Università di Verona
Dalle magistrature Tribunizie
alla Repubblica di Venezia (*)
Sommario: 1. Premessa. –
2. Le
proposte di riforma costituzionali fra '600 e '700. –
3. Dal
tribunato della plebe ai rettori veneti di Padova.
Di questo
antico Stato italiano di matrice repubblicana che era Venezia nell'età moderna
ora comprendiamo meglio la presenza nebulosa di un tribunato alle origini della
sua storia fra il V e il IX secolo, probabilmente un'eredità della ricchezza
della tradizione romana ma che era stato radicalmente trasformato dalla sua
maturazione in un differente contesto istituzionale. Conosciamo meglio anche
l'atmosfera densa di aspettative ideali di riscatto politico a favore delle
fasce più povere del patriziato veneziano rispetto alle istanze oligarchiche –
per il Seicento potremmo dire che erano aspirazioni quasi principesche -
diffuse fra la classe aristocratica che contraddistingueva l'agire politico di
una prestigiosa magistratura patrizia delegata alla tutela delle leggi, come
l'Avogaria di Comun. Gli avvocati del comune attraverso lo strumento delle intromissioni
alle deliberazioni dei principali organi di governo erano capaci di esercitare,
anche individualmente, un'efficace procedura di controllo dell'osservanza degli
ordinamenti costituzionali[1]. Se questi sono i
caratteri originali delle magistrature tribunizie veneziane quello che manca, e
che l'avanzamento dello stato delle conoscenze sul pensiero politico a Venezia
permette di riprendere, è la questione sollevata da Niccolò Machiavelli per cui
l'assenza di conflittualità interna, orgoglio della Repubblica, era per lui
indice di torpore, laddove secondo il segretario fiorentino «la disunione della
plebe e del Senato» rese «libera e potente» Roma[2]. In definitiva Venezia
era veramente la «città del silenzio» politico, cioè nelle vicende interne
sussisteva un estremo riserbo che impediva ai veneziani dal manifestare in
pubblico le proprie opinioni, secondo il classico giudizio dello storico
svizzero Jacob Burdkhardt?[3]
Per rispondere a questa domanda per primo punto prenderemo in esame le orazioni pronunciate nelle cosiddette renghe durante le proposte di riforma delle leggi avanzate nel corso delle crisi costituzionali del 1582, 1677 e del 1780, cioè durante quelli che furono dei momenti di altissimo impegno civile nei confronti della ridefinizione dell'essenza dello Stato, del ruolo delle magistrature repubblicane e dell'immagine del ceto di governo a Venezia[4]. Per secondo argomento ci occuperemo della relazione fra il tribunato della plebe e la figura di rettore veneto, in particolare in una delle principali città della terraferma veneta, sede di uno Studio pubblico, che era Padova, cioè della carica più vicina ai bisogni di giustizia e di sicurezza delle popolazioni suddite e che intendeva trasmettere una determinata immagine del dominio[5]. Le fonti che verranno prese in considerazione sono le orazioni pronunciate in Maggior Consiglio, l'assemblea plenaria del patriziato veneziano, dai nobili eletti come “correttori delle leggi”, integrate anche dai discorsi tenuti nelle accademie padovane e veneziane, in particolare prenderemo in considerazione le lucide annotazioni del segretario dei “correttori” Piero Franceschi, nella ricostruzione storica della “correzione” nel 1780 [6]. Per secondo punto faremo riferimento al genere letterario dei Componimenti poetici d'occasione che il Consiglio nobile di Padova, lo Studio patavino e il territorio padovano indirizzavano ai rettori veneti a conclusione del loro mandato, teoricamente biennale, nella città della terraferma veneta. Questi scritti avevano una veste ufficiale e in quanto fonte letteraria veicolavano con sé dei contenuti originali[7].
Il ragionamento di Machiavelli presente nei primi capitoli del terzo libro dei Discorsi sopra la Prima deca di Tito Livio che la disunione della plebe e del Senato e la creazione del tribunato perfezionò la repubblica romana, cioè che più che ai “rumori” e alle “grida” che da quei tumulti erano originati occorreva rivolgere l'attenzione sulle positive conseguenze che dagli stessi tumulti provenivano, era un modello interpretativo che ispirò scopi diversi di elaborazione teorica[8]. Prendiamo in considerazione la grave crisi politica del 1582-1583 nel Maggior Consiglio a Venezia. La mancata elezione della zonta, cioè l'aggiunta del Consiglio dei X e l'interrogarsi sui poteri che attraverso di questa i Dieci si erano arrogati, aveva in sostanza portato a un moto politico che ne aveva comportato il ridimensionamento delle sue esorbitanti competenze in materia di politica estera e finanziaria rispetto alle prerogative del Senato[9].
