberi quaestionem, si ita res suadeat.

 

Il giurista Marciano richiama un rescritto di Antonino Pio attraverso il quale sarebbe avvenuta l’estensione della tortura dei servi anche ai giudizi civili. Questo ulteriore impiego della quaestio appare poi disciplinata da successivi interventi imperiali, tra cui un rescriptum di Settimio Severo[63].

Ciò che importa evidenziare è anzitutto la tensione degli imperatori verso il contenimento della quaestio degli schiavi nei processi civili, da non usare indiscriminatamente. Ancora, e forse questo è l’aspetto ai nostri fini più interessante, va notato che tale limitazione si fonda sull’assunto per cui l’utilizzo della tortura è ammissibile solo se non vi sono altri strumenti per ottenere la verità.

Emerge dunque dal passo una stretta connessione fra quaestio e ricerca della verità: si aliter veritas inveniri non possit. Se quindi da un lato vi è il tentativo di circoscrivere la tortura nelle cause pecuniarie, dall’altro non si può negare che, nel pensiero degli imperatori richiamato da Marciano, essa viene riconnessa alla veritas, ed è posta sullo stesso piano degli altri mezzi probatori quanto a funzione di ricostruzione del vero[64]. Proprio la necessaria conoscenza della veritas è alla base della estensione della tortura alle cause pecuniarie[65].

Il brano, insieme a quelli precedenti, mostra dunque un atteggiamento ambivalente. Pur nella consapevolezza dell’incertezza cui questo mezzo può condurre, il suo legame con la veritas non viene radicalmente negato; ci sono anzi diversi casi nei quali la quaestio è ricollegata strettamente alla ricerca della verità.  Anche quando vi è un atteggiamento più scettico nei confronti della tortura la sua applicazione non è mai comunque sconfessata[66].

Nella riflessione dei giuristi la consapevolezza dei limiti della tortura non porta al suo rifiuto; la condanna della sua efferatezza e i dubbi sulla attendibilità dei suoi risultati non conducono al rigetto della quaestio ma piuttosto ad una sua minuziosa regolamentazione[67]. I giuristi e anche gli imperatori, consci dei difetti della tortura, arrivano ad elaborare una serie di direttive e successivamente di vere e proprie regole fondamentali nell’ambito dell’istruzione probatoria[68]. Tali principi mirano a “salvaguardare la fides” delle dichiarazioni ottenute attraverso la quaestio: «l’obiettivo perseguito è mantenere priva di scalfitture la fede in quella che si vuole propagandare come ontologica attitudine dei tormenta a far emergere il vero»[69].

Se ci muoviamo verso il tardo antico, la situazione è ancora diversa: talvolta infatti, nella legislazione imperiale, il rapporto tra tortura e veritas appare addirittura esaltato[70].

In conclusione, i giuristi (e anche gli imperatori) non arrivano a negare in via definitiva la possibilità che la quaestio possa condurre alla verità, riproponendo invece quel “compromesso con la tortura” già individuabile nel pensiero dei retori[71].

Siamo dunque di fronte ad un quadro diverso rispetto a quello che viene dipinto da Cesare Beccaria, nel pensiero del quale il diritto romano negherebbe in assoluto che la tortura può condurre alla verità.

Come si è già visto con riguardo all’idea dell’applicazione della quaestio solo agli schiavi, anche con riferimento alla ricostruzione del rapporto quaestio-veritas nel diritto romano la posizione di Cesare Beccaria non è isolata, ma, al contrario, abbastanza diffusa.

In quest’ottica, molto significative appaiono le parole di Pietro Verri, il quale sembra condividere la medesima visione. Nelle sue Osservazioni sulla tortura si rinviene un approccio del tutto simile, e ciò è forse normale se si tiene conto del fatto che il materiale storico utilizzato da Cesare Beccaria veniva proprio dalle ricerche dei fratelli Alessandro e Pietro Verri.

Per esempio, in § 10. Se le leggi e la pratica criminale risguardino la tortura come un mezzo per avere la verità, Pietro Verri scrive: «Ho stabilito di provare in secondo luogo che le leggi e la pratica istessa de’ criminalisti non considerano la tortura come un mezzo per distinguere la verità. Ciò si conosce facilmente osservando che non trovasi prescritto alcun metodo o regolamento nel Codice Teodosiano e nessuno parimenti nel Codice Giustinianeo per applicare ai tormenti i sospetti rei. In que’ sterminati ammassi di leggi e prescrizioni ove si sminuzzano le minime differenze de’ casi civili e criminali niente si prescrive per la tortura…»[72]. Attraverso affermazioni molto forti Pietro Verri sembra addirittura negare che il Codex Theodosianus ed il Codex Iustinianus contengano una qualsivoglia disciplina della tortura: le “leggi” e la pratica criminale non la considerano strumento che porta alla verità.

E ancora, proseguendo, a proposito di D. 48.18.1.23 di Ulpiano, Pietro Verri asserisce: «Se poi il solo argomento negativo non sembrasse bastante a dimostrare questa verità veggasi la legge 2 § 23, ff. De quaestionibus ove ben lontano lo spirito delle leggi Romane dal riguardare la tortura come un mezzo da rinvenire la verità… Così s’esprime positivamente il Digesto e tale era l’opinione de’ Romani nostri legislatori e maestri i quali conoscevano l’uso della tortura sopra gli schiavi siccome vedremo poi. Dunque la legge non riguarda la tortura come un mezzo per la scoperta della verità»[73].

Di nuovo, con vigore, è negato ogni rapporto fra tortura e conseguimento della verità nell’esperienza romana.

Siamo dunque di fronte ad una forzatura del diritto antico, che diventa argomento per fondare e sostenere la battaglia contro la tortura.

È stato detto che nel discorso di Pietro Verri le numerose ambiguità della ricostruzione storica sono dovute all’intento polemico che anima l’autore: consapevole della necessità di «combattere l’uso della tortura in assoluto, e non l’applicazione di essa in forme più o meno legittime…»[74], egli sposterebbe il terreno del confronto da un piano storico-giuridico a quello filosofico, senza un approfondimento scientifico in una prospettiva storica[75].

Orbene, le medesime osservazioni, plausibilmente, possono essere estese all’opera di Cesare Beccaria[76]: l’uso impreciso, a tratti scorretto, del diritto romano da parte dell’autore de Dei delitti e delle pene si spiega forse tenendo presente la funzione politica dell’opera, volta a scuotere le coscienze e a stimolare il dibattito. E proprio l’antichità così rivisitata offre un argomento prezioso per la lotta contro la tortura[77].

