Università di Sassari
Il matrimonio dei militari in età
imperiale
INDICE-SOMMARIO:
‒ 1. Impostazione della questione del divieto
a contrarre matrimonio per i soldati romani e stato essenziale della dottrina.
‒ 2. Il problema del divieto a contrarre
matrimonio per i soldati nelle fonti letterarie e giuridiche.
‒ 3. Provvedimenti
imperiali a tutela delle famiglie dei soldati. – Abstract.
La dottrina più risalente, sin dal XVI secolo, riteneva, contrariamente (come vedremo) a quella più recente, che i soldati romani non potessero unirsi in matrimonio[1]. Essa, sulla base soprattutto delle fonti letterarie[2], faceva risalire il divieto a contrarre matrimonio ad Augusto[3], a volte motivandolo in funzione di assicurare la disciplina militare o la castità che talune testimonianze antiche descrivevano come caratteristica propria della vita militare[4].
L’interesse della dottrina per le fonti giuridiche relative al divieto era invece modesto, a tal punto che ancora ai tempi della Pandettistica, lo Scialoja poteva osservare criticamente come «la questione del matrimonio dei soldati romani … sembri quasi affatto trascurata dagli scrittori di diritto romano privato e di storia del diritto romano»[5].
A questo stato di cose vi erano, però, eccezioni importanti. Tra esse possiamo richiamare anzitutto il Mommsen[6], a partire dal quale studiosi del calibro di Wilmanns[7], Meyer[8], e altri ancora, tra cui lo stesso Scialoja[9], presero a interessarsi al problema mostrando particolare attenzione anche alle fonti giuridiche. Il Mommsen, partendo dal frammento di Ulpiano, in D. 24.1.32.8 [10], scriveva: «Militem etiam tempore militiae uxorem habere posse efficitur ex multis locis iuris auctorum … Quod non video quomodo conciliari possit cum testimoniis supra relatis, nisi hoc statuamus militem uxorem ducere non potuisse, retinere potuisse ante ductam. Militiae tempore uxorem eum ducere non potuisse etiam illi auctores quodammodo conformant, nam inter personas non ex castris notas militi ut cognatos, ita etiam uxores referunt (Dig. 49.17.8). Accedit quod verba faciunt de uxore donante marito ad castra eunti (Dig. 49.17.6) itemque de divortio bona gratia facto ob causam militiae (Dig. 24.1.61-63: saepe … evenit uti propter … senectutem aut valetudinem aut militiam satis commode retineri matrimonium non possit, et ideo bona gratia matrimonium dissolvitur). Potuit itaque miles uxorem habere filiosque ex ea suscipere; at cum milites plerumque anno decimo octavo probarentur, paucos admodum uxores habuisse consentaneum est».
La tesi del Mommsen influenzò certamente gli autori successivi. Si può ricordare tra essi, ad esempio, il Marquardt, il quale osservò che «Régulièrement les soldats ne pouvaient conclure un justum matrimonium qu’après avoir reçu leur congé; c’est ce que disent plusieurs auteurs», tra cui egli menzionava Gaius, Inst. 1.45; Dio Cassius, 60.24.2; Tacitus, ann. 14,27; Tertullianus, de exhort. cast. 12 [11].
È allo stesso Scialoja sopra richiamato, però, che si deve, per gli anni successivi al Mommsen, lo sforzo più significativo per attribuire alle fonti giuridiche la esatta collocazione e il corretto valore in rapporto anche a quanto emergeva dalle fonti letterarie ed epigrafiche sulla questione del divieto[12]. Nel suo contributo l’illustre studioso italiano partiva dalla notizia della pubblicazione, a cura del Botti, del papiro giuridico Cattaoui, del tempo di Antonino il Pio (142 d.C.)[13]. Il papiro riproduceva alcuni documenti giudiziali relativi alle unioni matrimoniali dei militari, con annotazioni in merito agli effetti derivanti sul piano della eredità, della dote e della legittimità dei figli nati durante il servizio militare. La tesi dello Scialoja si fondava sulla necessità di «distinguere bene la facoltà di aver moglie, da quella di coabitare con la moglie, e soprattutto da quella di prendere moglie»[14]. Sulla base di tale distinzione, lo studioso riteneva di dovere circoscrivere la esistenza di un divieto matrimoniale per i soldati cittadini romani, in quanto era per lui pacifico, sulla base di ciò che risultava dai diplomi militari, che i peregrini anche durante l’impero potessero unirsi in matrimonio. Lo Scialoja poneva inoltre l’accento sul fatto che durante la repubblica, come risultava da alcuni passi di Livio[15], il soldato potesse avere moglie, anche se poi vi erano impedimenti, dovuti però a ragioni di disciplina, a che ella seguisse il marito presso gli accampamenti militari[16]. Egli rilevava, quindi, che dovesse considerarsi «eccessivo», sulla base di Dione Cassio, 60.24[17] e del papiro Cattaoui, sostenere che i soldati non solo non potessero contrarre matrimonio, ma che neanche potessero avere moglie. In sintesi, lo Scialoja concludeva ritenendo, per i primi due secoli dell’Impero, «probabile che non fosse vietato l’aver mogli, ma bensì il coabitare con la moglie, e che qualche proibizione vi fosse circa il contrarre matrimonio»[18]. Nel Digesto e nel Codice giustinianeo, però, aggiungeva che «risulta manifesto che i militi potevano contrarre valido matrimonio e avere figli legittimi anche durante la milizia»[19]. Il divieto di coabitazione, secondo lo studioso, come risultava dai diplomi militari, nel terzo secolo doveva essere considerato ormai caduto.
Nonostante la autorità dello Scialoja la adesione di una parte della dottrina romanistica alla tesi della sussistenza del divieto si protrasse fino alla prima metà del ’900. Autori del calibro di Perozzi[20], Girard[21], Arangio-Ruiz[22], Carlo Longo[23], Giannetto Longo[24], Di Marzo[25], per dire solo di alcuni, continuarono a insistere su questa tesi. Dopo lo Scialoja cominciarono, però, ad apparire anche alcune decise prese di posizione contro la tesi di un divieto generale di matrimonio dei soldati. Basti pensare per la Francia al Mispoulet e per l’Italia al Tassistro e poi al Costa.
In particolare, secondo il Mispoulet, non solo non sarebbe esistito un divieto per i soldati di contrarre matrimonio, ma ad essi non si sarebbero applicate le misure stabilite per i celibes dalla lex Iulia et Papia Poppea[26]. In sintesi, egli riteneva che i soldati romani in ogni epoca potessero contrarre matrimonio. Settimio Severo permise ai militari il diritto di vivere con le mogli eliminando un ostacolo che al matrimonio si opponeva. Le notizie relative al preteso divieto erano quindi per il Mispoulet una misura attinente al profilo della disciplina militare. Il privilegio a contrarre matrimonio che era concesso ai veterani doveva inoltre essere considerato meno importante di quanto normalmente si ritenesse in dottrina, anche perché il riconoscimento di un ius connubii non avrebbe potuto avere l’effetto di trasformare retroattivamente una relazione di concubinato.
Il Tassistro, il quale aveva dedicato al tema del divieto di matrimonio per i militari la sua tesi di laurea, datata 1898, dopo un paio d’anni pubblicava definitivamente il suo lavoro sostenendo che la unione coniugale, contratta prima del servizio militare, non fosse sciolta, anche se egli ammetteva che esistessero «tre impedimenti di indole giuridica: l’incapacità delle straniere, il divieto provinciale e, precipuamente, il disciplinare»[27]. Sulla base di fonti epigrafiche e papirologiche, l’autore riteneva così che il divieto non fosse assoluto ma specifico: infatti, un divieto «generico, assoluto» con il quale si fosse proibito a tanti uomini la «facoltà matrimoniale, sarebbe stato, per lo meno, poco in armonia con le disposizioni augustee sui costumi». Per tale ragione, egli credeva che la libertà matrimoniale fosse stata comunque riconosciuta anche ai soldati[28].
Il Costa, pur partendo dalla osservazione che la esistenza di un tale divieto fosse generalmente ammessa da vari autori sulla base di Dione Cassio, 60.24, e di Erodiano, 3.8.4, rilevava come altre testimonianze, comprese pure alcune iscrizioni funerarie, attestassero la esistenza di «legittimi rapporti matrimoniale e parentali di militari»[29]. Dalle fonti non si poteva, quindi, arguire l’esistenza di un «divieto legale e generale» per i soldati a contrarre matrimonio. Anche alla luce del precetto ricordato da Dione Cassio, dettato però da ragioni disciplinari che impedivano la convivenza fra militare e moglie, le fonti sembravano attestare non veri impedimenti, ma difficoltà per i soldati a unirsi in matrimonio o a mantenere vivi rapporti già instaurati. Cosa che non impediva di pensare a momenti in cui, specialmente nei periodi di pace o nel caso di servizio militare prestato presso «guarnigioni tranquille», fossero «ben possibili la conclusione e la persistenza di validi rapporti matrimoniali produttivi di giuridici effetti»[30].
Le ‘certezze’ della dottrina romanistica sulla esistenza di un divieto matrimoniale per i soldati parevano ormai definitivamente essersi incrinate: il Bonfante, in particolare, alla luce dei papiri greco-egiziani, rilevava nel suo manuale di Istituzioni di diritto romano (a partire dalla sesta edizione del 1917 [31]) come il divieto fosse ormai stato abolito a partire dai Severi. Egli, ribadendo la tesi della abolizione del divieto nel suo Corso di diritto romano del 1925 [32], in cui riconosceva che la questione del matrimonio per i militari fosse un «argomento assai disputato», osservava che in materia «non esiste alcun divieto nel nuovo diritto» e aggiungeva che «si accenna tuttavia a matrimonio di soldati in vari testi di giureconsulti classici e in numerose iscrizioni».
