Oltre il fiume Oceano.
Uomini e navi romane alla conquista della
Britannia[1]
ATTILIO
MASTINO – Ordinario Università di Sassari
Già Rettore dell’Ateneo Turritano (novembre 2009-ottobre 2014)
Ad Alberto Merler
con viva amicizia
Ho
avuto modo di presentare recentemente a Stintino al Museo MUT il volume
dell’Ammiraglio Cristiano Bettini (Oltre il fiume Oceano. Uomini e navi romane
alla conquista della Britannia. Il modello di proiezione romano alla prova
d’Oltremare raccontato da un marinaio, Roma 2016): parlare di
navigazione oceanica, a due passi dall’isola d’Eracle, significa partire dalla
rotta seguita dai naviganti greci e cartaginesi verso il favoloso occidente
mediterraneo oltre le Bocche di Bonifacio del Fretum Gallicum verso la Gallia Narbonense e in direzione delle
colonne d’Ercole, verso l’Oceano. E ricordare che il toponimo Fretum Gallicum è utilizzato in età
romana per indicare anche il canale della Manica. Soprattutto significa partire
dai misteriosi mostri marini che abitavano il mare Sardum tra la
Sardegna e la Corsica, le due grandi vere isole del Mediterraneo, collocate per
i Romani al di là del grande mare; infine richiamare la dimensione dell’ecumene
inizialmente sulle rive di quel Mare
Nostrum che nella sua denominazione originaria greca (par’emin thalasse) era priva di quell’odioso senso “proprietario” e
“imperialista” che le si vorrebbe attribuire e che le è stato attribuito in
passato (F. CASSANO, Il pensiero
meridiano, Laterza 2005); soprattutto significa uscire da quel mare
interterraneo sul quale per Platone abitavano uomini come formiche o rane sulle
sponde di uno stagno o di una palude (P. RUGGERI, Mare Nostrum nella tradizione storico-letteraria greca e romana. In
AA. VV., Identità del Mediterraneo:
elementi russi [XXXI Seminario per la Cooperazione mediterranea, Carbonia,
18-20 novembre 2010], Cagliari 2010, 399-417). Significa affrontare l’Oceano,
affacciarsi in campo aperto, cercare nuove rotte, seguir con l’Ulisse di Dante virtute e canoscenza, «perché fatti non foste
a viver come bruti» (Inf. XXVI,
112-120).
Questo
libro dell’Ammiraglio di squadra Cristiano Bettini, già Sottocapo di Stato
Maggiore della Difesa dal 2011 al 2013 (con un curriculum davvero importante e
di tutto rispetto) vede la luce e viene presentato a pochi mesi dalla
cosiddetta “Brexit”, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, in un
momento storico complesso in cui il tema dell’unità del Nord e del Sud
dell’Europa si pone davvero in primo piano. L’autore conosce i luoghi di cui
parla, è stato per alcuni anni addetto militare italiano alla nostra ambasciata
di Londra ed è consapevole di come «il modello politico, militare e sociale
romano» sia ancora centrale nella cultura britannica.
Il
titolo del libro edito da Laurus evoca uno dei grandi temi dell’immaginario
geografico e storico del mondo antico: l’Oceano, inteso nelle rappresentazioni
più antiche, come un fiume che circonda la terra e il cielo. Nel diciottesimo
canto dell’Iliade, Efesto forgia per l’eroe greco Achille uno scudo sulla cui
superficie sono rappresentate cinque zone nelle quali sono distribuiti la
terra, il cielo, il mare, il sole, la luna i segni celesti; vengono poi
raffigurati gli spazi fisici della terra: i campi arati e i mietitori, le
vigne, i pascoli e due città, una con l’agorà nella quale è riunito il demos (il popolo), l’altra circondata da
due eserciti. L’intero complesso della rappresentazione forgiata, dal fabbro
dall’inclita arte, figura circondata dal fiume Oceano. L’Oceano non è
interconnesso con gli elementi dello scudo, esso è «l’insieme delle acque
primordiali, una presenza cosmica, un essere divino dal quale hanno origine
tutte le acque ed in particolare i fiumi terrestri. È in qualche modo la
riserva freatica del mondo e la sua cintura. Come tale non può essere realmente
conosciuto ed esplorato se non allegoricamente» (S. MAGNANI, Geografia storica del mondo antico,