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Secondo P. Nuvolone, Processo e pena nell’opera di Cesare Beccaria, in Atti del convegno internazionale su Cesare Beccaria nel secondo centenario dell’opera “Dei delitti e delle pene”, Torino- 4-6 ottobre 1964, Torino, 1966, 309, Cesare Beccaria in materia di tortura avrebbe scritto “proposizioni definitive”.

 

[2] Su tutto ciò rimandiamo al recente lavoro di S. Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura giudiziaria. L’insegnamento di Beccaria come antidoto contro i ritorni alle fredde atrocità (Dei delitti e delle pene, § XVI), in Diritto penale XXI secolo europeo storico comparato, XIII, 2/2014, 313 ss. dove la studiosa dà conto del dibattito ed evidenzia appunto l’attualità dell’opera di Beccaria in tal senso. In particolare, l’autrice si sofferma sulla visione, ampiamente diffusasi dopo l’11 settembre 2001, favorevole a tollerare o addirittura a legalizzare la tortura a scopo di confessione, rappresentata oggi da autori come A.M. Dershowitz, Il terrorismo. Capire la minaccia, rispondere alla sfida, Roma, 2003. Su queste posizioni, e per la loro critica, si veda di recente M. La Torre, M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013.

 

[3] Così P. Calamandrei, Avvertenza alla seconda edizione, in C. Beccaria, “Dei Delitti e delle pene”, seconda edizione riveduta e accresciuta, a cura di P. Calamandrei, Firenze, 1950, 8. Sull’attualità dell’opera di C. Beccaria si vedano, fra tanti, M. Pisani, Attualità di Cesare Beccaria, Milano, 1998; M. Cattaneo, La perenne attualità del pensiero giuridico di Cesare Beccaria, in Critica del diritto, 1, 1999, 118 ss.

 

[4] La relazione fra tortura e veritas processuale, spesso oggetto di interesse negli studi romanistici (si pensi ai lavori di Y. Thomas, Arracher la vérité. La Majesté et L’Inquisition (Ier siècle, IVème siècle ap. J.C.), in Le Juge et Le Jugement dans les traditions juridiques européennes. Études d’histoire comparé, Paris, 1996, 15 ss., e Id., Confessus pro iudicato. L’aveau civil et l’aveau pénal à Rome, in L’aveau. Antiquité et Moyen Âge (Actes de la table ronde de Rome, 28-30 mars 1984), Roma, 1986, 89 ss.) è oggi tornata al centro dell’attenzione degli studiosi. Di questo rapporto infatti si occupa ex professo la recente monografia di A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem. Profili metodologici e processuali della quaestio per tormenta, Bologna, 2011. Più in generale sulla veritas si vedano i saggi raccolti nel volume Quid est veritas? Un seminario su verità e forme giuridiche, a cura di C. Masi Doria e C. Cascione, Napoli, 2013.

 

[5] Come si è detto si tratta di cap. XVI. Nelle edizioni successive alla traduzione francese dell’abate André Morellet (A. Morellet, Traité des délits et des peines, traduit de l’Italien d’après la troisième édition…, Amsterdam, 1766), venne dato un ordine differente ai capitoli e vennero effettuati alcuni spostamenti (qui il capitolo sulla tortura è il XII). Beccaria, dal canto suo, pur avendo apprezzato tale traduzione, nelle successive edizioni -fra cui l’importante edizione pubblicata a Livorno nel 1766- non riprese l’ordine dato dal Morellet. Quella versione rimase però diffusissima. Su tutto ciò cenni in G. Carnazzi, Premessa al testo, in C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di G. Carnazzi, Milano, 2014, 30.

 

[6] Afferma S. Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura giudiziaria, cit., 313 s. che la procedura penale era, da secoli, quasi sinonimo di tortura.

 

[7] Sul quadro normativo in cui si inserisce l’applicazione della tortura all’epoca si veda essenzialmente A. Cavanna, Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, in Cesare Beccaria fra Milano e l’Europa, Bari, 1990, 168 ss. In dettaglio, per la situazione in Lombardia riflessioni in S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale nella Lombardia austriaca. Introduzione, in Studi Parmensi, XIX, 1977, 302 ss. e nota 87. Lo studioso evidenzia come la regolamentazione della tortura era presente solo in modo “vago” nella legislazione statutaria di Milano: fonte della sua legittimità erano il diritto comune e dunque le fonti di diritto romano, in particolare i testi provenienti da D. 48,18 De quaestionibus e C. 9,41 De quaestionibus, oltreché D. 48,19 De poenis. Gli Statuti criminali disciplinavano la tortura presupponendone il fondamento proprio nel diritto comune. Si veda inoltre Id., Le letture dei giuristi. Aspetti del dibattito sulla tortura nel Consiglio di Giustizia di Mantova (1772), in La “Leopoldina”. Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del ‘700 europeo, 10, Illuminismo e dottrine penali, a cura di L. Berlinguer e F. Colao, Milano, 1990, 52 ss.

 

[8] Cfr. ancora S. Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura giudiziaria, cit., 315. A proposito dell’influenza che ebbe sull’opera di Beccaria la tradizione illuminista precedente si veda, fra tutti, M.A. Cattaneo, Cesare Beccaria e l’Illuminismo giuridico europeo, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, cit., 196 ss. Inoltre, di recente, M.G. di Renzo Villata, Quale scienza penale? Prima e dopo Beccaria, in Dei delitti e delle pene a 250 anni dalla pubblicazione. La lezione di Cesare Beccaria, Milano, 2015, 133 ss.

 

[9] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Con una raccolta di lettere e documenti relativi alla nascita dell’opera e alla sua fortuna nell’Europa del Settecento, a cura di F. Venturi, Torino, 1994, 38.

 

[10] S. Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura giudiziaria, cit., 316. Come si vedrà ampiamente nel corso di questo lavoro, ad un approfondimento circa l’uso in tema di tortura, a partire dall’antichità, si dedicherà invece Pietro Verri: P. Verri, Osservazioni sulla tortura, a cura di G. Barbarisi, Milano, 1984, 72 ss.

 

[11] A proposito di questa particolare funzione della tortura, e la posizione di Cesare Beccaria, si vedano le osservazioni di F.P. Casavola, Diritto e religione nel “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, in Un Padre del nostro tempo, Roma, 1994, ora in F.P. Casavola, Sententia legum. Tra mondo antico e moderno, III, Itinerari della civiltà giuridica, Napoli, 2000, 221 s., in cui lo studioso evidenzia che, sottolineando Beccaria la somiglianza fra la “purgazione d’infamia” attraverso lo “slogamento delle ossa” e la confessione dei peccati nel Tribunale della penitenza, l’autore utilizza le parole “abuso della religione” (espressione che torna nel capitolo Dei giuramenti e in quello Della pena di morte): orbene, si tratterebbe, secondo Casavola, di una «decantazione catartica del sacro dalla profanità del diritto».

