Università di Ferrara
Voltaire,
un rescritto di Antonino Caracalla
in
tema di suicidio e il divieto canonistico
di sepoltura*
This
article offers a detailed reading of the nineteenth paragraph (Du suicide) of Voltaire’s Commentaire sur le livre des délits et des
peines, with specific emphasis on its references to Roman Law and Canon Law.
Voltaire’s quote from an imperial rescript concerning the goods of a man who
committed suicide (C. 9.50.1), as well as his mention of the canonistic
interdiction of Christian burial, when critically examined, show their nature
of ‘half-truths’. The urgent need to decriminalize suicide seems to overpower
the historical and philological accuracy of his remarks.
Il presente
studio analizza il diciannovesimo paragrafo (Du suicide) del Commentaire sur le livre des délits et des peines di
Voltaire, con particolare enfasi su quanto riportato dal filosofo in
riferimento al diritto romano e al diritto canonico. La citazione di un
rescritto imperiale in materia di beni del suicida (C. 9.50.1), così come il
riferimento al divieto canonistico della sepoltura religiosa, se sottoposti ad
un’analisi critica, rivelano la loro natura di ‘mezze verità’. L’urgenza di
richiamare l’attenzione collettiva alla depenalizzazione del suicidio pare
soverchiare, in Voltaire, la correttezza dei suoi rimandi storici e filologici.
Nel paragrafo XIX del
Commentaire sur le livre des délits et des peines, Voltaire dedica un ampio
brano alla materia del suicidio, in palese collegamento con il corrispondente
capitolo (XXXII, Suicidio) dell’opera
di Beccaria.
Questo brano, che ci sembra avere ben poco in comune con la
trattazione dell’intellettuale milanese (fatta salva, ovviamente, la visione
anticriminalistica del suicidio)[1], offre alcuni spunti di
osservazione che possono anche interessare il diritto romano e il diritto
canonico. Ed è questo profilo che vorremmo principalmente trattare.
Prima di descrivere le articolazioni del brano voltairiano, è
utile ricordare che il suo Commentaire
fu dato alle stampe, anonimo, nel 1766 – dopo una rapida redazione, che ne fece
quasi un ‘instant book’[2]. Nonostante le apparenze,
il Commentaire non si configura né
come un elogio, né come una critica all’opera di Beccaria, e da questa trae
soltanto il pretesto per elaborare autonome riflessioni.
Voltaire si occupa del suicidio, come si è detto, nel
diciannovesimo paragrafo. Non si tratta di certo – nel vastissimo panorama
delle opere del filosofo – dell’unico luogo[3] in cui egli ha occasione
di trattare un tema tanto controverso quanto dibattuto nella temperie culturale
del Settecento[4].
Tra l’altro, questo testo è ripreso in un’altra opera del
filosofo, Questions sur l’Encyclopédie,
ed è contenutisticamente utilizzato anche nel Prix de la justice et de l’humanité[5].
Voltaire apre la sua riflessione[6] riportando le principali
tesi contenute nel trattatello dal titolo Question
Royale et politique, avec sa décision, pubblicato nel 1608 da Jean-Ambroise
Duverger de Hauranne[7], abate di Saint-Cyran,
«fameux»[8] esponente del giansenismo
francese[9].
«I dieci comandamenti ordinano di non uccidere» scrive Voltaire,
riportando il pensiero dell’abate di Saint-Cyran, «e l’omicidio di se stessi
non sembra meno compreso in questo precetto di quello del prossimo»[10]. Se vi sono casi in cui è
permesso uccidere il prossimo, ci saranno altresì particolari condizioni in
presenza delle quali è lecito uccidere se stessi[11]: «Non bisogna attentare
alla propria vita se non dopo aver consultato la ragione[12]. L’autorità pubblica, al
posto di Dio, può disporre della nostra vita. E anche la ragione dell’uomo può
sostituire la ragione di Dio: è un raggio della luce eterna»[13].
Dopo l’esposizione, quasi alla lettera, di questi enunciati di
Duverger de Hauranne, Voltaire passa alla critica, incominciando con un rilievo
abbastanza blando. Egli osserva che – nonostante l’abate di Saint-Cyran estenda
di molto l’argomentazione, che si può considerare quasi come un sofisma –
quando giunge alla spiegazione e ai dettagli diventa più difficile
rispondergli. «Ci si può togliere la vita per il bene del proprio principe,
della propria patria e dei propri famigliari»[14], parole che Voltaire fa
pronunciare a Duverger de Hauranne.
Terminata la descrizione del pensiero dell’abate e compiute
queste brevi, distaccate osservazioni, Voltaire inizia l’esposizione delle
proprie idee intorno alla questione. A questo punto, il tono diventa più
polemico ed aggressivo, se non percettibilmente sarcastico. A proposito dei
suicidi per il bene del principe, di cui ha parlato l’abate di Saint-Cyran, il
filosofo così commenta: «Non si vede in effetti come si possano condannare i
Codri e i Curzi[15]»,
che hanno attuato – precisiamo noi – dei suicidii ‘altruistici’. Al contrario,
ogni sovrano non manca di ricompensare la famiglia di chiunque si sia
sacrificato per lui e non pensa affatto a sanzionarla. Voltaire aggiunge poi,
con un pizzico di polemica anticlericale: «Non c’è bisogno né di Tommaso, né di
Bonaventura, né di Duverger de Hauranne per capire che se un uomo muore per la
patria è degno di lode[16]. L’abate di Saint-Cyran
conclude che è permesso fare per se stessi ciò che è bello fare agli altri»[17]. Il giudizio – non
esplicito ma sotteso – del filosofo è che si tratti di un ragionamento di
assoluta ovvietà.
