Monografie

 

 

 

Capitolo III della monografia di FEDERICO PROCCHI, Plinio il Giovane e la difesa di C. Iulius Bassus. Tra norma e persuasione, Pisa, Pisa University Press, 2012, 140 pp.  ISBN  978-88-6741-055-2

 

INDICE

 

 

 

Procchi-foto-D@S-2016Federico Procchi

Università di Pisa

print in pdf

 

La difesa in giudizio di C. Iulius Bassus imputato di rependae innanzi al Senato tra norma e persuasione

 

 

Sommario: Abstract. – 1. Premessa. – 2. L’introduzione della causa in forma di exordium. – 3. Plinio e gli altri avvocati del collegio difensivo: Lucceio Albinio, Cazio Frontone e Giunio Omullo. – 4. L’impostazione generale della strategia difensiva. – 5. L’imputazione più pesante: le repetundae. – 6. La problematica scelta delle argomentazioni difensive. – 7. In particolare: l’identificazione della strategia difensiva del medium quiddam tenere. – 8. L’interruzione notturna e la ripresa dell’arringa il giorno successivo. – 9. La prosecuzione del secondo giorno di dibattimento. – 10. Le attività processuali della terza udienza. – 11. Il quarto giorno di udienza: l’attività istruttoria, la rogatio sententiarum e la votazione mediante discessio. – 12. La conclusione del processo.

 

 

Abstract

 

This chapter reconstructs the complex procedural events of C. Iulius Bassus, proconsul of Bithynia province, accused of “repetundae” before the Roman Senate in 103 A.D., as well as dashed by Pliny the Younger (a member of the defense team) in Epist. IV.9.

In the framework of rhetorical doctrine of “status causae” the study shows an original point of view in the reconstruction of the defensive strategy developed by Pliny which allowed the accused to save their senatorial “dignitas”.

 

 

1. – Premessa

 

I particolari della difesa in giudizio di Giulio Basso[1] ci sono noti grazie ad una missiva inviata a Cornelius Ursus[2], contenuta nel quarto libro dell’epistolario. Dal fatto che il nome di Cornelio Urso ricorra più volte come destinatario della corrispondenza pliniana e quasi sempre con missive aventi ad oggetto il racconto di cognitiones senatorie de repetundis[3], Sherwin-White ha ipotizzato trattarsi di un membro equestre del circolo letterario di Plinio il Giovane[4], al pari degli altri destinatari di lettere di questo tipo[5].

Nato sul finire della prima metà del I secolo d.C., C. Iulius Bassus fu proconsole della provincia di Bithynia et Pontus verosimilmente nell’anno 100/101 (o 101/102) e dovette essere incriminato sul finire dell’estate del suo anno di carica[6].

Vista la menzione di Baebius Macer[7] come consul designatus[8], la datazione del processo (e dell’epistola con esso) è saldamente ancorata ai primi mesi del 103 d.C.[9]

 

 

2. – L’introduzione della causa in forma di ‘exordium’

 

Facendo a meno di qualsiasi discorso di circostanza ed omettendo qualsiasi riferimento ad eventuale corrispondenza precedentemente intercorsa con il destinatario, l’epistolografo entra subito in medias res[10] introducendo il soggetto della lettera[11] con una rapida presentazione dello sventurato protagonista e della vicenda processuale che da ultimo lo ha visto coinvolto.

 

Plin. Ep. IV.9.1-2: C- Plinius Cornelio Urso suo s. [1] Causam per hos dies dixit Iulius Bassus, homo laboriosus et adversis suis clarus. Accusatus est sub Vespasiano a privatis duobus; ad senatum remissus diu pependit, tandem absolutus vindicatusque. [2] Titum timuit ut Domitiani amicus, a Domitiano relegatus est; revocatus a Nerva sortitusque Bithyniam rediit reus, accusatus non minus acriter quam fideliter defensus. Varias sententias habuit, plures tamen quasi mitiores.

 

Plinio ci informa che nei giorni precedenti aveva difeso la sua causa[12] Giulio Basso, uomo che aveva subito ogni tipo di tribolazione[13] e che era diventato famoso per le sue disavventure.

Infatti egli era già stato accusato da due privati durante il regno di Vespasiano, con ogni verosimiglianza de repetundis, come sembrerebbe testimoniare una certa somiglianza con la formulazione adottata in Ep. III.9.4 per descrivere l’imputazione di cui era stato fatto oggetto Mario Prisco[14]. Rinviato davanti al senato[15], era stato tenuto a lungo in sospeso[16] ed infine prosciolto e reintegrato nel suo onore[17]. Aveva avuto timore di Tito, in quanto ‘strettamente legato[18]’ a Domiziano, e quest’ultimo, una volta divenuto imperatore, lo aveva confinato[19]. Richiamato, poi, a Roma da Nerva[20], aveva riacquistato la dignità senatoria ed ottenuta in sorte la provincia di Bitinia[21]: da essa era, però, tornato incriminato ed era stato accusato con un accanimento non inferiore all’impegno con cui era stato difeso[22]. Vi erano stati pareri discordanti sulla vicenda, ma, alla fine, la maggioranza dei senatori aveva condiviso l’orientamento più indulgente.

Questi due primi paragrafi in cui si fornisce al lettore una rapida sintesi complessiva delle vicende personali e processuali dell’imputato appaiono essere, in qualche modo, rappresentativi anche di quello che dovette essere l’exordium[23] dell’arringa di Plinio.

Quintiliano insegnava, infatti, che lo scopo precipuo dell’esordio doveva essere quello di predisporre al meglio l’ascoltatore in vista della successiva articolazione del discorso.

 

Quint. Instit. Orat. IV.1.5: Causa principii nulla alia est, quam ut auditorem quo sit nobis in ceteris partibus accommodatior, praeparemus. Id fieri tribus maxime rebus inter auctores plurimos constat, si benivolum, attentum, docilem fecerimus, non quia ista non per totam actionem sint custodienda, sed quia initiis praecipue necessaria, per quae in animum iudicis, ut procedere ultra possimus, admittimur.

 

Il maestro di oratoria riferisce il parere di moltissimi autori, secondo cui questa opera di buona predisposizione dell’interlocutore si otterrebbe in tre modi, rendendolo cioè benevolo, attento e docile[24]. Non perché a simili effetti non si debba badare per tutto lo svolgimento del processo, ma perché essi sono necessari soprattutto all’inizio, in quanto attraverso di loro si viene ammessi all’animo del giudice ed è quindi possibile procedere oltre in situazione di vantaggio.

Quanto alla ‘caratterizzazione’ del proprio assistito, Quintiliano insegnava ai propri allievi che essa poteva essere alternativamente fondata tanto sulla dignità, quanto sulla debolezza: tale aspetto doveva, peraltro, essere solo sfiorato nel proemio e non esaurito in tale sede.

 

Quint. Instit. Orat. IV.1.13-14: [13] Ipsius autem litigatoris persona tractanda varie est: nam tum dignitas eius adlegatur, tum commendatur infirmitas. … [14] nam sola rectum quoque iudicem inclinat miseratio. Degustanda tamen haec prohoemio, non consumenda.

 

In questo senso si spiega la rapida commiseratio iniziale dell’epistola pliniana, tesa a suscitare sin dall’inizio nei confronti dell’imputato compassione per le sventure passate e benevolenza per il prosieguo dell’actio[25].

Il riferimento, infine, alla particolare veemenza degli accusatori vale per un verso a porre in luce il valore della difesa posta in essere (che seppe meritare clemenza per il proprio assitito) e, per altro verso, ad introdurre un primo tratto della personalità degli avversari, la cui sommaria descrizione (ovviamente in negativo) secondo Quintiliano doveva parimenti figurare sin dall’inizio del discorso, perché non ci si può limitare a suscitare emozioni a favore di chi viene difeso, ma bisogna anche negarle alla controparte.

 

Quint. Instit. Orat. IV.1.29: Sed haec, quae supra dixi, non movere tantum, verum ex diverso amoliri quoque prohoemio opus est. Ut autem nostrum miserabilem, si vincamur, exitum, ita adversariorum superbum, si vicerint, utile est credi.

 

Si sottolinea, inoltre, l’utilità che si creda che, perdendo, l’assistito andrebbe incontro ad una sorte miserabile, mentre gli avversari, vincendo, insuperbirebbero.

La caratterizzazione negativa della controparte doveva, poi, passare attraverso argomenti uguali e contrari rispetto a quelli utilizzati per presentare al meglio il soggetto patrocinato.

 

Quint. Instit. Orat. IV.1.14: … Adversarii vero persona prope isdem omnibus, sed e contrario ductis inpugnari solet. Nam et potentes sequitur invidia et humiles abiectosque contemptus et turpes ac nocentes odium, quae tria sunt ad alienandos iudicum animos potentissima.

 

Anche la formulazione del successivo paragrafo dell’epistola pare, peraltro, sostanzialmente finalizzata a rendere l’animo dei giudici ostile alla controparte.

 

Plin. Ep. IV.9.1.3: Egit contra eum Pomponius Rufus, vir paratus et vehemens; Rufo successit Theophanes, unus ex legatis, fax accusationis et origo.

 

Nel presentarci il primo patrono dell’accusa, Pomponio Rufo[26], Plinio lo definisce come uomo dotato di presenza di spirito e pieno d’ardore. Molto probabilmente doveva essere avvocato avvezzo a sostenere l’accusa, visto che viene menzionato anche nel processo a Classico ed ai suoi complici come uno dei due consolari che rimproverarono ad uno dei testimoni (un certo Norbano, per cui era già stata formulata l’incriminazione per praevaricatio[27]) di aver già favorito in tribunale, durante il regno di Domiziano, gli accusatori di Salvio Liberale[28]. La definizione di vir paratus et vehemens, lungi dal voler essere sinceramente lusinghiera[29], mi pare in questo contesto verosimilmente preordinata a fare in modo che l’eloquenza delle argomentazioni dell’avversario risulti in qualche modo velata da un’aura di sospetto[30].

L’accusa era altresì rappresentata da un secondo avvocato, Erennio Pollione[31], menzionato nel prosieguo della lettera (§14) per il ruolo avuto da quest’ultimo nella fase delle repliche, e da Teofane[32], un legatus (probabilmente di rango equestre) inviato a Roma dall’assemblea della provincia[33]. Basandosi sull’epistolario di Plinio, parrebbe ricorrente la composizione del collegio di accusa con due avvocati ed un numero variabile di rappresentanti della provincia «who also varied in the degree to wich they actively partecipated in presenting the case within the senate[34]». A dire il vero, d’altra parte, in Epist. V.20.1 si dice che i Bitinii avevano chiesto ed ottenuto come avvocato contro Basso quello stesso Vareno Rufo che qualche tempo dopo avevano trascinato in tribunale[35]. La notizia pare attendibile, giacché poteva accadere (ed accadde, come abbiamo visto, anche allo stesso Plinio[36]) che fossero i provinciali a scegliere il loro patrono, ferma restando la necessità che tale scelta venisse comunque fatta propria e formalizzata dal senato[37]. Resta il fatto che nel dettagliato resoconto processuale di Epist. IV.9 non vi è traccia di Vareno Rufo nella veste di terzo patronus dell’accusa. A tal proposito si può, forse, ipotizzare che l’assenza di Vareno Rufo fosse dovuta proprio alla designazione di quest’ultimo quale imminente proconsole di Bitinia[38]. In ogni caso è verosimile che si sia verificata la necessità di dar corso ad una sostituzione prima dell’inizio del processo vero e proprio[39] e che, quindi, a Vareno Rufo sia subentrato Erennio Pollione[40].

Come è stato, infatti, recentemente dimostrato da Jean-Louis Ferrary, nella procedura de repetundis la presenza di patroni dell’accusatore è inscindibilmente connessa al riconoscimento della legittimazione attiva dei peregrini all’accusa[41].

Oltre al patrono Pomponio Rufo, Plinio introduce una prima rapida caratterizzazione anche del legatus Teofane, che viene significativamente presentato come ‘origine’ ed ‘anima’ dell’accusa.

 

 

3. – Plinio e gli altri avvocati del collegio difensivo: Lucceio Albinio, Cazio Frontone e Giunio Omullo

 

Secondo le regole processuali, una volta terminata la relazione introduttiva del magistrato presidente (di cui non vi è traccia nell’epistola), la parola passava all’accusa ed il dibattimento entrava nel vivo[42].

Sappiamo da Plinio che Pomponio Rufo fu il primo a prendere la parola e che il suo intervento fu seguito da quello di Teofane. Non vengono descritti i contenuti delle orationes dell’accusatore e del suo patronus, ad eccezione di un rapido accenno in chiusura del successivo § 6 su cui tra breve avremo modo di tornare[43].

La replica è dello stesso Plinio, cui Basso aveva affidato il compito di impostare la linea difensiva[44].

Dal prosieguo della lettera sappiamo che l’imputato si avvaleva di un collegio difensivo di ben quattro avvocati. Insieme a Plinio, infatti, patrocinarono la difesa Lucceius Albinus[45], Iunius Homullus[46] e Catius Fronto[47].

Pur in assenza di specifiche notizie sulle modalità di costituzione del collegio della difesa, si è recentemente ipotizzato che il senato o l’imputato si limitassero a scegliere un solo avvocato che avrebbe assunto un ruolo-guida e che avrebbe avuto il compito di scegliere i co-difensori. Una tale modalità di selezione e formazione del ‘team’ avrebbe avuto sicuramente il pregio di mettere il cliente al riparo da possibili discordie e rivalità intestine tra i suoi difensori[48].

Nel nostro caso Plinio si trova a collaborare con due avvocati (Albino e Frontone) la cui abilità nei processi repetundarum aveva già avuto modo di sperimentare negli anni immediatamente precedenti.

Nel 100/101 d.C. il giovane Lucceio Albino era stato, infatti, scelto per affiancare Plinio nell’accusa di Cecilio Classico[49] e l’autore lo descrive significativamente come vir in dicendo copiosus ornatus[50].

Quanto a Cazio Frontone, il suo valore militare ed oratorio ci è testimoniato dalle parole di un suo illustre cliente, il poeta Marziale, che di lui dice: clarum militiae, Fronto, togaeque decus[51]. Plinio aveva avuto modo di saggiarne il valore di difensore quanto meno in occasione del processo in cui egli sosteneva l’accusa contro Mario Prisco, in un anno imprecisato tra il 98 ed il 100 d.C.[52]. In tale occasione, infatti, la replica di Frontone ebbe la meglio sulle argomentazioni di Plinio e Tacito, difensori dei provinciali, tese a dimostrare che la brutale ferocia di cui si era macchiato Prisco escludeva che esso potesse iudices petere con successo[53].

 

Plin. Epist. II.11.2-3: [2] Marius Priscus accusantibus Afris, quibus pro consule praefuit, omissa defensione iudices petiit. Ego et Cornelius Tacitus, adesse provincialibus iussi, existimavimus fidei nostrae convenire notum senatui facere excessisse Priscum immanitate et saevitia crimina, quibus dari iudices possent, cum ob innocentes condemnandos, interficiendos etiam, pecunias accepisset. [3] Respondit Fronto Catius deprecatusque est, ne quid ultra repetundarum legem quaereretur, omniaque actionis suae vela vir movendarum lacrimarum peritissimus quodam velut vento miserationis implevit.

 

Nel caso di specie Cazio Frontone pare aver optato per quella che può essere considerata una sorta di ‘ultima spiaggia della difesa’, almeno quanto alle argomentazioni di merito: la deprecatio. Con l’adozione di questo status rationalis, infatti, si formulava una vera e propria ammissione di colpevolezza a tutto tondo, anche in punto di dolo, e la si accompagnava con una richiesta di clemenza e perdono in considerazione di precedenti meriti o, comunque, di ulteriori circostanze positive che non avevano alcuna connessione diretta con il processo che si stava celebrando[54].

Trattandosi di uomo abilissimo a strappare le lacrime ai suoi ascoltatori, egli riuscì a gonfiare le vele della sua orazione con un vento di compassione e, così facendo, ottenne un risultato ottimo per la difesa, il cui valore Plinio non poteva certo ignorare[55].

 

Plin. Epist. II.11.5: Novissime consul designatus Iulius Ferox, vir rectus et sanctus, Mario quidem iudices interim censuit dandos, evocandos autem, quibus diceretur innocentium poenas vendidisse.

 

Alla fine, infatti, accadde che il console designato Giulio Feroce proponesse – con una di quelle forzature procedurali che la cognitio poteva ammettere[56] – di deferire nel frattempo Mario Prisco alla commissione competente a giudicare delle restituzioni e di spiccare un ordine di comparizione nei confronti di coloro per i quali si diceva che l’imputato avesse venduto la punizione di innocenti.

Anche nel prosieguo del processo l’intervento di Cazio Frontone viene presentato da Plinio come molto ben calibrato[57].

 

Plin. Epist. II.11.18: Dixit pro Mario rursus Fronto Catius insigniter, utque iam locus ille poscebat, plus in precibus temporis quam in defensione consumpsit.

 

Adeguandosi alle esigenze del momento, infatti, anche in questa occasione Fronto ritenne opportuno indugiare più nelle preghiere che nella difesa.

Del collegio difensivo faceva parte, inoltre, Giunio Omullo[58], consul suffectus nell’anno 102 d.C. Di questo personaggio non abbiamo notizie nell’epistolario pliniano prima del processo in questione ma sappiamo che, poco tempo dopo, affiancò il nostro autore, insieme a Cazio Frontone, nella difesa di Vareno Rufo, processo in cui parimenti ebbe modo di mettere in luce la sua abilità oratoria[59].

Come è stato giustamente evidenziato, la circostanza per cui ritroviamo entrambi questi patroni a condividere con Plinio (advocatus a senatu datus[60]) anche la difesa di Vareno Rufo «suggests that Pliny may have played a substantial role in assembling his teams[61]».

Il fatto, poi, che Giulio Basso abbia chiesto a Plinio di gettare le basi della strategia difensiva (§ 3), che gli abbia affidato il compito di controbattere l’imputazione più gravosa (§ 5) e che gli abbia riservato cinque delle nove ore concesse all’imputato per l’arringa (§ 9) mi pare estremamente significativo e mi induce a ritenere che tra i due vi fosse un rapporto fiduciario più stretto e diretto di quello che legava il prevenuto agli altri tre suoi patroni. Siffatto legame doveva verosimilmente conferire al nostro autore il ruolo di primus inter pares all’interno del collegio difensivo.

Facendo leva su talune di queste circostanze, Leanne Bablitz ha ritenuto di poter inoltre affermare che, pur nel silenzio dell’epistula sul punto, Basso dovette avere un ruolo attivo nella scelta e nel reclutamento di Plinio quale proprio advocatus[62].

 

 

4. – L’impostazione generale della strategia difensiva

 

Come accennato poc’anzi, spettò a Plinio replicare per primo alle accuse formulate da Pomponio Rufo e Teofane, essendo stato investito dall’imputato del delicato compito di gettare le fondamenta di tutta la difesa[63], tracciando una linea difensiva nel cui solco si sarebbero dovuti muovere anche gli altri difensori negli interventi successivi[64].

 

Plin. Epist. IV.9.4: Respondi ego; nam mihi Bassus iniunxerat, totius defensionis fundamenta iacerem, …

 

Le imputazioni erano molteplici e, come aveva insegnato già Cicerone, alla difesa toccava, anzitutto, l’infirmatio causarum e l’indebolimento degli eventus affermati dall’accusa[65].

Plinio ci fornisce una sintetica enumerazione delle argomentazioni difensive (per così dire) ‘generali’, sfruttate nella prima fase della propria arringa, per impostare il processo nel suo insieme.

 

Plin. Epist. IV.9.4-5: [4] … dicerem de ornamentis suis quae illi et ex generis claritate et ex periculis ipsis magna erant, [5] dicerem de conspiratione delatorum quam in quaestu habebant, dicerem causas quibus factiosissimum quemque ut illum ipsum Theophanen offendisset.

 

Dall’andamento del discorso (stilisticamente caratterizzato dalla triplice anafora del dicerem[66]) appare che questa prima linea difensiva ‘generale’ sia stata in qualche modo direttamente ‘suggerita’ dall’imputato[67], ancorchè correttamente ricondotta da Plinio a taluni loci[68] tipici dello stato congetturale[69]. La coniectura, come noto, si verifica quando l’imputato non ammette la propria colpevolezza per le accuse che gli vengono mosse e sussiste l’incertezza che i fatti siano stati compiuti oppure no. Lo stato congetturale doveva essere trattato secondo una ‘topica’ specifica che non è uniforme nei vari autori. Per la nostra trattazione continueremo a fare per lo più esclusivo ricorso alle Institutiones Oratoriae di Quintiliano per un duplice ordine di ragioni: prima di tutto perché esse costituiscono una summa delle dottrine precedenti[70], in secondo luogo perché gli insegnamenti dell’antico maestro dovettero – in un certo qual modo – rappresentare un costante ed imprescindibile punto di riferimento per Plinio[71].