 

[12] Sulle diverse finalità della tortura esplicitate dal Beccaria cfr. la ricostruzione di S. Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura giudiziaria, cit., 316.

 

[13] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., 38.

 

[14] Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., 38. Come è stato rilevato, la critica che Beccaria avanza nei confronti della tortura, come accade anche nel capitolo dedicato alla pena di morte, è caratterizzata da un forte approccio utilitaristico, oggetto di molte critiche nel corso del tempo. Ci limitiamo a ricordare, per esempio, P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, II, Milano, 1954, 248, nota 7, secondo il quale l’intera trattazione della tortura ne Dei delitti e delle pene si regge su puri argomenti logici. Più recentemente, cfr. G. Delitala, Cesare Beccaria e il problema penale, in Riv. it.dir. e proc. pen, 1964, 973, per il quale le pagine sulla tortura vanno annoverate «fra le pagine speculativamente più deboli e meno moderne del libro». Recentemente, su questi profili, S. Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura giudiziaria, cit., 318 s., secondo la quale, in realtà, il discorso di Cesare Beccaria non è privo di carica morale. In tale prospettiva di un certo interesse ci appaiono anche le riflessioni di P. Calamandrei, Prefazione, cit., 113, il quale, a proposito delle argomentazioni di Beccaria circa l’inutilità della tortura e della pena di morte afferma: «Problemi di economia politica, a sentir lui, e quindi soluzioni di ordine relativo e contingente: a chi guardi alla superficie pare che l’esigenza assoluta dell’imperativo morale non abbia alcun peso nelle sue valutazioni. Ma in realtà, questa non è che apparenza: dove l’argomentazione mantenuta sul terreno dell’utile si rivela meno efficace e meno sicura, basta scavare un po’ entro quella dialettica friabile per accorgersi che al di sotto, a reggere tutta la dimostrazione, c’è la roccia della ragione morale». Per Calamandrei, in realtà è proprio il capitolo dedicato alla tortura quello in cui la valutazione di utilità si mostra sufficiente nell’argomentazione dell’autore: poiché tutti i giuristi sono sempre stati concordi nel definire la tortura come indagatio veritatis per tormentum il cui unico scopo, quindi, è quello del raggiungimento della verità: per il Beccaria è dunque semplice dimostrare che la tortura non è affatto adatta a questo fine. «Qui, anche senza chiamare in aiuto la ragione morale che vieta in maniera categorica di tormentare una creatura umana, l’argomentazione condotta sul terreno utilitario riusciva, da sé sola, pienamente probante». Forte tensione morale, al contrario, si rinviene nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri. G. Barbarisi, Introduzione, in P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., XXXV, sottolinea come nell’opera di Pietro Verri vi sia sempre lo scopo della persuasione, al contrario dell’impostazione che si può rinvenire nella trattazione del Beccaria, il quale mirava ad imporre la propria verità.

Più in generale, sull’utilitarismo di Beccaria, cfr. in particolare G. Francioni, Beccaria filosofo utilitarista, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, cit., 69 ss. Sul rapporto fra Beccaria e Bentham si veda M.A. Cattaneo, Cesare Beccaria e l’illuminismo giuridico europeo, cit., 212 ss. Ritorna oggi sul problema M. De Caro, Utilitarianism and Retributivism in Cesare Beccaria, in The Italian Law Journal, 2, 2016, No. 1, 1 ss.

 

[15] A proposito del materiale che sta alla base della composizione del capitolo sulla tortura Pietro Calamandrei afferma: «Sdegnoso e incapace di ricerche erudite, egli si serviva dei materiali storici raccolti dagli amici dell’“Accademia dei Pugni” come punti di partenza per esporre le sue idee. Tutte le notizie di storia e di legislazione comparata che in questo capitolo si trovano appena accennate, ricompaiono, diligentemente illustrate con precisi riferimenti alle fonti, nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri; che, quantunque redatte in forma definitiva nel 1777 (e pubblicate nel 1804 dopo la sua morte), si basarono su materiali raccolti dallo stesso Pietro nel 1764, e certamente consultati dal B. mentre scriveva questo capitolo» (cfr. nota 1 al Cap. XII, in C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di P. Calamandrei, cit., 212 s. Uno sguardo complessivo ai ‘precedenti’ delle argomentazioni di Beccaria contro la tortura in L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla? L’abolizione della tortura tra cultura universitaria e Illuminismo giuridico. Le Note critiche di Antonio Giudici e Dei delitti e delle pene, in Formare il giurista. Esperienza nell’area lombarda tra Sette e Ottocento, a cura e con un saggio introduttivo di M.G. di Renzo Villata, Milano, 2004, 271 s. La studiosa, rifacendosi al pensiero di J.-M. Carbasse, Histoire du droit pénal et de la justice criminelle, Paris, 2000, 353 ss., nota che se le voci contro la tortura che precedono l’opera di Cesare Beccaria possono definirsi isolate, insufficienti per incidere concretamente sul tessuto sociale, l’Illuminismo è invece il momento dell’intervento definitivo per la soppressione dell’istituto.

 

[16] Sulle vicende relative alla pubblicazione dell’opera di Pietro Verri cfr. G. Barbarisi, Introduzione, cit., in P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., XL s.  

 

[17] A tal proposito si vedano in particolare il paragrafo 12, Uso delle antiche nazioni sulla tortura, il paragrafo 14, Opinione d’alcuni rispettabili scrittori intorno la tortura ed usi odierni d’alcuni stati e il paragrafo 15, Alcune obbiezioni che si fanno per sostenere l’uso della tortura, in P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 68 ss. Per l’elenco dei “precedenti” del discorso di Cesare Beccaria si veda inoltre P. Fiorelli, La tortura giudiziaria, II, cit., 209 ss. Di recente scrive S. Carnevale, I fatali inconvenienti della tortura giudiziaria, cit., 318: «Alle sue spalle vi sono grandi pensatori, ma è lui che sa trarne un testo che “è tutto sugo”, come chioserà un commentatore dell’epoca» (la citazione viene dal Giornale enciclopedico di Milano del 18 marzo 1785, riportato in C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, cit., 256.

 

[18] Inserita solo a partire dalla quinta edizione, 1766.