«Si conosce abbastanza bene ciò che in Plutarco, in Seneca, in
Montaigne e in cento altri filosofi si è affermato in favore del suicidio»[18], incalza Voltaire, con
una certa sufficienza, spostando l’attenzione sul suicidio ‘egoistico’. Si
tratta, a suo avviso, di un luogo comune ormai esaurito: non è sua intenzione
«fare l’apologia di un’azione che le leggi condannano, ma né il Vecchio né il
Nuovo Testamento hanno mai vietato all’uomo di sottrarsi alla vita quando non
sia più in grado di sopportarla»[19]. Nessuna legge romana,
continua il filosofo, ha mai condannato l’assassinio di se stesso: «Au contraire, ecco quanto stabilisce la
legge dell’imperatore Marco Antonino, mai revocata»[20].
Voltaire dedica un particolare spazio alla traduzione francese
del primo paragrafo di questa legge di Marco Antonino Caracalla, che egli
stesso identifica, in nota, con il testo di C. 9.50.1 [21]:
«Se vostro padre o vostro fratello, non
essendo pregiudicato per nessun crimine, si uccide, o per sottrarsi al dolore,
o perché la vita gli è venuta a noia, o per disperazione, o per follia, il suo
testamento deve essere considerato valido o i suoi eredi succedergli ab intestato».
Ecco il “j’accuse” del filosofo: «Malgrado questa umanissima
legge dei nostri antenati, noi trasciniamo ancora sul graticcio, ancora
trapassiamo con un palo il cadavere di un uomo che si sia dato volontariamente
la morte; ricopriamo di ignominia la sua memoria[22]; disonoriamo la sua
famiglia quanto più possiamo; puniamo il figlio di aver perduto il padre e la
vedova di essere stata privata dal marito. Si confiscano anche i beni del
morto; il che significa, in definitiva, rapinare il patrimonio dei vivi, ai
quali appartiene»[23].
Dopo la livida descrizione sulle pene afflittive applicate ai
suicidi in tutta l’Europa del Settecento[24], Voltaire afferma, con
parole di acceso anticlericalismo che qui si fanno veementi, che «questo
costume, al pari di molti altri, trae origine dal nostro diritto canonico, che
vuole siano privati della sepoltura[25] coloro che muoiono di una
morte volontaria. Si fa conseguire da quest’ultimo principio che non sia
legittimo ereditare da un uomo che si presume tagliato fuori dall’eredità del
paradiso». Voltaire così chiude la sua argomentazione: «Il diritto canonico, al
capitolo De Poenitentia, assicura che
Giuda commise un peccato più grave impiccandosi che vendendo Nostro Signore
Gesù Cristo».
Ebbene, come anticipato, il richiamo al diritto romano e al
diritto canonico attira la nostra attenzione perché qui il rigore
storico-filologico di Voltaire cede il passo alla vis polemica.
Iniziamo dalla citazione ‘canonistica’, tratta, secondo Voltaire,
dal capitolo De Poenitentia. Il
riferimento è, con assoluta probabilità, al Tractatus
de Penitencia, di Graziano, in
Decreti Secunda Pars, Causa XXXIII,
Questio III c. 39: Item Leo Papa in
sermone Inter omnia. Sceleratior omnibus, Iuda, et infelicior extitisti;
quem non penitencia revocauit ad Dominum, sed desperatio traxit ad laqueum. Expectasses consummationem criminis tui, et donec sanguis
Christi pro peccatoribus funderetur, informis lethi suspendium distulisses.
Il brano, tratto dal Sermo
LIV di Leone Magno[26], non consente di ricavare
ciò che dice Voltaire, ovvero che Giuda avrebbe commesso un peccato più grande
impiccandosi che vendendo Gesù Cristo.
Ciò è già stato messo in risalto[27]. Infatti, Leone non
propone alcuna ‘gerarchia’ tra le due colpe di Giuda – avere venduto Gesù
Cristo ed essersi tolto la vita – bensì deplora la sua scelta disperata di
appendersi ad un laccio piuttosto che affrontare la penitenza che l’avrebbe
ricondotto a Dio.
L’interpretazione che Voltaire dà del passo di Leone Magno
manifesta palesemente la volontà del filosofo di attribuire al diritto canonico
un accanimento speciale contro il suicidio, e di imputargli l’origine delle
pesanti sanzioni tuttora in uso.
Passiamo, quindi, al diritto romano e alla costituzione riportata
da Voltaire[28]. Egli afferma che nessuna legge romana ha mai
condannato l’assassinio di se stesso e riporta – non nella sua interezza, ma
omettendo la parte iniziale – un rescritto di Antonino Caracalla del 212. Così
nella versione integrale
C. 9.50.1 Imp. Antoninus A. Aquilae: Eorum
demum bona fisco vindicantur, qui conscientia delati admissique criminis
metuque futurae sententiae manus sibi intulerint. 1. Eapropter fratrem vel
patrem tuum si nullo delato crimine, dolore aliquo corporis aut taedio vitae
aut furore aut insania aut aliquo casu suspendio vitam finisse constiterit,
bona eorum tam ex testamento quam ab intestato ad successores pertinebunt. PP.
XII k. Ian. duobus Aspris conss.
