Università
di Modena e Reggio Emilia
L’IRRESISTIBILE ASCESA DI OTTAVIANO AUGUSTO
Abstract: The present study
wants to be an exhaustive but brief examinations of the main points of the
politics since he was the young man entering the public scene, with the battle
of Forum Gallorum and after, during the way that led him to take over all the
public powers. How was it possible, which was the main key of his success, the
funadametals of Augustus’ leadership are some of the questions I tried to
answer during my reaserch.
La figura di Ottaviano Augusto,
l’artefice di una delle costruzioni
politiche più complesse della storia[1],
è forse una di quelle che meno si prestano ai medaglioni. Gli occhi della
statua di Via Labicana ci fissano fermi da una distanza millenaria, eppure la
strategia politica e la personalità dell’uomo richiamano piuttosto l’immagine
di un prisma: da qualunque lato lo si osservi per coglierne il segreto,
qualcosa appare sfuggente, evasivo, e l’essenza di una personalità sembra
ritrarsi come per eludere lo sguardo dell’interlocutore[2].
In occasione delle celebrazioni per il
Bimillenario Augusteo, al di là degli aspetti esteriori, più o meno apologetici
e di circostanza legati all’evento, l’interrogativo che, quasi inesorabile,
continua a riproporsi allo studioso è quale sia la chiave di volta
dell’architettura politica di Ottaviano, quel quiddam che gli permise di riuscire laddove, prima di lui, figure
non meno carismatiche, forti dell’appoggio dell’esercito e sorrette dal proprio
ascendente personale (il pensiero corre in
primis a Caio Giulio Cesare, padre adottivo di Ottaviano stesso) si erano
fermate.
La prima linea guida da seguire nella
seppur rapida analisi che stiamo qui conducendo - e nell’ovvia consapevolezza
che potremo solo sfiorare la superficie increspata di una tematica così
articolata e densa di implicazioni - sono le stesse parole di Augusto,
tramandateci in un monumentale documento epigrafico[3]
che rappresenta la testimonianza in prima persona di come egli abbia voluto che
la sua vita pubblica, le sue imprese, i suoi atti di governo venissero letti,
interpretati e trasmessi ai posteri.
Nell’Index
rerum a se gestarum il primo princeps
della storia costituzionale romana illustra con parole scolpite e suggestive le
tappe fondamentali del proprio percorso (esaltandone le luci ed omettendone
quasi del tutto le ombre, com’è lecito attendersi da un’autobiografia politica)
e le basi legalitarie, morali e fideistiche del proprio potere, dalla conquista
del medesimo al lungo arco di governo che ha contraddistinto l’età augustea:
Res Gestae 25.2:
Iuravit in mea verba tota
Italia sponte sua et me belli, quo vici ad Actium, ducem depoposcit. Iuraverunt
in eadem verba provinciae Galliae, Hispaniae, Africa, Sicilia, Sardinia.
Un aspetto che sembra fin d’ora
opportuno mettere in evidenza è la terminologia che sta alla base di tutto
l’impianto ideologico di matrice augustea, innovativa nei contenuti ma
rassicurante nell’apparente rispetto delle forme, grazie a una campagna
propagandistica studiata nei modi e nei toni per far presa su un’opinione
pubblica profondamente scossa, vulnerabile, resa insicura da un secolo di
acerrimi scontri, congiure, scambi di alleanze, programmi demagogici non
mantenuti, crisi valoriale dell’élite
aristocratica dirigente, progressivo impoverimento delle risorse economiche e
della popolazione più debole: consensus[4],
fides , pietas e, al vertice, auctoritas
rappresentano i signa verbali grazie
al cui sapiente impiego Augusto progressivamente costruisce un legame personale
e quasi organico con il popolo e rafforza in esso la propria immagine quale
continuatore e garante degli antichi
mores[5].