 

[19] Sulla polemica contro il diritto romano che affiora nell’avvertenza al lettore si vedano, per esempio, le osservazioni a suo tempo avanzate da P. Calamandrei, Prefazione, cit., 63 ss. Per una generale ricostruzione del clima culturale avverso al diritto romano nell’ambito dell’Illuminismo si vedano, per esempio, i saggi raccolti in R. Bonini, Crisi del diritto romano, consolidazioni e codificazioni nel Settecento europeo, Bologna, 1985; inoltre, Id., Giustiniano nella storia: il mito e la critica nel Settecento Illuminista, Torino, 1991, 18 ss.; Id., Un “ordinato codice di leggi romane”. Il giudizio degli Illuministi italiani sulle Istituzioni di Giustiniano, Bologna, 2001. Di recente, anche il lavoro di F. Fasolino, Il diritto romano e la cultura giuridica italiana del XVIII secolo, in Teoria e storia del diritto privato, I, 2008, 15 ss.; Id., Il dibattito Settecentesco intorno al diritto romano: prime considerazioni, in Studi in onore di R. Martini, I, Milano, 2008, 1075 ss. Sulla postilla introduttiva di Cesare Beccaria si vedano inoltre le riflessioni di F.P. Casavola, Diritto romano e religione, cit., 213 ss., che mette in luce il legame del pensiero di Beccaria con quello degli esponenti del Caffè; su questi profili anche S. Di Noto, Le letture dei giuristi, cit., 1061 s. Considerazioni sull’A chi legge anche in L. Garofalo, Concetti e vitalità del diritto penale romano durante l’Illuminismo, in Iuris vincula. Studi in onore di M. Talamanca, IV, Napoli, 2001, ora in L. Garofalo, Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova, 2008, 98 ss.

A proposito del giudizio di Cesare Beccaria sul diritto romano, esso suscitò, tra l’altro, la reazione di Antonio Giudici, autore di un’opera che, pur mostrando la condivisione di fondo di molte delle tesi più importanti del Dei delitti e delle pene, sottoponeva il libro ad una puntuale ed analitica critica, con cui ne vengono svelate inesattezze e imprecisioni, nonché i travisamenti giuridici. Nel contesto di tale commento critico Antonio Giudici, già professore di diritto romano all’Università di Pavia (1768-1783), poi nominato emerito e giudice del Tribunale milanese di prima istanza per le cause camerali, fiscali, feudali ed ecclesiastiche, esalta la funzione del diritto romano; anzi, la difesa dell’antica giurisprudenza costituisce il punto di partenza per le censure avanzate al lavoro di Cesare Beccaria. Il libro in questione è A. Giudici, Apologia della giurisprudenza romana o note critiche al libro intitolato: Dei delitti, e delle pene, Milano, 1784. Su Antonio Giudici e la sua opera si veda R. Bonini, “Un ordinato codice di leggi romane”, cit., 32 ss., e inoltre, con indicazione di altra letteratura, L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla?, cit., 281 ss.

 

[20] Sono parole di M. Brutti, La tortura e il giudizio, in Index, 38, 2010, 41 s. Per lo studioso, la posizione di Cesare Beccaria sarebbe di contrapposizione rispetto al diritto romano, nel solco di un illustre precedente, il Thomasius. Per C. Thomasius, De tortura ex foribus Christianorum proscribenda, Halae Magdeuirgicae, 1705, e Id., Fundamenta iuris naturae et gentium in quibus secernuntur principia honesti, justi ac decori, 1706, I VII. 14-19, la limitazione della tortura ai soli schiavi sarebbe stato indizio che i romani avvertivano la sua iniquità; tuttavia, il diritto romano va comunque censurato perché l’applicazione della quaestio, anche se solo nei confronti degli schiavi, è contraria ad ogni senso di umanità ed è pervasa da intrinseca ingiustizia.

 

[21] Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., 39.

 

[22] Su questi temi cfr. ancora F.P. Casavola, Diritto romano e religione, cit., 107 ss.

 

[23] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., 42.

 

[24] Nello stesso tempo, va segnalata comunque una sfumatura negativa nel giudizio sul diritto romano laddove Cesare Beccaria appare riconnettere l’introduzione della tortura proprio all’esperienza giuridica romana. Lo rileva criticamente A. Giudici, Apologia della giurisprudenza romana, cit., nota XCVII, 75, che ricorda che la tortura era conosciuta anche dai Greci; inoltre, in A. Giudici, Apologia della giurisprudenza romana, cit., nota CVI, 80, viene evidenziata la contraddizione in cui cade Beccaria, il quale successivamente afferma che la tortura sarebbe invece da ricollegarsi alle esperienze barbariche. Sottolinea oggi L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla?, cit., 300, nota 85, che si tratta di un errore di prospettiva che si rinviene parimenti nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri.

 

[25] F. Facchinei, Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene, s.l., 1765, 72. Su Ferdinando Facchinei, abate di Vallombrosa, e la sua durissima critica nei confronti dell’opera di Cesare Beccaria si vedano, fra molti, G.P. Massetto, La tortura giudiziaria nella dottrina lombarda dei secoli XVI-XVIII, in Amicitiae pignus. Studi in ricordo di A. Cavanna, II, Milano, 2003, 1422 ss., e L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla?, cit., 278 e nota 32.

 

[26] Come si è già accennato, posizione contraria in M. Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 39 ss., nel cui pensiero la posizione di Cesare Beccaria è del tutto uniforme alle istanze culturali dell’Illuminismo che «…descrive l’appropriazione violenta della verità da parte del potere e intende contrastarla: il che significa anche strapparne le radici antiche; rompere, su questo tema, in modo definitivo con la tradizione romanistica».

 

[27] Quaestio è appunto il termine tecnico che identifica la tortura giudiziaria nel diritto romano. A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 17, nota 9, ricorda che secondo F.G. Wasserschleben, De quaestionum per tormenta apud romanos historia, Berolini, 1837, 4, il lessico romano non avrebbe conosciuto il termine ‘tortura’. Sulla polisemia della parola quaestio si veda D. Mantovani, ‘Quaerere’, ‘quaestio’. Inchiesta letterale e semantica, in Index, 37, 2009, 26 ss.

 

[28] Si vedano, fra tutti, Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, 405 ss.; A. Ehrhardt, Tormenta, in RE, VI.A.2, 1937, 1775 ss.; P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, I, Milano, 1953, 16 ss.; W. Waldstein, Quaestio per tormenta, in RE, XXIV, 1863, 768 s.; P. Garnsey, Social Status and Legal Privilege in the Roman Empire, Oxford, 1970, 213 s. Panoramica, recentemente, in M. Brutti, La tortura, cit., 36. Sul rapporto fra confessione e tortura nel diritto romano si veda Y. Thomas, Confessus pro iudicato, cit., 97 ss.

 

[29] «…legge che nessuna delle varie disposizioni a noi pervenute contiene, eppure ciascuna presuppone come naturalmente nota, per non dire come giusta»: sono parole di P. Fiorelli, La tortura giudiziaria, I, cit., 27.