Bisogna attendere, però, il Castello per un riesame complessivo della questione e una più decisa presa di posizione contro la tesi della sussistenza del divieto per i soldati a contrarre matrimonio. L’autore, partendo dalla considerazione che i giureconsulti romani, quando parlavano di unioni legittime dei soldati romani, intendevano fare riferimento al piano del matrimonium iuris civilis e non a quello del matrimonium iuris gentium[33], rifiutava di aderire a quella impostazione della dottrina, la quale, invece, contrapponeva «connubium o iustae nuptiae al matrimonio iuris gentium, iniustae nuptiae»[34] arrivando, talvolta, questa stessa dottrina a ipotizzare persino che dovesse sciogliersi il matrimonio al quale il soldato si fosse eventualmente unito prima del servizio militare[35]. Per inquadrare bene la questione, il Castello prospettava la necessità di allargare la visuale a una serie di aspetti connessi al divieto, quali soprattutto quelli relativi alla condizione dei figli nati al di fuori dello ius civile[36]. Egli riteneva che Augusto non avrebbe introdotto alcun divieto di matrimonio per i soldati[37], né d’altro canto un divieto di tale genere vi sarebbe stato da Augusto ai Severi, come dimostrato dalle fonti epigrafiche[38] e dalle stesse fonti giuridiche, tra cui lo studioso richiamava i rescritti di Adriano, di cui si dà notizia in D. 49.17.16 pr. (Papinianus libro 19 responsorum) e in D. 49.17.13 (Papinianus libro 16 quaestionum)[39]. Secondo lo studioso, il passo di Dione Cassio, 60.24, non poteva essere ricordato per dimostrare la sussistenza di un divieto matrimoniale per i militari, in quanto esso faceva semplicemente richiamo a un privilegio che sarebbe stato concesso ai soldati, i quali fino ad allora erano stati assoggettati, come gli altri cittadini, alle disposizioni contenute nella lex Iulia et Papia Poppea, la quale prevedeva sanzioni contro i celibes[40]. Nel senso sempre di privilegi si dovevano pure intendere le disposizioni richiamate nella lettera di Adriano a Rammio[41] e in Erodiano, 3.8.5 [42]: la prima relativa ai figli illegittimi dei militari, ai quali discendenti si garantiva la possibilità di ereditare; la seconda relativa ai soldati stessi, ai quali si riconosceva il diritto di abitare con mogli e concubine. Il Castello, recuperando alcune idee dello Scialoja, il quale, come abbiamo prima ricordato, aveva posto l’accento sulla distinzione fra «la facoltà di aver moglie» e quella di «coabitare con la moglie»[43], sosteneva che sarebbe rimasto in vita non solo il matrimonio contratto dal militare prima del suo arruolamento, ma anche la stessa unione sorta dopo essere stata intrapresa la carriera militare, purché fosse esistente tra i coniugi il ius connubii, il quale, egli ammetteva, «rendeva spesso più difficile per i cittadini soldati (molti dei quali erano stanziati in provincia) la possibilità di prender moglie». Da ciò il Castello traeva anche la conclusione che il «divieto di sposarsi in provincia» non implicasse «un’incapacità matrimoniale assoluta né limitata ai soldati»[44]. Prova ne sia che lo stesso Gaio, in D. 24.1.61 (Gaius libro 11 ad edictum provinciale), a tali difficoltà faceva riferimento quando, nell’individuare la vecchiaia o la malattia come cause di ostacolo del perdurare della relazione matrimoniale, ad esse accostava il servizio militare[45]. Se la unione del soldato, osservava infine lo studioso, con una mulier provincialis era contra mandata, al momento del congedo il soldato celibe o quello che si era unito con una donna provinciale conseguiva la honesta missio, la quale gli permetteva di legarsi in iustae nuptiae, in modo che i figli nati successivamente sarebbero stati legittimi. Il fatto che al militare si applicasse il divieto per colui che in provincia officium gerit doveva essere spiegato non, quindi, in relazione a un impedimento di carattere generale, che comunque non avrebbe riguardato il militare «in patria», ma in relazione alle difficoltà della vita militare, le quali rendevano difficile la coabitazione presso un accampamento[46].
In linea con questa impostazione appare per taluni aspetti l’Orestano, secondo il quale ugualmente non solo non era vietato ai soldati il matrimonio, ma neppure il matrimonio già contratto si sarebbe sciolto una volta che il militare avesse preso servizio allontanandosi dal tetto coniugale. L’illustre romanista rilevava come il divieto corrispondesse a «un’affermazione che non ha fondamento né per i primi secoli della storia di Roma, quando dapprima soldato era il cittadino di ogni ceto e professione, rispetto al quale è assurdo pensare che la chiamata alle armi dovesse costituire causa di scioglimento del suo matrimonio, né in seguito, quando la milizia si venne componendo in professione». Soprattutto l’Orestano si soffermava sul fatto che «la mancanza della convivenza» non sciogliesse il matrimonio dei soldati, il quale poteva invece incontrare questa fine per il venir meno dell’affectio[47].
Alla dottrina successiva, man mano che gli studi in materia consideravano la opportunità di prestare attenzione anche alla diversa condizione giuridica esistente fra le varie ‘categorie’ di soldati, sembrava di potere escludere l’esistenza di un divieto generale per i militari a contrarre matrimonio[48]. Così il Volterra, nell’ambito dei suoi fondamentali studi sul matrimonio e sul diritto familiare, osservava che la contraddittorietà del dibattito dottrinale attorno al tema del presente divieto dipendeva dalla impostazione della questione secondo criteri non corrispondenti alla concezione romana del matrimonio. Egli riteneva che il soldato fosse libero di contrarre una unione coniugale con una donna al pari di ciò che poteva fare un qualsiasi cittadino e peregrino in presenza dei requisiti previsti, i quali, se sussistenti, rendevano la relazione iustae nuptiae per i militari cittadini romani o matrimonium secundum leges moresque peregrinorum per i militari peregrini[49]. Nell’analizzare l’aspetto particolarmente complesso delle unioni matrimoniali con i peregrini, egli affermava come l’obiettivo in età imperiale di concedere la cittadinanza romana a collettività o a singoli fosse stato perseguito cercando di conservare la «unità dei gruppi famigliari domestici e trasformando i matrimoni, legittimi secondo i vari diritti peregrini, in matrimoni legittimi romani». Lo proverebbero anzitutto i diplomi militari, i quali attestano che si riconosceva il conubium alle donne che avevano contratto matrimonio con veterani diventati cittadini romani o a quelle con le quali essi, se celibi, si erano uniti per la prima volta dopo la honesta missio, con la conseguenza che una volta acquistata il veterano la cittadinanza la unione coniugale «si trasformava automaticamente in matrimonio legittimo dal punto di vista del diritto romano». Gli stessi figli che erano stati concepiti in seno a tali unioni non erano cittadini romani, ma erano individuati come figli legittimi dal diritto nazionale, in quanto matrimoni iuris peregrini riconosciuti anche dal diritto romano[50].
Nella dottrina degli ultimi decenni la questione se il soldato romano potesse contrarre matrimonio già durante il servizio militare, e, specularmente, se il matrimonio contratto ancora prima di esso rimanesse in vita, trova una risposta positiva. Così l’Astolfi ha ribadito che sin dalla età preclassica il soldato romano poteva, già durante il servizio militare, sposare una cittadina romana o comunque una donna munita di conubium, mentre il soldato straniero, che militava nell’esercito romano, poteva unirsi in coniugio secondo il diritto della comunità politica di origine. Al momento del congedo era possibile che i soldati romani sposassero le donne con le quali avevano instaurato relazioni stabili durante il servizio, che non avevano a suo tempo potuto sposare a causa del difetto di conubium, ora invece ad esse concesso. Infine, in occasione del congedo, ai soldati peregrini, che militavano nelle legioni ausiliare romane, poteva accadere che fosse loro concessa la cittadinanza o che fosse attribuito il conubium alle donne con cui essi si erano uniti in coniugio[51].
Impostazione questa alla quale ha aderito di recente anche il Fiori, il quale ha osservato che i soldati non solo erano sottratti alla applicazione delle «conseguenze» previste dalla Lex Iulia de maritandis ordinis, ma anche potevano unirsi in matrimonio, come risulta da D. 23.2.65 pr. (Paulus libro septimo responsorum) con donne della stessa provincia in cui essi operavano, a differenza di ciò che invece potevano fare gli «alti ufficiali», i quali come governatori erano sottoposti al divieto previsto dai mandata principis di sposare donne della stessa provincia, tranne che, come risulta dal frammento di Paolo ora citato, della provincia di origine[52].
Negli ultimi anni, la dottrina sembra avere concentrato l’attenzione sulla rilevanza sociale del divieto di matrimonio per i soldati. In questo senso, si può qui citare il lavoro della Galgano, per la quale le fonti letterarie, richiamate dalla dottrina risalente a sostegno di un divieto matrimoniale per i soldati[53], possono essere considerate come dettate da «ragioni disciplinari» o al limite dovute, stando soprattutto al racconto di Dione Cassio sopra ricordato, a «una sorta di incapacità generale a contrarre iustas nuptias per i soldati romani stanziati in provincia con donne straniere»[54]. Secondo la Galgano, il racconto di Tacito, Ann. 3.33.2-4, a proposito della proposta di Severo Cecina di vietare che le donne sposate potessero seguire i loro mariti in una campagna militare, rivela le tensioni sociali connesse alla strutturazione di un esercito aperto all’arruolamento di stranieri, i quali vedevano in esso una possibilità di acquistare la cittadinanza[55]. Sulla scia della dottrina ora richiamata, la Sanna ha ribadito, a proposito della questione del divieto di matrimonio per i militari, la importanza dei diplomi militari[56], dai quali si conferma la esistenza di provvedimenti imperiali volti a attribuire la cittadinanza ai soldati che avevano combattuto ed anche a riconoscere in modo retroattivo un ius conubii con la donna peregrina[57]. Con riferimento a D. 23.2.65.1 (Paulus libro septimo responsorum), la Sanna ha criticato la tesi di chi ha ritenuto che le nozze contratte in violazione del divieto fossero nulle o addirittura, come riteneva il Volterra[58], inesistenti per assenza del conubium. Ulpiano, ha osservato la studiosa, non pare ritenere inesistenti le nozze nella ipotesi in cui una donna di una provincia sposasse colui che governava nella provincia. La nullità del matrimonio avrebbe penalizzato proprio quella donna nel cui interesse era stato previsto il divieto, con la conseguenza che i figli sarebbero stati ritenuti illegittimi pure nel caso in cui il matrimonio fosse diventato successivamente iustum[59].
Come abbiamo
visto, il preteso divieto di matrimonio dei soldati è ricondotto in dottrina ad
Augusto, sulla base di un passo di Svetonio:
Svetonius,
Aug. 24: In re militari et commutavit
multa et instituit atque etiam ad antiquum morem nonnulla revocavit.
Disciplinam severissime rexit. Ne legatorum quidem
cuiquam, nisi gravate hibernisque demum mensibus, permisit uxorem intervisere.
Il riferimento ad esso per fondare un tale divieto ci sembra però mal posto. Svetonio vuole qui evidenziare come il mantenimento della disciplina militare comportasse sacrifici, i quali per Augusto, nel momento in cui egli intendeva rinnovare molti punti della struttura militare e riportare in vita antichi costumi, dovevano riguardare anche coloro che ricoprivano incarichi importanti all’interno della milizia, evitando così che potessero verificarsi tensioni e inefficienze nella azione militare dovute all’allontanamento dall’accampamento di quei militari che avendo una relazione coniugale avrebbero voluto recarsi in visita presso le loro mogli. Se così è, il passo di Svetonio non solo non può essere invocato ad attestazione del divieto a contrarre matrimonio per i soldati, ma al contrario dimostra come fosse sentito addirittura il problema di considerare il valore di quelle stesse relazioni matrimoniali che erano state già avviate prima ancora che fosse stato intrapreso il servizio militare[60]. Semmai il passo, pur evidenziando le difficoltà nella conduzione della vita matrimoniale causate dalla prestazione del servizio militare, sembra anche rinviare, come ha osservato di recente la Giunti[61], al fatto che la militia non compromettesse la «stabilità e la natura del rapporto»: infatti, anche quando la vita militare portava all’«allontanamento maschile» si verificava comunque la «permanenza della uxor nella domus coniugale». È forse quindi eccessivo leggere nella disposizione di Augusto, come ha fatto di recente la Foubert, il tentativo di porre un freno alla affermazione sociale di quelle donne che viaggiavano verso i luoghi in cui si trovavano i loro mariti impegnati in operazioni militari[62]. Ciò che possiamo dire, invece, è che il quadro che emerge nel passo di Svetonio pare essere assai vivo e attesta la importanza di un insieme di relazioni coniugali di cui erano parte i militari impegnati in zone spesso lontane da quelle in cui le medesime relazioni erano state avviate.