Il provvedimento di Caracalla, che Voltaire indica come prova del
fatto che mai sarebbe stato punito il suicidio[29], lascia intendere il
contrario. Infatti, nel paragrafo primo, le parole si nullo delato crimine introducono al caso dolente di coloro che
si toglievano la vita perché accusati di un crimine e lo facevano per timore
della sentenza[30].
Ciò che trapela in questo paragrafo si legge esplicitamente nel principio, dove
si chiarisce che sono rivendicati dal fisco i beni di coloro che, per la
coscienza delati admissique criminis [31], e per timore della
futura sentenza, si sono tolti la vita.
Ulteriori elementi, tuttavia, non sono da trascurare nell’idea
che Voltaire, per amore di tesi, abbia intenzionalmente semplificato una storia
complessa come è quella del suicidio in età romana. Anzitutto, egli aveva sotto
gli occhi le parole, che certamente ha letto, dell’abate di Saint-Cyran[32] dove quest’ultimo cita
Tacito[33] e la sua iconica
ricostruzione dei tempi in cui l’affrettare la morte prima della sentenza
garantiva l’intangibilità del patrimonio. Inoltre, non è improbabile che egli
abbia letto il titolo 21 del libro 48 del Digesto (frammento 3), dedicato anche
al suicidio, perché risulta che la sua copia del Digesto riportava, in questo
luogo, un’annotazione[34].
Tali rilievi concorrono a ritenere che Voltaire conoscesse,
almeno per grandi linee, alcune tematiche repressive del suicidio in età romana
e che abbia deliberatamente omesso di parlarne. La sua citazione restituisce
un’istantanea della disciplina romana vera solo in parte.
Dunque, ignoranza di Voltaire o sua voluta omissione? Forse
entrambe. Egli aveva in mano gli strumenti per una corretta comprensione del
testo che ha scelto di riportare e avrebbe potuto godere dell’apporto del
giovane avvocato che lo assisteva con costanza e che (si può presumere) avrebbe
dovuto notare i distinguo posti nel rescritto. Ma, evidentemente, Voltaire non
era per nulla interessato ad una lettura attenta dello stesso, quanto ad una
citazione di un testo legislativo a cui attribuire, nell’asserito contenuto
permissivo, un perdurante valore. Il suo scopo, del resto, era opporre la luce
della «legge umana» dei Romani in materia di suicidio al diritto canonico che
aveva suggellato il divieto di sepoltura ecclesiastica.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione
Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
* L’articolo riproduce, con l’aggiunta di ulteriori riflessioni
ed approfondimenti, la relazione tenuta in occasione del convegno “Dei delitti e delle pene di Cesare
Beccaria e il diritto penale europeo moderno”, svoltosi a Villa Vigoni,
Menaggio (CO), dal 27 al 30 settembre 2016.
[1] E, di
conseguenza, il rifiuto di individuare una pena per l’estremo gesto, che
ricadrebbe su un corpo senza vita oppure sui parenti: «Il suicidio è un delitto
che sembra non poter ammettere una pena propriamente detta, poiché ella non può
cadere che o su gl’innocenti, o su di corpo freddo ed insensibile», scrive C. Beccaria, nel capitolo trentaduesimo,
dal titolo Suicidio, in Dei delitti e delle pene. Cfr. G. Francioni (a cura di), Cesare Beccaria, Dei delitti e delle
pene, in L. Firpo (diretta da), Edizione Nazionale delle Opere di Cesare
Beccaria, Volume I, Milano 1984, 103.
[2] A
Ginevra, a fine luglio. Il titolo completo
era Commentaire sur le livre des délits
et des peines par un avocat de province. Voltaire, nell’ottobre
del 1765, aveva ricevuto il volume Dei
delitti e delle pene di Beccaria in dono da un giovane scozzese, J.
Macdonald. L’opera di Beccaria aveva incontrato immediatamente la sua
approvazione. Poiché da molto tempo si spendeva per proporre una riforma
dell’ordinamento penale francese e partecipava con sdegno a numerose notizie di
atroci punizioni inflitte in quegli anni, Voltaire si mise all’opera e redasse
«un altro dei suoi libretti polemici da gettare nel vivo della battaglia»: il Commentaire. A quel che sembra, l’intenzione del filosofo era probabilmente
quella di far apparire quale autore del libretto l’assistente Christin, senza,
tuttavia, nominarlo direttamente. Cfr. la citazione e la ricostruzione di L. Firpo, Le edizioni italiane del «Dei delitti e delle pene», in L. Firpo,
(diretta da) Edizione Nazionale delle
Opere di Cesare Beccaria, I, G. Francioni
(a cura di), Cesare Beccaria, Dei
delitti e delle pene, I, cit., 476 ss., spec. 478, 484 (da cui abbiamo tratto
la citazione), 585 ss.
[3]
Voltaire certamente non si affacciava per la prima volta al tema del suicidio
nel 1765-1766: ne aveva già trattato nel 1739 (1729), (come messo in luce da R.
Pomeau, En marge des Lettres Philosophiques. Un essai de Voltaire sur le suicide, in Revue des
Sciences Humaines, 75 (Juillet-Septembre 1954), spec. 285-294)
e vi fa cenno in opere come Alzire e L’Orphelin de la Chine. Cronologicamente
successive al Commentarie, le Questions sur l’Encyclopédie (1770)
contengono una voce dal titolo De Caton,
du suicide, et du livre de l’abbé de Saint Cyran qui légitime le suicide,
che riporta stralci dallo scritto del 1739 (1729) nei sottoparagrafi Précis de quelques suicides singuliers e
Des lois contre le suicide.