 

[30] Nota oggi A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 323 ss., a proposito dei titoli giustinianei D. 48,18, e C. 9,41, che «lo sviluppo della ricca ed articolata problematica in tema di modus tormentorum e di fides, e l’intensa riflessione che ne scaturisce, anomale qualora accostate alla sola classe servile, acquistano inoltre maggior significato se si pensa ad un’acquisita consapevolezza da parte dei giuristi circa il fatto che la diffusione della quaestio era un problema che riguardava ormai tutta la popolazione, liberi inclusi». La studiosa aggiunge che, con ogni probabilità, le varie regole individuate in tema di quaestiones servorum vennero dai giuristi traslate naturalmente all’ambito della tortura dei liberi.

 

[31] In tal senso, per esempio, A. Ehrhardt, Tormenta, cit., 1781 ss.; P. Fiorelli, La tortura giudiziaria, I, cit., 16 ss., 25 ss.; P. Garnsey, Social Status, cit., 143 ss. Più recentemente, V. Giuffrè, La repressione criminale nell’esperienza romana. Profili, 5a ed., Napoli, 1998, 160; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, 2a ed., Milano, 1998, 246. Il primo ambito di estensione della tortura ai liberi sarebbe quello del crimen maiestatis; cfr. in particolare L. Solidoro Maruotti, Profili storici del diritto politico, Napoli, 2002, 47 ss. e 50 ss. Non mancano ipotesi interpretative diverse, che anticipano l’impiego della tortura sugli uomini liberi. Si veda in tal senso C. Russo Ruggeri, Quaestiones ex libero homine. La tortura degli uomini liberi nella repressione criminale romana dell’età repubblicana e del I secolo dell’Impero, Milano, 2002.

 

[32] Sul passo si veda, in particolare, U. Vincenti, Duo genera sunt testium, Padova, 1989, 122 ss. Lo studioso afferma, dopo aver individuato quella che è la ratio principale della soluzione proposta da Callistrato, ossia l’intento di delimitare il più possibile la applicazione della tortura agli uomini liberi, che esso testimonia l’esistenza di una regola giuridica, nel III sec. d.C., che permetteva la tortura dell’uomo libero incerto nel rendere testimonianza. Sul brano inoltre, R. Bonini, I libri “de cognitionibus” di Callistrato, Milano, 1964, 109; C. Russo Ruggeri, Quaestiones ex libero homine, cit., 18, nota 202; M. Brutti, La tortura, cit., 37 ss. e di recente, A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 189, secondo la quale dal passo traspare l’idea che «… le supposte necessità probatorie finivano comunque, sia pur a certe, labilissime condizioni, per prendere il sopravvento sul rispetto della persona dei liberi».

 

[33] U. Vincenti, Duo genera sunt testium, cit., 128 s., ritiene che probabilmente nel caso prospettato da Callistrato alla tortura si potesse far ricorso quando si nutrisse il sospetto della falsità o reticenza del teste; la tortura dunque, oltre ad illuminare sui fatti oggetto del processo, poteva condurre all’accertamento della responsabilità criminale del soggetto per falsa testimonianza.

 

[34] Sulla costituzione si vedano, fra tutti, in D. Dalla, Il Manzoni e D. 40.18.1.23: riflessioni sulla tortura, in Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, LXIV, 1975-1976, 180 ss. con note. Si tratterebbe di un episodio in cui l’applicazione della tortura, a scopo inquisitorio, non mira alla ricostruzione della verità, ma ad ottenere lo scopo politico dell’eliminazione dell’avversario.

 

[35] Su tutto ciò, ancora D. Dalla, Il Manzoni, cit., 180 ss.; A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 306 ss. e da ultimo, con ampia rassegna di fonti e letteratura, C. Cascione, Linee per una storia della veritas nell’esperienza giuridica romana. II. Diritto tardoantico, in Quid est veritas?, cit., 118 ss., con osservazioni anche sulla discussa influenza che il Cristianesimo ebbe sull’impiego della tortura. Riflessioni sull’atteggiamento degli imperatori cristiani e della Chiesa nei confronti di questo strumento anche in M. Bianchini, Cadenze liturgiche e calendario civile fra IV e V secolo. Alcune considerazioni, in Accademia Romanistica Costantiniana. Atti del VI Convegno internazionale, Perugia, 1986, ora in M. Bianchini, Temi e tecniche della legislazione tardoimperiale, Torino, 2009, 244 ss.

 

[36] Sulla legislazione tardoantica in tema di tortura (anche) dei liberi e sulle progressive delimitazioni si veda in particolare, oggi, A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 308 ss., la quale sottolinea che uno dei temi principali affrontati nella legislazione tardoimperiale è «la preoccupazione a che non ricadano sotto i tormenta persone altolocate, sempre eccezion fatta per le indagini concernenti la sicurezza dello stato e dell’imperatore». Cenni anche in C. Russo Ruggeri, Quaestiones ex libero homine, cit., 185 ss. In generale, sulla contrapposizione honestiores/humiliores nel diritto criminale di età imperiale v. R. Rilinger, Humiliores-honestiores. Zu eine sozialen Dichotomie im Strafrecht der römischen Kaiserzeit, München, 1988.

 

[37] Lo rileva un autore come Giudici: A. Giudici, Apologia della giurisprudenza romana, cit., nota XCVII, 75. A fronte dell’affermazione di Cesare Beccaria per cui i romani avrebbero limitato l’applicazione della tortura ai soli schiavi, l’autore scrive: «La Tortura fu in uso presso i Greci, e presso i Romani, quantunque coltissime nazioni. Egli è vero, che i Romani nei migliori tempi della Repubblica ne fecero ufo coi soli schiavi, ma poi l’estesero anche ai liberi sotto agl’Imperatori; sebbene ciò sia avvenuto più per Fatto che per Diritto …». Inoltre, op. cit., in calce a nota CXIII, n. XI, 90. Ancora, consapevole del fatto che nel diritto romano l’applicazione della tortura non era riservata agli schiavi ma avveniva anche sui liberi mostra di essere C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Firenze, 1862, 36 s., dove, a proposito della trattazione della tortura da parte del Beccaria, si afferma: «Se bisognasse appoggio d’autorità, vi soccorreva la sapienza de’ Romani, i quali, non rispettando l’uomo come uomo, ma sol come cittadino, applicarono la tortura agli schiavi. Cicerone riprova i Rodi e gli Ateniesi che vi sottoponeano anche persone libere. Pure v’aveva casi, dove altrettanto usavano i suoi Romani …».