Sappiamo che per la età repubblicana è possibile escludere con certezza la esistenza di un divieto a contrarre matrimonio per i soldati[63]. Lo attesta anzitutto Livio, nel famoso discorso di Scipione, in cui è contenuto l’invito rivolto ai soldati a combattere per difendere non solo se stessi, ma anche la propria moglie e i propri figli: unuquisque se non corpus suum, sed coniugem ac liberos parvos armis protegere putet)[64], e in quello di Spurio Ligustino[65], il quale, volendo citare momenti della sua carriera militare, ricordava come una volta giunto in età di matrimonio egli avesse ricevuto dal padre una sposa, con la quale ebbe diversi figli. Di essi, i due praetextati erano certamente nati già durante il servizio militare[66]: Cum primum in aetatem veni, pater mihi uxorem fratris sui filiam dedit, quae secum nihil adtulit praeter libertatem pudicitiamque, et cum his fecunditatem, quanta vel in diti domo satis esset. Sex filii nobis, duae filiae sunt, utraeque iam nuptae. Filii quattuor togas viriles habent, duo praetextati sunt. Miles sum factus P. Sulpicio C. Aurelio cunsulibus[67].
Anche da Tacito è possibile trarre elementi importanti che escludono la esistenza di un tale divieto. Lo storico, come si accennava prima, riferisce della proposta, presentata da Severo Cecina il 21 d.C. al Senato, di introdurre per i governatori provinciali il divieto di portare con loro le proprie mogli presso il luogo di destinazione in cui essi dovevano prestare servizio:
Tacitus, Ann. 3.33-34: 33 Haud enim frustra placitum olim ne feminae in socios aut gentis externas traherentur: inesse mulierum comitatui quae pacem luxu, bellum formidine morentur et Romanum agmen ad similitudinem barbari incessus convertant. Non imbecillum tantum et imparem laboribus sexum sed, si licentia adsit, saevum, ambitiosum, potestatis avidum; incedere inter milites, habere ad manum centuriones; praesedisse nuper feminam exercitio cohortium, decursu legionum. Cogitarent ipsi quotiens repetundarum aliqui arguerentur plura uxoribus obiectari: his statim adhaerescere deterrimum quemque provincialium, ab his negotia suscipi, transigi; duorum egressus coli, duo esse praetoria, pervicacibus magis et impotentibus mulierum iussis quae oppiis quondam aliisque legius constrictae nunc vinclis exolutis domos, fora, iam et exercitus regerent. 34 Paucorum haec adsensu audita: plures obturbabant neque relatum de negotio neque Caecinam dignum tantae rei censorem. Mox Valerius Messalinus, cui parens Messala ineratque imago paternae facundiae, respondit multa duritiae veterum [IN] melius et laetius mutata; neque enim, ut olim, obsideri urbem bellis aut provincias hostilis esse. Et pauca feminarum necessitatibus concidi quae ne coniugum quidem penatis, adeo socios non onerent; cetera promisca cum marito nec ullum in eo pacis impedimentum. Bella plane accinctis obeunda: sed revertentibus post laborem quod honestius quam uxorium levamentum? At quasdam in ambitionem aut avaritiam prolapsas. Quid? Ipsorum magistratuum nonne plerosque variis libidinibus obnoxios? Non tamen ideo neminem in provinciam mitti. Corruptos saepe pravitatibus uxorum maritos: num ergo omnis caelibes integros? Placuisse quondam Oppias leges, sic temporibus rei publicae postulantibus: remissum aliquid postea et mitigatum, quia expedierit. Frustra nostram ignaviam alia ad vocabula transferri: nam viri in eo culpam si femina modum excedat. Porro ob unius aut alterius imbecillum animum male eripi maritis consortia rerum secundarum adversarumque. Simul sexum natura invalidum deseri et exponi suo luxu, cupidinibus alienis. Vix praesenti custodia manere inlaesa coniugia: quid fore si per pluris annos in modum discidii oblitterentur? Sic obviam irent iis quae alibi peccarentur ut flagitiorum urbis meminissent. Addidit pauca Drusus de matrimonio suo; nam principibus adeunda saepius longinqua imperii. Quoties divum Augustum in Occidentem atque Orientem meavisse comite Livia! se quoque in Illyricum profectum et, si ita conducat, alias ad gentis iturum, haud semper aeque animo si ab uxore carissima et tot communium liberorum parente divelleretur. Sic Caecinae sententia elusa.
Nonostante la proposta fosse stata respinta, essa dovette essere considerata assai importante se, come risulta dallo stesso passo di Tacito, diede luogo a una accesa discussione a favore e contro il divieto auspicato[68]. È evidente, però, che fino alla proposta di Severo Cecina un divieto per i soldati a contrarre matrimonio non vi era stato[69]: diversamente lo stesso proponente vi avrebbe con ogni probabilità fatto riferimento a sostegno della sua stessa richiesta, anche se essa era volta a introdurre, più che un impedimento matrimoniale, il divieto di coabitazione tra i coniugi nella zona ove era svolto il servizio. D’altro canto, se un vero e proprio divieto a contrarre matrimonio fosse effettivamente esistito, la stessa proposta di Severo Cecina non avrebbe avuto ragione di essere presentata se non per ristabilire un ordine che era stato posto in discussione. L’obiettivo di Tacito, allora, sembra essere quello di descrivere la armonia che poteva realizzarsi tra i coniugi anche in assenza di una coabitazione. Il rinvio, insomma, era a quei valori della famiglia romana che rischiavano di corrompersi e di ‘distruggere’ la integrità dell’esercito, ritenuto prossimo a divenire, forse anche a causa del timore per le frequenti relazioni tra soldati e donne provinciali, una «accozzaglia di barbari»[70]. Dagli sviluppi del racconto emerge anche la posizione di Valerio Messalino, il quale non solo non faceva rinvio ad alcun divieto precedente a contrarre matrimonio, ma anche metteva in luce le ragioni a favore della coabitazione delle mogli con i mariti, con i risvolti positivi che essa poteva avere sul piano pubblico, anche se, evidentemente, ragioni connesse alle necessità delle operazioni militari in un certo periodo potevano giustificare un divieto, circoscritto temporalmente, per i soldati di condurre con sé la moglie, specialmente presso la zona di svolgimento delle stesse operazioni[71].
Non contrasta con quanto ora detto
il fatto che sempre Tacito, negli Annales[72], con riferimento
all’episodio dei veterani destinati al ripopolamento di Taranto e di Anzio,
ricordasse che i soldati avevano preferito continuare a vivere nelle province
in cui essi avevano prestato servizio, lasciando le proprie case, in quanto non
avvezzi a contrarre matrimonio, prive di discendenti: neque coniugiis suscipiendis neque alendis liberis sueti, orbas sine
posteris domos relinquebant. Anche questo altro passo di Tacito non può
essere richiamato per provare la esistenza di un divieto matrimoniale per i
soldati: la possibilità di una unione coniugale non è qui affatto esclusa. È
stato notato che il passo attesta il fatto che le «colonie militari si
spopolavano rapidamente», per evitare la qual cosa si rendeva necessario
inviare nuovi coloni[73].
È difficile, quindi, immaginare che a una tale situazione si cercasse un rimedio
frapponendo ulteriori ostacoli allo sviluppo demografico delle colonie[74].
Dal racconto di Tacito emergono le difficoltà connesse alla conciliazione della famiglia con lo svolgimento del servizio militare. Si deve osservare, al riguardo, che i soldati, in quanto absentes rei publicae, non erano tenuti a contrarre matrimonio, secondo quanto invece previsto per gli altri cittadini in base alle disposizioni della Lex Iulia de maritandis ordinibus. La sottrazione dei militari alla applicazione delle misure previste per sanzionare i celibi avrebbe però portato anche alla esclusione degli stessi dalle misure a favore previste dalla legislazione demografica[75].
A questo proposito, sappiamo da Dione Cassio, 60.24, che l’imperatore Claudio stabilì di concedere a tutti i soldati gli iura maritorum, dai quali essi erano appunto esclusi in forza della sottrazione alle previsioni della stessa Lex Iulia[76]. La tesi sostenuta in passato dalla dottrina, secondo cui il riferimento di Dione Cassio alle norme della Lex Iulia non avrebbe avuto ragione di essere[77] se non vi fosse stato un divieto di matrimonio per i soldati, in realtà può essere facilmente rovesciata: vale a dire il fatto che nel passo si richiamino le disposizioni della Lex Iulia per sottrarre i militari dalla applicazione delle sanzioni previste dalla medesima legge significa che essi, pur non essendo tenuti, avrebbero anche potuto contrarre matrimonio[78]. In altri termini, le leggi demografiche, per citare l’Astolfi, non impedirono il matrimonio ai soldati, ma si limitarono «a consentire loro di evitarlo»[79]. Contro questa ipotesi si è però sostenuto in passato che Dione Cassio avrebbe fatto riferimento al divieto per i soldati di sposare donne della provincia, con la conseguenza che l’Imperatore avrebbe poi permesso che il matrimonio del soldato con una straniera da iuris gentium sarebbe divenuto iuris civilis[80]. Ciò che qui preme osservare è che sia che si voglia riferire il racconto di Dione Cassio a un divieto riconducibile alle esigenze di mantenere la disciplina militare[81], sia che lo si voglia riconnettere al divieto di contrarre nozze con una donna non romana, il passo richiamato non sembra deporre a favore di un divieto generale a unirsi in matrimonio[82]. In definitiva, la disciplina che risulta non era volta a introdurre un divieto matrimoniale per i soldati, ma a garantire loro una esenzione dall’obbligo di contrarre tale atto.
Numerosi
frammenti dei Digesta confermano
quanto risulta dalle fonti letterarie che non vi fosse alcun divieto a
costituire una relazione matrimoniale a causa del servizio militare. Come si è,
però, già riscontrato, le fonti giuridiche sembrano anche attestare le
difficoltà dovute al contemperamento delle esigenze connesse alla vita militare
con quelle legate alla realizzazione della vita matrimoniale.
In età classica, come attesta Gaio, costituzioni imperiali concedevano il conubium ai veterani, i quali avevano contratto matrimonio con donne latine o peregrine dopo il congedo[83]. Il giureconsulto aggiunge che i figli nati da tale matrimonio erano cittadini romani, sottoposti alla potestà dei genitori:
Gaius, Inst. 1.57: Unde et veteranis quibusdam concedi solet principalibus constitutionibus conubium cum his Latinis peregrinisve, quas primas post missionem uxores duxerint; et qui ex eo matrimonio nascuntur, et cives Romani et in potestatem parentum fiunt.