Quintiliano distingueva tre loci della coniectura (derivata prima di tutto dal passato) e tre momenti che si succedono nella trattazione degli argumenta[72].

 

Quint. Institut. Orat. VII.2.27: … Dicitur coniectura primum a praeteritis: in his sunt personae, causae, consilia. Nam is ordo est, ut facere voluerit, potuerit, fecerit.

 

Secondo il maestro, l’oratore che si fosse trovato nel dubbio se parlare prima dei moventi (causae) o delle persone (personae) avrebbe dovuto iniziare, in conformità con l’ordine naturale, dalla persona[73], e soprattutto la difesa era solita iniziare la propria arringa con argomenti connessi alla persona dell’accusato, talvolta con rilievi generali, talaltra con considerazioni specifiche che possono essere di vario genere.

 

Quint. Institut. Orat. VII.2.31-32: [31] … Saepe a persona prior ducit argumenta defensor, et interim generaliter; … [32] Interim proprie, quod est varium …

 

In sintonia con questi insegnamenti, la strategia difensiva di Plinio pare soffermarsi sui loci a persona[74], illustrando i titoli d’onore dell’imputato che gli provenivano in alto grado sia dalla nobiltà dei suoi natali[75] che dalle sue stesse peripezie[76], già introdotte (ma non esaurite) nella fase iniziale del discorso[77].

Specularmente si articolano argomenti tesi ad illuminare il reale movente economico della cospirazione dei delatori ed i motivi per cui l’imputato si era inimicato tutti i soggetti più turbolenti, ivi compreso il legato provinciale Teofane[78], la cui caratterizzazione negativa era già iniziata in fase di exordium[79].

La costante opera argomentativa tesa ad alienandos iudicum animos doveva, infatti, essere essenziale in un processo così difficile e delicato.

Anche la strutturazione di questo passaggio pare conforme agli insegnamenti di Quintiliano[80]: in particolar modo, il riferimento al ‘complotto’ (conspiratio) dei delatori doveva valere ad inserire nel processo uno dei temi su cui la difesa aveva la possibilità di insistere in maniera più libera e piena in fase di peroratio[81].

La sussistenza di un fine di lucro (quaestus), che aveva dato vita ad una cospirazione dei delatori, introduce il tema dei praemia delatorum in età imperiale, da sempre uno dei più discussi dalla romanistica. Se, infatti, per l’età repubblicana abbiamo informazioni precise, sin dalla legge epigrafica istitutiva della quaestio de repetundis[82], circa le speciali ricompense spettanti all’accusatore vittorioso nell’ordo iudiciorum publicorum quale contropartita per il suo determinante impegno processuale[83], lo stesso non può dirsi per le cognitiones del Principato, le cui notizie provengono pressoché esclusivamente da fonti letterarie dalle quali non è facile ricavare un quadro preciso ed univoco[84].

Da ciò consegue che le opinioni sul tema, succedutesi nel tempo, dimostrano di essere in qualche modo debitrici della preliminare presa di posizione sull’altra, ben più generale, vexata quaestio, concernente l’identificazione della natura dei processi penali che si svolgevano innanzi al consesso dei patres[85].

Come abbiamo già avuto modo di illustrare, Mommsen riteneva che i premi regolarmente accordati agli accusatori in questi processi contribuissero a delineare la natura accusatoria della cognitio senatus[86], ma non mancava di rimarcare la differenza tra le ricompense previste dalle leggi istitutive delle quaestiones repubblicane (il cui valore era – a suo modo di vedere – essenzialmente circoscritto all’ambito politico ed onorifico) ed i premi (di considerevole valore economico) riconosciuti dai tribunali nella prima età imperiale[87].

Secondo Franca De Marini Avonzo, poi, la procedura senatoria di attribuzione dei praemia all’accusatore vittorioso avrebbe ricalcato pedissequamente quella stabilita per le quaestiones in età repubblicana e, in particolare, vi sarebbe stato un automatismo nel riconoscimento di tali premi – fissati per legge – e la discrezionalità del tribunale avrebbe riguardato solo l’entità dei medesimi, da decidersi di volta in volta, a seconda della gravità del reato giudicato nei singoli processi[88].

Ad un recente studio di Yann Rivière va, infine, il merito di aver riesaminato funditus la questione rilevando, quanto all’epoca che a noi interessa, come «Pline le Jeune lorsqu’il montre que le rôle d’accusateur ne l’éloigne pas de l’étique judiciaire aurait fait valoir aussi ce refus d’une récompense, si son attribution au sénat, comme autrefois dans la procédure devant les quaestiones, avait été automatique. (…) Soulignons seulment que l’analyse du lien entre le crime invoqué et l’attribution d’une récompense ne permet pas d’établir de règle dans le domaine de repetundis, contrairement à la periode républicaine, et oriente la recherche uniquement vers le crime d’Etat et de lèse-majesté où l’argent semble tenir le rôle principal[89]». Muovendo dal presupposto che le ricompense pecuniarie accordate al termine di un processo de maiestate fossero le uniche[90] a trovare la loro origine ed il loro fondamento in una lex, l’autore ritiene che tutti gli altri eterogenei emolumenti, onori e privilegi (formalmente accordati dal senato) di cui abbiamo notizia in realtà dipendessero esclusivamente dall’arbitrio del principe[91].

Nel caso di Giulio Basso il riferimento alla conspiratio delatorum parrebbe far riferimento alla presenza, tra le varie imputazioni, di un’accusa di maiestas[92] che, secondo le previsioni della legge Giulia, avrebbe fruttato ai promotori del giudizio l’attribuzione di un quarto dei beni dei condannati[93], senza contare che il senato aveva la possibilità di incrementare tale ricompensa[94].

Oltre all’avidità dei delatori, gli altri loci a causa, prospettati come i reali ‘moventi’ dell’accusa intentata a Basso, fanno riferimento all’odio ed al desiderio di vendetta dei cittadini più turbolenti (come lo stesso Teofane) che l’imputato aveva avuto modo di inimicarsi[95]. Dietro questo rapido cenno si cela verosimilmente la problematica, assai complessa, delle lotte politiche tra fazioni avverse di notabili Bitinii[96]. Tra i governatori ed i notabili locali si era, infatti, venuto ad instaurare un legame sottile e talvolta equivoco, per cui era frequente che i Bitinii più in vista cercassero di assicurarsi con tutti i mezzi l’appoggio del rappresentante di Roma per favorire la propria carriera municipale e per denigrare la reputazione degli avversari. Tale ‘gioco’, tuttavia, poteva rivelarsi assai pericoloso e «souvent le gouverneur, dont tous sollicitaient l’appui, pouvait devenir l’objet d’un rejet. L’exercise des prérogatives gouvernementales, lorsqu’elles profitaient trop clairement à un seul homme aux dépens d’un groupe adverse ou lorsqu’elles avantageaient une cité aux dépens de sa voisine, s’exposait à l’accusation de favoritisme et de partialité[97]».

Tali situazioni dovevano essere ben note al senato e la scelta di Plinio di presentare l’imputato come soggetto che non si era prestato a siffatti favoritismi ben poteva valere a gettare su Teofane e sui delatores quanto meno il sospetto che in questo processo, dietro il ‘paravento’ della giustizia, si muovessero coalizioni d’interessi finanche meno commendevoli delle pesanti accuse rivolte a Basso[98].

 

 

5. – L’imputazione più pesante: le ‘repetundae’

 

Come abbiamo già avuto modo di accennare, l’imputato aveva poi voluto che fosse Plinio a controbattere l’imputazione che più di tutto appesantiva la sua posizione.

 

Plin. Epist. IV.9.5: … Eundem me voluerat occurrere crimini, quo maxime premebatur. In aliis enim quamvis auditu gravioribus non absolutionem modo, verum etiam laudem merebatur;

 

A giudizio dell’epistolografo, infatti, le altre accuse, sebbene in apparenza più gravi, non destavano particolare preoccupazione perché per esse Basso meritava non solo l’assoluzione, ma addirittura la lode.

Il richiamo delle ulteriori imputazioni si riferisce verosimilmente ad abusi, violenza e crudeltà che dovevano essere stati prospettati dagli accusatori a fondamento dell’imputazione concorrente di maiestas[99] ed a sostegno di un’ipotesi di saevitia[100].

Quest’ultima espressione non identificava un’autonoma fattispecie di reato, ma dovette affermarsi nel linguaggio processuale del Principato per indicare sinteticamente tutti gli abusi caratterizzati da violenza e crudeltà che potevano di volta in volta accompagnarsi ad una condotta estorsiva e che dovevano essere specificamente contemplati nella lex Iulia repetundarum[101].

La legge di Giulio Cesare doveva, infatti, aver previsto una graduazione delle pene ed i casi più gravi (quelli, come abbiamo appena visto, che in età imperiale sarebbero stati genericamente identificati con l’epiteto di saevitia) dovevano essere sanzionati con pene più severe, che potevano spingersi fino alla poena capitis e, quindi, alla confisca totale o parziale del patrimonio[102].

Come abbiamo già avuto modo di accennare a proposito del processo di Mario Prisco[103], l’accusa di saevitia era molto temuta dalle difese di imputati colpevoli, perché escludeva la possibilità per il reo di iudices petere e lo lasciava esposto alle più gravi conseguenze sanzionatorie della procedura ordinaria[104].

Nel caso di specie, tuttavia, con ogni probabilità le accuse implicanti un asserito abuso di potere, violento e crudele, da parte di Giulio Basso dovevano esser state formulate in modo talmente generico, come parrebbe dimostrare il fatto che non si faccia accenno a nessuna richiesta di inquisitio[105] né alla presenza di testimoni, da esser state pressoché immediatamente accantonate dal senato[106].

 

Vediamo, adesso, quale fosse l’imputazione che destava le preoccupazioni maggiori.

In primo luogo è appena il caso di ricordare che non deve destare meraviglia che Plinio affronti in seconda battuta il punto più delicato del processo. Come insegnava Quintiliano, infatti, la regola aurea del difensore di togliere di mezzo per prime tutte le accuse più gravi poteva, infatti, incontrare una fondata eccezione.

 

Quint. Instit. Orat. VII.1.11: At pro reo plerumque gravissimum quidque primum movendum est, ne illud spectans iudex reliquorum defensioni sit aversior. Interim tamen et hoc mutabitur, si leviora illa palam falsa erunt, gravissimi defensio difficilior, ut detracta prius accusatoribus fide adgrediamur ultimum, iam iudicibus omnia esse vana credentibus.

 

Qualora le accuse minori fossero palesemente false e la confutazione del capo d’accusa più grave apparisse – come nel nostro caso – più difficile, il maestro insegnava, infatti, che la trattazione di quest’ultimo doveva essere postposta, in modo da affrontare la questione spinosa dopo aver convinto i giudici dell’infondatezza di tutte le accuse. Tale suggerimento mi pare, inoltre, strettamente connesso alla direttiva per cui, in linea generale, gli argomenti debbono essere confutati singulatim, ma qualora ci si trovi in difficoltà su certe parti è consigliabile battersi utilizzando la causa nella sua totalità[107].

Ecco, quindi che, dopo aver svolto la parte generale dell’actio tesa a minare la credibilità delle accuse nel loro complesso, Plinio dovette dedicare tutte le sue energie alla chiave di volta di tutto il processo.

 

Plin. Epist. IV.9.6-7: [6] hoc illum onerabat, quod homo simplex et incautus quaedam a provincialibus ut amicus acceperat; nam fuerat in eadem provincia quaestor. Haec accusatores furta ac rapinas, ipse munera vocabat. [7] Sed lex munera quoque accipi vetat. …

 

L’addebito più pesante nel caso di Basso era che egli, uomo ‘ingenuo[108]’ e ‘irriflessivo’, aveva accettato in via amichevole dei donativi da alcuni provinciali, considerato che nella stessa provincia era già stato come questore[109]. Tali doni gli accusatori li definivano ‘furti’ e ‘rapine’, mentre egli li chiamava ‘regali’ (munera[110]). A Plinio preme, in ogni caso, sottolineare l’irrilevanza di tale diatriba definitoria, visto che la legge proibiva al governatore provinciale di accettare alcunché, anche semplici ‘omaggi’ spontanei[111]. Il riferimento normativo è ovviamente alla lex Iulia repetundarum[112], che, sia pure tra riforme ed innovazioni, rimase il testo legislativo di riferimento in materia per tutta l’età imperiale[113].

Come noto, infatti, le modalità della condotta rimproverabile a titolo di repetundae avevano subito, quanto meno a partire dalla lex Iulia del 59 a.C., un processo di ‘dilatazione’ della previgente fattispecie, assistito da una semplificazione interpretativa (dettata, soprattutto, dalle esigenze probatorie in giudizio) e teso a riscontrare agevolmente l’illecita condotta del soggetto attivo in qualsiasi forma di capere da quest’ultimo posto in essere[114].

Per dirla con Venturini: «… dalla determinazione del crimen repetundarum contenuta nella legge graccana e nella legge di Cesare traspare una notevole disomogeneità di ispirazione dei due provvedimenti o, per lo meno, una loro difforme portata. Il più antico si presenta, infatti, schiettamente orientato alla tutela delle vittime di concussioni, mentre nel più tardo questo obiettivo, pur formalmente mantenuto in tutta la sua integrità, appare, in un certo senso, sopraffatto da una totalizzante esigenza di moralizzazione, tale da determinare un sostanziale mutamento del bene giuridico protetto. Oggetto prioritario di repressione diviene infatti il capere, subentrando, in tal modo, un prevalente fine di tutela dell’ordinamento al precedente intento garantistico».[115]

Il divieto di pecuniam accipere sancito dalla lex Iulia repetundarum, originariamente collegato a talune attività dei soli magistrati e senatori e previsto come motivo determinante del loro esercizio doloso[116], dovette, poi, subire importanti ampliamenti, fra i quali preme evidenziare soprattutto in questa sede, la generalizzazione delle modalità della condotta e la conseguente sua configurazione in termini di semplice divieto di capere, non necessariamente collegato ad una violazione dei doveri d’ufficio[117].

Purtroppo la carenza di informazioni non ci consente di ricostruire con precisione le riforme cui dovette essere assoggettata la legge Giulia del 59 a.C., ma ne conosciamo il risultato finale, così come testimoniato nella sintesi tradita da Marciano nel Digesto[118].

 

Marcian. 14 inst. D. 48.11.1: Lex Iulia repetundarum pertinet ad eas pecunias, quas quis in magistratu potestate curatione legatione vel quo alio officio ministeriove publico cepit, vel cum ex cohorte cuius eorum est. 1. Excipit lex, a quibus licet accipere: a sobrinis propioreve gradu cognatis suis, uxore.

 

Veniva così introdotta una sostanziale discriminazione tra magistrati urbani, che potevano accettare donativi entro il prefissato valore di diecimila sesterzi nel corso di un anno, ed i promagistrati provinciali, cui non era lecito capere alcunché[119].

 

Ven. Sat. 3 publ. iudic. D. 48.11.6.2: Lege Iulia repetundarum cavetur (…): utque urbani magistratus ab omni sorde se abstineant neve plus doni muneris in anno accipiant, quam quod sit aureorum centum.

 

In ambito cittadino, infatti, la legislazione, pur ribadendo in via generale il dovere per i magistrati di ab omni sorde se abstinere, non poteva non tener conto di quel fitto reticolo di relazioni sociali e familiari[120] tipico di una società che faceva della reciprocità di dona et munera uno dei propri irrinunciabili pilastri[121].

Parallelamente l’istituzione del divieto assoluto di capere per i governatori provinciali[122] doveva servire, con ogni probabilità, a superare le difficoltà probatorie in giudizio (emerse già chiaramente nella pregressa esperienza processuale repubblicana de repetundis) delle attività estorsive[123].

«Si può dunque ritenere che nella legge di Cesare le disposizioni concernenti i promagistrati provinciali fossero strutturate sulla base di un generale divieto di ogni arricchimento, comunque conseguito, e che perciò si preoccupassero non tanto di elencare i singoli comportamenti illeciti quanto di specificare in quali casi era consentito al governatore e ai membri della cohors ricevere beni o servizi dalle popolazioni locali[124]».

Quest’ultimo dato emerge chiaramente dalla lettura dell’epistolario ciceroniano in cui l’autore evidenzia a più riprese che durante il suo proconsolato in Cilicia si astenne di proposito dal richiedere alla popolazione locale anche quei sumptus consentiti dalla legge[125].

È dunque credibile che anche la legge Giulia contenesse, sulla scia della tradizione in materia, determinate eccezioni al divieto, con cui si salvaguardava il tradizionale diritto dei governatori provinciali di esigere determinate contribuzioni in natura o in denaro per facilitare il loro soggiorno ed i loro spostamenti; doveva rimanere, invece, proibita ogni attività che potesse comunque comportare un lucro personale del magistrato o promagistrato attraverso il governo provinciale[126].

Questo vale ad escludere che la questione giuridica connessa all’imputazione per repetundae potesse essere affrontata – come Giulio Basso avrebbe forse voluto[127] – sotto un profilo squisitamente definitorio[128], contrapponendo l’asserzione da parte dell’imputato della spontaneità degli omaggi ricevuti alle accuse dei provinciali che qualificavano i quaedam accettati dal governatore come veri e propri furti e rapine[129].

La breve illustrazione dell’inconcludenza di qualsiasi questione attinente lo status finitivus offre, tuttavia, l’occasione a Plinio per procedere oltre nella caratterizzazione del suo assistito, aggiungendo al personaggio quei tratti di ‘ingenuità’ e ‘imprudenza’ – in qualche modo ‘giustificati’ da una certa familiarità di lunga data, dovuta al fatto che in quella stessa provincia egli aveva anche in passato rivestito magistrature – che costituiranno, come avremo subito modo di illustrare, il fulcro delle argomentazioni difensive.

 

 

6. – La problematica scelta delle argomentazioni difensive

 

Plinio denuncia chiaramente le serie difficoltà incontrate nella scelta della strategia difensiva contro l’imputazione di repetundae[130].

 

Plin. Epist. IV.9.7: Hic ego quid agerem, quod iter defensionis ingrederer?

 

Teoricamente un siffatto imbarazzo nella scelta del più appropriato iter defensionis[131] da imboccare non parrebbe giustificato, se solo si considera che per i processi di repetundae la ‘via maestra’ era già stata tracciata chiaramente da Cicerone.

 

Cic. De orat. II.25.105: ac nostrae fere causae quae quidem sunt criminum, plerumque infitiatione defenduntur. nam et de pecuniis repetundis, quae maximae sunt, neganda fere sunt omnia, et de ambitu raro illud datur, ut possis liberalitatem ac benignitatem ab ambitu atque largitione seiungere. …

 

A giudizio dell’Arpinate, in quasi tutte le cause, almeno in quelle penali, la difesa non poteva che consistere, almeno nella maggior parte dei casi, nella negazione stessa del fatto (infitiatio). Anche nei casi di repetundae, che vengono significativamente ritenuti i più gravi, Cicerone consigliava di respingere quasi tutte le accuse, così come nei processi di broglio elettorale è quasi nulla la possibilità di operare una distinzione tra liberalità e generosità da una parte e broglio e corruzione dall’altro.

La strada astrattamente consigliabile in via generale per i processi di repetundae doveva essere, pertanto, quella di una difesa tesa a far nascere la coniectura[132].

Nel caso di specie, tuttavia, la negazione del fatto[133] parve del tutto inopportuna a Plinio.

 

Plin. Epist. IV.9.7: … Negarem? Verebar ne plane furtum videretur, quod confiteri timerem. Praeterea rem manifestam infitiari augentis erat crimen, non diluentis, praesertim cum reus ipse nihil integrum advocatis reliquisset. Multis enim atque etiam principi dixerat sola se munuscula dumtaxat natali suo aut Saturnalibus accepisse et plerisque misisse.

 

Il nostro ritenne, dunque, che non si potesse negare il fatto, giacché il contestare una cosa evidente avrebbe finito per aggravare, anziché diminuire la colpa di Basso.

Plinio tende, inoltre, a sottolineare, come lo stesso imputato non avesse lasciato ai propri avvocati alcuna possibilità di manovra sul punto, perché aveva detto a molte persone, tra cui il principe, di aver ricevuto munuscula soltanto in occasione del proprio genetliaco o per i Saturnali e di averne ricambiati parecchi[134].

Un siffatto comportamento dell’imputato, quale reazione per così dire ‘istintiva’ e ‘spontanea’ nell’immediatezza delle contestazioni rivoltegli, rappresentava, come abbiamo avuto modo di vedere, un maldestro tentativo di porre la questione su un piano sostanzialmente ‘definitorio’ che non poteva essere accolto e condiviso dalla difesa tecnica dei suoi legali[135].

Come abbiamo già avuto modo di illustrare, infatti, la lex Iulia repetundarum contemplava un generale divieto di capere rispetto al quale ogni apprezzamento discrezionale di tipo quantitativo e qualitativo (munuscula[136]) doveva essere – ancora all’epoca del processo – precluso al tribunale[137]. Parimenti irrilevante doveva essere il riferimento dell’imputato tanto all’occasione dei Saturnali, festa tipicamente italica la cui ricorrenza nel contesto provinciale doveva prestarsi a strumentalizzazioni clientelari ancor più di quel che già accadeva a Roma[138], quanto a quella del compleanno o alla circostanza della reciprocità degli omaggi, in gran parte ricambiati.