Quest’ultimo si chiude riportando, interamente, il brano del Commentaire di cui ci occupiamo. Si
aggiunga anche l’articolo quinto – dedicato al suicidio e contenente gli stessi
spunti del paragrafo diciannovesimo del Commentaire
– dell’opera Prix de la justice et de
l’humanité (1777). Si ritrovano brani riguardanti il suicidio (ma non sono
ripresi i contenuti del paragrafo diciannovesimo del Commentaire) nel Dictionnaire
philosophique – ci si riferisce all’edizione postuma di Kehl del 1784 –, in
cui appaiono la voce Du Caton, du
suicide, et du livre de l’abbé Saint-Cyran qui légitime le suicide e la
voce Suicide, ou homicide de soi-même.
Il tema dell’omicidio di sé riaffiora anche in opere diverse, come nel suo
ultimo dramma, Irène. E con questa
citazione chiudiamo senza avere la pretesa dell’esaustività.
[4] La
letteratura dell’epoca in tema di suicidio è vastissima, e gli studi su di essa
tanto numerosi da non poter nemmeno essere citati per sommi capi. Si vedano, per l’avvio di ulteriori
letture, L. G. Crocker, The Discussion of Suicide in the eighteenth
Century, in Journal of the History of
Ideas, 13.1, 1952, 47-72; J. McManners,
Death and the Enlightenment: Changing Attitudes to Death among Christians and
Unbelievers in Eighteenth-Century France, Oxford 1981; Z. G. Cahn,
Suicide in French Thought from
Montesquieu to Cioran, New York 1998; P. L. Bernardini,
Le rive fatali di Keos. Il suicidio nella storia intellettuale
europea da Montaigne a Kant, Torino 2009, con ampia bibliografia; R.
A. Huston, Punishing the Dead? Suicide, Lordship, and Community in Britain,
1500-1830, Oxford 2010.
[5] Come
si è detto (cfr. nt. 3), il medesimo testo del paragrafo diciannovesimo conosce
un’identica proiezione nelle Questions
sur l’Encyclopedie ed accenni ai temi qui trattati sono inseriti nell’Article V. Du Suicide
del Prix de la justice et de
l’humanité, Londres 1777, 20-22.
[6] Segue
il testo completo del diciannovesimo paragrafo del Commentaire.
XIX. Du suicide.
Le fameux Duverger de Haurane, abbé de Saint-Cyran,
regardé comme le fondateur de Port-Royal, écrivit, vers l’an 1608, un traité
sur le suicide [Nota di Voltaire: Il fut imprimé in-12 à Paris, chez Toussaint
Dubray, en 1609, avec privilége du roi; il doit être dans la bibliothèque de Sa
Majesté], qui est devenu un des
livres les plus rares de l’Europe.
‘Le Décalogue, dit-il, ordonne de ne point tuer. L’homicide de
soi-même ne semble pas moins compris dans ce précepte que le meurtre du
prochain. Or, s’il est des cas où il est permis de tuer son prochain, il est
aussi des cas où il est permis de se tuer soi-même.
On ne doit attenter sur sa vie qu’après avoir consulté la
raison. L’autorité publique qui tient la place de Dieu peut disposer de notre
vie. La raison de l’homme peut aussi tenir lieu de la raison de Dieu, c’est un
rayon de la lumière éternelle’.
Saint-Cyran étend beaucoup cet argument, qu’on peut
prendre pour un pur sophisme. Mais quand il vient à l’explication et aux détails,
il est plus difficile de lui répondre. ‘On peut, dit-il, se tuer pour le bien
de son prince, pour celui de sa patrie, pour celui de ses parents’.
On ne voit pas en effet qu’on puisse condamner les Codrus
et les Curtius. Il n’y a point de souverain qui osât punir la famille d’un
homme qui se serait dévoué pour lui. Que dis-je? Il n’en est point qui osât ne
la pas récompenser. Saint Thomas avant Saint-Cyran avait dit la même chose.
Mais on n’a besoin ni de Thomas, ni de Bonaventure, ni de Haurane, pour savoir
qu’un homme qui meurt pour sa patrie est digne de nos éloges.
L’abbé de Saint-Cyran conclut qu’il est permis de faire
pour soi-même ce qu’il est beau de faire pour un autre. On sait assez tout ce
qui est allégué dans Plutarque, dans Sénèque, dans Montaigne, et dans cent
autres philosophes, en faveur du suicide. C’est un lieu commun épuisé. Je ne
prétends point ici faire l’apologie d’une action que les lois condamnent, mais
ni l’Ancien Testament ni le Nouveau n’ont jamais défendu à l’homme de sortir de
la vie quand il ne peut plus la supporter. Aucune loi romaine n’a condamné le
meurtre de soi-même. Au contraire, voici la loi de l’empereur Marc-Antonin, qui
ne fut jamais révoquée.
‘[Nota
di Voltaire: Leg. I, Cod. lib. IX, tit.
I. De Bonis eorum qui sibi mortem, etc.] Si votre père ou votre frère n’étant prévenu d’aucun crime, se tue ou
pour se soustraire aux douleurs ou par ennui de la vie ou par désespoir ou par
démence, que son testament soit valable ou que ses héritiers succèdent par intestat’.