Il riferimento è qui alla ipotesi frequente di quei soldati romani, i quali, intrattenendo relazioni stabili con donne straniere[84], non avevano però potuto contrarre matrimonio con esse in quanto prive di conubium[85]. Al riguardo, secondo il Volterra, i veterani di cui parla Gaio, come pare risultare anche dai diplomi militari[86], erano soldati, i quali prima ancora della honesta missio avevano la cittadinanza romana[87]. La concessione del ius connubii riguardava anzitutto la donna con la quale il soldato contraeva matrimonio per la prima volta dopo la missio, mentre è dubbio in dottrina se spettasse anche alla donna con la quale egli avesse avviato una relazione coniugale precedentemente al congedo[88]. Sappiamo, inoltre, soprattutto sulla base dei diplomi militari, che al momento del congedo poteva essere concessa in premio la cittadinanza a quei soldati stranieri i quali avevano servito nelle legioni romane[89]. Dalle fonti epigrafiche e papirologiche emerge, come rilevava il Volterra, l’obiettivo delle autorità romane di impedire che il matrimonio contratto dai militari peregrini, secondo il diritto della comunità politica di appartenenza, potesse diventare illegittimo una volta concessa la cittadinanza al momento del congedo, evitando così che i filii divenissero peregrini e spurii e che la donna cessasse dal proprio status di moglie[90]. In questo caso, lo scioglimento del matrimonio era evitato attraverso la concessione del conubium alle donne con le quali i militari si erano uniti in matrimonio dopo il congedo per la prima volta e il riconoscimento ai padri della potestà sui figli nati prima della concessione della cittadinanza[91].
Sempre da
Gaio, in D. 24.1.61 (Gai. 11 ed. prov.),
traiamo notizia delle difficoltà connesse alla conduzione della vita coniugale
durante il servizio militare. Il frammento ora citato è relativo al problema
delle cause di scioglimento del matrimonio, con riferimento al quale aspetto
nei Digesta, nell’ambito del titolo De donationibus inter virum er uxorem,
sono riportati anche altri due frammenti di Ermogeniano in una ‘dimensione’
unitaria con quello gaiano:
D.
24.1.60 pr.-1 (Hermogenianus libro secundo iuris epitomarum): pr.
Vitricus et
privignus invicem sibi donare praetexto matrimonii non prohibentur. 1. Divortii causa donationes
inter virum et uxorem concessae sunt: saepe enim evenit, uti propter
sacerdotium vel etiam sterilitatem,
D. 24.1.61 (Gaius libro
11 ad edictum provinciale): Vel senectutem aut valetudinem aut militiam satis commode retineri
matrimonium non possit:
D. 24.1.62 pr.-1 (Hermogenianus libro secundo iuris epitomarum): pr. Et ideo bona gratia
matrimonium dissolvitur. 1. Divortio facto nec instaurato matrimonio non confirmabitur inter
virum et uxorem facta donatio: nec inter patronum et libertam, si ab eo invito
divertere non licet, facta donatio speratur, cum inter hos divortium
intercedat. Perinde enim id quod donatum est habetur divortio intercedente ac
si donatum non fuisset.
Dobbiamo qui prescindere dai problemi relativi alla ammissibilità di un divortium bona gratia, che, se escluso in passato, ad esempio dal Solazzi[92], soprattutto sulla base della interpolazione delle fonti, sembra invece oggi ammesso ad indicare la ipotesi di un «divorzio fatto amichevolmente», privo dunque di colpa o offese dei coniugi[93]. Limitandoci, dunque, a quanto scrive Gaio, la prospettiva qui presa in esame, per via della elencazione della vita militare assieme alla vecchiaia e alla salute fisica, è quella relativa alla permanenza del vincolo coniugale e non anche alla possibilità di contrarre esso[94]. In considerazione del fatto che nel primo dei tre frammenti ora riportati si fa riferimento alla sterilitas, si è voluto sostenere che nel passo gaiano il concetto di valetudo stia a indicare oltre che «in senso lato ogni malattia che si rifletta negativamente sulla convivenza … l’incapacità sessuale dell’uomo»[95]. Resta, quindi, esclusa anche per questa fonte l’ipotesi di un divieto a sposarsi che avrebbe riguardato i militari[96].
La possibilità per il soldato di unirsi in matrimonio, già durante il servizio, è attestata anche da Papiniano, il quale pone l’accento sul fatto che un filius familias militare avesse bisogno, a tale scopo, dell’assenso del pater[97]:
D.
23.2.35 (Papinianus libro sexto
responsorum): Filius familias miles matrimonium
sine patris voluntate non contrahit.
Il riferimento di Papiniano al matrimonio è da intendersi, dopo le fondamentali indagini del Castello[98], a quello iuris civilis e non a quello iuris gentium[99]. È evidente, anche alla luce di questa fonte, come il matrimonio sia qui dato per presupposto, senza che vi sia, al contrario, alcun cenno a un divieto per i militari[100]. Conferma di ciò si ha nei due testi di Papiniano in cui si fa riferimento a una costituzione di Adriano, con la quale si stabiliva che rientrasse nel peculium castrense l’eredità lasciata al filius dalla moglie[101]: così in D. 49,17,13 [102] si ricorda la ipotesi del filius familias milite che poteva essere istituito erede dalla moglie e si aggiunge che i servi ereditari da lui manomessi divenivano suoi liberti[103], mentre in D. 49,17,16 si accenna a una ipotesi di dotis dictio et promissio al filius familias divenuto soldato prima ancora di essere sposato[104].
D. 49.17.13 (Papinianus libro 16 quaestionum): Divus Hadrianus rescripsit in eo, quem militantem uxor heredem instituerat filium, extitisse heredem et ab eo servos hereditarios manumissos proprios eius libertos fieri.
D.
49.17.16 pr. (Papinianus libro 19
responsorum): Dotem filio familias datam vel promissam
in peculio castrensi non esse respondi. Nec ea res contraria videbitur ei, quod
divi Hadriani temporibus filium familias militem uxori heredem extitisse
placuit et hereditatem in castrense peculium habuisse. Nam hereditas adventicio
iure quaeritur, dos autem matrimonio cohaerens oneribus eius ac liberis
communibus, qui sunt in avi familia, confertur.
È compatibile con il quadro ora delineato il fatto che vi fosse comunque un divieto a carico degli alti ufficiali a unirsi in matrimonio con donne nate o residenti nella medesima provincia ove era svolto il servizio militare[105]. Sempre da Papiniano risulta, però, implicitamente che mentre l’alto ufficiale poteva contrarre matrimonio con una donna di una altra provincia, il militare semplice poteva sposarsi anche con donne della sua stessa provincia[106]:
D.
23.2.63 (Papinianus libro primo
definitionum): Praefectus cohortis vel equitum
aut tribunus contra interdictum eius provinciae duxit uxorem, in qua officium
gerebat: matrimonium non erit: quae species pupillae comparanda est, cum ratio
potentatus nuptias prohibuerit. Sed an huic quoque si virgo nupsit, non sit
auferendum quod testamento relictum est, deliberari potest: exemplo tamen
pupillae nuptae tutori, quod relictum est potest mulier consequi. Pecuniam
tamen in dotem datam mulieris heredi restitui necesse est.
Il divieto a contrarre matrimonio con donne della medesima provincia in cui era svolto il servizio militare corrispondeva, dunque, a un impedimento specifico, il quale traeva il suo fondamento non da una generale incapacità del militare a unirsi in matrimonio, ma da quei mandata indirizzati dall’imperatore ai governatori provinciali[107].
Conferma della assenza di un divieto generale a che i soldati si unissero in matrimonio si trova in Paolo, il quale ricorda come tali misure fossero state previste nei mandata[108]:
D.
23.2.65 (Paulus libro septimo
responsorum): Eos, qui in patria sua militant, non videri
contra mandata ex eadem provincia uxorem ducere idque etiam quibusdam mandatis
contineri. 1. Idem eodem. Respondit mihi placere, etsi contra
mandata contractum sit matrimonium in provincia, tamen post depositum officium,
si in eadem voluntate perseverat, iustas nuptias effici: et ideo postea liberos
natos ex iusto matrimonio legitimos esse.
Dal principio del frammento ora riportato apprendiamo che non era contra mandata il matrimonio concluso da coloro che militant in patria sua, vale a dire da quei militari che prestavano il servizio nella provincia di origine e si univano in coniugio con donne della loro stessa provincia[109]. Sappiamo anche che un divieto a unirsi in matrimonio esisteva invece per i funzionari civili o militari, che prestavano servizio in una provincia (diversa da quella di origine) con riferimento a una donna della medesima provincia[110]. Da ciò si ricava, quindi, una conferma importante del fatto che non esistesse per i soldati un divieto generale a contrarre matrimonio, il quale, se fosse esistito, sarebbe stato qui almeno menzionato[111]. Ad ogni modo, Paolo affermava che anche nel caso di un matrimonio contra mandata, una volta cessato il funzionario dal servizio, la unione coniugale diventava iustum matrimonium e i figli, nati successivamente, legittimi. Per una parte della dottrina più risalente, che faceva leva sui sospetti di interpolazione relativi a D. 23.2.65 (Paulus libro septimo responsorum), anche nel caso in cui fosse cessato l’ufficio, i figli nati in seno a un iniustum matrimonium non sarebbero divenuti legittimi[112]. Il Volterra ha però chiarito come la unione tra funzionario e donna in questo caso fosse caratterizzata dalla assenza di conubium, con la conseguenza che il matrimonio sarebbe stato considerato inesistente[113]. Ciò non toglie che i giuristi si ponessero comunque il problema di dar corso a certi effetti della unione, come risulta ad esempio da Ulpiano, in D. 24.1.3.1 (Ulpianus libro 32 ad Sabinum), il quale si chiedeva se anche in presenza di una unione contra senatus consultum o contra mandata potesse ammettersi la validità delle donazioni tra coniugi[114].
Resta infine da considerare brevemente la disposizione di Gordiano (del 239), riportata in C. 2.11.15, relativa alla interpretazione del senatoconsulto con il quale erano stati introdotti limiti al tempus lugendi della vedova. Essa non prevedeva eccezioni alla regola generale neppure nel caso in cui la vedova avesse sposato un militare[115]. La violazione della disposizione comportava la infamia del trasgressore, a patto che vi fosse stata la consapevolezza della vedovanza da parte del marito. Se ne ricava, evidentemente, anche per questa via che il militare potesse celebrare matrimonio in costanza di servizio.
Le fonti che abbiamo sopra esaminato non consentono di ritenere sussistente un vero e proprio divieto per i militari a contrarre matrimonio. Esse attestano però come la vita militare rendesse assai difficile conciliare le esigenze della vita coniugale con le necessità connesse alla disciplina militare.
A complicare la lettura complessiva della normativa sopra richiamata, per la età postclassica, interviene, come anche ha messo bene in luce l’Astolfi, la tendenza all’irrigidimento della società che per quanto concerne specificamente il servizio militare si traduce spesso nella «ereditarietà» della ‘carriera’ militare[116].