Bologna 2003). Il passaggio dal mito alla geografia e alla storia avviene nel VI
secolo a.C. con Anassimandro di Mileto; sulla sua rappresentazione in piano
dell’ecumene (pínax), l’Oceano
esterno circonda il mondo allora conosciuto con i tre continenti affacciati sul
Mediterraneo, Europa, Asia e Africa. Ciò porta all’abbandono delle
caratteristiche mitico-cosmologiche e l’Oceano diviene un elemento geografico
che, nella cartografia del filosofo di Mileto, disegna i contorni della terra
emersa. Ad una modernizzazione del concetto di oikouméne ha dato poi un contributo decisivo, nella seconda metà
del IV secolo, l’astronomo e matematico Pitea di Marsiglia che ha compiuto un
viaggio, mai prima realizzato da alcuno, confluito nell’opera Perì Okeanoû (di cui ci sono giunti
pochi frammenti e testimonianze indirette) lungo le coste oceaniche
dell’Europa, da Cadice passando per l’Armorica e le isole Casseritidi, toccando
le isole Britanniche per giungere sino all’isola di Thule (dirimpetto alle
coste della Norvegia meridionale), situata, secondo Pitea, a circa sei giorni
di navigazione dalla Britannia in direzione nord ad una latitudine
approssimativa di 66°, laddove si realizzava la coincidenza tra il circolo
artico e il tropico estivo: «dove il limite astronomico e geografico dello
spazio abitabile… coincide con quello fisico e filosofico tra la sfera
terrestre e quella lunare, tra il nostro mondo e l’Aldilà» (S. MAGNANI, il viaggio di Pitea sull’Oceano, Bologna
2002). Pitea descriveva questo mare come «un misto confuso e sospeso tra terra
e acqua, un paesaggio spettrale e nebbioso, quasi lunare, dove il solstizio
d’inverno dura sei mesi e negli altri la notte è breve, anche due o tre ore,
mentre il sole né tramonta né sorge, ma semplicemente passa all’orizzonte»
(CORRADO PETROCELLI nella Postfazione),
direi rotola lungo l’orizzonte. Attraverso l’esperienza diretta di un viaggio,
Pitea ha dimostrato che se alcune popolazioni vivevano in condizioni difficili
a quelle latitudini, il punto terminale dell’oikouméne andava spostato, conferendo «al limite astronomico il
valore di confine dell’ecumene» e trasferendone «il significato ad un piano
geografico e cartografico». (S. MAGNANI, Da
Massalia a Thule. Annotazioni
etnografiche piteane, in Dall’Indo a
Thule: i Greci, i Romani e gli altri, a cura di A. Aloni - L. de Finis,
Trento 1996).
Ovviamente
il pragmatismo di Pitea di Marsiglia ma soprattutto l’oggetto delle sue
esplorazioni, le coste oceaniche dell’Europa, si attagliano perfettamente allo
scopo di questo libro dell’ammiraglio Bettini: egli da marinaio, per formazione
e vocazione si sente portato da una parte all’azione e dall’altra allo studio
dei piani attraverso i quali l’azione può concretizzarsi; anzitutto i piani
strategici che passano anche attraverso quel modello che Vittorio Emanuele
Parsi, nella Prefazione al libro,
definisce di «expeditionary», ossia un dispositivo militare costituito da forze
armate rapidamente proiettabili con un equilibrio fra «rapidità dello
spiegamento e consistenza» (ovvero caratterizzato «dalla intrinseca capacità di
proiettarsi ed operare con continuità in teatri esterni e distanti», ormai
assolutamente necessario a causa della multidirezionalità delle minacce
mondiali).
Il
“caso Britannia” rappresenta per Bettini un esempio di conquista e
provincializzazione romana paradigmatico, in un’area rimasta periferica sino
alla prima metà del I secolo d.C. e considerata ai confini dell’oikouméne: anche dopo la costituzione
della provincia nel 43 durante il principato di Claudio, le opere di
fortificazione promosse tra la prima e la seconda metà del II secolo d.C. dagli
imperatori Adriano e Antonino Pio, note come Vallo di Adriano e Vallo di
Antonino mostrano la necessità di proteggere la provincia a Nord attraverso un limes “pesante” che isolava la Britannia
dalla Caledonia e dalle incursioni dei Pitti. Dunque ambiente e soprattutto
popoli che continuarono a mantenersi ostili ben oltre la seconda metà del II
secolo d.C.