Durante quelle
vicende il patrizio Tommaso Contarini era intervenuto con un discorso politico
appassionato, degno di nota per vigore e lucidità, in cui consolava il doge per
la perdita di potere del Consiglio dei X. Il Contarini ricordava il re di
Sparta Teopompo che accrebbe l'autorità del magistrato degli efori per porre un
freno alla podestà regia in modo tale che rendendola più ristretta essa sarebbe
stata tramandata più a lungo ai propri figli. Con un parallelismo Contarini
sosteneva la tesi che essendo l'autorità dei X indeterminata ora che si era
giunti alla precisa regolazione delle sue competenze questa decisione politica
aveva contribuito a renderla eterna[10]. In
definitiva, secondo questa tesi, l’indebolimento della posizione dei Dieci nell'assetto
costituzionale aveva messo solo momentaneamente in discussione le proprie
funzioni che anzi nel corso del tempo sarebbero risultate rafforzate.
Pochi anni prima anche il filosofo e patrizio Sebastiano Erizzo nei suoi Discorsi dei governi civili (1571) con una significativa interpretazione considerava il Consiglio dei X come un giudice fra il potere dogale, paragonato a quello regio, e l'uguaglianza della classe nobiliare, in maniera analoga alla funzione svolta dal Justitia mayor degli Aragonesi, che era una «specie di tribuno»[11]. A ben vedere in discorso il Contarini seguiva una linea interpretativa secondo una visione ciceroniana del pensiero politico sul tribunato della plebe perché secondo il patrizio dovevano esserci delle istituzioni specifiche, o comunque delle azioni politiche, che agissero da “temperamento”, ovvero da freno e da mezzo, per “temperare” l'ambizione egoistica e la faziosità presente nelle disfunzioni delle magistrature repubblicane[12].
Del resto uno dei caratteri distintivi dell'Umanesimo diventò la convinzione che la saggezza non doveva mai essere disgiunta dall'eloquenza. Bisognava sempre cercare di insegnare e di persuadere nello stesso tempo[13]. Sulla fecondità di una linea di ricerca che prestasse attenzione all'oratoria patrizia imbevuta di classicismo è testimonianza un Discorso sui danni dell'eloquenza pronunciato dall'accademico veneziano Dario Bellencini nell'adunanza degli Incogniti pochi anni dopo nel 1635, cioè nell'istituzione culturale fondata dal patrizio Giovan Francesco Loredan[14]. Il patrizio metteva in guardia dalla tirannia dell'eloquenza ricordando, ma a Venezia ricordare è sinonimo di prudenza nell'agire politico, l'esempio della sollevazione della plebe romana contro i principi originata da un discorso e poi sedata dall'eloquente Menenio Agrippa unendo la plebe al Senato[15]. Rispetto quindi all'esame storico del significato dell'Apologo di Menenio Agrippa e al parallelismo fra sciopero e secessione nel senso della collaborazione evidenziato dai successivi scrittori politici l'accademico in questo esempio ci si poneva in direzione politica assai diversa ponendo piuttosto il problema del rapporto fra retorica e politica[16].
E che questi
dibattiti potessero essere fecondi è documentato anche durante la “correzione”
del 1677 in cui gli interventi degli oratori, succedutesi nel palco del Maggior
Consiglio, rappresentarono un altissimo confronto di idee tra le due
concezioni, una repubblicana improntata all'uguaglianza sotto il primato della
legge e l'altra focalizzata sull'esercizio dell'autorità affidata a una
ristretta oligarchia, il cui scontro dialettico costituiva da secoli l'essenza
del dibattito politico veneziano[17].