 

[38] Si veda, in particolare, F. Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano: le fonti, leggi e scienza, Roma, 1895, 766, e ancora P. Fiorelli, La tortura giudiziaria, II, cit., 249, e nota 9, il quale, proprio richiamando la trattazione della tortura nel Dei delitti e delle pene, afferma che il capitolo è caratterizzato da “falsità storiche”: fra queste, le «due leggende secondo cui in Roma antica si sarebbe usata la tortura per i soli schiavi, e in Inghilterra non si sarebbe conosciuta affatto …», che proprio Cesare Beccaria avrebbe convalidato con la propria autorità. Ancora, sulla mancanza di senso storico di Beccaria, si veda P. Calamandrei, Prefazione, cit., 62. Quadro ricostruttivo degli errori compiuti dal Beccaria nel capitolo sulla tortura, più di recente, in L. Garlati Giugni, Molto rumore per nulla?, cit., 299 ss.

 

[39] Cfr. infra, par. 6.

 

[40] Per il commento di Voltaire cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Edizione rivista, corretta e disposta secondo l’ordine della traduzione francese approvato dall’autore con l’aggiunta del commentario alla detta opera di M. de Voltaire. Traduzione del celebre autore, Londra, 1774, 135. Il Voltaire sembra aderire completamente alle argomentazioni svolte dal Beccaria contro la tortura, e, a proposito dei riferimenti storici, afferma solo: «Io non dirò qui che S. Agostino esclama contro la tortura nella sua Città di Dio. Io non dirò che a Roma non ci fosse tortura ad altri che agli schiavi, e di Quintiliano sovvenendosi che gli schiavi son uomini, disapprovi simili barbarie».

 

[41] P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 87 s. sembra addirittura escludere che il diritto romano della compilazione giustinianea conoscesse la regolamentazione della tortura, che, esclusa dalle sue “leggi”, sarebbe invece legata ad uno sviluppo successivo, legato all’interpretazione dei dottori quali Claro, Bossi, Farinaccio. In altri punti dell’opera, la posizione dell’autore appare invece più sfumata. Nel paragrafo 10, Se le leggi e la pratica criminale risguardino la tortura come un mezzo per avere la verità, egli, per esempio, richiamando D. 48,18,2,23 di Ulpiano (su cui v. infra, par. 5), afferma che i Romani non credevano che la tortura fosse strumento per ricostruire la verità e che l’applicavano agli schiavi (si veda op. cit., 64). Successivamente, nel paragrafo 12, Uso delle antiche nazioni sulla tortura, l’idea che nel diritto romano si applicasse la tortura solo agli schiavi è ribadita (op. cit., 71), mentre nel paragrafo successivo, Come siasi introdotto l’uso di torturare ne’ processi criminali, Pietro Verri, in contraddizione rispetto alle posizioni assunte negli altri punti dell’opera, ammette che con l’avvento dell’Impero a Roma si arrivò ad estendere la tortura anche ai liberi (op. cit., 73). Torneremo più avanti (infra, par. 6) sulla ricostruzione storica della tortura offerta nelle pagine di Pietro Verri.

 

[42] Si veda A. Manzoni, Storia della colonna infame, a cura di L. Caretti, Milano, 1965, 834 s. Osservazioni in D. Dalla, Il Manzoni, cit., 173 ss.

 

[43] Sulla vicenda rimandiamo alle pagine di S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale, cit., 272 ss., e Id., Le letture dei giuristi, cit., 39 ss. e, più di recente, a E. Pagano, “Questa turba infame a comun danno unita”. Delinquenti, marginali, magistrati nel Mantovano asburgico (1750-1899), Milano, 2014, 85 ss.

 

[44] Cfr. S. di Noto, Le letture dei giuristi, cit., 75. Sulla figura del Barone de Waters v. op.ult.cit., 40, nota 3. La mancata espressa citazione dell’opera di Cesare Beccaria dipendeva da diversi fattori: non tanto il fatto che il libro fosse stato messo all’Indice, ma soprattutto l’idea che il pensiero di Cesare Beccaria non potesse essere considerato “autorità” nella cultura dei giuristi dell’epoca, per l’estraneità, nel suo riformismo, «non solo alle forme tràdite ma alle ragioni permanenti della scienza e dell’esperienza del diritto»: v. F.P. Casavola, Diritto romano e religione, cit., 114. Sull’influenza dell’opera di Beccaria sui consiglieri favorevoli all’abolizione della tortura, si vedano anche le pagine di G.P. Massetto, La tortura giudiziaria nella dottrina lombarda, cit., 1412 s.

 

[45] Si veda ancora S. Di Noto, Le letture dei giuristi, cit., 75 ss., che ricorda l’influenza del Beccaria anche nel discorso di un altro consigliere mantovano favorevole all’abolizione della tortura, Felice Nonio; pure nel suo argomentare l’impronta di Dei delitti e delle pene è forte. Sempre S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena di morte, cit., 277, ricorda il discorso del Sindaco Fiscale Codè su quella che sarebbe “l’origine servile” della quaestio, nonché la posizione del Capitano di Giustizia Guaita per il quale, essendo stata abolita la schiavitù, anche la tortura sarebbe dovuta venire meno.

 

[46] Cfr. supra, par. 2.

 

[47] E ripreso, per esempio, già nell’opera di C. Thomasius, De tortura, cit., cap. II, par. I, 22 s.; in L. Muratori, Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni prìncipi, a cura di C. Mozzarelli, Roma, 1996, 70: «Si può massimamente osservare che molto pericoloso mezzo per ricavare la verità dai pretesi colpevoli è il crudele de’ tormenti… perché può far patire e talvolta anche far perire gli innocenti»; e che tornerà anche in autori influenzati dall’opera del Beccaria, tra cui il tedesco J. Von Sonnenfels, Ueber die Abschaffung der Tortur, Zurigo, 1775, 64 ss., il quale sottolinea come la tortura è mezzo che porta il giudice a condannare gli innocenti. Sulle analogie, ma anche sulle differenze, fra il pensiero di Beccaria e di Sonnenfels in tema di tortura v. M.A. Cattaneo, Cesare Beccaria e l’illuminismo giuridico europeo, cit., 208 ss.

 

[48] Sul ruolo fondamentale della retorica in materia di tortura prima del II d.C. v. G. Pugliese, La preuve dans le procès romain de l’époque classique, in La preuve, 1-Antiquité (=Recueils de la Société Jean Bodin pur l’histoire comparative des institutions, XVI.1, Bruxelles, 1964, 284 ss.