Ragioni diverse, in funzione dei luoghi e dei tempi, che possiamo genericamente individuare con la necessità di garantire la sicurezza sociale e la integrazione fra cittadini e barbari spinsero Roma a non ostacolare quando addirittura a favorire le unioni coniugali dei soldati con donne della provincia in quei essi operavano[117]. Si spiegano in tal modo quelle disposizioni che riconoscevano evidentemente una prassi assai diffusa: quella per la quale la donna unita con un militare da una relazione stabile viveva nell’accampamento militare o nei pressi di esso assieme ai figli. L’importanza di tali unioni è attestata da Erodiano 3.8.5 [118], il quale ricorda come non solo fosse garantita al militare di vivere con la donna presso l’accampamento militare, preservandosi per così dire la stessa continuità affettiva, ma anche fosse attribuito al soldato un aumento delle razioni alimentari in considerazione della sua famiglia.
Ereditarietà della condizione militare e garanzia di provvidenze alimentari anche ai familiari del soldato, come ha osservato l’Astolfi[119], sono i due pilastri della normativa a tutela delle unioni coniugali dei militari in questa epoca.
Per quanto concerne le ragioni della eredità della condizione militare si può brevemente osservare, con specifico riguardo al tema delle unioni coniugali dei soldati, che tale condizione dipese in larga misura più che dall’irrigidimento sociale spesso riscontrato in questo periodo dalla dottrina, dalla tendenza assai diffusa fra la popolazione e soprattutto negli ambienti militari a favorire l’acquisizione da parte dei figli dei soldati di quelle abilità tecniche la cui promozione era garanzia di sicurezza generale in contesti spesso difficili, resi pericolosi o percepiti come tali in considerazione della prossimità con i «barbari». In tali contesti spesso di frontiera, le autorità politiche e militari favorivano la ereditarietà della condizione militare promuovendo presso le stesse famiglie l’idea della carriera militare come mezzo di promozione sociale e di garanzia dell’assetto familiare[120].
In questa ottica si può certamente ricordare la costituzione di Costantino, C.Th. 7.22.5 (333), che stabilì l’obbligo di perpetuare le tradizioni familiari per i figli dei soldati e persino per quelli degli ufficiali. Ma bisogna riconoscere come già Diocleziano e poi ancora Costantino, C.Th. 7.22.1, avevano emanato provvedimenti analoghi[121]. Per quanto attiene invece alla assegnazione di provvidenze alimentari si può ricordare anche la costituzione degli imperatori Arcadio e Onorio riportata in C.Th. 7.5.1 (a. 399) che testimonia ancora la grande importanza riconosciuta a tali unioni[122].
Tali misure presentano una qualche connessione con la normativa relativa ai privilegi di natura fiscale concessi ai militari in relazione al matrimonio. È noto che gli imperatori riconoscevano privilegi di varia natura ai soldati: così, in particolare, disposizioni dell’imperatore Valente (364), C.Th. 7.13.6 pr. (a. 370), concessero agevolazioni fiscali ai soldati subordinandole, però, al fatto che il matrimonio fosse provato con certezza. Lo stesso Valente stabilì l’esonero della moglie del militare dalla capitatio, condizionando l’esenzione al decorso di cinque anni di servizio militare del marito e al fatto che la sposa non si trovasse nella casa del suocero, circostanza, quest’ultima, che avrebbe potuto far pensare a un matrimonio simulato[123]. Rientrano in questa ottica anche una costituzione di Costantino, C.Th. 7.20.4 (a. 325), nella quale l’imperatore equiparava il trattamento dei ripensens ai comitantenses garantendo un esonero non solo alla moglie ma anche ai genitori. Una costituzione di Valente, C.Th. 7.13.7.3, sembra conservare il privilegio per i ripenses ma riconosce ai comitantenses una esenzione di entrambi i genitori dalla capitatio.
Queste misure che potremmo considerare a tutela delle famiglie dei soldati mostrano che l’atteggiamento degli imperatori, a partire specialmente dalla data del 311, fu non solo di non ostacolare le relazioni coniugali ma anche di promuovere la costituzione e la regolarizzazioni delle unione coniugali evitando di subordinare la loro stessa esistenza al rispetto di formalità eccessive. Questa tendenza può intravedersi, ad esempio, in una costituzione di con Valentiniano III [124] e poi anche in una di Giustiniano[125]:
C. 5.4.21: Imperatores Theodosius, Valentinianus. A caligato milite usque ad protectoris personam et sine aliqua sollemnitate matrimoniorum liberam cum ingenuis dumtaxat mulieribus contrahendi coniugii permittimus facultatem. * THEODOS. ET VALENTIN. AA. BASSO PP. *<A 426 >
Nov. 74.4.3, a. 538: Quisquis autem in abiecta degit vita, parvae quidem substantiae dominus consistens in novissima vero vitae parte iacens, habeat etiam in his licentiam. Sed neque agricolas aut milites armatos, quos lex caligatos appellat, hoc est viliores et obscuriores, non perscrutamur, quibus civilium causarum ignoratio est et solius circa terram operationis et circa bella concupiscentia causa est studiosa et iuste laudabilis: sic ut in vilibus personis <et> in militibus armatis obscuris et agricolis licentia sit eis et non scripto convenire et matrimonia celebrare inter utrosque; sintque filii legitimi, qui patrum aut mediocritatem aut militares vel rusticas occupationes et ignorantias adiuvent.
È importante che l’Imperatore Costantino, in C. 5.17.7 pr. (a. 337) disciplinasse la possibilità di una donna, sposata con un militare, di contrarre nuovo matrimonio subordinando tale possibilità al fatto che fossero trascorsi almeno quattro anni durante i quali non si fosse avuta notizia del precedente sposo. Dopo qualche anno, però, il rigore della disciplina era attenuato, in Nov. 117.11 (a. 542), prevedendosi la possibilità per la donna di contrarre nuove nozze dopo solo un anno dalla scomparsa del marito, purché vi fosse il giuramento di priores numeri et cartulari, in quo maritus militabat o del tribuno.
La tendenza a strutturare l’esercizio dell’arte militare in chiave ereditaria in età imperiale, con la conseguenza della dissoluzione della equivalenza, che finora aveva più o meno retto, tra cittadino e soldato, fu la motivazione ultima di una serie di provvedimenti normativi, con i quali si permetteva ai familiari dei soldati di vivere presso gli accampamenti. Si può ricordare, anzitutto, la disposizione di Settimio Severo, riferita da Erodiano, secondo il quale l’imperatore avrebbe riconosciuto ai militari tale possibilità per la prima volta[126]. Dal racconto di Erodiano possiamo ricavare che il riconoscimento si inseriva nel quadro di un complesso di misure di Severo a favore dei militari e che fino ad allora erano parse come una possibile causa di allentamento della rigida disciplina militare: l’Imperatore, in occasione delle sue vittorie, infatti, aveva distribuito doni al popolo, denaro per i soldati e aumentato per essi le razioni alimentari. Da tali disposizioni a favore dell’esercito, si è correttamente ricavato che la disposizione di Settimio Severo fu emanata quando ai soldati era stato ormai riconosciuto il conubium, in quanto esso è dato nella disposizione stessa per presupposto[127].
Gli effetti
della strutturazione dell’esercito su base ereditaria furono naturalmente assai
importanti anche in materia di matrimonio. I provvedimenti imperiali, di cui la
disposizione di Settimio Severo è il primo esempio, con i quali si riconosceva
anche ai familiari dei soldati il diritto alle razioni alimentari, non solo
introducevano uno strumento con il quale costituire un apparato militare
particolarmente vicino all’imperatore, ma anche, agevolando la sopravvivenza
economica dei familiari dei soldati, favorivano il consolidamento di quelle
relazioni familiari che erano ormai viste come essenziali per garantire un
equilibrio e una continuità concreta dell’amministrazione imperiale.
Resta da verificare se, assieme all’obbligo, riconosciuto in oriente ed occidente, di intraprendere l’arte militare per i figli, obbligo che viene attribuito a Diocleziano[128] e che risulta confermato da una costituzione di Costantino per il 313 (C.Th. 7.22.1), fosse parimenti vigente, per le due parti dell’impero, il riconoscimento della sussistenza alimentare anche per i familiari dei soldati. Tale provvidenza alimentare, in effetti, sembrerebbe più riferirsi alla parte orientale, ma è probabile che essa fosse invalsa anche nella parte occidentale dell’Impero[129]. Lo ipotizza, a ragion veduta, il Jones, osservando che Teodosio I parrebbe avere applicato la disposizione anche per la parte occidentale dell’Impero, in quanto Libanio, nel 381, lamentava che, sebbene fosse permesso ai militari di contrarre matrimonio, essi non avevano ricevuto il mantenimento previsto per le famiglie, le quali continuavano ad essere nutrite a spese dei soldati stessi.
In chiusura, possiamo osservare che il problema della esistenza di un divieto a contrarre matrimonio per i militari richiede di considerare il ruolo assunto dalla familia, nel momento in cui si intrecciavano relazioni fondate su incontri e scontri di culture nelle province e nelle periferie dell’Impero, come fattore di integrazione fra romani e barbari. In età imperiale divenne, invero, sempre più evidente la importanza di quelle stesse relazioni coniugali, prima viste con una certa diffidenza connessa più alla necessità di assicurare il rispetto delle regole della disciplina militare che ad altro, importanza che ora si considerava con attenzione nel solco di una funzione delle strutture militari come elemento di civiltà e di interazione di culture diverse presenti specialmente nelle aree di confine. In questo senso le forme di celebrazione del matrimonium iuris peregrini di militari, che con la concessione della cittadinanza divenivano tendenzialmente forme di un iustum matrimonium romano, finirono per ricoprire un ruolo essenziale per la integrazione dei peregrini[130].
According to literary sources, the
doctrine, since the sixteenth century, attributed to Augustus the introduction
of a prohibition which prevented military man to contract marriage. In 1895
with a publication by Scialoja of a specific study concerning this subject,
which toke in consideration legal sources so far neglected the existence of a
general prohibition to contract marriage started to be questioned. After
examining Scialoja’s work, several scholars (in particular Castello) proved
that the prohibition was due to the obligations related to military life that,
especially in the province, made it difficult to contract marriage. In recent
times we can also mention Volterra for which, the soldier was free to contract
marriage with a woman as any other citizen given the presence of the
requirements. The hypothesis underlined in this paper is that military
marriages are a useful perspective to understand how the Roman family was a
factor of social integration between the Romans and the Barbarians, especially in
the post-classical age, when the importance of military structures as an
element of civilization and interaction among the cultures became more and more
evident.
[Per la
pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato,
in maniera rigorosa, il procedimento di peer
review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Sui termini generali
della questione si veda E. Volterra,
v. Matrimonio (dir. rom.), in Enciclopedia del diritto, XXV, Milano
1975, 781 ss., (Id., Scritti giuridici, III, Famiglia e successioni, con una nota di M. Talamanca, Napoli
1991, 278 ss.), con rinvii alla letteratura, a cui bisogna aggiungere i
riferimenti alla dottrina indicata nel nostro lavoro nelle note successive. Per
la dottrina più risalente si può anche consultare C. Castello, Sul
matrimonio dei soldati, in Rivista
Italiana per le Scienze Giuridiche, XV (1940), 3 ss.