In particolare il discorso del patrizio Giovanni Sagredo che verteva sulla necessità
di conservare nella sua pienezza la sovranità del Maggior Consiglio e
l'eguaglianza di tutta l'aristocrazia è plausibile - leggendo una sua
precedente arringa del 1670 - che nella sua disputa si rifacesse a letture
storiche che contemplavano episodi di resistenza contro il proprio principe
naturale come quella condotta dagli ugonotti, cioè i calvinisti, in Francia in
conflitto con il re Ludovico XIII a La Rochelle e ad Ostenda in Fiandra contro
il marchese Spinola[18]. A
ben vedere si trattava di un diritto di resistenza che si esprimeva secondo una
cultura che si sostanziava di un mondo di valori ricco e variegato e che
confermava il carattere non monolitico del patriziato veneziano ma piuttosto
depositario di una cultura politica improntata alla diversità degli itinerari
di formazione e attenta agli eventi della storia europea, in particolare
francese[19].
L'asprezza dei toni e dello scontro politico – costituzionale dovettero essere comunque intensi. Nel 1761-1762 non ci si sottrae all'idea di una certa incoerenza sull'opportunità degli esempi storici adottati. Tale scelta era probabilmente incrementata dalla contrapposizione dei contenuti delle dispute. Nel dibattito attorno alle mozioni dei “correttori” il patrizio conservatore Marco Foscarini citava abilmente Machiavelli, «autore profano» ma anche di «molto credito» che trattando della dittatura fra i romani parlava bene del Consiglio dei X, come un'autorità che difendeva il popolo e i patrizi poveri dai patrizi ricchi. Se il Consiglio dei X era considerato necessario negli urgenti pericoli per evitare la rovina della Repubblica e pubblicamente era stato elogiato dal Machiavelli, notoriamente critico verso Venezia, doveva proprio essere ritenuto indispensabile[20]. In maniera diversa un patrizio riformatore come l'Avogadore di Comun Alvise Zen si opponeva al Foscarini affermando che Machiavelli lo si poteva leggere altrimenti, cioè non considerare la magistratura patrizia come un elemento di equilibrio, perché il principale motivo della caduta di Sparta - secondo il Machiavelli - furono considerati i suoi Efori. Anche se era da sottolineare che gli Efori a Sparta erano eletti dal popolo e non dalla nobiltà come il Consiglio dei X a Venezia[21]. La posta in gioco era comunque la facoltà ripristinata all'Avogaria di Comun di portare le sue intromissioni, che includevano le materie di Stato, non solo al Senato ma ad arbitrio anche al Maggior Consiglio, e la sua attribuzione a vigilare sull'osservanza delle decisioni prese durante la riforma costituzionale. Tali trasformazioni delle competenza della magistratura patrizia fecero avanzare la preoccupazione - secondo una lettera privata di pochi giorni successiva del patrizio Niccolò Balbi scritta all'amico Marin Zorzi allora podestà di Brescia - che dietro il ripristino delle competenze dell'Avogaria si celasse di disegno di farla diventare una «perpetua magistratura di correzione»[22].
In questo senso sono pregnanti le acute riflessioni del segretario dei “correttori” Pietro Franceschi nel 1780 [23]. Già per quello che riguardava l'originalità del caso veneziano Franceschi evidenziava l'istituzione del primitivo tribunato, promosso dal popolo, che temperando l'imperfezione del governo aveva impedito alla Repubblica veneziana di cadere nell'anarchia che aveva contraddistinto la nascita delle dittature di Silla e di Cesare nell'antica Roma[24]. In un'importante annotazione sull'originaria istituzione e podestà dei tre Avogadori di Comun nel XII secolo il Franceschi li considerava «guardiani delle leggi, acciò non si offendano in parte veruna» e metteva in evidenza la stretta connessione con il tribunato della plebe romano[25]. Quali erano le loro competenze? Potevano impedire tutto ciò che offendeva la costituzione civile di Venezia, far abrogare qualunque decreto, ed accusare ogni cittadino che trascendesse i limiti del suo carico, o ne trascurasse i doveri. Il magistrato stava aperto a tutti i reclami anche nei giorni più solenni e secondo il Franceschi: «un Avogadore prudente mantiene l'ordine dello Stato».
Il Franceschi ne
dava tuttavia un giudizio di opportunità politica nell’esplicitarsi del ruolo
in posizione coerente con la linea conservatrice di cui era portavoce e che si
era già espressa durante la “correzione” del 1761. Data la proliferazione e la
contraddizione delle leggi venete e l'assenza di una sicura codificazione del
patrimonio legislativo un Avogadore di Comun di «mal talento» si sarebbe potuto
trasformare in un tribuno della plebe e mettere in disordine la regolare
attività dei Consigli e dei Collegi della Repubblica sotto il pretesto di
custodire l'autorità delle leggi[26]. A
rigore di logica è da osservare che il Franceschi aveva comunque una concezione
storica dell'Avogaria di Comun divergente rispetto alla tradizione veneziana
ispirata dal trattatista cinquecentesco Gasparo Contarini. Gli Avogadori di
Comun non venivano più a svolgere una funzione essenzialmente giurisdizionale,
di garanzia dell'applicazione delle leggi, ma potenzialmente politica di difesa
della libertà patrizia[27].