L’effetto
propagandistico che poteva avere una spedizione di conquista in Britannia si
coglie con precisione se si analizzano i prodromi della conquista claudiana, un
secolo prima con Cesare. Questi nel 55 a.C. compì una sorta di prima
ricognizione nelle terre al di là del Fretum
Gallicum (il Canale della Manica), muovendo con navi e uomini da Portus Itius probabilmente Boulogne (la
futura Gesoriacum) (Passo di Calais)
verso la costa est del Kent, in prossimità di Walmer o Deal, a Sud della foce
del Tamigi: tale ricognizione, che non portò ad alcun risultato concreto dal
punto di vista delle acquisizioni territoriali, fu oggetto di una vera e
propria glorificazione da parte del Senato che decretò venti giorni di feste e
celebrazioni pubbliche a Roma; la stessa eco ebbe la seconda “spedizione” del
54 a.C. con più uomini e mezzi che condusse al raggiungimento di una serie di
alleanze diplomatiche con le popolazioni locali, pur in assenza di vere e
proprie conquiste territoriali.
A
Cristiano Bettini va dato merito di esaminare con precisione da “navarco”,
laddove le fonti lascino spazi all’incertezza, l’adeguatezza o compatibilità
dei porti di partenza e di quelli d’approdo delle navi di Cesare, il perché
Dover a causa dell’aspra e impervia scogliera, i Cliffs, fosse inadatta all’approdo delle navi romane e nella prima
spedizione si fosse preferito Walmer (o Deal) e nella seconda Wantsum, sempre
presso la costa est del Kent. Ciò rileva da parte di Bettini una profonda
conoscenza del territorio e soprattutto, come chi opera in marina ben sa, la
consapevolezza che mare e terra, geografia marittima e terrestre sono strumenti
unitari e imprescindibili per qualunque operazione militare. In questo senso le
spedizioni cesariane vengono descritte con dovizia di particolari tratti da
fonti autoptiche (in primo luogo Cesare nel De
Bello gallico), con un’attenzione al rapporto tra mezzi navali – lunghe
navi da guerra (naves longas), navi
onerarie entrambe dotate di soldati con fionde (frombolieri), frecce (sagittari) e con macchine da lancio – e
truppe da sbarco. Consapevole delle abilità strategiche del grande Cesare,
scrive Bettini: «Si tratta, in fondo, di un uso moderno della flotta a
copertura dei “marines” che sbarcano, attuato anche con macchine da lancio,
come balestre, lancia-giavellotti e, forse, catapulte imbarcabili, che davano
una copertura tra 300 e 1000 metri circa. Anche le unità più piccole da
esplorazione, gli speculatoria navigia
ed i tender delle navi militari, scaphae,
collaborarono nel trasportare i legionari a terra più rapidamente perché i
primi a sbarcare non venissero sopraffatti». Il ritardo (nella prima
spedizione) nell’arrivo delle navi che trasportavano la cavalleria, lo
scoppiare di una tempesta, con il mare in burrasca, forse a forza 8-9, lo
sconquasso delle navi da trasporto con le ancore che dovettero cominciare ad
arare in rada, scontrandosi le une con le altre, suggeriscono al nostro autore
che Cesare avesse comunque imparato a proprie spese «che ormeggiare le navi
come in Mediterraneo, non era fattibile e sicuro nei mari del nord».
Nella
bella Postfazione, il mio amico
Rettore Emerito di Bari Corrado Petrocelli spiega benissimo i limiti delle due
spedizioni in Britannia di Cesare, ostaggio di informazioni imprecise e
intempestive: egli rivelò la Britannia a Roma ma non gliela lasciò in eredità.
Certo è
che l’ammiraglio Bettini spende parole lusinghiere nei confronti del valore di
alcuni capi delle popolazioni autoctone della Britannia come Commio, capo degli
Atrebati già elogiato da Cesare (l’A. analizza il problema dell’esistenza di
due capi tribali con lo stesso nome), mostrando di inserirsi appieno – per
venire al nostro oggi – nella politica delle forze armate italiane tendente a
stringere rapporti di parità sul piano culturale con le popolazioni locali, nel
pieno rispetto delle loro identità (due anni fa in Afganistan il colonnello
Cristiano Galli dell’Aviazione [Istituto di Scienze Militari Aeronautiche di
Firenze], inquadrato nella forza italiana coordinata dalla Brigata Sassari ha
sorprendentemente discusso con noi sul superamento dell’impostazione culturale,
che credevamo progressista, del volume di ALBERTO MARIO CIRESE: Cultura egemonica e culture subalterne del
1971).
Per
quanto riguarda gli eventi militari successivi ricorderemo alcuni progetti di
spedizione da parte di Ottaviano Augusto e la farsesca spedizione di Caligola
in prossimità del canale della Manica, con dispiegamento di truppe, baliste e
macchine e l’ordine imperale di: «raccogliere
le conchiglie e di riempirne gli elmi e le vesti, dicendo che quelle erano le
spoglie dell'Oceano dovute al Campidoglio e al Palatino. In ricordo della sua
vittoria fece costruire una torre molto alta, dove i fuochi dovevano brillare
tutte le notti, come sulla cella del Faro, per illuminare la rotta delle navi…»
(Svetonio, Calig., 46).