Tali dichiarazioni extraprocessuali dell’imputato, di per sè inservibili – come abbiamo visto – sotto il profilo della definitio[139], in quanto ammissive del fatto finivano per precludere alla difesa di Basso anche la via della infitiatio e la conseguente nascita del contraddittorio tra le parti in punto di coniectura[140].

Le ammissioni rese dall’assistito nei suoi colloqui privati non erano, tuttavia, così compromettenti da giustificare una resa incondizionata da parte della difesa che limitasse gli sforzi oratori alla ricerca di un poco probabile perdono dei giudici.

 

Plin. Epist. IV.9.8: Veniam ergo peterem? Iugulassem reum, quem ita deliquisse concederem, ut servari nisi venia non posset.

 

L’accenno alla richiesta di misericordia pare riconducibile alla deprecatio[141], stato, come abbiamo visto, difficilmente utilizzabile in giudizio[142]. L’imputato avrebbe dovuto, infatti, confessare sia di aver trasgredito alla legge, sia di averlo fatto intenzionalmente, chiedendo, tuttavia, pietà ai colleghi senatori. Plinio esclude recisamente questa possibilità e dice apertamente che tale strada sarebbe equivalsa a dare il colpo di grazia all’imputato medesimo, ammettendo che egli era colpevole a tal punto da non poter esser salvato se non con un atto di clemenza[143]. Infatti, come notava già Cicerone, una volta che l’imputato si sia riconosciuto colpevole, per il difensore è estremamente difficile riuscire ad ottenere il perdono da chi ha come proprio dovere quello di punire le colpe[144].

Cionondimeno la posizione processuale di Basso non era neanche tale da poter essere patrocinata facendo uso di quella che Quintiliano definiva la difesa più forte del reo: la qualitas iuridicialis absoluta[145].

 

Quint. Institut. Orat. VII.4.4: Defensio longe potentissima est qua ipsum factum quod obicitur dicimus honestum esse. Abdicatur aliquis quod invito patre militarit, honores petierit, uxorem duxerit: tuemur quod fecimus. Hanc partem vocant Hermagorei κατἀντίληψιν ad intellectum id nomen referentes: Latine ad verbum tralatam non invenio: absoluta appellatur. Est enim de re sola quaestio, iusta sit ea necne.

 

Tale strategia difensiva era finalizzata a sostenere che il comportamento che veniva rimproverato al reo (e che il reo ammetteva di aver compiuto) era in realtà ‘onesto’. A tal fine si riportano gli esempi di scuola del figlio diseredato perché contro il volere del padre aveva prestato servizio militare, aveva ambito alle magistrature o si era sposato. In casi del genere l’unica difesa efficace consisterebbe nel difendere le proprie azioni. Quintiliano dà poi conto del fatto che la denominazione latina non è una traduzione fedele del corrispondente termine impiegato da Ermagora e dalla sua scuola (κατἀντίληψιν): essa viene detta ‘incondizionata’ (absoluta) perché la questione riguarda unicamente il fatto, se cioè esso sia giusto o meno.

A tal proposito Plinio si eprime nei seguenti termini.

 

Plin. Epist. IV.9.8-9: [8] … Tamquam recte factum tuerer? [9] Non illi profuissem, sed ipse impudens exstitissem.

 

Il vaglio dell’opzione consistente nel sostenere la liceità del comportamento tenuto dall’imputato viene rappresentato dal nostro autore in termini di recte factum, utilizzando per la descrizione dello status in questione una terminologia riconducibile al De inventione di Cicerone ed alla Rhetorica ad Herennium di Cornificio[146].

Anche questa strada viene scartata recisamente, evidenziando come la stessa, oltre a non giovare all’imputato, avrebbe fatto fare una pessima figura a Plinio, minandone la credibilità[147].

Per i motivi sopra esposti non vi era, infatti, margine per sostenere che il comportamento tenuto da Giulio Basso era perfettamente conforme al diritto e quindi questa linea difensiva non avrebbe mai potuto portare alcun beneficio al prevenuto.

D’altro canto percorrere la via della qualitas iuridicialis absoluta comportava per il difensore una scelta definitiva e ‘tranchante’, che gli avrebbe precluso argomentazioni ulteriori o concomitanti[148]. Plinio ritiene giustamente che per una scelta del genere si sarebbe procurato la taccia di impudens, ed abbiamo già avuto modo di vedere come l’impudentia sia uno dei difetti peggiori che il nostro rinfaccia al suo acerrimo rivale nel foro: M. Aquilio Regolo[149], senza contare che impudentissime è l’avverbio che caratterizza (§ 14) il prosieguo della condotta dibattimentale dell’accusatore Teofane[150].

 

 

7. – In particolare: l’identificazione della strategia difensiva del ‘medium quiddam tenere’

 

Di fronte a questo ventaglio di ipotesi, tutte da scartare, Plinio avrebbe optato per una ‘via di mezzo’ e questa scelta si sarebbe rivelata vincente.

 

Plin. Epist. IV.9.9: In hac difficultate placuit medium quiddam tenere: videor tenuisse.

 

Questo non è l’unico passaggio dell’epistolario in cui l’ideale della μετριότης, di derivazione aristotelica[151], viene recepito: il concetto torna a più riprese, in contesti diversi, e viene per lo più espresso con il termine temperamentum[152].

In questo caso, tuttavia, la formulazione della frase pare in qualche modo ‘riecheggiare’ un famoso passo del De oratore in cui Cicerone affronta la questione dello ‘stile’.

 

Cic. De orat. III.45.177: non enim sunt alia sermonis, alia contentionis verba; neque ex alio genere ad usum cotidianum, alio ad scaenam pompamque sumuntur; sed ea nos cum iacentia sustulimus e medio, sicut mollissimam ceram ad nostrum arbitrium formamus et fingimus. itaque tum graves sumus, tum subtiles, tum medium quiddam tenemus …

 

In questo contesto il medium quiddam tenere esprime il ‘giusto mezzo’ tra lo stile solenne e quello semplice: un ventaglio di possibilità che l’oratore ha per plasmare a proprio piacimento le parole, come morbidissima cera.

Nello specifico contesto di Epist. IV.9, il richiamo pliniano alla ‘medietà’ non mi pare riferito, però, allo stile da adottare, quando – piuttosto – alla strategia difensiva da tenere innanzi all’alta corte senatoria.

Una volta scartate tanto la coniectura (perché impedita dalle ammissioni extraprocessuali dell’imputato), quanto la definitio (stante l’assolutezza del divieto per il promagistrato provinciale di capere alcunché in base alla lex Iulia repetundarum), non sussistendo margini per formulare eccezioni capaci di invalidare l’accusa mediante una translatio[153], se le nostre considerazioni hanno colto nel segno, la ‘via di mezzo’ battuta con successo da Plinio nella propria abile difesa di Giulio Basso dovrebbe essere individuata nell’alveo dello stato qualitativo, tra gli opposti estremi della qualitas absoluta (factum, sed recte factum) e dell’ultimo status della qualitas adsumptiva, cioè la deprecatio, entrambi impraticabili per i motivi sopra esposti[154].

 

Il medium quiddam tenere dovrebbe essere pertanto, a mio avviso, identificato in quella che sia Cicerone che la Rhetorica ad Herennium chiamano purgatio[155], status sostanzialmente coincidente con la excusatio di Quintiliano il quale, nella trattazione della qualitas, segue evidentemente un modello che doveva aver apportato delle modifiche al primigenio sistema ermagoreo[156].

Come noto, con la ‘giustificazione’ si ammette di aver compiuto il fatto (concessio), ma non intenzionalmente, e si invocano quindi delle ‘scusanti’.

Mentre Quintiliano richiama l’efficacia esimente di ignorantia, necessitas e fortuna, fornendone una rapida definizione e ritenendo ultronea l’illustrazione mediante esemplificazione[157], sia il De inventione che la Rhetorica ad Herennium preferivano indicare la prima ‘scusante’ in termini di inprudentia ed offrono della stessa una trattazione più completa ed articolata, che ci pare opportuno richiamare.

Nel caso di specie, infatti, per difendere non factum ipsum, sed voluntas a Plinio non era dato invocare né lo stato di necessità, né il caso fortuito, e l’impegno oratorio dell’advocatus dovette verosimilmente concentrarsi sull’inprudentia del reo.

 

Cic. inv. II.95: Inprudentia est, cum scisse aliquid is, qui arguitur, negatur; … iudicatio est: cum id fecerit, quod non oportuerit, et id non oportere nescierit, sitne supplicio dignus?

 

Mentre Cicerone si limita ad affermare che il punto da giudicare consiste, in questo caso, nel sapere se chi ha commesso qualcosa di illecito ed ignorava che ciò non dovesse farsi, meriti o meno una pena, la Rhetorica ad Herennium fornisce indicazioni più precise.

 

Corn. Rhet. ad Herenn. II.24: Si autem inprudentia reus se peccasse dicet, primum quaeretur, utrum potuerit nescire an non potuerit; deinde utrum data sit opera, ut sciretur, an non; deinde, utrum casu nescierit an culpa.

 

Se l’imputato affermerà di aver sbagliato per imprudenza, ci dovremo chiedere in primo luogo se poteva o non poteva sapere; poi, se ci si adoperò per sapere o no; infine, se ignorò per caso o per colpa.

L’Erenniana è, inoltre, molto puntuale anche nell’illustrazione dei τόποι comuni alle tre ‘scusanti’.

 

Corn. Rhet. ad Herenn. II.24: … Loci communis in his causis: accusatoris contra eum, qui cum peccasse confiteatur, tamen oratione iudices demoretur; defensoris, de humanitate, misericordia: voluntatem in omnibus rebus spectari convenire; quae consulto facta non sint, an ea fraudei esse non oportere.

 

Mentre all’accusatore spetta il compito di evidenziare ai giudici che l’unica cosa che rimane ferma delle dichiarazioni del reo è solo la confessione, essendo il resto costituito da divagazioni che fanno solo perder tempo, il difensore deve focalizzare i propri argomenti sull’umanità e sulla pietà, evidenziando l’esigenza di guardare in tutti gli atti alla volontà e sostenendo che sarebbe ingiusto ed intollerabile attribuire a titolo di colpa degli atti che non siano stati commessi intenzionalmente.

Che questo possa essere l’argomento retorico rivelatosi vincente, il medium quiddam tenere non meglio esplicitato, mi pare confermato dal fatto che Plinio, già in sede di caratterizzazione del personaggio (§ 6), dipinge Giulio Basso come homo simplex et incautus: entrambi gli aggettivi, infatti, paiono strettamente collegati al concetto di inprudentia.

L’inconsapevolezza del capere contra legem mi sembra, inoltre, sottolineata anche dalla precisazione che l’imputato quaedam a provincialibus acceperat non nella sua veste istituzionale di governatore, bensì ut amicus, in ragione di relazioni di cortesia risalenti al periodo in cui egli era stato questore nella medesima provincia[158].

Questa dovette essere, a mio avviso, la strategia argomentativa usata da Plinio per difendere l’imputato dall’imputazione di repetundae, ed essa si rivelò vincente (videor tenuisse).

 

 

8. – L’interruzione notturna e la ripresa dell’arringa il giorno successivo

 

La prima giornata del processo doveva essere stata particolarmente impegnativa e la notte sopraggiunse quando Plinio non aveva ancora esaurito il tempo a sua disposizione per l’arringa.

 

Plin. Epist. IV.9.9-12: [9] Actionem meam, ut proelia solet, nox diremit. Egeram horis tribus et dimidia, supererat sesquihora. Nam cum e lege accusator sex horas, novem reus accepisset, ita diviserat tempora reus inter me et eum, qui dicturus post erat, ut ego quinque horis, ille reliquis uteretur. [10] Mihi successus actionis silentium finemque suadebat. Temerarium est enim secundis non esse contentum. Ad hoc verebar, ne me corporis vires iterato labore desererent, quem difficilius est repetere quam iungere. [11] Erat etiam periculum, ne reliqua actio mea et frigus ut deposita et taedium ut resumpta pateretur. Ut enim faces ignem adsidua concussione custodiunt, dimissum aegerrime reparant, sic et dicentis calor et audientis intentio continuatione servatur, intercapedine et quasi remissione languescit. [12] Sed Bassus multis precibus, paene etiam lacrimis, obsecrabat implerem meum tempus. Parui utilitatemque eius praetuli meae. Bene cessit: inveni ita erectos animos senatus, ita recentes, ut priore actione incitati magis quam satiati viderentur.

 

Instaurando un parallelismo tra lo scontro processuale e quello militare, Plinio ci dice che fu la notte a sospendere la sua arringa, come di solito accade per le battaglie[159]. Aveva parlato per tre ore e mezza e gliene rimaneva ancora una e mezza. Infatti, poichè a termini di legge l’accusatore aveva diritto a sei ore e l’imputato a nove[160], Giulio Basso aveva diviso il tempo tra Plinio e Lucceio Albino in modo che il primo potesse contare su cinque ore ed il secondo sulle quattro rimanenti. L’esito positivo del primo intervento consigliava al nostro autore di concludere e tacere, essendo temerario non sentirsi paghi dell’indirizzo favorevole già guadagnato[161]. Inoltre egli temeva che la nuova fatica lo avrebbe privato delle energie fisiche[162], in quanto è più difficile riprendere un discorso che proseguirlo senza soluzione di continuità. C’era, d’altronde, anche il pericolo che la seconda parte della sua arringa risultasse fredda, a causa della sospensione, e noiosa, a causa della ripresa.

L’autore ricorre, poi, ad una similitudine: come le fiaccole conservano viva la fiamma se questa è agitata ininterrottamente, così il fervore di chi parla e l’attenzione di chi ascolta sono tenuti vivi dalla continuità, mentre languiscono per l’interruzione e per l’allentamento.

Ma Basso, con molte preghiere e quasi finanche con le lacrime, lo aveva scongiurato perchè facesse uso di tutto il tempo a sua disposizione e Plinio cedette a questa richiesta, anteponendo l’interesse dell’assistito al proprio. Gli andò bene, in quanto trovò gli spiriti dei senatori così vivi e così rinnovati, che gli sembrarono più stimolati che saziati dall’intervento del giorno precedente.

Abbiamo già avuto modo di vedere come Plinio fosse incline ad accantonare la brevitas a favore dell’ubertas nei processi più importanti[163]: in questo caso, però, la scelta era complicata dall’interruzione notturna del processo e dalla buona riuscita del primo intervento.

In linea di massima, infatti, si doveva evitare di iniziare un’arringa che potesse essere interrotta dalla notte[164], proprio per evitare gli inconvenienti descritti nella similitudine pliniana (§ 11)[165].

Ciononondimeno il nostro autore si trovò in una situazione imbarazzante, perchè la notte lo dovette sorprendere quando aveva già toccato in modo soddisfacente tutti i punti del caso in questione che egli riteneva salienti ed irrinunciabili e tutto sembrava sconsigliare una ripresa[166]. Senza contare che lo stesso Plinio consigliava ai suoi allievi di riprendere propri precedenti discorsi post oblivionem e solo come faticoso (e noioso) esercizio retorico privato di retractatio[167].

In questo contesto, infatti, prendere nuovamente la parola non dava garanzia (anche in ragione della stanchezza fisica) né di recalescere ex intergo et resumere impetum fractum omissumque, né, tanto meno, di nova velut membra peracto corpori intexere nec tamen priora turbare, ma vi era anzi il rischio concreto di compromettere un risultato già buono ed assodato, abusando della pazienza di un uditorio non più abituato ad ascoltare lunghe arringhe[168].

Le insistenze di Giulio Basso che lo supplicava di utilizzare tutto il tempo a sua disposizione[169] ebbero, tuttavia, la meglio su ogni ulteriore considerazione. La deontologia professionale pliniana imponeva, infatti, all’advocatus di preporre l’interesse dell’assistito a quello dello stesso difensore[170].

Tale scelta risultò appropriata, perché Plinio trovò un uditorio rinfrancato dal riposo notturno e ben disposto ad una ampliatio che verosimilmente sarà stata condotta dall’oratore facendo ricorso alla varietas delle argomentazioni difensive e, soprattutto, diversificando i toni dell’arringa[171], considerando che da un punto di vista contenutistico ben poco doveva essere aggiunto ad un discorso ritenuto esauriente già al termine del primo intervento.

 

 

9. – La prosecuzione del secondo giorno di dibattimento

 

Il secondo giorno di dibattimento proseguì con l’intervento in difesa di Basso di Lucceio Albino[172].

 

Plin. Epist. IV.9.13-14: [13] Successit mihi Lucceius Albinus tam apte, ut orationes nostrae varietatem duarum, contextum unius habuisse credantur. [14] Respondit Herennius Pollio instanter et graviter, deinde Theophanes rursus. Fecit enim hoc quoque, ut cetera, impudentissime, quod post duos et consulares et disertos tempus sibi et quidem laxius vindicavit. Dixit in noctem atque etiam nocte[173] inlatis lucernis.

 

Albino si inserì talmente bene nel solco tracciato da Plinio[174] che, a giudizio di quest’ultimo, le orazioni potevano essere considerate due per la loro varietas ed una sola per la loro stretta connessione.

Il rapporto di amicizia che, oltre alla stima ed alla colleganza, era subentrato dopo aver condiviso il patrocinio dei Betici nel processo contro Classico ed i suoi complici dovette sicuramente facilitare l’affiatamento dei due oratori[175].

La replica dell’accusa fu affidata ad Erennio Pollione[176], che parlò con tono stringente e vigoroso[177], e ad un nuovo intervento di Teofane, che si comportò anche in questa occasione, come in tutte le altre, impudentissime, pretendendo dopo due consolari, eloquenti oratori, di parlare per tutto il tempo a lui assegnato, e anzi più a lungo, protraendo il discorso fino a notte ed anche dopo che per il buio furono accese le lanterne.

Plinio dedica poche parole all’intervento del collega, ma come ha acutamente osservato Anne Orentzel, «although it is difficult to determine Albinus’ style, it may be surmised that he was a careful speaker, overlooking no points, concentrating on the cogency of his plea, not trying to dazzle the jurors with rhetorical turns[178]».

Colpisce, in particolar modo, l’espresso riferimento di Plinio alla ‘varietà’ delle argomentazioni prescelte dal collega. Come abbiamo già avuto modo di dire, infatti, la variestas è uno dei mezzi prescelti per ovviare ai rischi della ubertas, soprattutto in tempi in cui si predilige la brevitas. In particolare la ‘varietà’ dell’arringa di Albino dovette caratterizzarsi e distinguersi dall’intervento di Plinio non solo sotto l’aspetto stilistico dell’elocutio, ma anche sotto il profilo contenutistico dell’inventio, andando a trattare in modo specifico tutte quelle questioni che l’oratore che lo aveva preceduto non aveva approfondito per dedicare maggior spazio alla difesa dell’accusa ritenuta più grave.

L’apprezzamento tecnico della replica di Pollione (respondit instanter et graviter) pare dettato non tanto da una sincera ammirazione professionale, quanto, piuttosto, dall’esigenza retorica di evidenziare quanto più possibile la concreta inutilità, l’inopportunità e l’inadeguatezza del secondo intervento di Teofane, segnando così l’apice della climax di caratterizzazione negativa di questo personaggio, la cui portata viene estesa mediante il richiamo ut cetera che vale ad escludere l’episodicità del comportamento descritto[179].

 

 

10. – Le attività processuali della terza udienza

 

Ancor più sbrigativa la trattazione delle attività processuali del terzo giorno, limitata dall’autore ad un rapido accenno.

 

Plin. Epist. IV.9.15: (15) Postero die egerunt pro Basso Homullus et Fronto mirifice;

 

Da questo passaggio apprendiamo solamente che il giorno successivo furono Omullo e Frontone a perorare in favore di Basso e che entrambi lo fecero in maniera eccellente[180].

In aggiunta a quello che emerge dal racconto di Plinio si può – forse – ipotizzare che a Cazio Frontone sia stata affidata la commiseratio finale dell’imputato, in ragione della sua consolidata abilità oratoria nel provocare il coinvolgimento emotivo dei giudici, captandone la pietà[181].

Come insegnava Quintiliano, infatti, l’epilogo era la sede più adatta per un’ampia trattazione dei sentimenti risvegliati sin dal proemio e coltivati in tutte le parti dell’orazione[182]. Aver affidato l’ultimo intervento a Fronto potrebbe, a mio avviso, aver avuto proprio la finalità di sfruttare al massimo l’amplificatio adfectuum nel momento in cui l’animo dei giudici doveva aver raggiunto la migliore predisposizione possibile.

 

 

11. – Il quarto giorno di udienza: l’attività istruttoria, la ‘rogatio sententiarum’ e la votazione mediante ‘discessio’

 

Al termine del terzo giorno di udienza la causa fu nuovamente aggiornata all’indomani per la quarta ed ultima seduta.