Ci sarebbe da domandarsi se al di là di questi riferimenti culturali come si prospettava, o comunque come sopravviveva il modello politico veneziano aspramente criticato da Machiavelli che non amò Venezia e non amò i Veneziani[28]. L'acceso dibattito nei principali consigli era stemperato dal principio della segretezza, a Venezia era quasi un’ossessione, che contrassegnava la mancata diffusione di questi dibattiti franchi e spregiudicati che investivano l'ordinamento dello Stato e in particolare il tribunato della plebe, la secessione e il diritto di resistenza[29]. Le differenze di opinioni trovavano poi composizione in quella forma repubblicana rappresentata da una società elettorale patrizia fatta di frequenti votazioni, con il sistema delle bossole e delle ballotte, malgrado fosse proprio sul piano elettorale con il rifiuto di eleggere i patrizi alle cariche del Consiglio dei X che partisse la protesta politica che conduceva sulla via delle tanto auspicate riforme costituzionali[30]. Eppure queste considerazioni andavano inserite in un gioco politico più ampio e complesso se rivolgiamo il nostro sguardo alla cultura politica delle città della terraferma veneta, in particolare a Padova.
Vediamo ora di comprendere come venne percepito a Padova il ruolo dei rettori veneti attraverso la cartina di tornasole di questa antica magistratura romana. I rappresentanti veneziani, nelle cariche di podestà e di capitano, presso le principali città e centri della terraferma veneta rappresentavano un elemento di cerniera fra la classe di governo patrizia e le popolazioni suddite e sopperivano alle esigenze d'informazione politica attraverso regolari dispacci e relazioni finali da presentare al Senato a Venezia al termine del loro mandato. Elemento di intersezione e di mediazione fra le differenti componenti territoriali, in particolare i Consigli cittadini, spettava ad essi di rappresentare l'immagine di protettori della popolazione dalla tirannide dei piccoli nobili locali[31]. Tuttavia il loro ruolo era suscettibile di ulteriori sviluppi come documentano le miscellanee di composizioni poetiche scritte in loro onore[32].
Per alcuni di questi patrizi come il capitano di Padova Massimo Valiero le genealogie familiari erano talmente lontane nel tempo che nel 1619 in un’orazione si citava addirittura lo storico Appiano l'Alessandrino che parlava dell'improbabile avo del rappresentante veneziano riconosciuto nel tribuno della plebe Quinto Valiero[33]. Per alcuni di loro gli esempi tratti dalla storia romana erano edificanti come si desume dal discorso recitato a nome di quell'istituzione informale, che era il territorio padovano, al capitano Vincenzo Da Mula, probabilmente nell’anno 1683, in cui si indicava la rettitudine morale del tribuno dell'antica Roma Marco Livio Druso, aperto alle petizioni dei sudditi, come una massima di governo seguita pure dal rappresentante veneziano nello svolgimento della sua carica[34].
Il discorso era pregnante se nel 1637 in un Panegirico
al podestà Paolo Coatorta recitato a nome dell'università dei signori leggisti
era affermato che: «gl'occhi vostri sono gl'Efori della città»[35]. Soprattutto
continuava a sopravvivere anche nel 1674 nel discorso pronunciato
nell'Accademia padovana dei Ricovrati per la partenza del cavaliere Alvise
Sagredo dei riferimenti culturali che comprendevano le fonti per la storia del
tribunato della plebe come l'elogio di Nerone del Cardano, e “l'empio”
Machiavelli[36]. Ad esempio il
filosofo pavese e famoso medico Girolamo Cardano nel Neronis encomium
(1562) propose un'originale apologia della figura di Nerone in cui spia di un
possibile ruolo attivo dei ceti popolari era senz'altro la sua proposta di
restaurare il tribunato della plebe nel suo modello di «principato civile»
filo-popolare[37].