Malgré cette loi humaine de nos maîtres, nous traînons
encore sur la claie, nous traversons d’un pieu le cadavre d’un homme qui est
mort volontairement; nous rendons sa mémoire infâme. Nous déshonorons sa
famille autant qu’il est en nous. Nous punissons le fils d’avoir perdu son
père, et la veuve d’être privée de son mari. On confisque même le bien du mort;
ce qui est en effet ravir le patrimoine des vivants, auxquels il appartient.
Cette coutume, comme plusieurs autres, est dérivée de notre droit canon, qui
prive de la sépulture ceux qui meurent d’une mort volontaire. On conclut de là
qu’on ne peut hériter d’un homme qui est censé n’avoir point d’héritage au
ciel. Le droit canon, au titre De Pœnitentia, assure que Judas commit un plus grand
péché en s’étranglant qu’en vendant notre Seigneur Jésus-Christ.
Il testo da noi riportato è tratto da Œuvres complètes de Voltaire, 61 A, Commentaire sur le livre Des délits et des
peines, Oxford 2012, 144-146; cfr. anche la precedente
edizione, a cui solitamente si rimandava, ossia Œuvres
complètes de Voltaire, 25, Mélanges, IV, Paris 1879, 567-569. Per una traduzione italiana, v. R. Fubini (a cura di), Voltaire.
Scritti politici, Torino 1964, 638-640.
[7] Benché rara all’epoca di Voltaire, l’opera dell’abate è
ora facilmente reperibile online nell’edizione Question Royale et politique, avec sa décision, Où il est montré en
quelle extrêmité, principalement en temps de paix, le Sujet est obligé de
conserver la vie du Prince aux dépens de la sienne propre, par J. Du Verger de Hauranne, Abbé de S. Cyran, A Paris, (…) 1608.
L’origine della trattazione è ricavabile da
più parti; citiamo l’efficace sunto sotto la voce Verger de Hauranne (Jean de), Abbé de St. Cyran, in Table Raisonnée Et Alphabetique Des
Nouvelles Ecclésiastiques (…), Seconde Partie, s. l. 1767, 996: «Cet
Ouvrage, occasionné par Henri IV demandant aux Seigneurs de sa Cour ce qu’il
seroit devenu si perdant la bataille d’Arques (qu’il gagna) il eût été réduit á
se jetter dans un vaisseau sans provisions: réponse d’un Seigneur, de s’être
tué lui-même, afin que le Roi en le mangeant pût conserver sa vie:
sollecitations du Comte de Cramail pour porter le jeune Verger de Hauranne á
chercher des raisons plausibles pour appuyer la pensée de ce Seigneur».
L’opera è, infatti, volta alla giustificazione di un particolare
tipo di suicidio, ossia quello compiuto per salvare la vita del monarca e per
la sicurezza della cosa pubblica. L’abate individua tre categorie di azioni che
ripugnano alla ragione: la prima è quella delle azioni intrinsecamente malvage;
la seconda comprende le azioni che si possono definire sempre malvage, tranne
se compiute in caso di estrema necessità; la terza, le azioni che possono dirsi
cattive solo se considerate in se stesse, e non alla luce delle circostanze
che, se presenti, imprimono loro l’onestà della virtù morale. Tra queste ultime
rientrano l’omicidio e il suicidio. Ciò posto, vi sono casi speciali: un
particolare fine che potrebbe rendere giustificabile e virtuoso l’omicidio di
sé è l’esservi obbligati per il bene del principe e della cosa pubblica. L’uomo
è per natura soggetto a tre forze che lo governano (l’etica, l’economia, la
politica) e che lo rendono, rispettivamente, un buon uomo, un buon padre di
famiglia, un buon cittadino e buon suddito. Mentre un buon padre di famiglia
giungerebbe ad uccidersi per il bene della moglie, dei figli e anche del
patrimonio famigliare, qualora ci si trovasse a dover scegliere tra la propria
vita e quella del capo dello Stato, si sarebbe obbligati a preferire la
seconda. La ragione è l’immagine di Dio, scrive l’abate, e la ragione, che la
fede rende perfetta, aiuta l’uomo a considerare nella giusta luce la decisione
di togliersi la vita per il bene del principe. A favore di tale scelta, l’abate
espone varie argomentazioni.
[9]
Voltaire si riferisce all’abate chiamandolo «Duverger de Hauranne, abbé de
Saint-Cyran», «Saint-Cyran», «abbé de Saint-Cyran», oppure «Hauranne», mentre
l’edizione dell’opera dell’abate da noi consultata riporta «J. Du Verger de
Hauranne, abbé de S. Cyran». Da parte nostra, utilizzeremo “Duverger de
Hauranne”, oltre ad “abate di Saint-Cyran”. Riguardo al personaggio, si possono citare diversi studi,
tra cui J.
E. E. Laferrière, Étude sur
Jean Duvergier de Hauranne, abbé de Saint-Cyran (1581-1643), Louvain 1912;
J. Orcibal, Jean Duvergier de
Hauranne, abbé de Saint-Cyran, et son temps, 1581-1638, 2 voll.,
Louvain 1947-1948; Id. Saint-Cyran et le jansénisme,
Paris 1961.
[10] L’originale del passo in nt. 6. Scrive, infatti, l’abate
di Saint-Cyran: «Et premierement, au commandement que Dieu a donné de ne tuer
point, n’est pas moin compris le meurtre de soy-mesme que celui du prochain».
Cfr. J. Du Verger de Hauranne, Question Royale et politique, avec sa
décision, cit., 8-9.