 

[49] Si veda già la Rhetorica ad Herennium, in particolare Rhet. ad Her. 2.7.10, dove è presente l’assunto relativo al fatto che la tortura, con il dolore fisico e psicologico che infligge, può portare a confondere chi è colpevole e chi è innocente (v. fra tutti, di recente, S. Roncati, L’interrogatorio degli schiavi ereditari in una legge di Giustiniano (C. 9,41,18), in Princìpi generale e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C., a cura di S. Puliatti e U. Agnati, Parma, 2010, 262 ss., e M. Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 50 ss.) Il motivo si legge anche in Cicerone, per esempio in Pro Sulla 78: …illa tormenta moderatur dolor, gubernat natura cuiusque tum animi tum corporis. Regit quesitor, flectit livido, corrumpit spes, infirmat metus, ut in tot rerum angustiis nihil veritati locus relinquatur. Di Cicerone si veda anche Top. 20,74. Facit etiam necessitas fidem, quae tum a corporibus, tum ab animis nascitur. Nam et verberibus, tormentis, igni fatigati quae dicunt, ea videtur veritas ipsa dicere, et quae perturbationibus animi, dolore, cupiditate, iracundia, metu, quia necessitatis vim habent, afferunt auctoritatem et fidem. Nel brano, ampiamente discusso, Cicerone parrebbe ricollegare le dichiarazioni rilasciate sotto tortura alla ‘verità’: come si dà indiscutibilmente credito alle dichiarazioni che vengono fatte sotto la spinta delle emozioni e del dolore, dalla cupidigia, dalla rabbia e, in generale, da tutti gli stati emotivi che hanno forza di necessità, così anche ciò che viene dichiarato sotto tortura parrebbe corrispondere a verità. Si veda, con approccio critico rispetto a questa lettura del brano di Cicerone, S. Roncati, L’interrogatorio degli schiavi ereditari, cit., 261. M. Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 52 ss., sottolinea come, sebbene il discorso ciceroniano contenga i presupposti per una critica radicale della tortura, presente per esempio nelle fonti aristoteliche, manca comunque una visione generale che porti in primo piano la sfiducia nella quaestio.

Di recente, si vedano anche A. Triggiano, Evidence given under torture in Aristotle and Cicero, in Teoria e storia del diritto privato, 2, 2009, 1 ss. e C. Masi Doria, Linee per una storia della veritas, nell’esperienza giuridica romana, I. Dalle basi culturali al diritto classico, in Quid est veritas?, cit., 31 ss., che evidenzia efficacemente la consapevolezza, nei retori, e poi in imperatori e giuristi, dell’«incertezza del risultato veritativo della tortura».

Approccio critico alla posizione di Cicerone sulla tortura in C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, cit., 37: «…e se questo rappresentante del buon senso riconosceva la tortura un modo non di ottenere la verità ma di scoprire la forza muscolare del tormentato, la domandava poi quando giovasse ai suoi clienti…».

 

[50] P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 78 s.

 

[51] P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 77.

 

[52] P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 77.

 

[53] Sono parole di A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 195. La studiosa, nell’affrontare il rapporto fra la tortura e le opere retoriche, sottolinea come tendenzialmente i retori vedano nella quaestio, nonostante i limiti che essa presenta, uno strumento che in giudizio può condurre al rafforzamento delle loro tesi.

 

[54] Per l’analisi di Inst. Orat. 5.4.2 rinviamo ora a A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 207 s.

 

[55] M. Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 50, a proposito della posizione dei retori nei confronti della quaestio, afferma che nelle loro opere si trova l’origine del «compromesso con la tortura» che connota anche il pensiero dei giuristi. Nota A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 199 la grande contraddittorietà che caratterizza le fonti retoriche, nelle quali, accanto al dubbio sulla fides da riservare alle dichiarazione che scaturiscono dai tormenta sovente vi è l’idea che la tortura possa condurre alla ricostruzione della verità.

Difficile dunque vedere in un autore quale Quintiliano un atteggiamento di «… contraddizione a questa barbara costumanza», come afferma P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 78 s.

 

[56] Così S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale, cit., 282 e nota 36.

 

[57] Il frammento viene da un lungo passo di Ulpiano, D. 48.18.1, che «introduce subitamente alle norme cardine della materia, regolamentando non soltanto il momento esecutivo della quaestio ma fissando altresì una procedura in criminibus eruendis in vista dell’utilizzabilità in sede giudiziaria delle sue risultanze»: così A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 80.

 

[58] In D. 48.18.1 pr. il giurista ricorda un editto di Augusto che stabiliva il divieto di iniziare le indagini dalla tortura e di riconoscere piena affidabilità alle risultanze della quaestio.

 

[59] Cfr. D. 48.18.1.24. A proposito di questa fattispecie, A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 215: «Ancora una volta il commento del giurista appare teso a fare salvo lo strumento processuale della quaestio per tormenta: le perplessità che emergono dall’analisi dei casi critici assumono valore di metodo e di supporto all’attività del giudicante e si concludono con l’invito ad una valutazione giudiziosa, accurata e motivata, qualunque sia la soluzione scelta. Il caso del teste ostile richiede dunque un vaglio specifico, che non sia criticamente adesivo ma neppure aprioristicamente svalutativo».

 

[60] Sull’espressione eruere veritatem (presente anche in altre fonti, come D. 22.5.7 e D. 48.18.1 pr.) si veda in particolare il lavoro di Y. Thomas, Arracher la verité. La Majesté et L’Inquisition (Ier siècle, IVème siècle ap. J.C.), cit., 21.

 

[61] Così A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 6. Sul passo v. anche C. Masi Doria, Linee per una storia della veritas, I, cit., 35.

 

[62] Sulla quaestio degli schiavi nell’ambito delle cause civili si vedano ora le pagine di S. Roncati, L’interrogatorio degli schiavi ereditari, cit., 265 ss.

 

[63] Cfr. A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 265 ss., con indicazione di altra letteratura. La studiosa ricorda che l’applicazione della tortura nei giudizi civili era del tutto eccezionale, come parrebbe emergere dal celebre passo di Scevola riportato in D. 49.5.2.

 

[64] Si veda in tal senso V. Marotta, Multa de iure sanxit, cit., 325 ss., ove lo studioso sottolinea anche che il rescritto Antonino Pio introdurrebbe, forse per la prima volta, un principio di giustizia materiale: «l’uso di un mezzo istruttorio, nel quale sono prevalenti i connotati dell’inquisitio, si impone sulla regola generale, che affida alle parti soltanto la ricerca e l’esibizione del materiale probatorio».

Interessante, in modo affine, un rescritto di Diocleziano e Massimiano, sempre in tema di tortura degli schiavi nel processo civile: C. 9.41.12. Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Aspro. Quotiens de dominio mancipiorum tractatur, si alii probationibus veritas illuminari non possit, de se ipsa esse cum tormentis interroganda iuris auctores probant. (a. 291). Anche in questo testo sembra essere sottolineato un forte legame con la veritas: la tortura è infatti utilizzabile si alii probationibus veritas illuminari non possit. Sul testo S. Roncati, L’interrogatorio degli schiavi ereditari, cit., 267.

 

[65] Cfr. C. Masi Doria, Linee per una storia della veritas, I, cit., 34.