 

Plin. Epist. IV.9.15-17: [15] … quartum diem probationes occuparunt. [16] Censuit Baebius Macer, consul designatus, lege repetundarum Bassum teneri, Caepio Hispo, salva dignitate iudices dandos; uterque recte[183]. «Qui fieri potest», inquis, «cum tam diversa censuerint[184][17] Quia scilicet et Macro legem intuenti consentaneum fuit damnare eum qui contra legem munera acceperat, et Caepio, cum putaret licere senatui, sicut licet, et mitigare leges et intendere, non sine ratione veniam dedit facto vetito quidem, non tamen inusitato.

 

Il quarto giorno di udienza fu dedicato all’esposizione ed alla valutazione delle prove, che potevano essere ‘tecniche’ (artificiales) oppure ‘atecniche’ (inartificiales)[185]. Mentre l’accusa doveva verosimilmente disporre di prove in larga misura documentali[186], la difesa dovette giocare essenzialmente sulle prove artificiales che, come noto, constavano di signa (prove di fatto), exempla (prove per induzione), argumenta (prove per deduzione)[187].

Pare appena il caso di ricordare, inoltre, che i testimoni indotti dall’accusa venivano sentiti concedendo ad entrambe le parti un ruolo attivo che contemplava l’interrogare, il sublevare ed il refutare, mentre nei processi senatoriali di repetundae era – di massima[188] – interdetta alla difesa la possibilità di presentare propri testimoni a discarico[189].

Terminato il dibattimento, i senatori venivano invitati ad esprimere pubblicamente il loro parere e le loro proposte anche in merito alla pena da applicare (rogatio sententiarum[190]).

Bebio Macro[191] aveva il diritto, in quanto console designato, di prendere per primo la parola; egli riteneva che a Basso si dovesse applicare la lex repetundarum. Cepione Ispone[192] era invece dell’avviso che l’imputato, conservando la dignità senatoria, dovesse essere rinviato davanti alla apposita commissione[193]. Entrambe le proposte, pur in aperto contrasto tra di loro, paiono giuste a Plinio, in quanto frutto di due punti di vista differenti; da questa presa di posizione è lecito inferire che qualsiasi accusa di saevitia fosse stata esclusa[194].

Per Macro, che si atteneva alla legge, era giusto condannare ‘tout court’ colui che contra legem aveva accettato dei doni.

Cepione, dal canto suo, credeva che il senato avesse il diritto – come effettivamente lo aveva – sia di mitigare che di inasprire le leggi e a buon diritto era incline a scusare un fatto che era, sì, proibito, ma che non poteva certo dirsi raro.

Da un punto di vista pratico le due proposte differiscono solamente nel fatto che la seconda tende a negare, in via preventiva, alla commissione il potere di comminare al reo l’infamia nel sancire l’importo delle restituzioni dovute[195].

Una siffatta forzatura del rito viene ricondotta da Plinio al potere del senato di mitigare et intendere leges[196], potere la cui concreta operatività doveva, tuttavia, essere tutt’altro che scontata e doveva dar vita a vivaci controversie tra le opposte fazioni senatorie[197].

 

Plin. Epist. IV.9.18-19: [18] Praevaluit sententia Caepionis, quin immo consurgenti[198] ad censendum acclamatum est, quod solet residentibus. Ex quo potes aestimare, quanto consensu sit exceptum, cum diceret, quod tam favorabile fuit, cum dicturus uideretur. [19] Sunt tamen ut in senatu ita in civitate in duas partes hominum iudicia divisa. Nam, quibus sententia Caepionis placuit, sententiam Macri ut rigidam duramque reprehendunt; quibus Macri, illam alteram dissolutam atque etiam incongruentem vocant; negant enim congruens esse retinere in senatu, cui iudices dederis.

 

Come noto, alla fase della rogatio sententiarum il presidente metteva ai voti le proposte che sembravano degne di approvazione e si dava, quindi, corso alla votazione mediante discessio[199].

Prevalse il parere di Cepione, ed anzi lo stesso fu acclamato quando si alzò per formularla, mentre di solito ciò avveniva solo quando il senatore proponente tornava a sedersi. Da questo sarebbe possibile arguire da quanti consensi fu accolta la mozione quando egli ebbe parlato, se tanto fu il favore dei colleghi senatori già nell’atto di presentarla.

Tale soluzione pare pienamente condivisa dal nostro autore[200].

Tuttavia Plinio dice che, come in senato, anche tra il popolo le opinioni erano divise in due partiti. Quelli che avevano approvato il parere di Cepione biasimavano, infatti, quello di Macro come inflessibile e severo; quelli, invece, che avevano aderito a quello di Macro consideravano l’altro troppo fiacco ed anche incongruente, sostenendo che fosse illogico mantenere in senato un soggetto deferito davanti alla commissione.

Dalla formulazione adottata emerge chiaramente come il dare iudices sia rappresentato come una diretta conseguenza della riconosciuta colpevolezza del reo da parte dell’alta corte[201] e tale accertata reità doveva innegabilmente mal conciliarsi con la conservazione della dignitas senatoriale[202].

Non pare, invece, condivisibile l’opinione di Kemper, che ha scorto in questo passaggio dell’epistula un’applicazione della dottrina degli status legali e, più precisamente, l’ambito di operatività della contrapposizione tra scriptum et sententia[203]. Nel caso di specie, infatti, non pare porsi alcun contrasto tra il testo di una legge e l’intenzione del legislatore, né pare affacciarsi alcuna ambiguità dovuta alla formulazione della norma. La colpevolezza di Basso in relazione alla lex Iulia repetundarum era chiara ed evidente a tutti, anche allo stesso Cepione.

Tuttavia, come è stato giustamente evidenziato, la ratio decidendi della sententia di Caepio Hispo, approvata dal consesso senatorio, «si fondava (…) su criteri che tenevano conto del concreto atteggiarsi della realtà di fatto[204]».

Nel caso di specie, infatti, Plinio, presentando Basso come uomo anziano, dalla vita travagliata, che nella sua semplicità e nel suo candore non si era reso conto di trasgredire la legge[205], ebbe l’indiscusso merito di offrire un commodus discessus ai sostenitori dell’imputato, che riuscirono così a mitigare, su un piano squisitamente politico, le conseguenze di una scontata condanna dell’operato dell’ex governatore[206].

Sappiamo, infatti, dal carteggio tra Plinio e Traiano che il processo in questione non ebbe come unica conseguenza il rinvio alla commissione per l’aestimatio del dovuto: gli acta Bassi furono rescissa ed il senato concesse a tutti coloro che erano stati in qualche modo lesi dalle sue disposizioni il diritto di sottoporsi ad un nuovo giudizio entro il termine di due anni[207].

Questo induce autorevoli studiosi a ritenere che Basso fosse solo un ‘volgare delinquente’ che, grazie anche al patrocinio di un ottimo collegio difensivo, potè giovarsi dell’attitudine di larga parte del senato a serrare le file e difendere la propria parte[208].

Un indizio in tal senso viene comunemente tratto anche dalla presenza, nel caso di specie, di una terza sententia.

 

Plin. Epist. IV.9.20-21: [20] Fuit et tertia sententia: Valerius Paulinus assensus Caepioni hoc amplius censuit, referendum de Theophane cum legationem renuntiasset. Arguebatur enim multa in accusatione fecisse, quae illa ipsa lege qua Bassum accusauerat tenerentur. [21] Sed hanc sententiam consules, quamquam maximae parti senatus mire probabatur, non sunt persecuti. Paulinus tamen et iustitiae famam et constantiae tulit.

 

Ci fu, infatti, anche un terzo parere: Valerio Paolino[209], che aveva aderito a quello di Cepione, fece una proposta più ampia, suggerendo di aprire un’inchiesta a carico di Teofane, dopo che egli fosse scaduto dalla sua qualità di delegato[210]. Lo incolpava, infatti, d’aver compiuto durante il processo molti atti che cadevano sotto quella stessa legge in nome della quale aveva accusato Basso.

Come noto, infatti, tra le previsioni della lex Iulia repetundarum rientrava anche l’accettazione di denaro ob accusandum vel non accusandum[211].

Ma i consoli non diedero seguito a tale proposta, sebbene ad essa fosse favorevole la maggior parte del senato. Ad ogni modo, tramite essa Paolino si guadagnò la fama di uomo giusto e coraggioso[212].

A questo proposito Colin Wells significativamente si domanda se questa proposta di Valerius Paulinus non sia stata «qualcosa di più di un ammonimento ad un arrogante provinciale ad imparare la lezione[213]».

Pare, in ogni caso, degna di nota la circostanza che – almeno stando al racconto di Plinio – la maggior parte dei senatori sarebbe stata favorevole ad una soluzione di questo tipo[214].

 

 

12. – La conclusione del processo

 

La decisione del senato venne accolta in un clima di diffusa soddisfazione.

 

Plin. Epist. IV.9.22: Misso senatu Bassus magna hominum frequentia, magno clamore, magno gaudio exceptus est. Fecerat eum favorabilem renovata discriminum vetus fama notumque periculis nomen et in procero corpore maesta et squalida senectus.

 

Una volta che la seduta fu sciolta, infatti, Basso fu accolto da una gran folla, tra forti clamori e grande esultanza[215]. Plinio riconduce tale benevolenza all’antico ricordo, rinnovato dal processo, delle sue precedenti peripezie, al suo nome, diventato tristemente noto per i rischi ai quali era stato esposto ed anche al triste spettacolo della sua avvilita vecchiaia, tanto più compassionevole in un uomo un tempo caratterizzato da una considerevole prestanza fisica.

Gli ultimi tratti della caratterizzazione valgono a rinnovare quel sentimento di compassione che, unitamente all’aspetto fisico quasi spettrale, era valso a conservare all’imputato la dignitas senatoria, elidendo ogni tratto tipico del criminale[216].

 

 

 



 

[1] PIR (2a ed.)‘Iulius’ 205. V. sopra, cap. I, nt. 95.

 

[2] Cfr. A. Stein, voce ‘Cornelius Ursus’, in «RE», IV.1, Stuttgart, 1900, c. 1591.

 

[3] Oltre ad Epist. IV.9, infatti, Cornelio Urso ricevette sicuramente le prime tre lettere inerenti il processo di Vareno Rufo (Epist. V.20; VI.5 e 13). Con ogni probabilità egli è anche il destinatario di Epist. VIII.9 in cui Plinio comunica all’amico che la necessità di rimanere fedele ai copiosi obblighi dell’amicizia gli impediva sia di ritirarsi in campagna sia di attendere ai lavori letterari. Cfr. Stein, voce ‘Cornelius Ursus’, cit., 1591; A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 274.

 

[4] Sulla compoisizione del circolo letterario di Plinio il Giovane cfr., per tutti, A.-M. Guillemin, Pline, cit., 22 ss.

 

[5] Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 274. Si esprime in questo senso, in termini di certezza, anche H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 273.

 

[6] Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 274 s.: «… it is clear that the year 100-1 or 101-2 would suit for the proconsulship, followed by indictment in late summer 101 or 102. If there was a time-consuming inquisitio, indictment in late 101 is more probable». Le monete recanti sul verso la dicitura Γ. Ἷου(λίου) Βάσσου ἀνθυπάτου e sul retto la testa ed il nome dell’imperatore Traiano, senza la menzione del titolo onorifico di Dacicus che altrove compare a partire dalla fine dell’anno 102 d.C. non possono fare piena prova ai fini della datazione: in questo senso v. già A. von Premerstein, ‘C. Iulius Quadratus Bassus’, cit., 75. Cfr. anche A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 274. Deve essere, poi, senz’altro respinta l’identificazione – a suo tempo proposta da A. von Premerstein, ‘C. Iulius Quadratus Bassus’, cit., 5 ss. – dell’assistito di Plinio con C. Iulius Quadratus Bassus, consul suffectus nel 105 d.C., la cui carriera è nota attraverso una lunga (e danneggiata) iscrizione di Pergamo. A tal proposito pare decisivo rilevare, con la maggior parte degli autori, che la circostanza che tale documento non menzioni il proconsolato di Bitinia e Ponto, unita al fatto che il cliente di Plinio era già avanti negli anni (Epist. IV.9.22: squallida senectus) al momento della celebrazione del processo e che i suoi acta di governatore erano stati rescissa (Plin. Epist. X.56.4; X.57.2) paiono elementi incompatibili con il conferimento di nuovi, prestigiosi incarichi da parte dell’imperatore: cfr., ad esempio, E. Groag, voce ‘C. Iulius Quadratus Bassus’, cit., cc. 311 s.; R. Syme, Recensione a A. Stein, Die Reichsbeamten, cit., 162 s.; A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 275; B.F. Harris, ‘Bithynia’, cit., 884.

 

[7] PIR2 B 20. Bebio Macro, curatore della via Appia, proconsole della Betica, console nel 103 e prefetto di Roma nel 117, appare nella corrispondenza di Plinio anche come destinatario di Epist. III.5. Cfr. Klebs, voce ‘Baebius Macer’, in «RE», II.2, Stuttgart, 1896, c. 2731; R. Syme, Tacito, II, cit., 876; A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 215 s., 278; A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 199 ss.

 

[8] Plin. Epist. IV.9.16.

 

[9] Già Th. Mommsen, Zur Lebensgeschichte, cit., 380, datava il processo o nel 103 o nel 104 d.C., peraltro muovendo dall’erroneo presupposto (v. sopra, in questo capitolo, nt. 6) che l’imputato fosse verosimilmente «derjenige C. Iulius Bassus, der, wie wir eben sahen, im Mai 105 Consul war, wesshalb diese Anklage nicht in das J. 105 selbst fallen kann». Di avviso totalmente diverso A. von Premerstein, ‘C. Iulius Quadratus Bassus’, cit., 74, che anticipava la data del proconsolato di Basso al 97/98 o al 98/99 e, conseguentemente, collocava il processo nell’anno 100. La pubblicazione di un frammento dei Fasti Ostienses, che fissa senza ombra di dubbio il consolato di Bebio Macro nel secondo quarto del 103 d.C., ha definitivamente posto fine ad un lungo dibattito e ci ha consegnato la datazione precisa del processo e della lettera: cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 60 e 274.

 

[10] Cfr. H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 273.

 

[11] Cfr. F. Gamberini, Stylistic Theory, cit., 141 ss. e 300, il quale inquadra questa epistola nella terza categoria della classificazione da lui proposta, «letters corresponding to the types of oratorical excurses», e, più precisamente, sub specie di expositio quarundam rerum gestarum.

 

[12] Cfr. H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 279, ove si evidenzia come l’espressione ‘causam dicere’ venga già usata da Cicerone con riferimento all’imputato (assumendo, in questo caso, il significato di ‘difendersi in giudizio’), quanto al patronus (con riferimento, questa volta, allo svolgimento dell’attività processuale).

 

[13] Traduco così l’aggettivo laboriosus, che ricorre nella corrispondenza anche per caratterizzare un altro imputato de repetundis difeso da Plinio innanzi al senato: Vareno Rufo. V. Plin. Epist. VI.13.1: Umquamne vidisti quemquam tam laboriosum et exercitum quam Varenum meum? Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 275. Cfr. anche H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 334, il quale nota come l’aggettivo in questione venga più volte utilizzato da Cicerone in questa accezione.

 

[14] Plin. Ep. III.9.4: Sed Marium una civitas publice multique privati reum peregerunt, in Classicum tota provincia incumbuit. Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 275; H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 274; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 92; F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 245.

 

[15] L’espressione tecnica ad senatum remittere è usata dallo stesso autore anche nella descrizione della causa che i Bitinii intentarono nei confronti del proconsole Vareno: gli accusatori si erano rivolti direttamente a Traiano, ma furono ab illo ad senatum remissi (Plin. Epist. V.20; VI.13.2). Cfr. L. Fanizza, L’amministrazione, cit., 56. V. anche il racconto dell’episodio in cui Tiberio trasmette al senato la causa nata dalla denuncia a carico di Pisone presentatagli da Trione, narratoci da Tac. Ann. III.10: … haud fallebat Tiberium moles congnitionis quaque ipse fama distraheretur. igitur paucis familiarium adhibitis minas accusantium et hinc preces audit integramque causam ad senatum remittit.

 

[16] Dopo la presentazione della postulatio/delatio ai consoli, se la domanda veniva ritenuta ammissibile (receptio), all’accusato veniva in genere assegnato un termine a comparire. In assenza di termini legali, la fissazione del giorno per la discussione del processo era rimessa alle libere valutazioni dei consoli e del senato, «tuttavia le esigenze della procedura improntata al principio accusatorio dovevano logicamente portare a tener conto del parere dell’accusatore nel fissare una data più o meno vicina a quella della postulatio» (così F. De Marini Avonzo, La funzione, cit., 93. Poteva quindi accadere che prima dell’inizio del vero e proprio dibattimento ci fosse un certo intervallo temporale, spesso occupato dalle more dell’istruzione, ad esempio quando era necessario dar corso ad una inquisitio (v. Tac. Ann. XIII.43 per la richiesta degli accusatori di P. Suillio, reo di repetundae e di peculato, di un termine di un anno per potersi documentare sui reati commessi in provincia) o per la chiamata a Roma dei testimoni. Sul punto cfr. C. Solimèna, Plinio, cit., 272 s. e nt. 1; F. De Marini Avonzo, La funzione, cit., 93 s.; A.H.M. Jones, The Criminal Courts, cit., 112; R.J.A. Talbert, The Senate, cit., 481; Cfr. B. Santalucia, Diritto e processo penale2, cit., 238 s.

 

[17] Cfr. L. Fanizza, L’amministrazione, cit., 56.

 

[18] Rendo così il termine amicus tenendo conto dello spostamento semantico che il termine inizia a subire, già a partire dalla tarda età repubblicana, verso la forma dell’ambiente cortigiano, in base «al carattere pragmatico dell’amicizia romana, all’esigenza stessa di efficacia che la necessita e la fa vivere. … Nello stesso tempo essa ha un valore ‘politico’ in quanto prefigura (distaccandosi dai termini del costume usuale per spostamenti che sono soltanto spostamenti di misura) i futuri caratteri dell’‘amicizia’ di età imperiale»: così S. Citroni Marchetti, Volontà degli amici ed esercizio del potere in Cicerone, in «MD», XLII, 1999, 84. In età imperiale, infatti, l’imperatore si troverà al centro di tutte le relazioni, anche nella veste di principale erogatore di benefici: sul punto cfr. F. Millar, The Emperor in the Roman World (31 BC-AD 337), London, 1977, passim; R.P. Saller, Personal Patronage under Early Empire, Cambridge, 1982, passim. Con il regno di Traiano, poi, il legame di amicitia nei confronti dell’imperatore viene a cedere il passo a quello di indulgentia-pietas in cui è palesemente esclusa qualsiasi idea di ‘parità’ tra i soggetti vincolati: cfr. H. Cotton, The Concept of ‘indulgentia’ under Trajan, in «Chiron», XIV, 1984, praecipue 265.

 

[19] L’autore non perde occasione, come in questo breve passaggio, per stigmatizzare il pessimus Domiziano, guardato con sospetto anche dal suo precedessore e capace di colpire finanche le persone a lui più vicine. Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 275. V. anche sopra, cap. I, § 2.

 

[20] Cfr. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 484 s. (= Id., Le droit pénal, II, cit., 172 s): «die regelmässige Stelle für die Begnadigung ist, wie für die gleichartige Abolition, der Senat; sehr häufig aber, namentlich wo sie als persönliche Vergünstigung auftritt, ist sie von dem Herrscher verfügt worden. Neben der Begnadigung für einzelne Personen erscheint vielfach auch die Begnadigung von Gruppen, namentlich regelmässig nach dem Sturz tyrannischer Herrscher, um die Folgen der gemissbrauchten Justiz so weit möglich zu beseitigen, auch wohl wie bei der Abolition bei besonderen festlichen Anlässen».

 

[21] La Bitinia era, all’epoca, provincia proconsolare pretoria, per cui Basso doveva esser stato pretore prima della sua relegatio ad opera di Domiziano: cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 275. V. anche sopra, cap. I, nt. 5.

 

[22] Il riferimento iniziale al fideliter defendere pare espressione della deontologia professionale pliniana (v. sopra, cap. I, § 6) ed introduce sin dalle prime battute la scelta di preferire l’utilitas dell’assistito alla propria, illustrata nel successivo § 12.

 

[23] Sull’esordio, v., per tutti, B. Mortara Garavelli, Manuale4, cit., 62 ss.; G. Calboli, Introduzione alla ‘inventio’, in La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, a cura di B. Santalucia, Pavia, 2009, 194 s., con citazione di ulteriore bibliografia.

 

[24] Cfr. B. Mortara Garavelli, Manuale4, cit., 62; G. Calboli, Introduzione alla ‘inventio’, cit., 194.

 

[25] Cfr. P. Garnsey, Social Status, cit., 55; H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 275 s.