[11] Per il
testo francese, cfr. nt. 6. «Il
arrive des circonstances qui donnent droit, & pouvoir à l’homme de tuer son
prochain. Il en pourra donc arriver d’autres qui luy donneront pouvoir de se
tuer soy-mesme, sans enfreindre le mesme commandement». Cfr. J. Du Verger de Hauranne, Question Royale et politique, avec sa
décision, cit., 9.
[12] Si
veda il testo originale in nt. 6. Forse
Voltaire si riferisce a ciò che è affermato nel seguente periodo: «Ce n’est
donc pas de nous mesmes, ny de nostre propre authorité, que nous agirons contre
nous mesmes: & pius que cela se doit faire honnestement & avec une
action de vertu, ce sera par l’adueu & comme par l’enterinement de la
raison». Cfr. J. Du Verger de Hauranne, Question Royale et politique, avec sa décision, cit., 16.
[13] Cfr. nt. 6. «Et tout ainsi que la chose publique tient
la place de Dieu, quand elle dispose de nostre vie, la raison de l’homme en cet
endroit tiendra le lieu de la raison de Dieu, & comme l’homme n’a l’estre
qu’en vertu de l’estre de Dieu, elle aura le pouvoir de ce faire, pour ce que
Dieu le luy aura donné, & Dieu le luy aura donné, pour ce qu’il luy a desia
donné un rayon de la lumiere eternelle, afin de iuger de l’estat de ses actions
qui estant comme une parcelle d’un tout uniforme, opere par la mesme forme que
son tout, & ne peut nullement iuger des choses conformément à son idée,
qu’elles n’ayent autant ou plus de conformité à la premiere idée, d’où elles on
esté extraictes, & d’où la science mesme derive, comme l’image de son
modelle». Cfr. J. Du Verger de Hauranne, Question Royale et politique, avec sa
décision, cit.,16-17.
[14] Alla
nt. 6 il testo francese. Se non andiamo errati, non vi è uno specifico punto in
cui questa frase è citata nel volume dell’abate di Saint-Cyran; essa
rappresenta quasi una sintesi di più frammenti. Cfr. J. Du Verger
de Hauranne, Question Royale et
politique, avec sa décision, cit.,17: «Mais pour mettre en avant quelque
particuliere fin qui puisse iustifier ceste action & la rendre vertueuse,
ie dis qu’il peut arriver que l’homme y sera obligé pour le bien du Prince
& de la chose publique, pour divertir par sa mort les maux qu’il prevoit
asseurément devoir fondre sur elle s’il continuë de vivre». Cfr. J. Du Verger de Hauranne, Question Royale et politique, avec sa
décision, cit., 30: «Mais pour monstrer encores, outre ce que i’en ay desia
dit, l’obligation du pere envers les enfants, comme à l’opposite de celle des
enfans envers les peres: ie croy que sous les Empereurs Neron et Tibere ils
estoient obligez de se tuer pour le bien de leur famille et de leurs enfans
(…)».
[15] Cfr.
nt. 6. Per Codro, principalmente Lycurg. Leocr.,
84-87; sulla vicenda di Curzio, Liv. 7.6.1-6.
[16] Cfr.,
in riferimento a S. Tommaso d’Aquino, Summa
Theologica, II-II, questione 64, articolo 5. Il filosofo ne discute,
infatti, nella quaestio “Utrum alicui
liceat seipsum occidere”. Sono cinque gli argomenti che potrebbero essere
avanzati per sostenere la liceità dell’omicidio di sé: 1) l’omicidio è un
peccato perché è contrario alla giustizia, ma, siccome nessuno può essere
ingiusto con se stesso, nessuno pecca uccidendo se stesso; 2) chi esercita un
pubblico potere può uccidere i malfattori, e se accade che egli stesso sia un
malfattore, può uccidere se stesso impunemente; 3) come è lecito esporsi
spontaneamente a un pericolo minore per evitarne uno peggiore, così è lecito
uccidersi per evitare una vita di miseria o la vergogna di un peccato; 4)
Sansone è ricordato tra i santi e si uccise (Gc 16,30); dunque il suicidio può
essere lecito; 5) Razis si uccise per morire nobilmente piuttosto che divenire
schiavo degli empi e subire oltraggi indegni (1 Mac 14,41); ciò che si compie
con nobiltà e con coraggio non è illecito, perciò il suicidio non è illecito.
Queste apparenti giustificazioni non sono accettate da San Tommaso, che le
rigetta costruendo le relative argomentazioni su tre motivi: 1) il suicidio è
illecito perché contrario alla legge naturale per cui ogni uomo ama se stesso e
tende alla conservazione di sé; 2) il suicidio è illecito perché, uccidendosi,
l’uomo fa un torto alla collettività di cui fa parte; 3) il suicidio è illecito
perché la vita è un dono di Dio che rimane in suo potere, perciò chi priva se
stesso della vita pecca contro Dio.
Per quanto riguarda San Bonaventura, il probabile riferimento è
al Lignum Vitae, 20, in cui è
deplorato il suicidio per disperazione di Giuda: «(…) cum et ille impiissimus
Judas poenitentia ductus, tanta postmodum fuerit ex hoc amaritudine repletus,
ut maluerit mori, quam vivere? Vae tamen homini illi, qui nec sic ad fontem
misericordiae per spem veniae rediit, sed proprii sceleris immanitate
perterritus desperavit».
[17] Cfr.
nt. 6. Non siamo riusciti a rintracciare, nell’opera dell’abate di Saint-Cyran,
alcun riferimento testuale a queste parole riporate da Voltaire.