[2] È ancora oggi comune
nella dottrina soprattutto anglosassone la tesi che un divieto a contrarre
matrimonio fosse realmente esistito fino almeno alla età dei Severi. Si veda ad esempio B. Campbell,
The Marriage of Soldiers under the Empire,
in The Journal of Roman Studies, 68
(1978), 153 ss. il quale esordisce: «Roman soldiers were forbidden by law to
contract a marriage during their period of military service, at least until the
time of Septimius Severus».
[3] Il riferimento alle
fonti, da parte della dottrina risalente, è specialmente al passo di Tacitus,
14.27; Suetonius, Aug. 24; Dio
Cassius, 60.24. Si veda in particolare V. Scialoja,
Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il
matrimonio dei soldati romani, in Bullettino
dell’Istituto di diritto romano, 8 (1895), 162 ss. (=Id., Studi
giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, Roma 1934, 39 ss.).
[4] Servius, ad Aen. 3.519: dicta autem ‘castra’ quasi
casta, vel quod illic
castraretur libido: nam numquam his intererat mulier; Isidorus, Etym. 9.3.44: Dicta autem castra quasi casta,
vel quod illic castraretur libido. Nam numquam his intererat mulier. Per questa impostazione si veda C. Castello, Sul
matrimonio dei soldati, cit., 3 ss. Da ultimo sul tema del divieto della
presenza delle donne presso gli accampamenti militari si veda F. Galgano, Tac. Ann. 3.33.2-4 ovvero di
un divieto di matrimonio, in Studi in
onore di Luigi Labruna, 3, Napoli 2007, 2000 ss.
[5] V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il matrimonio dei soldati romani,
cit., 161 (=Id., Studi giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 38).
Si veda in questa linea anche P. Tassistro,
Il matrimonio dei soldati romani, in Studi e documenti di storia e diritto,
22 (1901), 4, il quale rilevava come «La questione per altro fu sino agli
ultimi tempi assai trascurata e sopratutto, dai giuristi». E poi anche C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 5 nt. 4, con indicazione delle
più vistose ‘assenze’ nelle trattazioni dottrinali più risalenti.
[6] Th. Mommsen,
Corpus inscriptionum latinarum, III, 906 nt. 2; Suplementum fasc. 3, 2011.
[7] G. Wilmanns, Die Römische Lagerstadt Afrikas, in Commentationes philologae in honorem Theodori Mommseni scripserunt
amici, Berolini 1877, 201 ss.; Corpus inscriptionum latinarum, VIII, 284 ss.
[8]
P. Meyer, Der römische Konkubinat nach den
Rechtsquellen und den Inschriften, Leipzig
1895 (Aalen 1966), 93 ss.
[9] Si veda per i rinvii
ad altri autori V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il
matrimonio dei soldati romani, cit., 161 (=Id.,
Studi giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 38);
C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 5 ss.
[10] D. 24.1.32.88
(Ulpianus libro 33 ad Sabinum): Si miles uxori
donaverit de castrensibus bonis et fuerit damnatus, quia permissum est ei de
his testari (si modo impetravit ut testetur cum damnaretur), donatio valebit:
nam et mortis causa donare poterit, cui testari permissum est.
[11]
J. Marquardt, De l’organisation militaires chez les Romains, Paris 1891, 306 ss.
[12] V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il matrimonio dei soldati romani,
cit., 155 ss. (=Id., Studi giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 35
ss.).
[13] Lo Scialoja, nello
citare nel contributo richiamato alla nota precedente il saggio di G. Botti, apparso in Rivista Egiziana, anno VI n. 23 (1894), 529 ss., ne riproduceva
anche il testo.
[14] V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il matrimonio dei soldati romani,
cit., 162 ss. (=Id., Studi giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 38
ss.).
[15] Livius 21.41.16 e
42.34.
[16] V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il matrimonio dei soldati romani,
cit., 162 (=Id., Studi giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 39).
[17] Dio Cassius, 60.24: τοῖς τε στρατευομένοις, ἐπειδὴ γυναῖκας οὐκ ἐδύναντο ἔκ γε τῶν νόμων ἔχειν, τὰ τῶν
γεγαμηκότων δικαιώματα ἔδωκε.
[18] V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il matrimonio dei soldati romani,
cit., 164 (=Id., Studi giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 40).
[19] V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il matrimonio dei soldati romani,
cit., 166 (=Id., Studi giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 41).
[20] S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, 1, Roma 1928, 345 e nt. 2.
[21] P.F. Girard,
Manuel élémentaire de droit romain,
Paris 1929, 171 ss.
[22] V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli 1934, 423.
[23] C. Longo, Corso di diritto romano. Diritto di famiglia, Milano 1934, 328.
[24] G. Longo, Manuale elementare di diritto romano, Torino 1939, 134.
[25] S. Di Marzo, Istituzioni di diritto romano, Milano 1939, 170 ss.
[26] J.-B. Mispoulet, Le mariage des soldats romains, in Revue de philologie, 8 (1884), 112 ss. (=Id., Études
d’institutions romaines, Paris 1887, 227 ss.).
[27] P. Tassistro, Il matrimonio dei soldati romani, cit., 3 ss.
[28] P. Tassistro, Il matrimonio dei soldati romani, cit., 62.
[29] E. Costa, Storia del diritto romano privato dalle origini alle compilazioni
giustinianee, Milano-Torino-Roma 1911, 48 ss. e nt. 5, il quale, oltre a
citare D. 49.17.13 (Papinianus libro 16
quaestionum) e D. 49.17.16 pr. (Papinianus
libro 19 responsorum), osserva che «Coniuges di militari son pur ricordati
in C. I. L., VII, suppl. 3 n. 21018;
XIII, suppl. 2, 1, nn. 6956, 6962, 6970, 7256, 8065, 8068, 8069, 8072».
[30] E. Costa, Storia del diritto romano privato dalle origini alle compilazioni
giustinianee, cit., 50 ss.
[31] P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano,
6 ed., Milano 1917, 179. Sulla tesi del Bonfante si veda C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 11 nt. 1.
[32] P. Bonfante, Corso di diritto romano. Diritto di famiglia, Roma 1926, 206.
[33] Tra le fonti si veda
D. 23.2.35 (Pap. 6 resp.); D. 23.2.2
(Paul. 35 ad Sab.); D. 49.17.16 pr.
(Pap. 19 resp.); D. 24.1.32.8 (Ulp.
33 ad Sab.).
[34] Si veda C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 14 ss. Si veda per i riferimenti
alla dottrina O. Robleda S.J., El matrimonio en derecho romano. Esencia,
requisitos de validez, efectos, disolubilidad, Roma 1970, 199 nt. 156.
Sulla nozione di iniustum matrimonium,
per quel che qui rileva in tema di divieto di matrimonio per i militari, si può
rinviare a E. Volterra, Iniustum
matrimonium, in Studi in onore di G.
Scherillo, II, Milano 1972, 441 ss. (=Id.,
Scritti giuridici, III, Famiglia e successioni, cit., 177 ss.).
E ora: M.V. Sanna, Matrimonio e altre situazioni matrimoniali
nel diritto romano classico. Matrimonium iustum - matrimonium iniustum, Napoli 2012, 89 ss., con specifico
riferimento al tema della assenza di conubium.
[35] S. Di Marzo, Istituzioni di diritto romano, Milano 1939, 170. Su cui si veda,
però, la critica di R. Orestano, La struttura giuridica del matrimonio
romano. Dal diritto classico al diritto giustinianeo, Milano 1951, 244.
[36] C. Castello, Sul matrimonio dei soldati,
cit., 12 ss.
[37] Il fondamento di tale
disposizione lo si ricava secondo la dottrina in Svetonius, Aug. 24.
[38] Si veda C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 34 ss.; Id., L’acquisto della
cittadinanza e i suoi riflessi familiari nel diritto romano, Milano 1951,
222 ss.
[39] C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 17 ss.; 95.
[40] C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 84 ss.
[41]
C.G. Bruns, Fontes iuris romani
antiqui, VII, Tubingae 1908, 321. P.F. Girard,
Textes de droit romain, 195, con
qualche variazione che rileva C. Castello,
Sul matrimonio dei soldati, cit., 55
ss. nt. 1. Sul tema si veda anche F. Castagnino,
Una breve nota sull’epistula di Adriano a
Q. Ramnius Martialis, in Rivista di Diritto Romano, 15 (2015), 2 ss. (=
http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/).
[42] C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 88 ss.
[43] V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il matrimonio dei soldati romani,
cit., 162 (=Id., Studi giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 38).
[44] C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 92.
[45] Si veda in linea con
questa tesi anche R. Orestano, La struttura giuridica del matrimonio
romano. Dal diritto classico al diritto giustinianeo, cit., 102.
[46] C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 94 ss.; Id., In tema di
matrimonio e concubinato nel mondo romano, Milano 1940, 142 ss.
[47] R. Orestano, La struttura giuridica del matrimonio romano. Dal diritto classico al
diritto giustinianeo, cit., 100.
[48] Si veda per questa
impostazione, volta a considerare le differenze esistenti all’interno delle
«varie categorie dei militari» romani, E. Volterra,
Sulla condizione dei figli dei peregrini
cui veniva concessa la cittadinanza romana, in Studi in onore di A.
Cicu, II, Milano, 1951, 645 ss. (Id.,
Scritti giuridici, II, Famiglia e successioni, con una nota di M. Talamanca, Napoli
1991, 229 ss.); Id., v. Matrimonio (dir. rom.), cit., 781 ss. (Id., Scritti
giuridici, III, Famiglia e
successioni, cit., 278 ss.), con indicazione della dottrina.
[49] E. Volterra, Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano, Anno accademico
1960-61, Roma 1961, 352 ss.; Id.,
v. Matrimonio (dir. rom.), cit., 781
ss. (Id., Scritti giuridici, III, Famiglia
e successioni, cit., 278 ss.), con indicazione della dottrina.
[50] E. Volterra, v. Matrimonio (dir. rom.), cit., 779 ss. e nt. 130 (Id., Scritti
giuridici, III, Famiglia e successioni,
cit., 276 ss. e nt. 130).
[51] Si veda R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, Padova 2006, 133 ss.
[52] R. Fiori, La struttura del matrimonio romano, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano, 105 (2011), 213 ss.
[53] Si veda F. Galgano, Tac. Ann. 3.33.2-4 ovvero di
un divieto di matrimonio, cit., 2000 ss. e ntt. 9 ss., che cita: Tacitus,
14.27; Tertullianus 12.1; Dio Cassius, 60.24.
[54] F. Galgano, Tac. Ann. 3.33.2-4 ovvero di
un divieto di matrimonio, in Studi in
onore di Luigi Labruna, 3, Napoli 2007, 1997 ss.
[55] F. Galgano, Tac. Ann. 3.33.2-4 ovvero di
un divieto di matrimonio, cit., 1998.
[56] C.I.L. XVI 134-154.
[57] Così M.V. Sanna, Matrimonio e altre situazioni matrimoniali nel diritto romano classico.
Matrimonium iustum - matrimonium
iniustum, cit., 131, che cita F.I.R.A.,
1, 227-231; 233; C.I.L. XVI, 134-154.