 

[26] V. CIL VI, 468 (=ILS 3355); VIII.1777. Cfr. R. Hanslik, voce ‘C. Pomponius Rufus Acilius [?Pris]cus Coelius Sparsus’, in «RE», XXI.2, Stuttgart, 1952, c. 2348; R. Syme, Tacito, II, cit., 875 e nt. 2; A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 209; Y. Rivière, Les délateurs, cit., 538.

 

[27] Più passi del Digesto forniscono una definizione giuridica del praevaricator: Marcian. sing. ad sc. Turpillianum D. 48.16.1.6: Praevaricatorem eum esse ostendimus, qui colludit cum reo et translaticie munere accusandi defungitur, eo quod proprias quidem probationes dissimularet, falsas vero rei excusationes admitteret; Ulp. 6 ad ed. praet. D. 47.15.1 pr.: Praevaricator est quasi varicator, qui diversam partem adiuvat prodita causa sua. …; Ulp. 1 de adult. D. 50.16.212: ‘Praevaricatores’ eos appellamus, qui causam adversariis suis donant et ex parte actoris in partem rei concedunt: a varicando enim praevaricatores dicti sunt. Più in generale, sulla praevaricatio, v. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 501 ss. (= Id., Le droit pénal, II, cit., 192 ss.); E. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, in «ZSS», LIII, 1933, 177 ss.; G. Wesenberg, voce ‘Praevaricatio’, in «RE», XXII.2, Stuttgart, 1954, cc. 1680 ss.; B. Santalucia, Diritto e processo penale2, cit., 265 e nt. 306, con indicazione di ulteriore bibliografia.

 

[28] Plin. Epist. III.9.33: Obiecta sunt multa, quae magis quam praevaricatio nocuerunt; quin etiam duo consulares, Pomponius Rufus et Libo Frugi, laeserunt eum testimonio, tamquam apud iudicem sub Domitiano Salvi Liberalis accusatoribus adfuisset. Sul punto cfr. O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 90 s.

 

[29] Sull’apprezzamento di Plinio per la vehementia negli accesi scontri tra avvocati, cfr. G. Picone, L’eloquenza, cit., 41 s.

 

[30] Quintiliano insegnava ai propri allievi che anche l’avvocato della controparte può fornire argomenti spendibili nell’exordium e precisava come, nella maggior parte dei casi, valeva la pena rendergli pubblico onore dichiarando di temerne l’eloquenza e l’influenza, al solo scopo di ingenerare il sospetto del giudice nei confronti delle di lui future argomentazioni. V. Quint. Instit. Orat. IV.1.11: … Etiam partis adversae patronus dabit exordio materiam, interim cum honore, si eloquentiam eius et gratiam non timere fingendo, ut ea suspecta sint iudici, fecerimus, interim per contumeliam, sed hoc perquam raro, …

 

[31] PIR (2a ed.) H 119. Cfr. E. Groag, voce ‘M. Herennius Pollio’, in «RE», VIII.1, Stuttgart, 1912, c. 676; R. Syme, Tacito, II, cit., 875; A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 277; A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 193.

 

[32] Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 276; G. Kennedy, The Art, cit., 539; B.F. Harris, ‘Bithynia’, cit., 884; Y. Rivière, Les délateurs, cit., 547; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 92 s.

 

[33] Cfr. H.-L. Fernoux, Notables et élites des cités de Bithynie aux époques hellénistique et romaine (IIIe siècle av. J.-C. – IIIe siècle ap. J.-C.). Essai d’histoire sociale, Lyon, 2004, 358; V. Marotta, Conflitti politici e governo provinciale, in Politica e partecipazione nelle città dell’impero romano, a cura di F. Amarelli, Roma, 2005, 195 e nt. 227; F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 246.

 

[34] Così L. Bablitz, The Selection, cit., 198. Cfr. anche A.H.M. Jones, The Criminal Courts, cit., 112.

 

[35] Plin. Epist. V.20.1: Iterum Bithyni: breve tempus a Iulio Basso, et Rufum Varenum proconsulem detulerunt, Varenum, quem nuper adversus Bassum advocatum et postularant et acceperant.

 

[36] V. sopra, cap. I, § 6. Cfr. L. Bablitz, The Selection, cit., 200.

 

[37] Cfr. L. Bablitz, The Selection, cit., 199. V. anche sopra, cap. I, nt. 110.

 

[38] Cfr. R. Hanslik, Die neuen Fastenfragmente von Ostia in ihrer Beziehung zu gleichzeitigem epigraphischem und literarischem Material, in «Wiener Studien», LXIII, 1948, 133 s. L’autore rivedeva così, in ragione della nuova datazione, la sua precedente proposta di individuare le ragioni della cessazione del patrocinio di Vareno in una crescente critica al suo governatorato: cfr. R. Hanslik, Der Prozeß des ‘Varenus Rufus’, in «Wiener Studien», L, 1932, 198. Tale primigenia presa di posizione era in qualche modo debitrice dello studio di H. von Arnim, Leben und Werke des Dio von Prusa, Berlin, 1898, 379.

 

[39] Dalla fine del I secolo d.C. le cognitiones senatus si svolgevano regolarmente a seguito di una denuncia presentata anche da privati cittadini: cfr. B. Santalucia, Diritto e processo penale2, cit., 238. Abbiamo, inoltre, già avuto modo di evidenziare (v. sopra, in questo capitolo, nt. 16) le ragioni che potevano comportare la sussistenza di un certo intervallo di tempo tra la fase introduttiva del giudizio senatoriale e la celebrazione del dibattimento. Mi pare, quindi, possibile ipotizzare che Vareno Rufo sia stato realmente nominato patronus dei Bitinii e che abbia effettivamente accettato tale incarico, ma che poi si sia resa necessaria una sostituzione, avvenuta nelle more del termine a comparire per l’inizio del processo vero e proprio.

 

[40] Cfr. L. Bablitz, The Selection, cit., 198, nt. 7. Di diverso avviso A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 276, il quale ipotizza che Vareno Rufo sia stato sostituito con Teofane. Tale affermazione non mi pare, tuttavia, condivisibile visto il diverso ruolo del legatus in questione, oltretutto verosimilmente di rango pretorio, rispetto a quello dell’advocatus nominato dal senato.

 

[41] Cfr. J.-L. Ferrary, ‘Patroni’ et accusateurs dans la procédure ‘de repetundis’, in «RHDFE», LXXVI, 1998, 17-46, praecipue 25 s., ove si critica una risalente e condivisa impostazione (cfr. V. Arangio-Ruiz, L’editto di Augusto ai Cirenei, in «RFIC», LVI, 1928, 353, ora in Id., Studi epigrafici e papirologici, Napoli, 1974, 35, da cui cito; F. Serrao, Appunti sui ‘patroni’ e sulla legittimazione attiva all’accusa nei processi ‘repetundarum’, in Studi in onore di Pietro de Francisci, II, Milano, 1954, 471-511, ora in Id., Classi, partiti e legge nella repubblica romana, Pisa, 1974, 233-275) secondo cui l’istituto del patronus, sia pure in forme estremamente diverse, sarebbe tipico del processo repetundarum in tutti i tempi e riguarderebbe, pertanto, anche i casi in cui ai peregrini non era riconosciuta la legittimazione attiva alla proposizione diretta dell’accusa, dovendosi – in questi casi – intendere l’accusatore alla stregua di un patrono.

 

[42] Cfr. B. Santalucia, Diritto e processo penale2, cit., 239.

 

[43] V. oltre, in questo capitolo, § 5.

 

[44] Plin. Epist. IV.9.4: Respondi ego; nam mihi Bassus iniunxerat, totius defensionis fundamenta iacerem, … V. anche oltre, in questo capitolo, § 3 e nt. 64.

 

[45] V. sopra, cap. I, § 5 e nt. 91.

 

[46] V. sopra, cap. I, § 5 e nt. 93.

 

[47] V. sopra, cap. I, § 5 e nt. 94.

 

[48] Cfr. L. Bablitz, The Selection, cit., 205.

 

[49] V. sopra, cap. I, § 5 e nt. 92.

 

[50] Plin. Epist. III.9.7. Cfr. A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 131; L. Bablitz, The Selection, cit., 205. V. anche G. Picone, L’eloquenza, cit., 83 s. ove si evidenzia come Plinio manifesti il proprio apprezzamento in modo estremamente sintetico.

 

[51] Mart. Epigr. I.55.2. Cfr. A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 178.

 

[52] V. sopra, cap. I, § 5 e nt. 89.

 

[53] Con ogni probabilità a partire dall’età tiberiana, infatti, nei soli casi di repetundae che non comportavano l’adozione da parte del senato di condanne all’esilio o alla relegatio (e, quindi, quando era esclusa l’aggravante della saevitia), la determinazione delle somme dovute dal reo era affidata ad un ristretto collegio di iudices o reciperatores tratto a sorte dall’assemblea mediante sorteggio effettuato tra le varie categorie di senatori. Tale procedura sostituì quella introdotta nel 4 a.C. dal SC. Calvisianum, rispetto alla quale si caratterizzava per talune significative innovazioni. In particolare, con questa riforma – verosimilmente operata mediante consuetudine interpretativa – era possibile iudices petere solo dopo che il senato avesse riscontrato la colpevolezza dell’imputato, rimettendolo davanti alla commissione al solo fine di addivenire con una procedura più snella alla aestimatio del quantum delle restituzioni pecuniarie dovute. L’adozione del procedimento semplificato che si svolgeva innanzi al collegio ristretto comportava per il reo l’infamia e le incapacità ad essa conseguenti. Cfr. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 726 e nt. 2 (= Id., Le droit pénal, III, cit., 26 e nt. 1); V. Arangio-Ruiz, L’editto, cit., 34 ss.; A.N. Sherwin-White, ‘Poena’, cit., 15, 23 ss.; Id., The Letters, cit., 161 s., 166 s.; B. Santalucia, Diritto e processo penale², cit., 240; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 78 s. Di diverso avviso A.H.M. Jones, The Criminal Courts, cit., 111 ss.

 

[54] In epoca ciceroniana si riteneva che ben difficilmente essa potesse essere usata in iudicio come unica forma di difesa, perché, una volta ammessa la colpa, è estremamente difficile riuscire ad ottenere il perdono da chi ha il dovere di valutare le colpe, ed il suo uso veniva, pertanto abbinato ad altre forme di difesa. V. Cic. inv. II.34.104: … Deprecatio est, in qua non defensio factim sed ignoscendi postulatio continetur. hoc genus vix in iudicio probari potest, ideo quod concesso peccato difficile est ab eo, qui peccatorum vindex esse debet, ut ignoscat, impetrare. quare parte eius generis, cum causam non in eo constitueris, uti licebit; … anche l’autore dell’Erenniana si muove nello stesso solco di Cicerone, ma introduce alcune preziose precisazioni: l’uso in tribunale della deprecatio deve essere limitato ai soli casi in cui, in ragione delle buone azioni passate, essa può essere inserita nella difesa del reo durante il luogo comune dell’amplificatio in cui l’oratore sottolinea che, anche se l’assistito avesse commesso il fatto, tuttavia converrebbe perdonarlo per i suoi precedenti buoni servizi, ma comunque non chiede che gli si perdoni. Si sottolinea, inoltre, che una tale causa può presentarsi in senato o davanti al comandante o nel consiglio del magistrato. V. Corn. Rhet. ad Herenn. I.24: … Deprecatio est, cum et peccasse se et consulto fecisse confitetur, et tamen postulat, ut sui misereantur. Hoc in iudicio fere <non> potest usu venire, nisi quando pro eo dicimus, cuius multa recte facta extant, hoc modo: in loco communi per amplificationem iniciemus: ‘quodsi hoc fecisset, tamen ei pro pristinis beneficiis ignosci conveniret, verum nihil postulat ignosci’. Ergo in iudicium non venit: at <in> senatum, ad imperatorem et in consilium talis causa potest venire. Al tempo di Quintiliano, invece, - ferma restando l’opinione maggioritaria di coloro che ecludono che tale genere di causa possa mai verificarsi in iudicio - l’uso pare comunque esteso ad ogni situazione in cui la clemenza dipende solo da coloro ai quali ci si rivolge. V. Quint. Instit. Orat. VII.4.17-18: [17] Ultima est deprecatio, quod genus causae plerique negarunt in iudicium umquam venire. … [18] In senatu vero et apud populum et apud principem et ubicumque sui iuris clementia est, habet locum. deprecatio. … Sulla deprecatio cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina degli ‘status’ nella retorica greca e romana, Hildesheim-Zürich-New York, 1986, 136-139; R. Martini, Antica retorica, cit., 72; I.G. Mastrorosa, La pratica, cit., 145 s.

 

[55] Cfr. A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 180; L. Bablitz, The Selection, cit., 205.

 

[56] Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 163 s.; A.H.M. Jones, The Criminal Courts, cit., 112; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 83, che giustamente evidenzia come «the two procedures had been designed to be mutually exclusive, but the exercise of cognitio permitted such a compromise».

 

[57] Cfr. A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 180.

 

[58] V. sopra, cap. I, § 5 e nt. 93.

 

[59] Plin. Epist. V.20.6: Postero die dixit pro Vareno Homullus callide, acriter, culte … Cfr. A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 194.

 

[60] V. Plin. Epist. VII.6.3. Sul punto cfr. A.H.M. Jones, The Criminal Courts, cit., 112, secondo cui «this must have been a special case».

 

[61] Così L. Bablitz, The Selection, cit., 205.

 

[62] Cfr. L. Bablitz, The Selection, cit., 205.

 

[63] L’impiego dell’allegoria fundamenta iacere in ambito difensivo è ampiamente attestato in Cicerone e ricorre anche in Quintiliano: H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 283.

 

[64] Anche in altri processi de repetundis è Plinio il primo difensore a prendere la parola e ad impostare, quindi, la difesa: v. Plin. Epist. II.11.14 e 17; III.9.13-16. Cfr. F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 246.

 

[65] Cic. part. or. 119: Defensionis autem primum infirmatio causarum: aut non fuisse, aut non tantas, aut non sibi soli, aut commodius potuisse idem consequi, aut non eis se esse moribus, non ea vita, aut nullos animi motus aut non tam impotentes fuisse.

 

[66] Cfr. H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 283. Più in generale, sull’uso da parte di Plinio della triplice anafora, v. A.-M. Guillemin, Pline, cit., 151 s.

 

[67] Cfr. O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 92.

 

[68] Sulla tecnica dei τόποι o loci come ‘sedi’ in cui l’oratore può rinvenire le idee generali che formeranno le premesse generali degli ‘entimemi’, di cui constano gli argumenta fondamentali per la probatio, cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., 63 s., 70 ss.; B. Mortara Garavelli, Manuale4, cit., 78 ss.; G. Sposìto, Il luogo, cit., praecipue 73 ss.; R. Martini, Antica retorica, cit., 53 ss.

[69] Sulla coniectura, cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., 60 ss.; B. Mortara Garavelli, Manuale4, cit., 31; G. Sposìto, Il luogo, cit., 38 ss.; R. Martini, Antica retorica, cit., 50 ss.

 

[70] Cfr. B. Mortara Garavelli, Manuale4, cit., 38 s.

 

[71] V. sopra, cap. I, § 2.

 

[72] Cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., 75 e nt. 37, la quale evidenzia come la ‘topica’ quintilianea sia «ancora sostanzialmente basata sulle περιστάσεις, che, per quanto asistematica, risente delle trattazioni ciceroniane. I tre momenti, an voluerit, an potuerit, an fecerit, rappresentano invece tre tappe successive dell’indagine: il primo interessava l’auctor, il secondo l’auctor e le sue capacità di compiere il fatto, il terzo gli avvenimenti legati al fatto». Cfr. anche R. Volkmann, Die Rhetorik der Griechen und Römer in systematischer Übersicht2, Leipzig, 1885, 371 ss.; H. Lausberg, Handbuch der literarischen Rhetorik, I, München, 1960, 91 ss.; J. Martin, Antike Rhetorik, cit., 31 s.

 

[73] V. Quint. Institut. Orat. VII. 2.39: De causa prius an de persona dicendum sit quaeritur, varieque est ab oratoribus factum, a Cicerone etiam praelatae frequenter causae. Mihi si neutro litis condicio praeponderet, secundum naturam videtur incipere a persona. Nam hoc magis generale est rectiorque divisio an ullum crimen credibile, an hoc.

 

[74] Per una completa, ancorchè schematica, illustrazione degli argumenta a persona nella ‘topica’ quintilianea, v. G. Sposìto, Il luogo, cit., 73 ss.

 

[75] A questo proposito possono essere richiamati sia la dignitas [la prima delle considerazioni difensive specifiche a persona prese in considerazione dalle istituzioni oratorie nello stato congetturale, con l’avvertenza che la stessa può essere strumentalizzata dall’accusa come prova della colpevolezza, sulla base della considerazione che dal rango taluno può derivare una speranza di impunità: v. Quint. Institut. Orat. VII.2.32: … nam dignitas et tuetur reum et nonnumquam ipsa in argumentum facti convertitur, tamquam inde fuerit spes inpunitatis …)], che il genus [v. Quint. Instit. Orat. V.10.24: … genus (nam similes parentibus ac maioribus suis plerumque filii creduntur, et nonnumquam ad honeste turpiterque vivendum inde causae fluunt)], che la condicionis distantia [v. Quint. V.10.26: … condicionis etiam distantia (nam clarus an obscurus, magistratus an privatus, pater an filius, civis an peregrinus, liber an servus, maritus an caelebs, parens liberorum an orbus sit, plurimum distat)], elementi, questi ultimi due, analizzati da Quintiliano insieme ad altri in argomentorum locis, alla cui trattazione generale l’autore rinvia espressamente durante la trattazione della coniectura (v. Quint. Institut. Orat. VII.2.35: Cetera, quae a personis duci solent, in argumentorum locis exposuimus).

 

[76] A tal proposito può essere richiamato il locus a persona della fortuna [v. Quint. V.10.26: … fortuna (neque enim idem credibile est in divite ac paupere, propinquis, amicis, clientibus abundante et his omnibus destituto)].

 

[77] V. sopra, in questo capitolo, § 2.

 

[78] Cfr. P.A. Brunt, Charges, cit., 202.

 

[79] V. sopra, in questo capitolo, § 2.

 

[80] Mi paiono, infatti, sovvenire qui quelle indicazioni generali che il maestro fornisce per inficiare l’attendibilità dei testimoni dell’accusa, suggerendo di soffermarsi sulle ragioni delle inimicizie e sui vari motivi, tutti poco onorevoli, per cui essi danneggiano l’imputato, che dipendono dalla condizione di ciascun processo e di ciascun contendente. V. Quint. Institut. Orat. V.7.23-24: [23] Itaque, quod in eo incertum est, cura et inquisitione opus est, quis reum premat, quas et quibus ex causis inimicitias habeat, eaque in oratione praedicenda atque amolienda sunt, sive odio conflatos testes sive invidia sive gratia sive pecunia videri volumus. Et si deficietur numero pars diversa, paucitatem, si abundabit, conspirationem, si humiles producet, viltatem, si potentes, gratiam oportebit incessere. [24] Plus tamen proderit causas, propter quas reum laedant, exponere: quae sunt variae et pro condicione cuiusque litis aut litigatoris. …

 

[81] Quint. Institut. Orat. VI.1.9: … et reus de indegnitate calumniae, conspirationis vehementius interim queritur. Dividere igitur haec officia commodissimum, quae plerumque sunt, ut dixi, prohoemio similia, sed liberiora plenioraque.

 

[82] Mi riferisco alla legge di riforma della quaestio de repetundis del 123 a.C., pervenutaci per via epigrafica attraverso le tabulae Bembinae, che parte della dottrina identifica – con argomenti che ritengo condivisibili – con la lex Sempronia cui le fonti attribuiscono espressamente solo il passaggio della funzione giudicante dai senatori ai cavalieri. Cfr. J.L. Strachan Davidson, Problems of the Roman Criminal Law, II, Oxford, 1912, 82 ss.; P. Fraccaro, Sulle ‘leges iudiciariae’ romane, in «Rend. Ist. Lomb.», LII, 1919, 335 ss., ora in Id., Opuscula, II, Pavia, 1957, 255 ss.; G. Tibiletti, Le leggi ‘de iudiciis repetundarum’ fino alla guerra sociale, in «Athenaeum», XXXI, 1953, 33 s.; F. Serrao, Classi, cit., 278 ss.; C. Venturini, Studi sul ‘crimen repetundarum’ nell’età repubblicana, Milano 1979, 7 ss. A quest’ultimo va, inoltre, il merito di aver evidenziato (cfr. C. Venturini, ‘Quaestiones’ non permanenti: problemi di definizione e di tipologia, in Idee vecchie e nuove sul diritto criminale romano, a cura di A. Burdese, Padova, 1988, 90 ss., ora in Id., Processo penale e società politica nella Roma repubblicana, Pisa 1996, 207 ss., praecipue 226 ss., da cui cito) a favore della tesi qui condivisa, come la pregressa inesistenza di collegi giudicanti estranei al campo delle repetundae renda difficilmente ascrivibile a Caio Gracco una generale lex iudiciaria in materia. Per l’opinione ancor oggi dominante, che riconosce nella lex tabulae Bembinae la lex Acilia repetundarum, v., per tutti, B. Santalucia, Diritto e processo penale², cit., 114 ss., secondo cui: «… è difficile credere che la lex Acilia abbia potuto essere approvata, intorno al 111 a.C., pacificamente e senza contrasti (…). Il fatto poi che la legge epigrafica contenga una serie di minute disposizioni sulla formazione della giuria non esclude, di per sé, l’esistenza di una legge giudiziaria generale volta ad abrogare la normativa precedente e a stabilire che i iudices (sia quelli chiamati a comporre la lista annuale della quaestio, sia quelli a cui era affidata la decisione di controversie di diritto privato) dovessero essere scelti, anziché fra i senatori, entro la cerchia dei cavalieri».