Esemplare è a questo proposito il
seguente passo, con la sua celebre chiusa (Post
id tempus - fuerunt), eterno e irriducibile tormento degli interpreti:
Res
Gestae 34.1-3:
In consulatu sexto et
septimo, postquam bella civilia extinseram per consensum universorum potiens[6]
rerum omnium, rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani
arbitrium transtuli. 2. Quo pro merito meo senatus consulto Augustus appellatus
sum et laureis postes aedium mearum vestiti publice coronaque civica
super ianuam meam fixa est clupeu aureus in curia Iulia positus, quem mihi
senatum populumque Romanum dare virtutis clementiaeque et iustitiae et pietatis
causa testatum est per eius clupei inscriptionem. 3. Post id tempus auctoritate
omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri, qui mihi
quoque in magistratu conlegae fuerunt.
Non a caso il momento al quale
tradizionalmente si riconnette l’avvio di un mutamento costituzionale che la
Storia dimostrerà senza ritorno è la c.d. restitutio
rei publicae, descritta da Augusto stesso nel passo citato poc’anzi: il
gesto, apparentemente un azzardo sul quale il giovane uomo di Stato punta l’intera
posta affidandosi a un margine di rischio calcolatissimo, sortisce appieno
l’effetto voluto, allontana da sé ogni sospetto di tirannide o dittatura[7],
ottenendo contestualmente la ratifica della propria posizione di primus inter pares e con essa lo spazio di manovra necessario per plasmare la
materia costitutiva del nuovo ordine,
rivestendola delle forme proprie delle antiche istituzioni repubblicane. In ciò
risiede un sicuro punto di forza dell’impresa augustea: il raggiungimento
dell’estremo limite di equilibrio, prima di allora una sorta di miraggio - ma
difficile anche dire fino a che punto in effetti vagheggiato - tra continuità
ed innovazione.
Anche una volta ottenuto il titolo
onorifico di Augustus, egli appare
concentrato nello sforzo di ricondurre il proprio potere entro i limiti
costituzionali della repubblica, formalmente appellandosi a quel sistema di checks and balances che aveva rappresentato uno dei punti di forza
dell’inarrestabile ascesa di Roma quale capitale politica e sociale del mondo
affacciato sul bacino del Mediterraneo, in grado di suscitare l’ammirazione non
solo degli scrittori antichi di poco posteriori ai fatti che stiamo
considerando ma anche, a distanza di secoli,
di Charles Louis de Secondat, barone Montesquieu, che trasse ispirazione
per la concettualizzazione del celeberrimo principio della c.d. divisione dei
poteri proprio nella triade comizio popolare-senato-magistrature[8].
E’ tuttavia innegabile che, nonostante
l’understatement e la prudenza che
contraddistinguono l’operato di Augusto, egli si trovi di fatto in posizione di
assoluta preminenza rispetto a quella res
publica che, già come triumviro, si era proposto di rifondare.
E d’altro canto il rispetto per gli
antichi mores, il ‘basso profilo’ che
il princeps adotta sia nella vita pubblica sia in quella privata, le riforme che egli avvia, saggiamente dosandole per non apparire il dominus dello Stato romano anche quando
riprendono più da vicino la tradizione repubblicana, in realtà vanno letti nel
quadro politico-istituzionale più ampio che Augusto sta via via realizzando[9].
E’ proprio in questo che risiede il
cuore della silente ‘rivoluzione’ augustea? In effetti, una volta poste le basi
per la realizzazione di un’effettiva concordia
ordinum, il programma che egli ha in animo di compiere non si discosta
nella sostanza da quello ideato dal proprio padre adottivo e violentemente
interrotto alle Idi di marzo del 44 a.C., consistendo piuttosto in un
ampliamento ed un’estensione del medesimo con una meticolosa messa a punto dei
dettagli necessari al completamento del processo.
Non risiederebbe quindi nell’assoluta
novità di contenuti il segreto dell’affermazione di Ottaviano Augusto e della
riforma costituzionale che riverserà i mores
dell’antica repubblica in un nuovo contenitore istituzionale destinato a
passare alla storia con il nome di
“principato”, bensì nelle modalità studiate da Ottaviano per perseguire il
proprio fine accompagnandolo, dato necessariamente complementare, alla realizzazione
di quella pax Romana di cui l’Urbe,
l’impero, il popolo tutto avevano un disperato bisogno.