[58] E. Volterra, Sull’unione coniugale del funzionario della provincia, in Festschrift fur E. Seidl zum 70. Geburtstag (hrsg. von H. Hubner - E. Klingmuller - A. Wacke), Köln
1975, 169 ss. (=Id., Scritti giuridici, III, Famiglia e successioni, cit., 346 ss.).
[59] M.V. Sanna, Matrimonio e altre situazioni matrimoniali nel diritto romano classico.
Matrimonium iustum - matrimonium iniustum,
cit., 140, cita così una intuizione di M. Talamanca,
Rec. di Festschrift Seidl zum 70
Geburstag, in Bullettino
dell’Istituto di diritto romano, 82 (1979), 273 ss., secondo cui il divieto
di matrimonio era funzionale a tutelare un interesse della donna.
[60] Lo notava E. Volterra, Una discussione nel senato romano sotto Tiberio, in Studi in onore di G. Grosso, II, Torino
1968, 6 ss. (Id., Scritti giuridici, V, Le fonti, con una nota di M. Talamanca, Napoli
1993, 160 ss.), osservando che il passo di Svetonio non può essere richiamato
per provare la esistenza del divieto invocato da Cecina, poiché al contrario la
circostanza che Augusto di tanto in tanto desse il permesso ai suoi ufficiali
di fare visita alle mogli presuppone che esse non si trovassero molto lontane
dal luogo in cui erano i loro stessi mariti.
[61] P. Giunti, Consors vitae. Matrimonio e ripudio in Roma antica,
Milano 2004, 166.
[62]
L. Foubert, The impact of Women’s Travels on Military Imagery in the Julio-Claudian
Period, in O. Hekster - T. Kaiser (eds.), Frontiers in the Roman World: Proceedings of
the Ninth Workshop of the International Network Impact of Empire (Durham, 16-19
April 2009), Leiden 2011, 351.
[63] Oltre a Livius
21.41.16 e 42.34 si vedano Servius, ad
Aen., 8.688; Propertius, 5.3.45; Cicero, Catilin. 2.10.23; Livii epit.
57; Dio Cassius 57.33; Appianus Histor. 85; Florus I.33 (2.18), richiamate
da V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il
matrimonio dei soldati romani, cit., 162 nt. 4 (=Id., Studi giuridici,
II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 39 nt. 1).
[64] Livius 21.41.16.
Secondo R. Orestano, La struttura giuridica del matrimonio
romano. Dal diritto classico al diritto giustinianeo, cit., 100, basta
questa testimonianza per rifiutare la tesi che il matrimonio potesse
sciogliersi per via del servizio militare.
[65] Livius 42.34.
[66] Cfr. in tal senso V. Scialoja, Il papiro giudiziario - Cattaoui - e il matrimonio dei soldati romani,
cit., 162 nt. 3 (=Id., Studi giuridici, II, Diritto romano, Seconda parte, cit., 38
nt. 9).
[67] Nella linea di questa
interpretazione si veda anche E. Volterra,
Lezioni di diritto romano. Il matrimonio
romano, Anno accademico 1960-61, Roma 1961, 352 ss.; R. Orestano, La struttura giuridica del matrimonio romano. Dal diritto classico al
diritto giustinianeo, cit., 100, che oltre alle fonti sopra citate alla nt. 63 richiama anche Appianus
Histor. 85; Florus, 1.33 (2.18); Seneca, Contr.
9.2 (25); Tacitus, Ann. 3.33.34;
Svetonius, Aug. 24.
[68] Ancora nel III sec. d.C.,
come osservava E. Volterra, Una discussione nel senato romano sotto
Tiberio, cit., 9 nt. 9 (Id., Scritti giuridici, V, Le fonti, cit., 163), la questione
sollevata da Cecina non era stata risolta definitivamente, come prova D.
1,16,4,2 (Ulpianus libro primo
de officio proconsulis), in cui si fa riferimento ad una
disposizione probabilmente attribuibile sulla base anche di Tacitus, Ann. 4.20, a un senatoconsulto del tempo
di Tiberio.
[69] Si veda E. Volterra, Una discussione nel senato romano sotto Tiberio, cit., 4 ss. (Id., Scritti
giuridici, V, Le fonti, cit., 158
ss.).
[70] F. Galgano, Tac. Ann. 3.33.2-4 ovvero di
un divieto di matrimonio, cit., 1998.
[71] Cfr. E. Volterra, Una discussione nel senato romano sotto Tiberio, cit., 7 ss. (Id., Scritti
giuridici, V, Le fonti, cit., 161
ss.).
[72] Tacitus, Ann. 14.27.2.
[73] G. Segré, Studio sulla origine e sullo sviluppo del colonato romano, in Dalla radice pandettistica alla maturità
romanistica. Scritti di diritto romano, a cura di N. Scapini, con prefazione di G. Grosso,
Torino 1974, 235 nt. 7.
[74] Sui problemi
demografici connessi agli stanziamenti dei soldati militari romani presso le
colonie si veda ora S.T. Roselaar, State-Organised
Mobility in the Roma Empire: Legionaries and Auxiliares, in Migration and Mobility in the Early Roman
Empire, edd. L. de Ligt - L.E. Tacoma, Leiden-Boston 2016, 158 ss.
[75] R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 135 e nt. 39.
[76] Su Dione Cassio si veda da ultimo, con impostazione diversa da
quella seguita nel testo, B. Campbell,
The Marriage of Soldiers under the Empire,
cit., 153 ss.; W. Eck, Herrschaftssicherung
und Expansion: Das römische Heer unter Augustus, in Studi su Augusto. In
occasione del XX centenario della morte, a cura di G. Negri - A. Valvo, Torino 2016, 90 ss.
[77] Sosteneva questa
ipotesi tra gli altri Th. Mommsen, C.I.L.,
III, 906.
[78]
J.-B. Mispoulet, Le
mariage des soldats romains, cit., 119 ss. (=Id., Études d’institutions romaines, Paris 1887, 227 ss.).
[79] Si veda R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 136, il quale
ipotizza di spostare nel passo «la negativa οὐκ prima di ἔχειν», in modo da
significare che «Claudio concesse gli iura
maritorum ‘ai soldati perche potevano proprio in forza delle leggi
demografiche non sposare’ e quindi garantiva loro non solo l’immunità delle
sanzioni previste per i celibi, ma anche i privilegi concessi agli sposati».
[80] P. Tassistro, Il matrimonio dei soldati romani, cit., 57.
[81] Come ad esempio
sembra ritenere F. Stella Maranca,
Il matrimonio dei soldati romani, in Studi e documenti di storia e diritto,
24 (1903), 3 ss.
[82] C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 86 ss.
[83] Sul conubium della peregrina con il cittadino romano si veda C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 44 ss.; Id., L’acquisto della
cittadinanza e i suoi riflessi familiari nel diritto romano, cit., 175 ss.
[84] Ritiene R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 133, che si
trattasse di «donne non romane … di solito latine o provinciali». Si veda
inoltre F. Galgano, Tac. Ann. 3.33.2-4 ovvero di un divieto di matrimonio, cit., 2001 ss.; P.O.
Cuneo Benatti, Ricerche sul matrimonio romano in età
imperiale (I-V secolo d.C.), Roma 2013, 168.
[85] Secondo A. Segrè, Il diritto dei militari peregrini nell’esercito romano, in Rendiconti Pontificia Accademia romana di
archeologia, 17 (1940-41), 173 ss., «Il passo di Gaio, scritto dopo il 144,
fa supporre che quei veterani (veteranis
quibusdam) non ricevano la cittadinanza romana perché l’hanno già».
[86] Si veda E. Volterra, L’acquisto della cittadinanza romana e il matrimonio del peregrino,
in Studi in onore di Enrico Redenti nel
XL anno del suo insegnamento, 2, Milano 1950, 19 (=Id., Scritti giuridici,
II, Famiglia e successioni, cit.,
273). Ma notava ciò già C. Castello,
Sul matrimonio dei soldati, cit., 44
ss., rilevando che «quando Gaio parla di veterani, si riferisce a quelli tra
essi già cives prima della honesta missio, i quali da quel momento in poi possono tener come moglie la
prima e la sola peregrina che sposino dopo la concessione del diploma».
[87] E. Volterra, Un’osservazione in tema di tollere liberos, in Festschrift F. Schulz, I, Weimar 1951, 395 ss. (=Id., Scritti
giuridici, II, Famiglia e successioni,
cit., 224 ss.).
[88] Lo esclude E. Volterra, v. Matrimonio (dir. rom.), cit., 780 nt. 130, (Id., Scritti giuridici,
III, Famiglia e successioni, cit.,
277 nt. 130), osservando che «il ius
conubii è concesso solo alle donne con le quali il veterano romano si
unisce in matrimonio per la prima volta dopo la missio, non a quelle con le quali il medesimo aveva anteriormente
formato un’unione coniugale».
[89] E. Volterra, v. Matrimonio (dir. rom.), cit., 779 ss. nt. 130, (Id., Scritti
giuridici, III, Famiglia e
successioni, cit., 276 ss. nt. 130). Sui diplomi militari si veda anche
R.G. Watson, Eserciti e confini da Traiano a Settimio Severo, in Storia di Roma, 2, L’impero mediterraneo, II, I
principi e il mondo, dir. di A. Schiavone,
a cura di G. Clemente - F. Coarelli - E. Gabba, Torino 1991, 394 ss.
[90] E. Volterra, Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano, Anno accademico
1960-61, cit., 356 ss.
[91] Si veda E. Volterra, v. Matrimonio ‘diritto romano’, in Novissimo
digesto italiano, X, Torino 1964, 334. Ed ora R. Astolfi, Il matrimonio
nel diritto romano classico, cit., 133.
[92] S. Solazzi, Studi sul divorzio, in Bullettino
dell’istituto di diritto romano, 34 (1925), 305 nt. 5; Id., Divortium bona gratia, in Rendiconti dell’Istituto lombardo di scienze
e lettere, 71 (1938), 524 (=Id.,
Scritti di diritto romano, IV, Napoli
1963, 33).
[93] D. Dalla, L’incapacità sessuale in diritto romano, Milano 1978, 252 e nt. 60.
[94] Sulla vecchiaia e
sulla impotenza come cause di giustificazione del divorzio si veda R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 248.
[95] Così D. Dalla, L’incapacità sessuale in diritto romano, cit., 253, che a sostegno
della sua ipotesi cita anche D. 1,6,6 (Ulp. 9 ad Sab.); Id., Ricerche di diritto delle persone,
Torino 1995, 87: «la valetudo … oltre
a una generica condizione morbosa, può più specificamente indicare uno stato
patologico concernente la sfera sessuale».
[96] Si veda però come
ancora P.O. Cuneo Benatti, Ricerche sul matrimonio romano in età
imperiale (I-V secolo d.C.), cit., 167 ss., consideri anche alla luce di D.
24.1.61 (Gai. 11 ed. prov.) come il
servizio militare fosse «causa di divorzio».
[97] Si veda R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 134 ss.
[98] Si veda anche D.
23.3.2 (Paulus Libro ad Sabinum),
citato da C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 15.