 

[66] I passi qui riportati costituiscono solo pochi esempi. Sono in realtà molti i casi in cui i giuristi, i quali mostrano di avere consapevolezza del difficile rapporto fra tortura e verità, accentuano i limiti di questo mezzo raccomandandone un cauto impiego ma non negandone mai l’utilità. Tra molti altri, per esempio, si veda D. 48.18.1.27, in cui Ulpiano torna ad evidenziare le numerose contraddizioni sulla possibilità che l’applicazione della tortura conduca alla verità, ma nello stesso tempo non spinge nel senso dell’abbandono di questo mezzo. Sul passo, cfr. da ultima A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 218 ss., che significativamente afferma: «Le perplessità che emergono dall’analisi degli aspetti critici, i dubbi sull’attitudine del dolor ad indurre il tortus a confessare il vero, i problemi derivanti dagli articolati intrecci delle posizioni soggettive di teste, di reo, di correo e dai meccanismi che scaturiscono dalla confessione in se o contra alios non riescono a portare alla demolizione dell’utilità del mezzo. Laddove i retori avevano avuto buon gioco a insufflare il dubbio nelle molteplici pieghe che l’impiego razionale dei tormenta comportava, imperatori e giuristi, senza perciò abdicare all’approccio empirico al tema ma senza nemmeno ricorrere a criteri legali pregiudiziali, continuano a preoccuparsi di inquadrare la quaestio tra gli strumenti comunque necessari in criminibus eruendis ed attribuiscono all’apprezzamento del giudice la quadratura di ogni criticità, rimettendo a questi l’ultima e decisiva parola sulla fides quaestionum».

Ancora, di estremo interesse è D. 48.18.8 pr. (Paul. 2 de adulteriis), ove è ricordato un editto di Augusto in tema di quaestiones servorum, che sono definite in maniera significativa come efficacissimas… ad requirendam veritatem. Sul brano v. C. Masi Doria, Linee per una storia della veritas, I, cit., 35 s.

 

[67] Si vedano, per esempio, le parole di M. Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 38, nota 8, ove lo studioso afferma che l’impiego della tortura nel diritto romano è da ricollegarsi ad un modello “potestativo” di processo ed alla convinzione, secondo Brutti non simulata dai giuristi, ma effettivamente condivisa, che la verità si possa estorcere.

 

[68] Cfr. sul punto le riflessioni di A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 9 e, inoltre, con ampia rassegna di fonti, 208 ss.

 

[69] Quelle virgolettate sono parole di A. Bellodi Ansaloni, Ad eruendam veritatem, cit., 9.

 

[70] Cfr. per esempio CTh. 9.40.1; CTh. 11.36.1; CTh. 11.36.4. Cenni a questi testi in Y. Thomas, Confessus pro iudicato, cit., 117, nota 122. Anche in età postclassica non mancano le voci contro la tortura. Si pensi per esempio ad Agostino d’Ippona, in Epist. 133.2.1-2, e De civ. Dei 19.6, testimonianze fortemente dibattute dagli studiosi. Per una ricostruzione di questa discussione, v. oggi C. Cascione, Linee per una storia della veritas, II, cit., 130 ss. Lo studioso propende per l’idea che Agostino effettivamente abbia assunto una posizione di contrarietà rispetto alla tortura, pur accettandone l’uso; evidenzia inoltre come il suo atteggiamento polemico nei confronti della quaestio abbia scarsamente potuto incidere sulla legislazione, dato che la tortura era percepita comunque come una prova “logica”. Sulla posizione degli imperatori cristiani riguardo alla tortura si veda il già richiamato lavoro di M.G. Bianchini, Cadenze liturgiche e calendario civile fra IV e V secolo, cit., 244 ss.

 

[71] Cfr. ancora M. Brutti, La tortura e il giudizio, cit., 50.

 

[72] P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 63. Critica puntuale di queste affermazioni di Pietro Verri in S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale, cit., 328 ss. Lo studioso correttamente afferma che l’indagine sulle origini dell’istituto appare essere «la parte più caduca» dell’opera del Verri, e sottolinea appunto, contro quanto affermato dall’autore, che tutto un titolo del Digesto… era dedicato all’argomento. Preferiva, piuttosto, cogliere “la metodica introduzione dei tormenti… dopo il secolo XI”, facendo suo un luogo comune dell’illuminismo propenso ad attribuire ogni colpa al medioevo…». Ancora, lo studioso secondo noi coglie nel segno quando scrive: «Le espressioni usate da Pietro rivelano una certa ambiguità, essendo più adatte alla polemica, che non ad una scientifica analisi del problema sotto il profilo storico» (op. ult. cit., 330).

 

[73] P. Verri, Osservazioni sulla tortura, cit., 63 s. Da notare la somiglianza con il brano del capitolo XVI de Dei delitti e delle pene dove Cesare Beccaria affermava che i ‘romani legislatori’ erano consapevoli del fatto che la tortura non poteva condurre alla verità.

 

[74] Così S. Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale, cit., 330.

 

[75] Ancora, S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale, cit., 330. Lo studioso si sofferma (si veda op. ult. cit., 301 ss.) sulla forte contrapposizione fra Pietro Verri e il padre, Gabriele Verri, Presidente del Senato della Stato di Milano, esponente di un atteggiamento fortemente conservatore nel dibattito relativo all’abolizione della tortura. Sul Senato milanese nell’amministrazione della giustizia, v., per tutti, A. Cavanna, Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, cit., 168 ss.; in particolare, sul suo ruolo nell’applicazione della tortura si veda l’analisi di G.P. Massetto, Aspetti della prassi penalistica lombarda nell’età delle riforme: il ruolo del Senato milanese, in G.P. Massetto, Saggi di storia del diritto penale lombardo, Milano, 1994, 352 ss.

 

[76] Sulla profonda affinità fra l’opera di Cesare Beccaria e quella di Pietro Verri v. già M. Cattaneo, Illuminismo e legislazione, Milano, 1966, 51; S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale, cit., 330, nota 152, sottolinea particolarmente i punti di contatto fra le Osservazioni sulla tortura e il cap. XVI di Dei delitti e delle pene.

 

[77] A proposito della mancanza di senso storico in Beccaria afferma in modo significativo Pietro Calamandrei: «Quella asserta mancanza di comprensione storica, che gli fu rimproverata come un demerito, era in realtà la sua forza; sua, e di tutti gli scrittori più significativi di quel periodo, ai quali è comune questo senso di insofferenza e di riprovazione verso un passato a cui negano ogni solidarietà, questo anelito a rompere bruscamente ogni continuità con esso, come se quello che è esistito fin qui si potesse ripudiare come tutto sbagliato di sana pianta, e il mondo si dovesse ricostruire dalle fondamenta in base ai nuovi dogmi dettati dalla ragione». V. P. Calamandrei, Prefazione, cit., 65 s.