 

[83] Sin dalla lex Sempronia repetundarum, infatti, la ricompensa era riconosciuta (l. 85) a colui quoius eorum (qui detulerunt) opera maxime unius eum condemnatum constiterit. Per quel che riguarda la natura (economica o onorifica) di tali ricompense, preme ricordare come già Theodor Mommsen – pur riconducendo il problema per l’età repubblicana alla sua generale idea della derivazione della procedura delle quaestiones dal modello dell’azione privata intentata innanzi al pretore nell’interesse della comunità – non potesse, tuttavia, fare a meno di notare che «indess ist auch die quasi-magistratische Stellung des Klägers im Quästionsprozess hier insofern massgebend, dass diese Function nicht füglich so, wie die untergeordneten in den Bussprozessen der Gemeinde geleisteten Dienste, mit einer Geldsumme remunerirt werden konnten. In der That halten die derartigen Anklägerbelohnungen in republikanischer Zeit sich auf dem politischen Gebiet; dem siegreichen Kläger wird eine höhere bürgerliche Stellung und insbesondere, wenn der Verurtheilte durch den Spruch einer solchen verlustig ward, eben die des Besiegten eingeräumt»: così Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 509 (= Id., Le droit pénal, II, cit., 200 s.). Tale contrapposizione tra i vantaggi economici riconosciuti dalle leggi civili ed i vantaggi meramente politici ed onorifici della procedura penale dell’ordo repubblicano è stata a più riprese ribadita da vari autori: cfr., ad esempio, L. Ross Taylor, La politique et les partis à Rome au temps de César, Paris, 1977, 277; G. Luraschi, Il ‘praemium’ nell’esperienza giuridica romana, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, IV, Milano, 1983, 271 e nt. 121, 273, il quale ritiene che quanto meno la maggioranza delle leggi istitutrici di quaestiones contenessero disposizioni ‘premiali’ e riprende l’argomentazione mommseniana secondo cui l’accusatore, in quanto sostanzialmente assimilato ad un magistrato, non avrebbe potuto ricevere compensi in denaro. Di diverso avviso M.C. Alexander, ‘Praemia’ in the ‘quaestiones’ of the late Republic, in «Classical Philology», LXXX, 1985, 20 ss., che propone «a pragmatic view of praemia» dovuta al fatto che ogni legge istitutiva di quaestio conterrebbe disposizioni affatto particolari, strettamente connesse alla natura del crimine di volta in volta perseguito e sarebbe, pertanto, preclusa all’interprete ogni ricostruzione d’insieme dei meccanismi di attribuzione delle ricompense che egli identifica, talvolta, anche con remunerazioni economiche. Anche J.-M. David, Le patronat judiciare au dernier siècle de la république romaine, Rome, 1992, 514 ss., che, pur ritenendo probabile che le previsioni della legislazione de repetundis e de ambitu non fossero casi isolati e postulando l’esistenza di una ‘logica’ tipica di un vero e proprio ‘sistema’ dei praemia in età repubblicana, giunge ad affermare che alle ricompense onorifiche dovettero senz’altro aggiungersi premi in denaro, di cui non conosciamo né la regolamentazione, né la misura, ricavati dalla vendita dei beni dell’accusato. Per una critica di queste ultime opinioni, v. Y. Rivière, Les délateurs, cit., 434 ss. Più in generale, sull’evoluzione storica della normazione penale, v. V. Mannino, Alcune considerazioni sulla competenza in tema di normazione premiale nell’antica Roma, in Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano. Atti del convegno (Cagliari, 20-22 aprile 1989), Napoli, 1993, 173 ss.; T. Spagnuolo Vigorita, ‘Utilitas publica’. Denunce e pentiti nel mondo romano, in «Panorami», VI, 1994, 272 ss.

 

[84] Cfr. Y. Rivière, Les délateurs, cit., 54, ove si chiarisce come «outre quelques intrigants du palais et des dénonciateurs qui agissent secrètement auprès de l’empereur, outre quelques accusateurs professionels engagés dans la poursuite des délits de droit commun, le mot delator désigne dans les sources littéraires des ‘accusateurs odieux’ qui ternissent leur réputation dans des procès au sénat ou devant le tribunal impérial. Ils peuvent avoir préparé l’accusation en tendant eux-mêmes un piège à l’accusé ou s’emparer d’un procès en cours». Plin. Epist. IV.9.5 fa ovviamente riferimento agli ‘odiosi accusatori’ della terza categoria.

 

[85] Sulle ambiguità della procedura senatoriale, v. sopra, cap. I, § 5, praecipue nt. 82.

 

[86] Cfr. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 253 (= Id., Le droit pénal, II, cit., 295 s.). V. sopra, cap. I, nt. 82.

 

[87] Cfr. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 509 ss. (= Id., Le droit pénal, II, cit., 200 ss.). V. anche sopra, in questo capitolo, nt. 83. Nè deve trarre in inganno il fatto che il medesimo autore, nel suo trattato di diritto pubblico romano, affermi che «wogegen allerdings die dem alten Criminalvervahren fremden, in diesen senatorischen Prozessen aber recht eigentlich wuchernden Delatorenprämien aus dem Quästionenprozess übernommen wurden» (così Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1², cit., 115 [= Id., Le droit public, III, cit., 140]). Siffatta affermazione pare, infatti, tesa ad evidenziare che il meccanismo di attribuzione dei praemia  da parte del senato era mutuato dalla procedura accusatoria dei iudicia publica e non certo che questi ultimi prevedessero ricompense in denaro: sul punto, cfr. Y. Rivière, Les délateurs, cit., 432, nt. 15. Mommsen escludeva, invece, dall’ambito del diritto penale le liberalità accordate dall’imperatore agli accusatori compiacenti nell’ambito del suo tribunale: «im Kaiserprozess scheinen die formalen praemia accusatorum niemals zur Anwendung gekommen zu sein; dass die loyale Gewissenlosigkeit dienstwilliger Ankläger durch Beförderung und Spenden remunerirt wird (…) hat mit dem Strafrecht nichts zu thun» (così Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 511, nt. 3 (= Id., Le droit pénal, II, cit., 203, nt. 4). Per quel che attiene il crimen repetundarum, studi più recenti hanno avuto modo di evidenziare come già in età repubblicana i premi previsti a favore di non cittadini potessero risultare di più ampia portata rispetto a quelli (circoscritti all’ambito onorifico) contemplati per i cittadini romani: v., in particolare, ll. 76 (82) - 79 (86) delle Tavole Bembine (FIRA I2, Firenze, 1968, 101 s.; M.H. Crawford, Roman Statuts, I, London, 1996, 74, 94, 111 s.) e, con riferimento ai Latini (ma, probabilmente, non solo ad essi), Cic. Balb. 53-54, su cui cfr. C. Venturini, Studi, cit., 33 s., 103; J.-L. Ferrary, Recherches sur la législation de ‘Saturninus’ et de ‘Glaucia’, II, La loi ‘de iudiciis repetundarum’ de ‘C. Servilius Glaucia’, in «MEFRA», XCI, 1979, 119 s.; D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare. Dalla ‘quaestio’ unilaterale alla ‘quaestio’ bilaterale, Padova 1989, 77, nt. 72 e 111, nt. 164; J.A. González Romanillos, Aspectos procesales del ‘crimen repetundarum’ de los origenes a Sila, Madrid, 2003, 124 s.

 

[88] Cfr. F. De Marini Avonzo, La funzione, cit., 74, 144, nt. 94.

 

[89] Così Y. Rivière, Les délateurs, cit., 462 s.

 

[90] In realtà un premio di entità non inferiore a quello previsto dalla legge de maiestate era previsto anche dalla lex Papia Poppaea per chi avesse denunciato situazioni incompatibili con le norme stabilite da questa: cfr. L. Fanizza, Delatori, cit., 17. Da ultimo, in contrasto con la tesi tradizionale diretta a circoscrivere al crimen maiestatis la previsione legislativa di premi a favore dei correi dissociati, v. C. Russo Ruggeri, ‘Indices’ e ‘indicia’. Contributo allo studio della collaborazione giudiziaria dei correi dissociati nell’esperienza criminale romana, Torino, 2011, 3 ss., 147 ss.

 

[91] Cfr. Y. Rivière, Les délateurs, cit., 473, secondo cui «il n’est pas possible d’analyser les mécanismes qui permettent de définir cette procédure en mettant entre parenthèse les interventions du prince. Les récompenses versées aux délateurs, attribuées formellement par le sénat, relèvent en fait du pouvoir discrétionnaire de l’empereur».

 

[92] Cfr. L. Fanizza, Delatori, cit., 15 e nt. 8, che, dopo aver illustrato l’uso del termine delator come sinonimo di accusator nel lessico di Tacito e Plinio, evidenzia come nel vocabolario dei due autori delator possa indicare chi denuncia situazioni contrastanti con le disposizioni delle leggi caducarie augustee oppure chi presenta l’accusa di maiestas, riconducendo a quest’ultima fattispecie di reato Plin. Epist. IV.9.5. Si notino, altresì, le similitudini con l’autodifesa di Claudio Aristione in Plin. Epist. VI.31.3: Dixit causam Claudius Aristion, princeps Ephesiorum, homo munificus et innoxie popularis: inde invidia et a dissimillimis delator immissus; itaque absolutus vindicatusque. Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 392 s., il quale – tuttavia – ipotizza in quest’ultimo caso un’imputazione de vi publica. V. anche Tac. Ann. III.38.1: Non enim Tiberius, non accusatores fatiscebant. et Ancharius Priscus Caesium Cordum pro consule Cretae postulaverat repetundis, addito maiestatis crimine, quod tum omnium accusationum complementum erat. … Il fatto che l’accusa di maiestas fosse allora divenuto il necessario ‘complemento’ di ogni atto di accusa non significa che la lex Iulia repetundarum punisse le stesse condotte già colpite de maiestate, giacchè le accuse rimangono comunque distinte (v., ad esempio, Tac. Ann. I.74; III.66-67). Gli eventuali atti di saevitia non erano, infatti, necessariamente coincidenti con quelli contemplati a titolo di maiestas e, comunque, nell’imputazione di repetundae venivano presi in esame sotto un diverso profilo. La generalizzazione di tale possibile sovrapposizione, così come ipotizzata da taluno (cfr. W. Kunkel, Über die Entstehung, cit., 25 ss.), non può essere condivisa. Sul punto cfr. G. Pugliese, Linee, cit., 755 e nt. 71. V. anche A.N. Sherwin-White, ‘Poena’, cit., 13 s., il quale, muovendo dalla premessa secondo cui la lex Iulia avrebbe esteso la competenza della quaestio de repetundis a talune ipotesi criminose in parte già rientranti in quella della quaestio de maiestate, ritiene che potessero esplicarsi due procedure in rapporto ad illeciti identici. Sul punto, cfr., tuttavia, le osservazioni critiche di C. Venturini, Studi, cit., 474 ss., il quale (facendo propri i rilievi di R.A. Bauman, The ‘Crimen Maiestatis’ in the Roman Republic and Augustan Principate, Johannesburg, 1967, 86, 101) spiega la duplice rilevanza penale dei medesimi comportamenti con la diversità dell’oggetto proprio del processo de repetundis e del processo de maiestate ed evidenzia l’inopportunità di presumere che le disposizioni presenti nella lex Iulia de repetundis debbano farsi derivare dalla previsione della lex Cornelia de maiestate.

 

[93] V. Tac. Ann. IV.20.2: contra M’. Lepidus quartam accusatoribus secundum necessitudinem legis, cetera liberis concessit. … Cfr. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 510 e nt. 2 (= Id., Le droit pénal, II, cit., 202 e nt. 4); W. Kunkel, voce ‘Quaestio’, in «RE», XXIV.1, Stuttgart, 1963, 773, ora in Id., Kleine Schriften, cit., 95; H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 276; L. Fanizza, Il senato e la prevenzione del ‘crimen repetundarum’ in età tiberiana, in «Labeo», XXIII, 1977, 204 ss.; G. Pugliese, Linee, cit., 771 e nt. 121; L. Fanizza, Delatori, cit.,17; C. Venturini, ‘Damnatio’, cit., 84 ss.

 

[94] Anche nel processo a Silio e Sosia Galla appena ricordato (sul quale v. la bibliografia richiamata nella nota precedente) la decisione di M. Lepido di assegnare solo la quarta parte agli accusatori viene riferita da Tacito come provvedimento preso da un uomo saggio ed autorevole: nam pleraque ab saevis adulationibus aliorum in melius flexit. I beni del suicida Libone furono, invece, divisi per intero tra gli accusatori. V. Tac. Ann. II.32.1: Bona inter accusatores dividuntur, …

 

[95] Cfr. O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 92.

 

[96] V. anche Plin. Epist. VI.31.3; VII.6.1-6; X.34; X.58; X.81. Dio Chrys. Or. L.3. Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 276, 392.

 

[97] Così H.-L. Fernoux, Notables, cit., 318 s.

 

[98] In questa direzione pare significativa la proposta di Valerio Paolino (§ 20), su cui v. oltre, in questo capitolo, § 11.

 

[99] V. sopra, in questo capitolo, § 4 e nt. 92.

 

[100] Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 276. Nel linguaggio di Tacito le imputazioni di repetundae possono assumere due configurazioni diverse a secondo che si tratti di concussione semplice (pecuniae captae) o aggravata dalla violenza e dall’efferatezza della condotta (saevitia). Cfr. A.N. Sherwin-White, ‘Poena’, cit., 12 ss., 20.

 

[101] Cfr. W. Kunkel, Über die Entstehung, cit., 25 s., ove si evidenzia che «auch der Vorwurf der saevitia, der in den Repetundenprozessen der Kaiserzeit (und nur in ihnen) immer wieder begegnet, auf solche Sondertatbestände des julischen Repetundengesetzes zu beziehen ist. Denn einen selbständigen Delikstatbestand der saevitia hat es nach allem, was wir wissen, nie gegeben; es können mit diesem Wort nur besonders schwere Fälle des Repetundenvergehens gemeint sein: gewaltsame Erpressung, Bereicherung durch Rechtsbeugung, Mord, Plünderung und dergleichen». Cfr. anche G. Pugliese, Linee, cit., 755 e nt. 72.

 

[102] Cfr. A.N. Sherwin-White, ‘Poena’, cit., 19 ss.; Id., The Extortion Procedure Again, in «JRS», XLII, 1952, 43; W. Kunkel, voce ‘Quaestio’, cit., cc. 748 ss. (= Id., Kleine Schriften, cit., 66 ss.); Id., Über die Entstehung, cit., 24 ss.; E.S. Gruen, The Last Generation of the Roman Republic, Berkeley-Los Angeles, 1974, 240; A.H.M. Jones, The Criminal Courts, cit., 75; C. Venturini, Studi, cit., 452 e nt. 107. Dubbiosi F. Pontenay De Fontette, ‘Leges’, cit., 117, 132 ss.; P.A. Brunt, Charges, cit., 197 e nt. 25. Di diverso avviso M. David - H.L.W. Nelson, Das neue Leidener ‘Paulus’-Fragment (Cod. Leid. B. P. L. 2589), in «TR», XXIII, 1955, 75 ss.; G.G. Archi, I nuovi frammenti e il diritto criminale romano, in G.G. Archi - M. David - E. Levy - R. Marichal - H.L.W. Nelson, ‘Pauli Sententiarum fragmentum Leidense’ (Cod. Leid. B. P. L. 2589), Leiden, 1956, 99 ss., (= Id., Scritti di diritto romano, III, Studi di diritto penale, studi di diritto postclassico e giustinianeo, Milano, 1981, 1472 ss.) che ritengono che il contenuto della lex Iulia del 59 a.C. si limitasse a quanto indicato da Marcian. 14 instit. D. 48.11.1 pr. e sostengono, pertanto, che i fatti lesivi ricompresi nella nozione di repetundae si siano notevolmente accresciuti ed allargati solo in età imperiale; F. Serrao, Il frammento leidense, cit., 118 ss.; B. Santalucia, Diritto e processo penale2, cit., 160, i quali evidenziano come siffatta ipotesi non sembri trovare sufficiente conferma nei dati delle fonti a nostra disposizione. La questione, estremamente complessa, meriterebbe un approfondimento ben superiore a quello che in questa sede è possibile svolgere. Mi limito, pertanto, a giustificare la mia adesione alla teoria dapprima prospettata sottolineando come quest’ultima abbia l’innegabile pregio di semplificare l’interpretazione del SC. Calvisianum e di spiegare legislativamente l’alternativa tra pene personali e pene che comportano la mera restituzione del maltolto, o anche il cumulo delle stesse (cfr. G. Pugliese, Linee, cit., 754). Né dovrebbe a mio avviso sorprendere che la legge di Giulio Cesare avesse previsto anche fatti idonei a giustificare la condanna all’aqua et igni interdictio. Secondo l’interpretazione che pare più verosimile, infatti, già la lex Servilia Glauciae avrebbe riconosciuto, nell’ambito del generale inasprimento sul piano sanzionatorio realizzato dalla stessa, ai giudici della quaestio il potere di modulare l’entità della pena in base alla concreta condotta del reo, ammettendo la possibilità di condanne capitali che sono, inoltre, attestate anche nella vigenza della lex Cornelia de repetundis (cfr. C. Venturini, Studi, cit., 449 ss, praecipue 457 s.). Nello stesso senso R.A. Bauman, Crime and Punishment, cit., 23 s., il quale – tuttavia – identifica un diverso fondamento della condanna capitale nella lex Servilia e nella lex Iulia: «the lex Servilia had expanded the penalty on the basis of state security. Cesar’s repetundae law of 59 expanded it on the basis of humanitas. Where exactions had been carried out in circumstances of extreme cruelty (saevitia), a capital penalty was prescribed».

 

[103] V. sopra, in questo capitolo, § 3.

 

[104] V. sopra, in questo capitolo, nt. 53.

 

[105] Necessaria per accertare la sussistenza di condotte che potessero a buon diritto rientrare nella saevitia: v. Plin. Epist. III.9.29; V.20.2. Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 352. V. anche sopra, in questo capitolo, nt. 16.

 

[106] Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 276; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 92.

 

[107] Quint. Institut. Orat. VII.2.22: … Quare optimum est, si fieri poterit, ut singula vincantur a singulis, se si quando in partibus laborabimus, universitate pugnandum est.

 

[108] Nel vocabolario pliniano la simplicitas assume connotati positivi: cfr. H Pflips, Ciceronachahmung, cit., 286 s. In Plin. Epist. VI.29.10 la caratterizzazione di Basso è invece affidata all’aggettivo incustoditus a fianco del ricorrente incautus. V. anche oltre, § 12 e nt. 216.

 

[109] Cfr. H Pflips, Ciceronachahmung, cit., 285 s., il quale evidenzia che con questa osservazione incidentale «will Plinius zum Ausdruck bringen, daß der Angeklagte schon früher her infolge seiner Tätigkeit als Quästor mit den provinzialen befreundet war. Auch hier geht das Bestreben des Plinius darauf hinauf, die Vergehen seines Mandanten zu bagatellisieren und sie seiner Arglosigkeit zuzuschreiben».