Ma la vera e propria conquista della Britannia
venne realizzata da Claudio a partire dal 43 d.C. Bettini sottolinea come,
anche in questa occasione, vi fossero resistenze da parte dei legionari, preda
del timore reverenziale e superstiziosi di fronte alla navigazione oceanica e
alla possibilità di essere spinti fuori rotta; del resto erano note le perdite
umane e di navi che avevano già caratterizzato la spedizione di Cesare,
ripetutesi poi nel 15 d.C. con Germanico nel Mare del Nord, in occasione della
navigazione dall’estuario del fiume Amisia (oggi Ems a E dell’Olanda) fino al
Reno. A questo proposito l’autore cita le parole del poeta Albinovanus (note
attraverso le Suasoriae di Seneca)
presente nella spedizione di Germanico, che ben sottolineano il terrore quasi
religioso provocato dalla navigazione nelle acque dell’Oceano. Solo la grande
perizia e autorevolezza di Aulo Plauzio, incaricato da Claudio di condurre la
spedizione in Britannia a fianco del popolo degli Atrebati messi in difficoltà
dai Catuvellani, pose fine alla rivolta dei legionari sulle coste
settentrionali della Gallia; occorre poi ricordare che in questa circostanza,
secondo la testimonianza di Cassio Dione, intervenne il liberto imperiale
Narcisso che come emissario di Claudio, riuscì a convincere le truppe ad
abbandonare le resistenze e a salpare per lo sbarco in Britannia. Le quattro
legioni romane: IX Hispana (comandata da Cn. Osidio Geta), II Augusta
(comandata da Vespasiano), XIV Gemina (comandata da T. Flavio Sabino), XX
Valeria Victrix (secondo Eutropio comandata da Cn. Saturnino, testimonianza del
IV sec. d.C. e di attendibilità incerta), fanti di marina e ventimila ausiliari
(tratti da Traci e Batavi), sbarcarono secondo alcuni a Richborough (l’antica Rutupiae) nel Kent, località
strategicamente eccellente per via del ridosso fornito dall’isola di Thanet
(ipotesi preferita da Bettini), secondo altri nel Sussex, nel Solent o
nell’Essex (ipotesi analizzate ma bocciate da Bettini), tra il 43 e il 51 d.C.:
restarono fino al 47 sotto la guida di Aulo Plauzio e successivamente di
Ostorio Scapula. Le truppe romane sconfissero i Catuvellauni di Verulamium
(guidati da Togodumno e Carataco) presso i fiumi Medway e Tamigi; poi valendosi
del sostegno dei Briganti della regina Cartimandua, Aulo Plauzio marciò su Camulodunum (Colchester) capitale dei
Catuvellauni, primo nucleo della provincia romana, dove fu raggiunto da Claudio
che per qualche settimana partecipò personalmente alla battaglia finale e
dichiarò avvenuta la conquista della Britannia. L’isola fu solo allora
costituita come provincia al cui governo fu preposto un legatus Augusti pro praetore di rango consolare.
Piero
Meloni, Giovanna Sotgiu e Guido Clemente nel lontano 1969 ci avevano portato,
studenti, a visitare le rovine Camulodunum, la fortezza del Marte celtico, con le
grandi sostruzioni del tempio del divo Claudio: ho un lontano ricordo di quel
viaggio indimenticabile. Oggi noi sappiamo che Colchester fu dedotta come colonia Vitricensis nel 49 d.C. e fu
espressione di una urbanizzazione modello: gli scavi hanno messo in luce il
podio del tempio per il culto imperiale, di matrice militare ma sempre
osteggiato dalle popolazioni locali. L’imperatore tornò a Roma nello stesso
anno e rifiutò decisamente il cognomen ex
virtute di Britannicus, che pure
entrò a far parte del nome del figlio suo e di Messalina Tiberio Claudio Cesare
Germanico, nato due anni prima: venne celebrato un imponente trionfo come
attesta l’iscrizione urbana sull’arco trionfale del 52 (CIL VI 920), dove Claudio viene onorato come vincitore di undici
re: [q]uod reges Brit[anniai XI devictos
sine] ulla iactura[a in deditionem acceperit] gentesque b[arbaras trans oceanum
primus] in dici[onem populi romani redegerit], ricostruita da Th. Mommsen
su Tacito Ann. 12.35 ss., con
riferimento all’eroismo di Ostorio Scapula: «le file dei Britanni si
scompigliavano, perché privi della difesa di elmi e corazze; e se tentavano di
resistere agli ausiliari, erano falciati dai gladi e dai pili dei legionari; se
affrontavano questi ultimi, cadevano sotto le lunghe spade e le aste degli
ausiliari. Quella vittoria fu splendida e caddero prigioniere la moglie e la
figlia di Carataco, mentre i suoi fratelli si arresero».