[18] Per il
testo originale, v. nt. 6. Plutarco riferisce, nei Moralia, dei suicidii di massa delle giovani di Mileto (Plutarch. De Mul. Virt., Mor. 249)
e nelle Vite Parallele del suicidio
di Catone (Plutarch. Cat. Mi., 67-70); M. de Montaigne,
negli Essais, dedica una riflessione
apologetica al suicidio nel Coutume de
l’Ile de Cea (Livre II, Chapitre III); Seneca parla dell’omicidio di sé in
vari luoghi, ad esempio Sen. epist. 70 ed epist. 77.
[22] Anche
se non è questa la sede per approfondire, segnaliamo che il riferimento alle
macabre pene infamanti (trapassare con un palo, trascinare sul graticcio) è
stato frequentemente rimosso nelle edizioni italiane del passato; ad esempio,
tra quelle da noi consultate, in Dei
Delitti E Delle Pene, Edizione
Novissima, In Quattro Tomi Ridotta,
Di nuovo corretta ed accresciuta coi
commenti del Voltaire, (…) Tomo Primo, Bassano 1789, 219; Dei Delitti E Delle Pene del Marchese Cesare
Beccaria, Con l’aggiunta di d’un Esame critico dell’Avv:to Aldobrando Paolini (…),
Firenze 1821, 56; Dei Delitti E Delle
Pene di Cesare Beccaria Coi Commenti di Varj Insigni Scrittori, (…),
Livorno 1828, 260.
[24] Cfr. sul punto i rilievi di F. Quastana, De bon
usage du droit romain: Voltaire et la reforme des legislations civile et penale,
in C.
Bruschi, Les représentations du droit romain en Europe aux Temps modernes. Collection
d’Histoire des institutions et des idées politiques, Marseille 2007, 228-
230.
[25] Il
divieto, già anticamente affermato nei canoni conciliari, passa nel Decretum Gratiani e rimane in vigore per
lungo tempo (fino alla riforma del Codex Iuris Canonici avvenuta nel 1983).
Cfr. Decreti Secunda Pars, Causa XXIII, Questio V, c. 12: Nulla fiat pro illis oratio, qui se ipsos interficiunt. Item ex
Concilio Bracarensi. [I., c. 34.] Placuit, ut hii qui sibi ipsis voluntarie
aut per ferrum, aut per venenum, aut per precipitium aut per suspendium, vel
quolibet modo inferunt mortem, nulla pro illis in oblatione conmemoratio fiat,
neque cum psalmis ad sepulturam eorum cadavera deducantur. Multi enim sibi hoc
per ignorantiam usurpant. Similiter et de his placuit fieri, qui pro suis
sceleribus moriuntur. (…).
[26] Cfr.
il paragrafo terzo (PL 54, col. 320).
In altri luoghi dei suoi Sermones in
Passione Domini, Leone richiama la figura di Giuda, ma, se non andiamo
errati, non c’è traccia dell’affermazione riportata da Voltaire.
Precisiamo che l’idea di Voltaire si riscontra anche altrove in
letteratura, ma, ci sembra, in un tempo successivo a quello del filosofo: ci
riferiamo ad esempio alla sintesi del pensiero di Leone proposta nelle Opere di P. G. Ventura da Raulica, Omilia Diciassettesima. La disperata fine di
Giuda, I, Napoli 1856, 244: «Come peccò nell’interesse della sua avarizia, così non si pentì
che nell’interesse del suo orgoglio. E peccatore e penitente, Giuda fu sempre
l’idolo di sé stesso. La sua penitenza adunque, dice S. Leone, offese più Iddio
che lo stesso suo peccato; fu essa un peccato novello, ed il maggiore di tutti
i peccati: Tam perversa impii poenitentia
fuit, ut etiam poenitendo peccaveret (Sermo 5 de Pass.) e perciò questa
penitenza, invece di cancellar la sua colpa, l’aggravò e vi pose il colmo».
[27] H. G. Migault,
nell’opera Eight Historical Dissertations
in Suicide, chiefly in reference to Philosophy, Theology and Legislation,
First Section. Christianity, Heidelberg 1856, 34, rintracciava nel passo
indicato il riferimento di Voltaire, ma notava altresì che il diritto canonico
non pone affatto la questione nei termini descritti dal filosofo.
[28] Va
innanzitutto notato che gli studiosi si sono interrogati, pervendendo a poco
più che ad ipotesi, circa il ruolo svolto, in occasione della composizione del Commentaire, dall’assistente Christin,
il «consulente legale» di Voltaire, nel recepimento e nell’inserimento di
riferimenti giuridici, fossero di diritto contemporaneo o meno. Come si è
accennato, era intenzione di Voltaire far credere che il Commentaire fosse opera di un giovane avvocato di provincia, ossia
Christin, come scrive esplicitamente in alcune sue lettere. A Christin,
Voltaire «chiede informazioni in materia di pubblica finanza, di leggi romane,
di diritto ecclesiasico e soprattutto (…), in tema di giurisprudenza penale»:
così L. Firpo, Le edizioni italiane del «Dei delitti e
delle pene», op. cit., 485-486. Per alcune notizie su C.- G. F. Christin, cfr.
la voce in C. Weiss, Biographie universelle ancienne et moderne,
VIII, Paris 1813, 476; I. O. Wade,
The Search for a New Voltaire, 3, Voltaire and Christin, Transactions of
the American Philosophical Society, 48, 4, Philadelphia 1958, 86-94; la voce di
B. Prévost, in Dictionnaire de biographie française,
Tome VIII, Paris 1959, col. 1290.