 

[110] Come noto, il sostantivo munus si caratterizza per un complesso intreccio tra tre campi semantici. Il contesto del discorso ed il successivo impiego da parte di Plinio dell’ipocorismo munuscula (§ 7) spingono ad intendere il termine munera nell’accezione di doni. Tra i giuristi romani, adotta una divisione tripartita Paul. 9 ad ed. D. 50.16.18: ‘Munus’ tribus modis dicitur: uno donum, et inde munera dici dari mittive. altero onus, quod cum remittatur, vacationem militiate munerisque praestat inde immunitatem appellari. tertio officium, unde munera militaria et quondam milites munificos vocari: igitur municipes dici, quod munera civilia capiant. Sul polivalente significato del termine, v. M. Nicolau, ‘Causa liberalis’, Étude historique et comparative du procès de liberté dans les législations anciennes, Paris, 1933, 133, nt. 225; F. Grelle, ‘Munus publicum’. Terminologia e sistematiche, in «Labeo», VII, 1961, 324 s.; J. Michel, Gratuité en droit romain. Études d’histoire et d’ethnologie juridique, Bruxelles, 1962, 482 ss.; A. Metro, L’obbligazione di custodire nel diritto romano, Milano, 1966, 89 e nt. 215; R. Düll, ‘Munera tomitana’, in Studi in onore di G. Grosso, II, Torino, 1968, 143; M. Talamanca, Gli ordinamenti provinciali nella prospettiva dei giuristi tardo-classici, in Istituzioni giuridiche e realtà politiche nel tardo impero (III-V sec. d.C.). Atti di un incontro tra storici e giuristi, Firenze 2-4 maggio 1974, Milano, 1976, 175, nt. 5; J.F.R. Neila, A propósito de la noción de municipio en el mundo romano, in «HAnt», VI, 1976, 148; B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, 183, nt. 34; W. Waldstein, ‘Operae libertorum’. Untersuchungen zur Dienstpflicht freigelassener Sklaven, Stuttgart, 1986, 54, nt. 67. L’assenza di spontaneità del munus e la differenza rispetto al donum sono sottolineate da Marc. 1 publ. iudic. D. 50.16.214: ‘Munus’ proprie est, quod necessarie obimus lege more imperiove eius, qui iubendi habet potestatem. ‘dona’ autem proprie sunt, quae nulla necessitate iuris officiis et sponte praestantur: quae si non praestentur, nulla repraehensio est et, si praestentur, plerumque laus inest. sed in summa in hoc ventum est, ut non quodcumque munus, id et donum accipiatur, at quod donum fuerit, id munus recte dicatur. Sul punto v. A. Carcaterra, Le definizioni, cit., 193; G.G. Archi, ‘Donare’ e ‘negotium gerere’, in Studi in onore di E. Volterra, I, Milano, 1971, 684; S. Broise, ‘Animus donandi’. Concetto romano e suoi riflessi sulla dogmatica moderna, I, Pisa, 1975, 109 s.; G. Coppola, Cultura e potere. Il lavoro intellettuale nel mondo romano, Milano, 1994, 230, nt. 164, con citazione di ulteriore bibliografia. V. anche ‘Thesaurus Linguae Latinae’, VIII, Lipsiae, 1936-1966, voce ‘munus’, cc. 1662 ss.; E. Forcellini, ‘Totius latinitatis lexicon’, IV, Prati, 1868, 201 s., voce ‘munus’, ove si rinvia all’idea di dono, di uffizio, nonché di giochi e spettacoli che spesso erano ‘donati’ al popolo in remunerationem accepti ab eo honoris. V. anche oltre, in questo capitolo, nt. 136.

 

[111] Cfr. C. Venturini, ‘Damnatio’, cit., 69 s. e nt. 82, 90 e nt. 44.

 

[112] Cfr. C. Venturini, Studi, cit., 488.

 

[113] Cfr. O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 78 ss.

 

[114] V., tuttavia, anche A.W. Lintott, The ‘Leges de Repetundis’, cit., 194 s., il quale – sulla base dei dati a nostra disposizione circa il famoso processo di P. Rutilius Rufus, tenutosi in un anno imprecisato tra il 95 e il 92 a.C. – ipotizza che già la lex Servilia Glauciae contenesse una clausola generale del tipo: si quis magistratus populi Romani prove magistratu iudexve pecuniam a socio ceperit quo fraus alteri fiat. Una tale configurazione del divieto parrebbe, sì, essenzialmente incentrata sul danno ingiusto arrecato ai terzi, ma non varrebbe a far venire meno il collegamento tra l’accettazione di una dazione di denaro e la violazione di doveri d’ufficio. Il fatto, poi, che Dione Cassio raffiguri genericamente l’incolpazione di Rutilio Rufo ὡς δωροδοκή[σας] (v. Cass. Dio fr. 97.1) non mi pare di per sé sufficiente per suffragare in termini di certezza l’ipotesi avanzata dall’autore.

 

[115] Così C. Venturini, La corruzione, cit., 30.

 

[116] Cfr. C. Venturini, Studi, cit., 483 s.

 

[117] Cfr. C. Venturini, Studi, cit., 482 ss.; Id., ‘Ob sententiam’, cit., 907 ss.

 

[118] Dubbi sulla genuinità del frammento sono stati sollevati da Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 712, nt. 1 e 713, nt. 4 (= Id., Le droit pénal romain, trad. fr. par J. Duquesne, III, Paris, 1907, 9, nt. 2 e 10, nt. 6); A. Berger, voce ‘Lex Iulia de pecuniis repetundis’, in «RE», XII.2, Stuttgart, 1925, c. 2390. Di diverso avviso F. Serrao, Il frammento leidense di Paolo. Problemi di diritto criminale romano, Milano, 1956, 14, nt. 34; C. Venturini, Studi, cit., 470; Id. ‘Ob sententiam’, cit., 906, entrambi propensi ad attribuirlo allo stesso Marciano, in quanto l’indicazione contenuta nella seconda parte del pr. (vel quo alio officio rell.), giustamente ritenuta estranea al testo originario della lex Iulia, ben poteva già esser stata modificata all’epoca del giurista, portato a richiamare la normativa in modo sintetico in un’opera di carattere istituzionale.

 

[119] Cfr. C. Venturini, ‘Damnatio’ cit., 69 s. e nt. 82.

 

[120] Cfr. C. Venturini, La corruzione, cit., 29 s.

 

[121] Cfr. M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés arcaïques, in «L’année sociologique», I, 1923-24 30 ss.; G. Augello, Pratica e necessità del donare nella Roma di Marziale, in «ALGP», II, 1965, 339 ss. Del resto l’imputabilità per ogni acquisto superiore ai diecimila sesterzi (il tenore del testo tradito è evidentemente adattato alla valuta imperiale) era destinata ad essere estesa, in base ad una riforma introdotta da un senatus consultum dell’età di Claudio, ai compensi percepiti dagli avvocati ob causam orandam, creando così una generalizzata soglia legale capace di fungere da discrimen tra donativi leciti, perché fondati sul ‘sano’ presupposto della reciprocità dei rapporti sociali di amicitia intercorrenti tra le parti, e dazioni assistite da una presunzione assoluta di illiceità, che esulavano per definizione da tale ambito. Cfr. V. Angelini, ‘Metuendus ingratus’ (Avvocato e cliente in una pagina di Quintiliano), in AA.VV., Studi per Luigi De Sarlo, Milano, 1989, 1 ss.; F. Cancelli, voce Ufficio (diritto romano), in «ED», XLV, 1992, 621 ss.; V. Angelini, Augusto e l’onorario forense. (Nota a Cass. Dio 54,18,2), in AA.VV., ‘Societas-ius’. ‘Munuscula’ di allievi a Feliciano Serrao, Napoli, 1999, 3 ss.

 

[122] La nuova configurazione del semplice divieto di capere esclude che tale attività sia necessariamente collegata ad una violazione dei doveri d’ufficio: cfr. C. Venturini, ‘Ob sententiam’, cit., 907.

 

[123] Cfr. C. Venturini, Concussione e corruzione, cit., 313, ove si evidenzia come ogni donum o munus ottenuto durante l’amministrazione provinciale fosse ritenuto comunque illegittimo in quanto rientrante nella sfera della ‘concussione’. V. anche Id., La corruzione, cit., 30; Id., ‘Ob sententiam’, cit., 907.

 

[124] Così C. Venturini, Studi, cit., 489.

 

[125] Cic. Att. V.10.2; V.16.3; V.21.5; Fam. II.17.4; Quint. I.1.8. Cfr. C. Venturini, Studi, cit., 489 s.; F. Elia, CTH. 11, 11, 1, cit., 482.

 

[126] Cfr. C. Venturini, Studi, cit., 490.

 

[127] Cfr. J.A.R. Kemper, ‘Ego iugulum statim video’. ‘Plinius’ als advocaat en de Romeinse rechtsprocedure, in «Lampas», XXIV, 1991, 50; F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 249.

 

[128] Nella dottrina degli status causae, così come articolata nelle trattazioni retoriche antiche, lo status finitivus o definitio era per lo più considerato uno stato razionale, ma non mancano visioni diverse. In Rhet. ad Herenn. I.19 la definitio (così come la translatio) viene ricompresa nella constitutio legitima. Degna di nota, inoltre, la posizione assunta da Cicerone nel De inventione, opera in cui l’Arpinate tratta distintamente la definitio, intesa come questione del genere razionale (v. Cic. inv. I.11; II.52 e ss.), e la definitio legalis, considerata come controversia appartenente al genere legale. Cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., 80; R. Martini, Antica retorica, cit., 61 s. Con Quintiliano, poi, viene delineandosi una ripartizione della definitio in tre specie. Quint. Institut. Orat. VII.3.8-10: [8] … tamen equidem tris habeo velut species. [9] Nam interim convenit solum quaerere an hoc sit, ut an adulterium in lupanari … Interim quaeritur hoc an hoc: ‘furtum’ an ‘sacrilegium’ … quo in loco utrumque finiendum est. [10] Interim quaeritur in rebus specie diversis, an et hoc et hoc eodem modo sit appellandum, cum res utraque habet suum nomen, ut ‘amatorium’, ‘venenum’. Nello stato finitivo ci si chiede, in buona sostanza, di che cosa si sta discutendo («Quod sit? An hoc sit?»); ogni parte è chiamata a fornire la propria descrizione del termine da definire (ad causam accomodata), rapportare il caso alla propria definizione e confutare la consistenza della definizione avversaria (uterque finitionem alterius impugnat). V. Quint. Institut. Orat. VII.3.19 e ss. Sul punto mi permetto di rinviare a F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 240 s. Nel nostro caso i generici quaedam vengono rispettivamente definiti come furta ac rapinae da un lato e come innocenti munera dall’altro.

 

[129] Cfr. F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 249.

 

[130] Cfr. J.A.R. Kemper, ‘O tempus miserum atque acerbum provinciae’! ‘Plinius’ en ‘repetundae’-processen, in «Lampas», XXV, 1992, 27; F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 247 s.

 

[131] La metafora iter ingredi è abbastanza comune: cfr. H. Pflips, Ciceronachahmung, cit., 288 s.

 

[132] La dizione coniectura è sinonimica rispetto al termine infitiatio usato da Cicerone. V. Quint. Institut. Orat. III.6.32: … infitialis est, quem dicimus coniecturalem, cui ab infitiando nomen alii in totum dederunt, alii in partem, qui accusatorem coniectura, reum infitiatione uti putaverunt. Cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., 61 s. V. anche sopra, in questo capitolo, § 4 e nt. 69.

 

[133] V. Quint. Institut. Orat. III.6.16: Sed quia videtur illis quoque necessitatem hos status exequendi facere qui negat (is enim si dicat: «Non feci», coget adversarium coniectura uti, et si dicat: «Non habes legem», syllogismo), concedamus ex depulsione nasci statum. …

 

[134] Cfr. M. Allain, Pline Le Jeune Avocat, cit., 46.

 

[135] Cfr. F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 249. V. anche sopra, in questo capitolo, § 5.

 

[136] Come noto, infatti, il diminutivo munusculum ha rarefatto i segni della sua dipendenza dal sostantivo munus, perdendo ogni contatto con l’idea di una condotta in qualche modo dettata da coercitio e risolvendosi nell’indicazione di un ‘piccolo dono’ offerto spontaneamente ad amici o a persone care. V. Thesaurus Linguae Latinae, VIII, Lipsiae, 1936-1966, voce ‘munusculum’, c. 1667 s. Si noti, inoltre, che la nozione stessa di munusculum parrebbe esprimere, in qualche modo, il punto di vista soggettivo del donante piuttosto che quello del donatario: in altre parole, munusculum è, almeno tendenzialmente, il piccolo dono che si fa e non quello che si riceve. V. A. Ernout - A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1959, 422, voce ‘munus’: «le sens de ‘présent que l’on fait’ (et non que l’on reçoit) est secondaire, mais très frequent; de là (…) munusculum». Cfr. F. Elia, CTH. 11, 11, 1, cit., 477; F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 249 e nt. 36. V. anche sopra, in questo capitolo, nt. 110.

 

[137] L’assolutezza del divieto di capere per i promagistrati provinciali fu sempre tenuta ferma, ma venne in qualche modo mitigata da un provvedimento di Settimio Severo e Caracalla, tradito da Ulpiano, si riconosce un ruolo essenziale alle capacità di vaglio dei governatori nell’accettare (o nel respingere) i doni di modesta entità denominati xenia. Ulp. 1 de off. proc. D. 1.16.6.3: Non vero in totum xeniis abstinere debebit proconsul, sed modum adicere, ut neque morose in totum abstineat neque avare modum xeniorum excedat. quam rem divus Severus et imperator Antoninus elegantissime epistula sunt moderati, cuius epistulae verba haec sunt: ‘Quantum ad xenia pertinet, audi quid sentimus: vetus proverbium est: οὔτε πάντα οὔτε πάντοτε οὔτε παρὰ πάντων. nam valde inhumanum est a nemine accipere, sed passim vilissimum est et omnia avarissimum.’ et quod mandatis continetur, ne donum vel munus ipse proconsul vel qui in alio officio erit accipiat ematve quid nisi victus cottidiani causa, ad xeniola non pertinet, sed ad ea quae edulium excedant usum. sed nec xenia producenda sunt ad munerum qualitatem. Si noti, inoltre, che il tentativo di restringere l’area dell’irrilevanza penale ‘a priori’ ai soli xeniola, i piccoli doni ospitali. Cfr. C. Venturini, Studi, cit., 490; F. Elia, CTH. 11, 11, 1, cit., 482 ss.; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 92; C. Venturini, ‘Damnatio’, cit., 70, nt. 82. In seguito, l’imperatore Valentiniano I, con una costituzione (C.Th. 11.11.1) indirizzata a Probo, praefectus praetorio Illyrici, diffiderà qualsiasi officialis dall’obbligare, sub quocumque praetextu muneris publici, i possessores a prestazioni non dovute e dall’accettare munuscula et xenia anche se divenuti ormai canonica. Sul punto v. F. Elia, CTH. 11, 11, 1, cit., 473 ss.

 

[138] Sulla possibile strumentalizzazione della ricorrenza a Roma, v. F. Elia, CTH. 11, 11, 1, cit., 480. Per un diverso punto di vista, v. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 277; H Pflips, Ciceronachahmung, cit., 289 s., i quali ritengono che il riferimento al festaggiamento dei Saturnali sia prova della estesa romanizzazione della provincia amministrata da Basso.

 

[139] V. sopra, in questo capitolo, § 5.

 

[140] Sul punto mi permetto di rinviare a F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 249. V. anche G. Kennedy, The Art, cit., 539.

 

[141] Cfr. J.A.R. Kemper, ‘O tempus’, cit., 28; F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 250 s.

 

[142] Sulla deprecatio, v. sopra, in questo capitolo, § 3 e nt. 54.

 

[143] Cfr. F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 250 s. V. anche G. Picone, L’eloquenza, cit., 46, il quale richiama questo passaggio dell’epistula per porre in luce la concezione pliniana dei doveri della difesa: «il difensore non deve, sino a quando l’andamento della causa gli lascia una sia pur piccola possibilità di manovra, affidarsi alla clemenza dei giudici, pena il tradimento della sua stessa funzione: in questa posizione si evidenzia un alto concetto del ruolo dell’avvocato».

 

[144] Cic. inv. II.34.104.

 

[145] Cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., 106 ss.; R. Martini, Antica retorica, cit., 66 s.

 

[146] Per la definizione ciceroniana della parte absoluta del genus iuridiciale, v. Cic. inv. II.23.69: … Absoluta est, quae ipsa in se, non ut negotialis implicite et abscondite, sed patentius et expeditius recti et non recti quaestionem continet. … Il manuale redatto da Cornificio nel medesimo ambiente culturale del De inventione definisce la iuridicialis constitutio absoluta facendo uso di quella stessa terminologia che Plinio pare richiamare. V. Corn. Rhet. ad Herenn. I.24: ... Absoluta est, cum id ipsum quod factum est, ut aliud nihil foris adsumatur, recte factum esse [eam] dicemus … Cfr. W.C. McDermott - A. Orentzel, Quintilian and Domitian, cit., 24 a giudizio dei quali Plinio sarebbe stato maggiormente influenzato dalle dottrine lette nelle opere precedenti (e, in particolare, in quelle di Cicerone) che da quelle del proprio maestro perché, al momento della pubblicazione del trattato di Quintiliano, di cui pure dovette possedere una copia, aveva completato il proprio percorso formativo ed era già un oratore affermato. V. anche sopra, cap. II, nt. 13.

 

[147] Cfr. J.A.R. Kemper, ‘O tempus’, cit., 28; F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 250.

 

[148] Corn. Rhet. ad Herenn. II.19: Absoluta iuridiciali constitutione utemur, cum ipsam rem, quam nos fecisse confitemur, iure factam dicemus, sine ulla adsumptione extrariae defensionis. Cfr. R. Martini, Antica retorica, cit., 66.

 

[149] Plin. Epist. IV.7.4: Exemplo est Regulus. Imbecillum latus, os confusum, haesitans lingua, tardissima inventio, memoria nulla, nihil denique praeter ingenium insanum; et tamen eo impudentia ipsoque illo furore pervenit, ut orator habeatur. Cfr. A.N. Sherwin-White, Pliny, the Man, cit., 79 s.; A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 102 ss. V. anche sopra, cap. II, nt. 34. Parimenti Fonteio Magno deve la sua verbosità all’impudentia: v. Plin. Epist. V.20.4-5. Cfr. G. Picone, L’eloquenza, cit., 155, ove si evidenzia come i giudizi negativi su taluni oratori contemporanei investano, per lo più, l’aspetto morale e solo come conseguenza l’ambito più strettamente professionale in conseguenza del fatto che l’orator deve essere vir bonus dicendi peritus.

 

[150] Cfr. G. Picone, L’eloquenza, cit., 155. V. oltre, in questo capitolo, § 9.

 

[151] Come noto, la ‘virtù etica’ viene intesa da Aristotele come ‘medietà’ tra due vizi, come equidistanza dagli estremi, tanto nelle passioni (ἔν τε τοῖς πάθεσι) che nelle azioni (ἐν ταῖς πράξεσι). L’importante concetto è sviluppato da Aristotele in Eth. Nic. II, 6, 1106 a ss., praecipue, 1106 b, 36, nonché 1107 a, 1-8: ἔστιν ἄρα ἡ ἀρετὴ ἕξις προαιρετική, ἐν μεσότητι οὖσα τῇ πρὸς ἡμᾶς, [1107a] (1) ὡρισμένῃ λόγῳ καὶ ᾧ ἂν ὁ φρόνιμος ὁρίσειεν. μεσότης δὲ δύο κακιῶν, τῆς μὲν καθ᾽ ὑπερβολὴν τῆς δὲ κατ᾽ ἔλλειψιν· καὶ ἔτι τῷ τὰς μὲν ἐλλείπειν τὰς δ᾽ ὑπερβάλλειν τοῦ δέοντος ἔν τε τοῖς πάθεσι καὶ ἐν (5) ταῖς πράξεσι, τὴν δ᾽ ἀρετὴν τὸ μέσον καὶ εὑρίσκειν καὶ αἱρεῖσθαι. διὸ κατὰ μὲν τὴν οὐσίαν καὶ τὸν λόγον τὸν τὸ τί ἦν εἶναι λέγοντα μεσότης ἐστὶν ἡ ἀρετή, κατὰ δὲ τὸ ἄριστον καὶ τὸ εὖ ἀκρότης.

 

[152] Il segno temperamentum viene impiegato dall’autore per indicare tanto la ‘via di mezzo’ considerata come misura giusta ed equilibrata (v. Plin. Epist. I.7.3; VI.29.7; X.115; Pan. 55.5; 79.5), quanto la discrezione che modera gli impulsi eccessivi (v. Epist. III.1.6; Pan. 3.1), la temperatura appropriata (v. Epist. II.17.9), nonché il saggio freno che il potere imperiale si autoimpone (v. Epist. III.20.12; Pan. 10.3). Cfr. G. Galimberti Biffino, Il ‘temperamentum’ e l’uomo ideale dell’età traianea, in ‘Plinius’ der Jüngere und seine Zeit, hrsg. von L. Castagna und E. Lefèvre, München-Leipzig, 2003, 173 ss. Sulla ‘medietà’ di esperienze e valori nella misura umana di Plinio, v. anche P. Cova, Lo stoico imperfetto. Un’immagine minore dell’uomo nella letteratura latina del principato, Napoli, 1978, 86 ss.

 

[153] Come noto, sussistono molte perplessità sulla configurazione della translatio come quarto status rationalis: cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., 139 ss.; R. Martini, Antica retorica, cit., 73 ss.

 

[154] Cfr.  J.A.R. Kemper, ‘O tempus’, cit., 28; F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 248 ss., praecipue 251.