Seguendo
E. Luttwack (La grande strategia
dell’impero romano, Milano 2010),
Bettini definisce quella del 43 d.C., una spedizione per la conquista in
profondità, per la quale nei porti di Boulogne (Svetonio) come pure di
Ambleteuse vennero raccolti circa 40.000 uomini con l’aggiunta di un migliaio
di “addetti alla logistica” e schiavi, cavalli, e ingenti attrezzature,
macchine da guerra e rifornimenti: il numero di navi impiegate, secondo
l’autore può fissarsi tra le 900 e le 1000 unità: «il che rimane compatibile
con l’ipotesi di tre ondate sbarcate in successione sull’isola, tutte nella
stessa area (non necessariamente nello stesso luogo), come ritengo più
verosimile». Risulta davvero interessante il calcolo della quantità di
approvvigionamenti in grano per un lasso di tempo di circa tre mesi, 3500
tonnellate, cui andavano aggiunti quantitativi sufficienti di carne e vino per
i soldati, per garantire un’autonomia durante i mesi invernali della campagna
militare, quando il mare clausum
avrebbe impedito rinforzi e altri rifornimenti dalla Gallia attraverso la
Manica. Del resto andava poi considerato il foraggio per i circa 10.000 muli
necessari per i trasporti (pochi elefanti dice Bettini, con esigenze limitate).
Quanto allo sbarco presso Richborough, l’autore mostra come l’esperienza in
campo militare possa servire a inserirsi nel dibattito storiografico rispetto
ad una testimonianza controversa delle fonti, nello specifico Cassio Dione
(LX.9) che fa riferimento ad un frazionamento delle forze romane in tre colonne
e ciò avrebbe portato una buona percentuale degli storici britannici a ipotizzare
diversi punti di approdo della flotta ad es. Fischbourne e Chicester. In realtà
si sarebbe trattato di uno sbarco in tre ondate a poca distanza di ore l’uno
dall’altro, sempre nel tratto di mare che va da Richborough a Reculver, dovuto
alla necessità di non congestionare le operazioni di sbarco: «poiché la ritengo
la più plausibile militarmente» scrive Bettini che si cimenta, forte di un
efficace pragmatismo nella traduzione dal greco dello storico di epoca
severiana. «Plauzio suddivise le sue forze in tre ondate, in modo che sbarcando
in un’unica area non si ostacolassero nello sbarco». Per quanto riguarda Rutupiae-Richboroug poi vengono
analizzate le testimonianze archeologiche di epoca romana, quello che Bettini
chiama un fortilizio, con due muri paralleli di 640 metri, posti sulla sommità
del promontorio: attorno a questa costruzione militare difensiva sarebbe
successivamente sorto un villaggio a popolamento misto, soldati romani e
popolazioni romanizzate del Kent. Certo è che Bettini ritiene che Richborough
sia in breve tempo divenuto: «il principale hub
marittimo del sud-est della Britannia per lo smistamento delle merci».
All’importanza di questo porto d’imbarco andrebbe collegato il “tesoretto di
Bredgar” costituito da 37 aurei con l’effigie di Claudio, rinvenuto a Maidstone
nel Kent, forse sotterrato da militari o mercanti prima di imbarcarsi a
Richborough.
Il
concetto di conquista in profondità verso l’area di Camulodunum in un certo senso contrasta con il basso numero di
fortificazioni che sono state rinvenute nel sud-est della Britannia: ciò per
Bettini potrebbe significare che i popoli di quell’area dell’isola non
valutavano del tutto negativamente i Romani, forse consci del fatto che i veri
nemici per Roma erano Carataco e la coalizione dei Catuvellauni. L’autore
riporta che: «lo storico John Manley estremizza questo concetto con un’analogia
alla percezione da parte di quelle popolazioni, di un’odierna operazione di peacekeeping. Bird rinforza questo
concetto, affermando che i Romani inizialmente intendevano più combattere le
forze coalizzate che annettersi il territorio, perché i veri nemici erano a
nord del Tamigi (Catuvellauni) e ad ovest nel Dorset (Durotrigi)» (vd. J. MANLEY, AD 43. The Roman Invasion of Britain: A Reassessment, Tempus, Stroud
2002; D.G. BIRD, The Claudian Invasion
campaign reconsidered, in “Oxford Journal of Archaeology”, XIX, 2000,
91-104). Del resto tra il 45 e il 46, Vespasiano il futuro imperatore,
dovette sedare la rivolta degli Iceni mentre le campagne successive fecero
avanzare il confine tra i fiumi Severn e Hamber, sebbene anche dopo la cattura
di Carataco nel 51 e lo spostamento del confine fino ai Welsh Marsh (un luogo
imprecisato al confine tra Inghilterra e Galles): sappiamo che proprio il
Galles rimase costantemente in preda alle ribellioni, come pure lo Yorkshire,
il regno dei Briganti.