Un affresco culturale quello sui rettori veneti di Padova suffragato quindi dall'eredità della tradizione classica sul tribunato della plebe che era spiegabile con le loro competenze di governo civile in cui si condensavano disattesi aneliti di progettualità politica. Nel 1611 in un’oratione ad Angelo Carraro recitata a nome dell'Università dei Filosofi e Medici dello Studio il ruolo esercitato per ventitré mesi dal podestà di Padova veniva ricondotto a quella dell'avvocato, in particolare per la funzione di difesa degli orfani, delle vedove, dei poveri[38]. Tuttavia era da segnalare il fatto che in un'età di principi, come il XVII secolo, i valori e la prassi delle virtù repubblicani, condensate nell'esigenza di una «magistratura di controllo», continuarono a sopravvivere fra gli esempi di questa letteratura politica d'occasione.
[Un evento
culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile
qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per
questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di
valutazione “in chiaro” da parte della direzione di Diritto @ Storia]
(*) Testo della
comunicazione presentata in «Giuramento
della Plebe al Monte Sacro. IV Seminario di studi ‘Tradizione repubblicana
romana’». Roma, Campidoglio - Sala della Protomoteca, 16-17 dicembre 2010.
[1] M. GALTAROSSA, L’idea del Tribunato nella storia della
Repubblica di Venezia, Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze
giuridiche e Tradizione Romana, 7 (2008) = http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Galtarossa-Idea-Tribunato-Repubblica-Venezia.htm; G. COZZI, Note sopra l’Avogaria di Comun, in Venezia e la terraferma attraverso le
relazioni dei rettori. Atti del convegno, Trieste 23-24 ottobre 1980, a
cura di A. TAGLIAFERRI, Milano 1981, 547-557, M. MANZATTO, Una magistratura
a tutela della legge: l'Avogaria di Comun, in Processo e difesa penale
in età moderna. Venezia e il suo Stato territoriale, a cura di C. POVOLO,
Bologna 2007, 109-154.
[2] N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio seguiti
dalle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli di Francesco
Guicciardini, a cura di C. VIVANTI, Torino 2000, 16-20, F. GILBERT, Machiavelli
e Venezia, in ID., Machiavelli e il suo tempo, Bologna 1977, 319-334,
G. BENZONI, Introduzione, in Storici e politici veneti del
Cinquecento e del Seicento, a cura di G. BENZONI e T. ZANATO, Milano -
Napoli 1982, XIX.
[3] J. BURCKHARDT, La civiltà del
Rinascimento in Italia, Firenze 1996, 65 e A. VENTURA, Scrittori
politici e scritture di governo, in Storia della cultura veneta. Dal
primo Quattrocento al Concilio di Trento, a cura G. ARNALDI - M.
PASTORE STOCCHI, III/I, Vicenza 1981, 513.
[4] G.
COZZI, La giustizia e la politica nella Venezia seicentesca (1630-1677),
in La formazione storica del diritto moderno in Europa. Atti del terzo
congresso internazionale della società italiana di storia del diritto, I,
Firenze 1972, 397, F. VENTURI, Settecento
riformatore, V, L’Italia dei lumi,
II, La Repubblica di Venezia (1761-1797),
Torino 1990, 198-220 e M. GALTAROSSA, L’idea
del Tribunato nella storia della Repubblica di Venezia, Diritto @ Storia.
Rivista internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione Romana, 7 (2008) = http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Galtarossa-Idea-Tribunato-Repubblica-Venezia.htm
.
[5] M. KNAPTON, “Dico in scrittura ...
quello ch'a bocha ho refertto”. La trasmissione delle conoscenze di governo nelle
relazioni dei rettori veneziani in terraferma, secoli XVI-XVII, in L'Italia
dell'Inquisitore. Storia e geografia dell'Italia del Cinquecento nella Descrittione
di Leandro Alberti, Atti del convegno internazionale di studi (Bologna,
27-29 maggio 2004), a cura di M. DONATTINI, Bologna 2007, 533-554.
Sul tribunato della plebe L. PERINI, Il tribunato della plebe, in Magistrature
repubblicane modelli nella storia del pensiero politico Atti del convegno di
Perugia - Gubbio 30 novembre - 2 dicembre 2006, “Il pensiero
politico”, 40 (2007), 359-364; G. POMA, Le istituzioni politiche del mondo
romano, Bologna 2009, 2a edizione, 57-59.
[6] Per il discorso di Zuanne Sagredo BMCV,
mss. 197 b e per i discorsi di Battista Nani e del terzo correttore rimasto
incognito ASV, Correttori delle leggi, b. 1.