 

[155] Cfr. F. Procchi, ‘Medium quiddam tenere’, cit., 251. Di diverso avviso: J.A.R. Kemper, ‘O tempus’, cit., 28, il quale ritiene che « wanner men dan afziet van de translatio (hierin wordt de competentie van de rechtbank bestreden) blijft alleen de kategorie van de qualitas assumptiva over. Hierin moet hard gemaakt dat het ten laste gelegde weliswaar niet geheel en al rechtmatig is, maar dat er personen, omstandigheden etc. aan te wijzen zijn die de handeling hebben veroorzaakt (zie boven bij ἀντέγκλημα). Het is dan ook zeer waarschijnlijk dat Plinius deze laatste status op het oog heeft als hij verklaart: in hac difficultate placuit medium quiddam tenere …»; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 92, secondo cui «in the event he seems simply to have made a plea in mitigation».

 

[156] Cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., 132, ove si evidenzia che Quintiliano non seguì né Cicerone né Cornificio nella trattazione della qualitas «e questo è provato dal fatto che l’excusatio, in sostanza coincidente con la purgatio, non è considerata sottoparte di un genere superiore, ma indipendente di fianco alla imminutio e alla deprecatio. Probabilmente egli si servì per la trattazione della qualitas come si è già detto, del retore Verginius, il quale a sua volta doveva avere apportato qualche modifica al sistema ermagoreo. Questo ci è documentato non solo dal fatto che manca una parte corrispondente alla concessio ciceroniana, poi suddivisa in purgatio e deprecatio, ma anche dal fatto che tra l’excusatio e la deprecatio è inserito uno status quantitatis di origine ignota».

 

[157] Quint. Institut. Orat. VII.4.14-15: … Hinc quoque exclusis excusatio superest. Ea est aut ignorantiae (ut si quis fugitivo stigmata scripserit eoque ingenuo iudicato neget se liberum esse eum scisse), aut necessitatis, (ut cum miles ad commeatus diem non adfuit et dicit se fluminibus interclusum aut valetudine). [15] Fortuna quoque saepe substituitur culpae. Nonnumquam male fecisse nos, sed bono animo dicimus. Utriusque rei multa et manifesta exempla sunt: idcirco non est eorum necessaria expositio.

 

[158] V. sopra, in questo capitolo, § 5 e nt. 109. Cfr. G. Kennedy, The Art, cit., 539 s.

 

[159] Nel linguaggio militare la nox che giunge a dirimere proelium o bellum è espressione ricorrente. Cfr. H Pflips, Ciceronachahmung, cit.,134. L’espressione viene impiegata da Plinio per instaurare il parallelismo tra la battaglia e l’agone processuale anche in Epist. II.11.18.

 

[160] Sulla fissazione – introdotta nelle quaestiones in epoca sillana – di un numero massimo di clepsydrae per gli interventi dell’accusa e della difesa e sui successivi sviluppi, cfr. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 428 e nt. 5 (=Id., Le droit pénal, II, cit., 107, nt. 5). Le notizie sul tema sono abbastanza frammentarie, ma sappiamo da Ascon. In Milon. 36 Stangl che la lex Pompeia de vi promulgata nel 52 a.C. insieme a quella de ambitu accordava due ore di tempo all’accusatore e tre all’imputato. Secondo Tacito sarebbe stato questo il primo intervento legislativo teso a porre dei freni all’eloquenza. V. Tac. Dialog. XXXVIII.1-2: [1] Transeo ad formam et consuetudinem veterum iudiciorum. Quae etsi nunc aptior est veritati, eloquentiam tamen illud forum magis exercebat, in quo nemo intra paucissimas horas perorare cogebatur et liberae comperendinationes erant et modum in dicendo sibi quisque sumebat et numerus neque dierum neque patronorum finiebatur. [2] Primus haec tertio consulatu Cn. Pompeius adstrinxit imposuitque veluti frenos eloquentiae, ita tamen ut omnia in foro, omnia legibus, omnia apud praetores gererentur … Il riferimento di Plinio ai termini di legge deve presumibilmente riferirsi alla lex iudiciaria di Augusto: cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 167;. H Pflips, Ciceronachahmung, cit., 277. Nel nostro caso Plinio parla di sei ore per l’accusa e di nove ore per la difesa. Pare, quindi, quanto meno verosimile ipotizzare che anche nel Principato – pur sussistendo una certa discrezionalità dei tribunali nello stabilire a seconda delle circostanze del caso concreto il numero di clepsydrae da accordare ad accusa e difesa – dovesse comunque esser fatto salvo il rapporto proporzionale che garantiva all’imputato 1/3 di tempo in più rispetto a quello concesso all’accusa. V. anche Tac. Ann. III.13.1. Cfr. B. Santalucia, Diritto e processo penale2, cit., 239; Y. Rivière, Les délateurs, cit., 185. Sul punto v. anche sopra, cap. II, nt. 18.

 

[161] Cfr. G. Galimberti Biffino, Il ‘temperamentum’, cit., 175, che riconduce la necessità di sapersi autolimitare richiamata da Plinio a quell’ideale di sobrietà morale ispirato ai canoni della ‘medietà’ che abbiamo già avuto modo di illustrare. V. sopra, in questo capitolo, § 7 e nt. 151.

 

[162] V. Plin. Epist. II.11.15; III.9.9.

 

[163] V. sopra, cap. II, § 2.

 

[164] V. Plin. Epist. II.11.16: … Missus deinde senatus et revocatus in posterum; neque enim iam incohari poterat actio, nisi ut noctis interventu scinderetur.

 

[165] Cfr. G. Picone, L’eloquenza, cit., 29.

 

[166] Cfr. G. Picone, L’eloquenza, cit., 91 s.

 

[167] V. Plin. Epist. VII.9.5-6: [5] Poteris et, quae dixeris, post oblivionem retractare, multa retinere, plura transire, alia interscribere, alia rescribere. [6] Laboriosum istud et taedio plenum, sed difficultate ipsa fructuosum, recalescere ex integro et resumere impetum fractum omissumque, postremo nova velut membra peracto corpori intexere nec tamen priora turbare. Cfr. G. Picone, L’eloquenza, cit., 28 s.

 

[168] V. sopra, cap. II, § 2.

 

[169] L’espressione tempus implere viene impiegata con lo stesso significato anche in Plin. Epist. VII.6.11.

 

[170] Cfr. H.P. Bütler, Die geistige Welt, cit., 61. V. anche I.G. Mastrorosa, La pratica, cit., 144 ove si evidenziano le peculiarità del foedus del patrocinio e della fides del rapporto intercorrente tra avvocato e cliente. Sulla nozione di diligentia dell’oratore, cfr. J.-M. David, Déontologie, cit., 91 ss. V. anche sopra, cap. I, § 6.

 

[171] V. sopra, cap. II, § 2 e nt. 36. Cfr. anche G. Picone, L’eloquenza, cit., 28 s.

 

[172] V. sopra, in questo capitolo, § 3.

 

[173] L’ablativo nocte che precede inlatis lucernis, attestato nella maggior parte dei manoscritti, non deve essere espunto dal testo: sul punto, cfr. F. Trisoglio, Nota critica, in Opere, I, cit., 116.

 

[174] V. sopra, in questo capitolo, § 4.

 

[175] V. Plin. Epist. III.9.7: Aderam Baeticis mecumque Lucceius Albinus, vir in dicendo copiosus, ornatus; quem ego cum olim mutuo diligendo copiosus, ornatus; quem ego cum olim mutuo diligerem, ex hac officii societate amare ardentius coepi.

 

[176] V. sopra, in questo capitolo, § 2.

 

[177] Cfr. G. Picone, L’eloquenza, cit., 84.

 

[178] Così A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 132.

 

[179] V. C.M. Wells, L’impero2, cit., 167, il quale si domanda se l’indignazione di Plinio sia realmente giustificata, visto che Teofane doveva in qualche modo rispondere ai discorsi della difesa, durati ben nove ore.

 

[180] Cfr. G. Picone, L’eloquenza, cit., 83 s., ove si evidenzia come Plinio sia solito manifestare l’apprezzamento per altri oratori «per lo più con rapidi tocchi».

 

[181] V. sopra, in questo capitolo, § 3.

 

[182] Quint. Institut. Orat. VI.1.51-52: Omnis autem hos adfectus, etiam si quibusdam videntur in prohoemio atque in epilogo sedem habere, in quibus sane sint frequentissimi, tamen aliae quoque partes recipiunt, sed breviores, ut cum ex iis plurima sint reservanda. At hic, si usquam, totos eloquentiae aperire fontes licet. [52] Nam et, si bene diximus reliqua, possidebisum iam iudicum animos, et e confragosis atque asperis evecti tota pandere possumus vela; et, cum sit maxima pars epilogi amplificatio, verbis atque sententiis uti licet magnificis et ornatis. … Per il ruolo fondamentale giocato dai sentimenti nei processi penali, v. anche Quint. Institut. Orat. VI.1.36: De accusatoribus et reis sum locutus, quia in periculis maxime versatur adfectus.

 

[183] Cfr. F. Trisoglio, Nota critica, in Opere, I, cit., 116: «l’ut uterque recte che segue inquis dato da α ed accettato dal Müller e dalla Guillemin, ma taciuto da β γ δ h k g a σ, va rifiutato, sebbene non sia estraneo al gusto stilistico pliniano».

 

[184] Cfr. M. Schuster, Kritische Nachlese zur Briefsammlung des jüngeren ‘Plinius’, in «Wiener Studien», LIII, 1935, 110-132, praecipue 121, spiega la caduta in taluni manoscritti del cum tam diversa censuerint con il salto di una riga, genere di lacune ivi più volte ricorrenti. Cfr. anche F. Trisoglio, Nota critica, in Opere, I, cit., 116: «queste parole si raccomandano inoltre perché sono la base indispensabile di qui fieri potest e perché forniscono una buona clausola».

 

[185] Come noto, Quintiliano si muove sulla scia di Aristotele nel tracciare la distinzione tra ‘prove tecniche’ o artificiales (che l’oratore estrapola e, in un certo qual senso, fa come ‘nascere’ dalla causa) e ‘prove atecniche’ o inartificiales (sentenze precedenti, dicerie, confessioni ottenute attraverso tortura, patti, giuramenti e testimoni); anche queste ultime, comunque, proprio perché di per sé prive dell’arte, dovrebbero essere per lo più sostenute o smentite facendo ricorso alle migliori risorse dell’eloquenza. V. Quint. Inst. Orat. V.1.1. Sul punto cfr. B. Mortara Garavelli, Manuale4, cit., 73 ss.; G. Sposìto, Il luogo, cit., 71 ss.; R. Martini, Antica retorica, cit., 41 s. Per un esame critico dell’impostazione tradizionale che configura la prova retorica come volta al convincimento degli organi giudicanti più che al veritiero accertamento dei fatti, v. M. Miceli, La prova retorica tra esperienza romanistica e moderno processo penale, in «Index», XXVI, 1998, 241-302, praecipue 250 ss.

 

[186] Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 278. V. anche O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 93.

 

[187] V. Quint. Inst. Orat. V.9.1.

 

[188] Per un’eccezionale concessione di testimoni alla difesa, v. Plin. Epist. V.20.2-8.

 

[189] Cfr. C. Solimèna, Plinio, cit., 275; J. García Camiñas, ‘Deferre’, cit., 252, nt. 38.

 

[190] A differenza delle quaestiones, in cui il voto dei giurati era segreto (a meno che l’accusato non avesse optato per la pubblicità del medesimo) e limitato all’alternativa secca tra la colpevolezza e l’innocenza dell’imputato, i senatori esprimono la loro opinione in modo palese e possono formulare proposte circa la pena da applicare nel caso di specie. Cfr. B. Santalucia, Diritto e processo penale2, cit., 239; Y. Rivière, Les délateurs, cit., 192. Cfr. anche Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 254 (=Id., Le droit pénal, I, cit., 296): «formell beherrscht diesen Prozess die für den Senatsbeschluss hergebrachte Ordnung. Die Oeffentlichkeit ist ausgeschlossen, obwohl die grosse Zahl der Betheiligten diesen Ausschluss einigermassen aufhebt».

 

[191] V. sopra, in questo capitolo, § 1 e nt. 7.

 

[192] PIR2 C 151. Cfr. R. Syme, Tacito, II, cit., 876; A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 278; A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 197 s.

 

[193] V. sopra, in questo capitolo, § 3 e, praecipue, nt. 53.

 

[194] A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 278.

 

[195] Cfr. A.N. Sherwin-White, ‘Poena’, cit., 24; Id., The Letters, cit., 278.

 

[196] Cfr. G. Pugliese, Linee, cit., 759 sg., il quale evidenzia come tale potere – per lo più interpretato come possibilità di giudicare ipotesi non previste dalle fattispecie legali o di escludere dalla sfera del delitto fatti lesivi che la legge invece prevedeva – trovi il suo preciso significato nella «possibilità di attenuare (al limite di escludere) le conseguenze penali stabilite dalle leggi o, viceversa, di aggravarle in relazione sia all’elemento soggettivo sia alle circostanze attenuanti o aggravanti o alle eventuali cause di giustificazione».

 

[197] V. anche Plin. Epist. II.11.4: Magna contentio, magni utrimque clamores aliis cognitionem senatus lege conclusam, aliis liberam solutamque dicentibus, quantumque admisisset reus, tantum vindicandum. Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 278; B.M. Levick, ‘Poena legis maiestatis’, in «Historia», XXVIII, 1979, 374 s.; H. Galsterer, The Administration, cit., 409 e nt. 44; B. Santalucia, Diritto e processo penale2, cit., 238 e nt. 179. Già Cfr. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 1039 (= Id., Le droit pénal, III, cit., 399) evidenziava come «für die beiden höchsten Gerichte, das consularisch-senatorische und das kaiserliche stellt die Rechtstheorie selbst die Regel auf, dass sie befugt sind die gesetzlichen Strafen nach Ermessen zu mildern oder zu steigern, und die Praxis insbesondere das letzteren hat davon nur zu reichlichen Gebrauch gemacht». Sulla ‘elasticità’ del rito e sulle ‘ambiguità’ della procedura seguita dal consesso dei patres, v. anche sopra, cap. I, § 5 e nt. 82.

 

[198] Cfr. F. Trisoglio, Nota critica, in Opere, I, cit., 116, il quale evidenzia come il richiamo a luoghi paralleli induca a respingere la lezione consurgenti ei, pur maggioritaria nella tradizione manoscritta.

 

[199] Cfr. B. Santalucia, Diritto e processo penale2, cit., 239; Y. Rivière, Les délateurs, cit., 185.

 

[200] Cfr. P. Garnsey, Social Status, cit., 55. Al di là della posizione processuale imposta all’advocatus dall’officio difensivo, il reale pensiero di Plinio doveva, tuttavia, essere non poco differente. Per l’opinione precedentemente espressa dall’autore circa la permanenza in senato di Ostilio Firmino, legato di Mario Prisco, v. Plin. Epist. II.12.4: Praeterea quid publice minus aut congruens aut decorum, notatum a senatu in senatu sedere ipsisque illis, a quibus sit notatus, aequari et summotum a proconsulatu, quia se in legatione turpiter gesserat, de proconsulibus iudicare damnatumque sordium vel damnare alios vel absolvere? Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 278; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 93.

 

[201] Cfr. V. Arangio-Ruiz, L’editto, cit., 33.

 

[202] Cfr. H Pflips, Ciceronachahmung, cit., 278. V. anche sopra, in questo capitolo, nt. 200.

 

[203] Cfr. J.A.R. Kemper, ‘O tempus’, cit., 29. In verità, nei testi latini a partire da Quintiliano la definizione corrente è scriptum et voluntas (v. Quint. Institut. Orat. III.6.43, 61 e 88; VII.6.1), mentre in Cicerone e nella Rhetorica ad Herennium questo status veniva per lo più indicato come un contrasto tra scriptum e sententia. Su questo status, v. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., 153 ss.; R. Martini, Antica retorica, cit., 77 ss. V. anche gli scritti fondamentali di U. Wesel, Rhetorische Statuslehre, cit., 30 ss., a giudizio del quale in base alla dottrina degli status allo scriptum et voluntas dovrebbe corrispondere solamente l’aspetto restrittivo dell’interpretazione, che conduce alla disapplicazione dei verba a favore della voluntas; B. Vonglis, La lettre, cit., 118 ss., 132 ss. e 140 s., che giunge ad ipotizzare, tra l’altro, un assorbimento della ratiocinatio nello scriptum et voluntas.

 

[204] Così L. Fanizza, Giuristi, cit., 86, nt. 205.

 

[205] V. sopra, in questo capitolo, §§ 2, 4 e 5. V. anche G. Kennedy, The Art, cit., 540.

 

[206] Cfr. B.F. Harris, ‘Bithynia’, cit., 884, a giudizio del quale «presumably the Senate believed exemplary punishment was called for to satisfy Bithynian feeling, but tempered it with humanitas and left Bassus in its ranks».

 

[207] V. Plin. Epist. X.56.4: Nam haec quoque species incidit in cognitionem meam. Est enim adductus ad me in perpetuum relegatus a Iulio Basso proconsule. Ego, quia sciebam acta Bassi rescissa datumque a senatu ius omnibus, de quibus ille aliquid constituisset, ex integro agendi, dumtaxat per biennium, interrogavi hunc, quem relegaverat, an adisset docuissetque proconsulem. Negavit. Interessante anche la risposta di Traiano a Plinio (Epist. X.57.2): Qui a Iulio Basso in perpetuum relegatus est, cum per biennium agendi facultatem habuerit, si existimat se iniuria relegatum, neque id fecerit atque in provincia morari perseverarit, vinctus mitti ad praefectos praetorii mei debet. Neque enim sufficit eum poenae suae restitui, quam contumacia elusit. Cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 279; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 93.

 

[208] Cfr. R. Syme, Tacito, I, cit., 112 e 141; P.A. Brunt, Charges, cit., 202; B.F. Harris, ‘Bithynia’, cit., 884; C.M. Wells, L’impero2, cit., 167 ss. L’incertezza della cronologia delle orazioni di Dione Crisostomo non consente, tuttavia, di individuare con sicurezza in Basso (piuttosto che in Vareno Rufo) l’ἡγεμὼν πονηρός i cui misfatti sono narrati in Dio Chrys. Or. XLIII.11: cfr. A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 275 s., 352.

 

[209] PIR1 V 107. Cfr. Weynand, voce ‘M. Lollius Paullinus Valerius Asiaticus Saturninus’, in «RE», VIII A.2, Stuttgart, 1948, c. 2346; A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 279; A. Orentzel, Pliny and the Orators, cit., 212 ss.

 

[210] Il diritto senatoriale consentiva che la sententia fosse formulata anche per addizione ad un parere già reso: v. Plin. Epist. VIII.14.6: Suus cuique parens pro magistro aut, cui parens non erat, maximus quisque et vetustissimus pro parente. Quae potestas referentibus, quod censentibus ius, quae vis magistratibus, quae ceteris libertas, ubi cedendum, ubi resistendum, quod silendi tempus, quis dicendi modus, quae distinctio pugnantium sententiarum, quae exsecutio prioribus aliquid addentium, omnem denique senatorium morem, quod fidissimum praecipiendi genus, exemplis docebantur.

 

[211] Venul. Sat. 3 publ. iud. D. 48.11.6.2: Lege Iulia repetundarum cavetur, ne quis ob militem legendum mittendumve aes accipiat, neve quis ob sententiam in senatu consiliove publico dicendam pecuniam accipiat, vel ob accusandum vel non accusandum; utque urbani magistratus ab omni sorde se abstineant neve plus doni muneris in anno accipiant, quam quod sit aureorum centum. La disposizione che qui più ci interessa deve essere con ogni probabilità intesa nel senso delineato da D. Mantovani, Il problema, cit., 195, nt. 238, secondo cui «la legge mirava (…) a colpire anche colui che, pur senza aver effettuato la delatio, avesse accettato del denaro per partecipare al processo dalla parte dell’accusa, mettendo a disposizione la propria eloquenza». Sul punto v. anche A.N. Sherwin-White, The Letters, cit., 279; C. Venturini, Studi, cit., 484, nt. 66; Id., Concussione e corruzione: origine romanistica di una problematica attuale, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, VI, Milano, 1987, 144; L. Fanizza, Delatori, cit., 55 e nt. 128; O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 94; C. Venturini, ‘Ob sententiam’, cit., 894 s.

 

[212] Cfr. O.F. Robinson, Penal Practice, cit., 94.

 

[213] Così C.M. Wells, L’impero2, cit., 168. Per un primo inquadramento dei rapporti tra gli organi centrali di governo ed i provinciali, v. L. Polverini, Le città dell’impero nell’epistolario di Plinio, in Contributi dell’Istituto di Filologia classica. Sezione di storia antica, I, Milano, 1963, 193.

 

[214] Cfr. P. Garnsey, Social Status, cit., 55.

 

[215] Cfr. G. Picone, L’eloquenza, cit., 69, il quale evidenzia il costante interesse di Plinio per gli intervenuti ad un processo o ad una pubblica lettura.

 

[216] V. anche Plin. Epist. VI.29.10: Tuitus sum Iulium Bassum ut incustoditum nimis et incautum ita minime malum; iudicibus acceptis in senatu remasit.