Un
risultato certamente importante e duraturo venne rappresentato dalla creazione,
in occasione della spedizione britannica di Claudio, forse nel 43, della Classis Britannica, la flotta di
supporto alla conquista, ormeggiata dapprima a Gesoriacum (Boulogne-sur-Mer) e destinata a durare anche dopo la
nascita della provincia romana per pattugliare il Fretum Gallicum, le acque prospicienti la Britannia e per lo
svolgimento di funzioni di rifornimento e logistiche. Già con Claudio la sede
della Classis venne spostata a Rutupiae (Richborough) e, dopo
l’istituzionalizzazione di questa flotta con i Flavi, essa fu trasferita
nell’85 d.C. a Portus Dubris (Dover),
con distaccamenti a Portus Lemanis (Lympne)
e Anderitum (Pevensey). Risulta assai
nota la circumnavigazione della Scozia, effettuata dalla Classis, negli anni in cui era governatore Giulio Agricola. La
Scozia poi venne attaccata anche dal mare nell’83 d.C.
La
grande rivolta degli Iceni della regina Boudicca, alla quale aderirono Londinium e Verulamium, a partire dal 60, culminò nel massacro dei coloni
romani di Camulodunum e fu sedata da
Svetonio Paolino, il sanguinario uccisore dei druidi rifugiati sull’isola di
Mona, oggi Anglesey; in età Flavia riprese l’avanzata romana per lo spostamento
verso nord dell’area di influenza sino alla conquista del Galles e della
Britannia settentrionale da parte di Giulio Agricola il suocero di Tacito
(77-84). La caduta in disgrazia di Agricola presso Domiziano ebbe serie
conseguenze: si verificò un deciso arretramento con la rinuncia alla Scozia, a
cui corrispose uno spostamento di truppe nell’area germanico-danubiana, e la
smobilitazione di una rete di forti nel territorio dei Pittii: dopo la sua
visita nell’isola nel 122 d.C., Adriano fece costruire il muro fortificato che
da lui prende il nome di vallum Hadriani,
lungo la strada romana dal golfo di Solway fino a Newcastle upon Tine; lo
Stanegate che corre tra Carlisle e Corbridge. La realizzazione di tale progetto
che mise fine all’avanzamento romano in Scozia fu portata avanti grazie alle
legioni, i corpi ausiliari e alla classis
Britannica; presso il forte di Vindolanda
(Chesterholme) sullo Stanegate la famosa scoperta archeologica delle 800 tavolette
lignee inscritte in latino corsivo testimonia come l’attività militare di
questo avamposto nei confronti dei Brittunculi,
fosse ormai assai limitata negli anni tra il 90 e il 130. A partire dal 142
d.C. venne fatto costruire da Antonino Pio un Vallo più avanzato sulla linea
Clyde Forth in Scozia, non più con pietrame ma con zolle di terra. Questo Vallo
sembra essere rimasto attivo oltre il principato di Commodo: dopo la morte
dell’imperatore la Britannia venne coinvolta nella lotta per la conquista del
potere attraverso il suo governatore Clodio Albino. Con l’acclamazione del
legato della Pannonia Lucio Settimio Severo che divenne imperatore nel 193, le
popolazioni della Britannia in particolare i Meati e i Caledoni della Scozia,
agevolate dal fatto che in occasione della scontro tra i pretendenti all’impero
le truppe romane fossero state allontanate per intervenire in altri teatri di
guerra, ripresero le ostilità contro i Romani: fu forse per questo che Settimio
Severo nel 208 intraprese un’iniziativa nella Britannia settentrionale di cui
non conosciamo con precisione gli eventi militari, ma che si concluse con
l’assunzione del cognome ex virtute
di Britannicus Maximus. Poco prima di
morire l’imperatore africano fece collocare la statua della Concordia a
Eburacum (York) alternativamente negli appartamenti di Caracalla e in quelli di
Geta. La morte dell’imperatore il 4 febbraio 211 fece decidere i figli che
trasferirono il corpo del padre a Roma e posero termine alle ostilità, anche se
Geta fu ucciso dal fratello; si tornò allora all’assetto territoriale segnato
dal Vallo di Adriano e la Britannia fu divisa in due province Superior (con un governatore di rango
pretorio) e Inferior (con un
governatore di rango consolare).