[7] F. BENUCCI, Le Università dello
Studio di Padova per i rettori della città, “Quaderni per la storia
dell'Università di Padova”, 34 (2001), 243-279.
[8] G. SASSO, Niccolò Machiavelli,
I, Il pensiero politico, Bologna 1980, 507-527, P. CATALANO, Tribunato
e resistenza, Milano 1970, 37 e soprattutto 40, N. MACHIAVELLI, Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio, cit., 16-18, Q. SKINNER, Virtù
rinascimentali, Bologna 2006, 198.
[9] S. MAGGIO, Francesco Da Molino, Giacomo Foscarini e la riforma del Consiglio dei
dieci del 1582, “Ateneo veneto”, S. III, 11 (2012), 117-126.
[10] BNMV, mss. it VII 1235 (=7459), TOMMASO
CONTARINI, Miscellanea, c. 146v.-147r., P. CATALANO, Tribunato e
resistenza, cit., 52-53, A. VENTURA, Scrittori politici e scritture di
governo, cit., 513 e R. FERRANTE, La
difesa della legalità. I sindacatori della Repubblica di Genova, Torino
1995, 297.
[11] Della Republica et Magistrati di
Venetia. Libri cinque di M. Gasparo Contarini, che fu poi cardinale. Con un
ragionamento intorno alla medesima di M. Donato Gianotti fiorentino colle
annotazioni sopra li due sudetti autori di Nicolò Grasso, et i discorsi de’
Governi civili di M. Sebastiano Erizzo, In Venetia 1660, c. 213 e P. CATALANO, Tribunato e
resistenza, cit., 60, Q. SKINNER, Virtù rinascimentali, cit., 52-55.
[13] Q. SKINNER, Virtù rinascimentali,
cit., 10 e P. DEL NEGRO, La retorica dei savi. Politica e retorica nella
Venezia di metà Settecento, in Retorica e politica, atti del II convegno
italo – tedesco (Bressanone, 1974), a cura di D. GOLDIN, Padova
1977, 123 nota 2.
[14] M. MIATO, L'Accademia degli
Incogniti di Giovan Francesco Loredan Venezia (1630-1661), Firenze 1998.
[15] Discorsi academici de' signori
incogniti havuti in Venetia nell'Academia dell'illustrissimo signor Giovanni
Francesco Loredano nobile veneto all'illustrissimo, et eccellentissimo signor
Gasparo Thvillerio consigliere di Stato del re christianissimo, e suo
ambasciatore ordinario appresso la serenissima Repubblica di Venezia, In
Venetia 1635, c. 145.
[17] ASV, Correttori alle leggi, b. 1, fasc.
Correzioni 1677 e G. COZZI, La
giustizia e la politica nella Venezia seicentesca (1630-1677), in La
formazione storica del diritto moderno in Europa. Atti del terzo congresso
internazionale della società italiana di storia del diritto, cit., 397.
[18]
BMCV, mss. 197 b, Arringa
nel Serenissimo Maggior Consiglio a favore e difesa dell'eccellentissimo signor
capitano general Francesco Morosini fatta dal N.H s. Giovanni Sagredo Kavalier
e Procurator, cc. 92-93.
[19] A. DE BENEDICTIS, Identità
comunitarie e diritto di resistere, in Identità collettive tra Medioevo
ed Età moderna, convegno internazionale di studio, a cura di P. PRODI e W.
REINHARD, Bologna 2002, 289.
[20] BNMV, mss. it cl. VII 740 (=7483), N.
BALBI, Rellazione delle cose occorse e delle dispute tenute in Maggior
Consiglio per la correzione dell'eccelso Consiglio di Dieci, e delli suoi
magistrati interni, seguita l'anno 1762 estesa in dodici lettere da Nicolo
Balbi, c. 103, 107 e 126, N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca
di Tito Livio, cit., 79, 106-108, e F. VENTURI, Settecento riformatore, V, L’Italia
dei lumi, II, La Repubblica di
Venezia (1761-1797), cit., 12-31, in particolare 18 per il rapporto fra
tribunato ed eloquenza.