[29] La
dottrina romanistica si è occupata spesso di suicidio: cfr. Th. Thalheim, s. v. Selbstmord, in RE, II, A
1, 1921, col. 1134 ss.; E. Volterra,
Sulla confisca dei beni dei suicidi,
in Rivista di storia del diritto italiano,
6, 1933, 393-416 (= Scritti giuridici,
VII, Napoli 1999); D. Daube, Suicide, in Studi G. Grosso, IV, Torino 1971; P. Veyne, Suicide, fisc,
esclavage, capital et droit romain, in Latomus
40, 1981, 217-268, tr. it. Suicidio,
fisco, schiavitù, capitale e diritto romano, in La società romana, Bari 1990; A. Wacke,
Der Selbstmord im römischen Recht und in
der Rechtsentwicklung, in ZSS 97,
1980, 26 ss.; Y. Grisé, Le suicide dans la Rome antique,
Montréal-Paris 1981; A. J. L. Van Hooff,
From Autothanasia to Suicide. Self-killing
in Classical Antiquity,
London-New York 1990; A. D. Manfredini,
Il suicidio. Studi di diritto romano,
Torino, 2008; M. Frantzen, Mors
voluntaria
in reatu. Die
Selbsttötung im klassischen römischen
Recht, Göttingen 2012. Per
il noto caso di Pisone, recentemente oggetto di particolare attenzione, cfr. il
testo di W. Eck, A. Caballos, F.
Fernández, Das Senatus Consultum de Cn. Pisone Patre, Munich 1996; A. Caballos, W. Eck, F. Fernández, El Senatus consultum
de Cn. Pisone patre,
Sevilla 1996; per un commento e una ricca bibliografia, v. F. Lamberti,
Questioni aperte sul SC. De Cn.
Pisone patre, in Studi in onore di
Francesco Grelle, Bari 2006, 139-148.
[30] Secondo parte della dottrina (cfr. R. Bauman, Lawyers
and politics in the early Roman Empire. A study of relations
between the Roman jurists and the emperors from Augustis to Hadrian, München 1989, 279), la
regola generale era addirittura la sanzionabilità di ogni suicidio, perché
l’estremo gesto avrebbe fatto immancabilmente scattare la presunzione di
colpevolezza, anche se non pendeva nessuna accusa. Cfr. A. D. Manfredini, Il suicidio. Studi di diritto romano, cit., 77 ss.
[31]
Confessato o commesso? Cfr. A.D. Manfredini,
Il suicidio. Studi di diritto romano,
cit., 112-114. Sulla possibilità degli eredi di provare l’innocenza del suicida
dall’accusa per cui era processato, senza che fosse intervenuta alcuna causa di
giustificazione della morte volontaria, v. ancora A. D. Manfredini, Il
suicidio. Studi di diritto romano, cit., 97-99.
[32] L’abate J. Du
Verger de Hauranne, Question
Royale et politique, avec sa décision, cit., 30-31, scrive: «Mais pour
monstrer encores, outre ce que i’en ay desia dit, l’obligation du pere envers
les enfants, comme à l’opposite de celle des enfans envers les peres: ie croy
que sous les Empereurs Neron & Tibere ils estoient obligez de se tuer pour
le bien de leur famille & de leurs enfans: car c’estoient sous ces tyrans
un usage ordinaire d’envoyer un tribun, ou un centenier, afin de denoncer la
derniere necessité aux plus illustres Senateurs & chef de famille, qui
n’avoient point d’autre crime que la reputation publique de leur integrité,
& quant à ceux qui obeissoient & qui prevenant la mort se la donnoient
de leur propre main, leur testamens demeuroient & sortoient leur entier
effet, les funerailles leur estoient faites avec autant de pompe &
d’honneur que s’ils fussent morts d’une mort naturelle sans estre condamnez,
qui estoit le pris & la recompence, comme dit Tacite, de ceux qui se
hastoient de mourir». Essi sceglievano, scrive l’abate, «une mort plus douce». Il
richiamo potrebbe aver sollecitato alcune ricerche da parte di Voltaire?
[33] Forse
l’abate di Saint-Cyran pensava all’episodio che ebbe a protagonista Pomponio
Labeone, vissuto sotto Tiberio. Si veda Tac. ann. 4.30.2: At Romae caede
continua Pomponius Labeo, quem
praefuisse Moesiae rettuli,
per abruptas venas sanguinem effudit; aemulataque est coniunx Paxaea. Nam
promptas eius modi mortes metus carnificis faciebat, et quia damnati publicatis
bonis sepultura prohibebantur,
eorum qui de se statuebant humabantur corpora, manebant
testamenta, pretium festinandi. Il “compenso nell’affrettare la propria morte” non è soltanto la
garanzia di ricevere una sepoltura, ma altresì la certezza di lasciare agli
eredi il patrimonio famigliare intatto, evitando la confisca. Sull’utilizzo
“antifiscale” del suicidio, cfr. A.D. Manfredini,
Il suicidio. Studi di diritto romano,
cit., 43 ss.
[34] Voltaire
possedeva un’edizione del corpus iuris
civilis, e, in margine a D. 48.21, De
bonis eorum, qui ante sententiam vel mortem sibi consciverunt (…), egli
aveva appuntato la parola “suicide” (cfr., per i tutti riferimenti, l’edizione
curata da N. Cronk - M. Mervaud, Questions sur l’Encyclopédie, par des amateurs, 3, Oxford 2008,
534, nt. 36).