La fase
degli usurpatori Carausio e Alletto viene analizzata con grande interesse da
Bettini, probabilmente anche per il ruolo svolto dalla Classis Britannica (fonti Aurelio Vittore ed Eutropio): il menapio
originario della Belgica Carausio, distintosi al fianco di Massimiano nella campagna
militare contro i Bagaudi del 286, dalla fine di quello stesso anno nominato
comandante della Classis Britannica,
era stato incaricato dall’Augusto Erculeo a combattere i pirati franchi e
sassoni; successivamente lo stesso Massimiano aveva cercato di farlo eliminare,
venuto a conoscenza di sue intese con i pirati. A quel punto Carausio si fece
acclamare imperatore rifugiandosi in Britannia con la flotta che aveva raccolto
ai suoi ordini; Massimiano impegnato in Germania non poté contrastarlo immediatamente
ma si trovò ad intervenire solo nella primavera del 289: la sua flotta fu
altresì danneggiata da una tempesta e Carausio ebbe la meglio su di lui.
L’usurpatore riuscì a presentarsi come liberatore della Britannia
dall’oppressione romana e ad estendere la sua sfera di influenza sulla costa
della Gallia, sostenuto dalle legioni stanziate in quelle aree: sono indicativi
in questo senso i conii battuti a Londinium
e forse a Camolodunum con la legenda Restitutor Britanniae e Genius
Britanniae. Del resto a proposito della monetazione Bettini cita la famosa
emissione con la rappresentazione personificata della Britannia che stringe la
mano a Carausio e la legenda: expectate veni e la monetazione con la
quale Carausio cercava di accreditarsi come terzo Augusto comparendo con
Diocleziano e Massimiano: Pax Auggg.;
Laetitia Auggg.; Carausius et fratres sui. A proposito di tale monetazione va
sottolineato che dopo la sconfitta di Massimiano, questi, supportato da Diocleziano,
convenne sulla necessità di riconoscere a Carausio il suo potere sulla
Britannia e di affidargli le operazioni contro i pirati germani, tant’è che
l’usurpatore dopo tale riconoscimento assunse il nome M. Aurelius per accreditarsi come fratello di Massimiano. In
quest’ottica rientra anche l’emissione con il terzo consolato, per quanto i due
tetrarchi non lo abbiano mai riconosciuto come console nei documenti ufficiali.
La stagione di Carausio si concluse nel 293 quando il suo prefetto del pretorio
(forse rationalis summae rei) Alleto,
lo uccise e lo sostituì nelle sue funzioni sulla Britannia e la Gallia
settentrionale.
Bettini
dedica grande spazio alla riconquista della Britannia (296 d.C.) da parte del
Cesare Costanzo Cloro, che per sconfiggere Alletto e per sbarcare nell’isola,
si affidò alla strategia consolidata di Cesare ma soprattutto di Claudio, cioè
quella di utilizzare diversi porti di partenza per la flotta, anzitutto
Boulogne-sur-Mer, che era stata dotata di un molo per chiudere il porto
nell’ansa di Brequerecque (probabilmente per aumentare la capacità d’ormeggio
ma anche in funzione difensiva) e un secondo porto sulla Senna, più a
Sud-Ovest. Secondo i panegiristi del IV secolo, Alletto, la cui flotta era
probabilmente ormeggiata a ridosso dell’isola di Wight al largo di Southampton, a
causa della fitta nebbia fu sorpreso da Giulio Asclepiodoto, prefetto del
pretorio di Costanzo, che dopo aver fatto bruciare le navi sbarcate nell’area
ridossata del Solent, raggiunse Alletto sconfiggendolo, mentre la flotta al
comando di Costanzo Cloro si diresse verso Londra per combattere contro i
mercenari di Alletto, dove nel 296 Costanzo venne accolto come liberatore: redditor lucis aeternae. L’ammiraglio
Bettini ritiene che la scelta di muovere da due diversi punti di sbarco fosse
dovuta al piano di dividere le forze dell’usurpatore, sorprendendole in una
sorta di tenaglia: si sarebbe così resa vana «una sua resistenza incentrata
sulla capacità di avvistamento e difesa dei Saxon Shore, in particolare quelli
del Kent e del Sussex». Cosa erano i Saxon Shore del litus saxonicus? Una linea fortificata di installazioni militari,
speculari alle esigenze della Classis
Britannica, posta sotto il controllo del comes litoris saxonici per Britanniam; la serie di postazioni