[99]
Cfr. B. Campbell, The Marriage of Soldiers under the Empire,
in The Journal of Roman Studies, 68
(1978), 153 ss.
[100] F. Galgano, Tac. Ann. 3.33.2-4 ovvero di
un divieto di matrimonio, cit., 2002 ss. nt. 17, la quale osserva come nel
passo di Papiniano «la parola matrimonium
non dà adito ad equivoci»; P.O. Cuneo
Benatti, Ricerche sul matrimonio
romano in età imperiale (I-V secolo d.C.), cit., 168 ss., la quale scrive
che «Affermando il giurista che un militare, che sia ancora in potestate del padre, non può sposarsi
senza il consenso del padre, attesta, di conseguenza, che i soldati in quel
periodo storico avevano già ottenuto il diritto di prendere moglie».
[101] A. Guarino, L’oggetto del ‘castrense peculium’, in Bullettino dell’istituto di diritto romano, 48 (1941), 41 ss.
[102] D. 49.17.13 (Papinianus 16 quaest.): Divus Hadrianus rescripsit in eo, quem militantem uxor heredem
instituerat filium, extitisse heredem et ab eo servos hereditarios manumissos
proprios eius libertos fieri.
[103] Per i problemi legati
alla ‘ricostruzione’ del testo si veda F. La
Rosa, I peculii speciali in
diritto romano, Milano 1953, 51 ss.
[104] D. 49.17.16 pr. (Papinianus libro 19 responsorum) pr. Dotem
filio familias datam vel promissam in peculio castrensi non esse respondi. Nec ea res contraria videbitur ei, quod divi
Hadriani temporibus filium familias militem uxori heredem extitisse placuit et
hereditatem in castrense peculium habuisse. Nam hereditas adventicio iure
quaeritur, dos autem matrimonio cohaerens oneribus eius ac liberis communibus,
qui sunt in avi familia, confertur. Si veda J.-B. Mispoulet, Le mariage des soldats
romains, cit., 118; E. Costa, Storia del diritto romano privato dalle
origini alle compilazioni giustinianee, cit., 48 ss. e nt. 5; C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 15; F. Galgano, Tac. Ann. 3.33.2-4 ovvero di un divieto di
matrimonio, cit., 2002.
[105] R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 135 ss.
[106] R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 134 ss.
[107] Si veda V. Marotta, Mandata principum, Torino 1991,
141 ss., il quale rileva: «Lo stesso divieto delle nozze fra il magistrato e la
provinciale, inserito nei mandata non
prima della fine del I s. d.C. contestualmente al diffondersi della
cittadinanza, dové ispirarsi, almeno in parte, a ragioni analoghe a quelle che
avevano reso necessario proibire ogni sorta di acquisti da parte del
governatore». Si veda inoltre R. Orestano,
La dote nei matrimoni ‘contra mandata’, in St. di storia e di diritto in memoria di G. Bonolis, I, Milano
1942, 9 ss. 19 ss. (=Id., Scritti. Sezione prima: saggistica, con una nota di lettura di Antonio
Mantello, Napoli 1998, 727 ss.), il quale tende a spiegare il divieto con la
motivazione che il magistrato avrebbe potuto coartare la donna e la propria
famiglia a contrarre matrimonio. A cui bisogna aggiungere almeno A. Dell’Oro, Il divieto del matrimonio fra funzionario e donna della provincia,
in Studi in onore di B. Biondi, 2,
Milano 1965, 525 ss.; E. Volterra,
Sull’unione coniugale del funzionario
della provincia, cit., 169 ss. (=Id.,
Scritti giuridici, III, Famiglia e Successioni, cit., 346 ss.).
[108] Si veda E. Volterra, Matrimonio (dir. rom.), cit., 782 ss. nt. 132 (Id., Scritti
giuridici, III, Famiglia e
successioni, cit., 279 ss. nt. 132) con indicazione della dottrina. A cui
si deve aggiungere almeno M.V. Sanna,
Matrimonio e altre situazioni
matrimoniali nel diritto romano classico. Matrimonium iustum - matrimonium iniustum, cit., 132 ss.
[109] L’impiego del verbo militant sembrerebbe limitare
l’eccezione prevista in D. 23.2.65 pr. ai soli militari e non anche ai funzionari:
sulla questione si veda M.V. Sanna,
Matrimonio e altre situazioni
matrimoniali nel diritto romano classico. Matrimonium iustum - matrimonium iniustum, cit., 132 nt.
59.
[110] D. 23.2.39 pr. (Paulus libro sexto ad Plautium): Sororis proneptem non possum ducere uxorem,
quoniam parentis loco ei sum. D.
23.2.63 (Papinianus libro primo
definitionum): Praefectus
cohortis vel equitum aut tribunus contra interdictum eius provinciae duxit
uxorem, in qua officium gerebat: matrimonium non erit: quae species pupillae
comparanda est, cum ratio potentatus nuptias prohibuerit. Sed an huic quoque si
virgo nupsit, non sit auferendum quod testamento relictum est, deliberari
potest: exemplo tamen pupillae nuptae tutori, quod relictum est potest mulier
consequi. Pecuniam tamen in dotem datam mulieris heredi restitui necesse est.
[111] Si veda E. Volterra, v. Matrimonio (dir. rom.), cit., 782 nt. 132, il quale rileva che
«Questi passi, escludendo in questo caso la possibilità di costituire il
matrimonio, confermano indirettamente anch’essi l’inesistenza di un generale
divieto, esteso a tutti i militari, che non è menzionato». Sul matrimonio del
militare con la donna residente nella provincia si veda ora M.V. Sanna, Matrimonio e altre situazioni matrimoniali nel diritto romano classico.
Matrimonium iustum - matrimonium
iniustum, cit., 132 ss.
[112] Si veda per la
dottrina più risalente veda ora M.V. Sanna,
Matrimonio e altre situazioni
matrimoniali nel diritto romano classico. Matrimonium iustum - matrimonium iniustum, cit., 132 ss.
[113] Si veda E. Volterra, Sull’unione coniugale del funzionario della provincia, cit., 169
ss. (=Id., Scritti giuridici, III, Famiglia
e successioni, cit., 346 ss.). A cui si può aggiungere almeno A. Dell’Oro,
Il divieto del matrimonio fra funzionario
e donna della provincia, cit., 525 ss.; R. Fiori, La struttura del matrimonio romano, cit., 214; M.V. Sanna, Matrimonio e altre situazioni matrimoniali nel diritto romano classico.
Matrimonium iustum - matrimonium iniustum,
cit., 135.
[114] Cfr. M.V. Sanna, Matrimonio e altre situazioni matrimoniali nel diritto romano classico.
Matrimonium iustum - matrimonium iniustum, cit., 132 ss.
[115]
C. 2.11.15 (a. 239): Idem A. (=
Gordianus) Sulpiciae. Decreto amplissimi ordinis luctu
feminarum deminuto tristior habitus ceteraque hoc genus insignia mulieribus
remittuntur, non etiam intra tempus, quo lugere maritum moris est, matrimonium
contrahere permittitur, cum etiam, si nuptias alias intra hoc tempus secuta
est, tam ea quam is, qui sciens eam duxit uxorem, etiam si miles sit, perpetuo
edicto labem pudoris contrahit. PP. XVII kal.
Iul. Gordiano A. et Aviola Conss.
Si veda E. Volterra,
v. Senatus Consulta, in Novissimo Digesto
italiano, XVI, Torino 1969, 1078. E ora L. Atzeri, Die infamia in der Rechtssetzung der Soldatenkaiser, in Aa.Vv., Das Recht der »Soldatenkaiser« Rechtliche Stabilität in Zeiten
politischen Umbruchs? (Hrgs. U. Babusiaux - A. Kolb),
Berlin-München-Boston 2015, 152.
[116] In tal senso si veda
R. Astolfi, Studi sul matrimonio nel diritto romano postclassico e giustinianeo,
Napoli 2012, 80 ss.
[117] Cfr. R.G. Watson, Eserciti e confini da Traiano a Settimio Severo, cit., 394 ss.
[118] C. Castello, Sul matrimonio dei soldati, cit., 88 ss.
[119] Si veda R. Astolfi, Studi sul matrimonio nel diritto romano postclassico e giustinianeo,
cit., 81, il quale parla di «due caratteristiche della legislazione militare
del tardo impero».
[120] Si veda ora per
questi aspetti il quadro suggestivo offerto da A. Barbero, Barbari. Immigrati,
profughi, deportati nell’impero romano, Roma-Bari 2012, spec. 204 ss.
[121] A.H.M. Jones, Il tardo impero romano (284-602 d.C.), II, tr. di E. Petretti,
Milano 1974, 847.
[122] A.H.M. Jones, Il tardo impero romano (284-602 d.C.), cit., 867.
[123] Si veda A.H.M. Jones, Il tardo impero romano (284-602 d.C.), cit., 852.
[124] C. 5.4.21 (a. 426).
[125] Si veda, però, R. Astolfi,
Studi sul matrimonio nel diritto romano
postclassico e giustinianeo, cit.,
82, il quale sostiene che Giustiniano avrebbe stabilito di sottrarre il miles caligatus dalla osservanza delle
regole matrimoniali non a causa della condizione militare ma perché di bassa
estrazione sociale.
[126] Erodiano 3.8.4 e 5. Si veda V. Giuffré,
Il ‘diritto militare’ dei romani, 2
ed., Bologna 1983, 12. In dottrina è frequente osservare le difficoltà
interpretative connesse alla espressione adoperata da Erodiano il quale parla
letteralmente della possibilità per i soldati di «vivere con le donne». Secondo ad esempio P. Garnsey, Septimius Severus and the Marriage of
Soldiers, in California Studies in
Classical Antiquity, 3 (1970), 47 «This phrase is ambiguous; its literal
meaning is ‘to live with women,’ but it has also been taken to mean ‘to marry
women.’ It is clear that no decisive arguments can be based on a text which can
be used to support either the maintenance». Sul
punto si veda anche R.G. Watson, Eserciti e confini da Traiano a Settimio
Severo, cit., 396 ss. In generale
sull’atteggiamento di Settimio Severo si veda da ultimo W. Eck, Septimius Severus und die Soldaten. Das Problem der Soldatenehe und ein neues
Auxiliardiplom,
in In omni historia curiosus. Studien zur
Geschichte von der Antike bis zur Neuzeit. Festschrift für H. Schneider zum 65.
Geburtstag (hg. B. Onken - D. Rohde), Wiesbaden 2011, 63 ss.
[127] R. Astolfi, Studi sul matrimonio nel diritto romano postclassico e giustinianeo, cit., 80 ss.
[128] Così A.H.M. Jones, Il tardo impero romano (284-602 d.C.), cit., 847.
[129] Così ipotizza R. Astolfi, Studi sul matrimonio nel diritto romano postclassico e giustinianeo, cit., 80 ss., il quale cita C.Th. 7.5.1
(a. 399).
[130] Cfr. E. Volterra, L’acquisto della cittadinanza romana e il matrimonio del
peregrino cit., 11 (=Id., Scritti giuridici, II, Famiglia e successioni, cit., 265).