Ciò che spesso colpisce chi si accosti
allo studio e all’approfondimento di questo momento focale, non solo della
storia romana ma di quella della civiltà occidentale, è l’apparente netto contrapporsi
di due sistemi di governo tra i quali l’azione politica, prima di Caio Giulio
Cesare, poi di Ottaviano Augusto parrebbe tracciare una cesura netta, legata a uomini spinti da smisurata ambizione e
brama di conquista di un potere personale senza possibili concorrenti né reali
interlocutori: da un lato, la libera res
publica, la cui struttura, tenuta morale, compattezza politico-sociale
avevano portato Roma ad affermarsi quale regina incontrastata del Mediterraneo;
dall’altro l’impero che progressivamente
trasformerà i cives di quell’antica
comunità in sudditi, accentrando ogni facoltà nell’arbitrio incontrastabile di
un uomo solo al comando, la cui figura, gradualmente divinizzata, decreterà il
tramonto di ogni dialettica democratica.
E’ indubbio che alcuni di questi
passaggi si siano compiuti in tal modo ed abbiano comportato una radicale
revisione nella percezione delle dinamiche del potere e dell’interazione tra
governanti e consociati.
Ma come aveva già dimostrato con
drammatica violenza la crisi graccana, squarciando il velo idealizzante con il
quale la nobilitas aveva
prudentemente opacizzato i meccanismi di reale gestione della repubblica (basti
pensare alla miope gestione delle province),
la repubblica stessa, raggiunto il proprio apogeo negli anni successivi
alla fulgida vittoria su Cartagine, si reggeva su forme ed equilibri
irrimediabilmente datati perché concepiti per amministrare una Città-stato e
non la capitale di quello che militarmente e territorialmente era già un
impero, i cui confini, poi tutelati dalla presenza di insediamenti e
guarnigioni permanenti disposte strategicamente da Ottaviano, avrebbero finito
con l’identificarsi nel mondo sino ad allora conosciuto.
Lo Stato romano necessitava, insomma, di
una palingenesi. Questo già da Cesare era stato avvertito con lucidità,
sopravvalutando però la percezione del problema stesso da parte del popolo e,
per converso, non cogliendo nel suo reale spessore l’avversione per un tale
cambiamento che il senato gli avrebbe fieramente opposto. Una tale
rifondazione, pur indispensabile, non poteva essere compiuta a viso aperto.
Nonostante i meriti riconoscibili in colui che se ne rendesse responsabile,
concentrare coram populo in solo uomo
ogni prerogativa per evitare i condizionamenti legati dell’interazione tra
senato, consoli e comizi - complice
inoltre l’alto grado di corruzione che da tempo connotava sfavorevolmente
l’ambiente politico nel suo complesso - era una sorta di opzione di mezzi
assunti come giustificati dai fini che non appariva in sintonia con il polso
presente della Storia. Troppo vicina era l’eco spaventosa e stordente delle
guerre civili, della forzata sospensione della legalità costituzionale, dei soldati romani costretti a combattere gli
uni contro gli altri, del clima avvelenato e sanguinoso della politica
cittadina nella quale l’avversario andava proscritto e/o eliminato, dei costi
abnormi che questo aveva comportato in termini di vite umane, di corruzione
delle magistrature, di svilimento del dibattito politico a mero confronto
demagogico, di impoverimento delle famiglie (soprattutto di quel ceto medio che
aveva costituito il nerbo dell’esercito cittadino, del comizio centuriato, del
comizio tributo), delle casse dello Stato e dei territori italici, per tacere
di quelli provinciali, costretti a subire le arbitrarie vessazioni dei
governatori a fornire contingenti di uomini e
a sopportare onerose imposizioni fiscali inseguendo il miraggio del
conseguimento della cittadinanza romana, unica possibilità di una piena
titolarità di diritti civili e politici.