fortificate iniziò ad essere costruita presumibilmente alla fine del II secolo
d.C. con i forti di Reculver e Brancaster proseguendo poi nel III secolo (a
partire dal 275) con Richboroug (all’altra estremità del canale di Wantsum
rispetto a Reculver), Pevensey e Lympne. La linea dei Saxon Shore venne senza
dubbio potenziata da Carausio per difendersi e arroccarsi sulle sue posizioni
in Britannia e non già per azioni di contrasto alla pirateria, a questo periodo
risalirebbero Portchester e Pevensey; il forte romano di Burgh Castle invece
venne edificato dopo Costanzo Cloro e Costantino a partire dal 320. Tali
postazioni avevano lo scopo di fornire supporto logistico alla flotta come pure
alle legioni, con una funzione di avvistamento: si assicurava in tal modo
l’efficienza strategica romana sui due versanti della Manica (per quanto
riguarda il settore settentrionale della Gallia le fortificazioni si
estendevano sino all’Armorica dove stazionava la Classis Sambrica) e si favoriva lo shipping attorno alla Britannia. Con la sua estrema precisione
Bettini sottolinea poi il cambio di passo, in epoca tardoantica, nelle
costruzioni navali militari: le navi con alte prore e poppe, dotate di un solo
ponte di vogatori, erano di dimensioni più modeste rispetto al passato, per
rispondere ad una esigenza di dispersione presso vari porti marittimi e
fluviali e per poter agire prontamente in caso di attacco da parte dei pirati,
per quanto tali imbarcazioni incontrassero alcune difficoltà nel navigare
stringendo il vento.
Da
ultimo vengono analizzate l’architettura e le costruzioni navali, con le loro
peculiarità legate alla navigazione oceanica, quanto a robustezza, stabilità,
velocità, armamento. Colpisce in senso positivo, all’interno della narrazione
di questo testo, la modernizzazione del linguaggio tecnico-strategico, che da
un lato può considerarsi come un portato della storiografia anglosassone e
dall’altro deriva senza dubbio dall’esperienza marinara dell’autore: mettendo a
fuoco la storia militare del mondo romano, Bettini parla sia a proposito della
spedizione di Cesare che poi della conquista di parte dell’isola sotto Claudio
oltre che di «expeditionary», di «una migliorata organizzazione anfibia»; tutto
ciò ribalterebbe il luogo comune dell’esercito romano da considerarsi un
«trained automata» («una monolitica macchina bellica»). Del resto nel rapporto
tra comizi e consules in epoca
repubblicana, e poi tra grandi comandanti militari (come Mario) e legionari,
l’ammiraglio vede piuttosto che un’organizzazione monolitica, una forma di
partecipazione dei cittadini-soldato alle scelte dei comandanti, una sorta di
«diritto di consenso», tanto che si dovrebbe parlare di una gerarchia militare top-down
e bottom upwards, certamente diversa
da quella attuale e caratterizzata dal rapporto fiduciario con i comandanti. La
scelta del linguaggio deriva anche dall’uso delle opere di esperti di strategia
militare, come Edouard Luttwak che viene spesso citato dall’autore nelle
conclusioni; certo è che l’analisi del tema della logistica della Marina
romana, della logistica integrata, della logistica di aderenza e della
logistica di sostegno secondo il linguaggio della strategia contemporanea,
applicata al mondo antico, attirano l’interesse dei lettori: paragrafi interi
vengono dedicati al foraggiamento, all’approvvigionamento idrico, alla
costruzione di strade e ponti, alla sanità a bordo delle navi e in campo.
Appare oggi evidente che senza una grande organizzazione militare alcune
gigantesche imprese sarebbero state impossibili, come quelle di Cesare che si
svolsero dalla Britannia alle Gallie all’Egitto, dalla Hiberia al Nord Africa,
alla Sardinia fino alla fondazione di Turris Libisonis nel golfo dell’Asinara.
Il modello antico appare ancor oggi interessante da conoscere e studiare in
un’ottica strategica di intervento militare e peacekeeeping, anche se nel mondo
che viviamo i contrasti, i rischi e i tragici pericoli dei nostri giorni non
vengono da un lontanissimo finis terrae
o dal fiume Oceano ma piuttosto dal cuore stesso del Mediterraneo e da entrambe
le sue sponde.