[21] N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio, cit., 32-33, BNMV, mss. it. cl. VII 740 (=7483),
N. BALBI, Rellazione delle cose occorse e delle dispute tenute in Maggior
Consiglio per la correzione dell'eccelso Consiglio di Dieci, e delli suoi
magistrati interni, seguita l'anno 1762 estesa in dodici lettere da Nicolo
Balbi, c. 138v., F. VENTURI, Settecento
riformatore, V, L’Italia dei lumi,
II, La Repubblica di Venezia (1761-1797),
cit., 25.
[22] BNMV, mss. it cl. VII 740 (=7483), N.
BALBI, Rellazione delle cose occorse e delle dispute tenute in Maggior Consiglio
per la correzione dell'eccelso Consiglio di Dieci, e delli suoi magistrati
interni, seguita l'anno 1762 estesa in dodici lettere da Nicolo Balbi, c.
237v. e 242v.
[23] ASV, Correttori alle leggi, b. 1, fasc.
P. FRANCESCHI, Memorie della Correzione 1780. Discorso preliminare.
[24] ASV, Correttori alle leggi, b. 1, fasc.
P. FRANCESCHI, Memorie della Correzione 1780. Discorso preliminare.
[25] ASV, Correttori alle leggi, b. 1, fasc.
P. FRANCESCHI, Memorie della Correzione 1780. Discorso preliminare e M.
CASTELLI, In tema di destabilizzazione, “Aggiornamenti sociali”, 4
(1981), 283 nota 2.
[26] ASV, Correttori alle leggi, b. 1, fasc.
P. FRANCESCHI, Memorie della Correzione 1780. Discorso preliminare.
[29] Sul segreto nella storia dello Stato
moderno sono fondamentali Das Geheimnis am Beginn der europäischen Moderne, Frankfurt am Main 2002, 61-206 e in particolare per la Repubblica di
Venezia PRETO, I servizi segreti,
55-74. Una buona introduzione al problema V. DINI, Il segreto tra “privato” e “pubblico”. Origini e trasformazioni di una
categoria del pensiero politico e giuridico moderno, cit., 375-393.
[31] M. KNAPTON, “Dico in scrittura ...
quello ch'a bocha ho refertto”. La trasmissione delle conoscenze di governo
nelle relazioni dei rettori veneziani in terraferma, secoli XVI-XVII, cit.,
535-545.
[32] F. BENUCCI, Le Università dello
Studio di Padova per i rettori della città, “Quaderni per la storia
dell'Università di Padova”, cit., 260-261.
[33] Oratione di Giovanni Dominico
Guardesani da Schio vicentino, recitata da lui all'illustrissimo et
eccellentissimo signor Massimo Valerio dignissimo capitano di Padova nel fine
del suo reggimento il dì 19 ottobre 1619, In Padova 1619.
[34] Nel partire dal reggimento di Padova
l'illustrissimo, et eccellentissimo signor Vicenzo Da Mula capitano oratione
recitata a nome dello spettabile territorio, In Padova s.d.
[35] Panegirico all'eccellenza
illustrissima del signor Paolo Caotorta podestà di Padova detto nella sua
partenza in nome dell'Università de' signori leggisti dal sig. Giovanni Gritti
cretense sotto i felicissimi auspici del prorettorato dell'illustrissimo sig.
Giovanni Conrado Heroldt di Norgoria, nobile franco-germano, In Padova
1637.
[36] Gl'Impedimenti della lode. Discorso
del signor Giovanni Battista Negrone et altre compositioni recitate
nell'Accademia de' Ricovrati poco avanti la partenza dell'Eccellentissimo
signor Cavalier Alvise Sagredo dal reggimento di Padova, In Padova 1674, N.
MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca
di Tito Livio, cit., 16-18, 117-121 e G. CARDANO, Elogio a Nerone, a
cura di M. DI BRANCO, Roma 2008.
[38] Nel partire dal reggimento di Padova
l'illustrissimo, et eccellentissimo signor Vicenzo Da Mula capitano oratione
recitata a nome dello spettabile territorio, In Padova s.d. e Oratione all'illustrissimo signor
Angelo Carraro podestà di Padova recitata nella sua partenza da quel governo a
nome dell'Università de' filosofi, e medici dello Studio. Dal Signor Giovanni
Battista Ceratto, scolare di filosofia vicentino, d'ordine del
signor Francesco Crasso Raguseo sindaco della detta Università, In Padova
1611 e confronta pure Nel partire dal reggimento di Padova l'illustrissimo,
et eccellentissimo signor Vicenzo Da Mula capitano oratione recitata a nome
dello spettabile territorio, In Padova s.d.