Se cambiamento doveva essere, e lo
stesso appariva indispensabile, esso andava incanalato lungo un tracciato di
prudente gradualità, nell’apparente recupero e ripristino dei mores repubblicani, nell’impostare la
politica pubblica in modo che ogni carica, ogni onore, ogni potere apparissero
frutto dell’iniziativa del Senato e del popolo e non di un arbitrio personale.
Un’altra delle chiavi del successo di
Ottaviano può essere scorta nell’aver saputo indirizzare le energie del cambiamento
in una direzione costruttiva tesa alla ricerca di un nuovo equilibrio in grado
di reggere la prova del tempo, senza tralasciare alcun aspetto della società
che si trovava, in un ambiguo gioco di forma a sostanza, a governare.
Studioso del passato, memore del prezzo
che Cesare aveva pagato per gestire un piano di riforme che persino i suoi più
fieri avversari, come Cicerone, ritenevano, almeno in alcuni settori, una
necessità non più rinviabile[10],
Ottaviano marca fin dall’inizio una netta differenza di comportamento rispetto
ai suoi predecessori, tessendo una fitta trama di alleanze politiche,
economiche, legate anche a rapporti matrimoniali, che progressivamente
avvolgeranno il senato come i suoi avversari, i quali, fors’anche tratti in
inganno, in chiave di sottovalutazione, dalla sua prudenza, dal suo cauto e
calcolato distacco, dalla sua capacità di attendere il momento propizio sul
filo di un ragionamento sempre lucido e meditato, credevano di poterlo
manipolare, volgerne l’operato a proprio vantaggio, e infine metterlo da parte[11].
La scelta di allearsi con il nemico
Antonio e di fondare con lui e Lepido un nuovo triumvirato nel 43 a.C. è un
chiaro messaggio ai senatori: eppure, Ottaviano sollecita una legalizzazione
pubblica di quell’accordo, al fine di far rientrare la posizione dei triumviri
nell’alveo del rispetto delle consuetudini romane; la lex Titia ratifica gli straordinari poteri dei triumviri ma al
contempo traccia nel sentire comune un netto discrimine rispetto al primo
triumvirato.
Non è possibile soffermarsi sull’esito
di tale triumvirato – i fatti sono peraltro ben noti –, piuttosto mette conto
evidenziare come già Ottaviano, pur ponendosi, ed essendo percepito, quale
erede del lascito cesariano, tenesse a mantenere una prudente distanza dallo
stesso, distanza che doveva risultare - e in effetti risultò - ben chiara anche
ai Romani.
La peculiare sagacia della politica
augustea consistette probabilmente nel sapere presentare ogni modifica
dell’ordine conosciuto non come scelta politica, come tale in più o meno larga
misura arbitraria, bensì quasi come un’esigenza ‘tecnica’, nell’interesse del
ripristino dell’ordine pubblico, dell’amministrazione della giustizia, del
riordino dell’erario, delle magistrature, dell’esercito, dei territori assoggettati
al dominio di Roma.
Nulla fu trascurato dal princeps, perché egli aveva intuito che la pax Romana si sarebbe potuta reggere solo coinvolgendo, a vario
titolo, tutte le componenti della società
in quella ricerca: se la classe egemone della vecchia res publica era stata
l’aristocrazia/oligarchia senatoria, ora la nuova forza economica dello Stato
era rappresentato dagli equites, ceto
di imprenditori e mercanti, titolari di ricchezze conseguite con il commercio
terrestre e marittimo, che il senato aveva sempre fieramente avversato e che Augusto comincia, dal canto suo, a
coinvolgere nel proprio piano di risanamento.
Per mantenere l’equilibrio con il
senato, il principe al contempo avvia una legislazione dal sapore della
tradizione antica, che ha esattamente lo scopo di rassicurare la compagine più
tradizionale dell’assise aristocratica sul fatto che l’élite dirigenziale resterà romana e continuerà a essere prescelta tra
le grandi famiglie. A tale fine si renderanno funzionali le leggi Giulie sul
matrimonio e le leggi limitatrici delle manumissioni, volte a tutelare i grandi
patrimoni nobiliari ed a porre un freno all’immissione nella comunità civile e
politica di soggetti di altre etnie, nemici di Roma.
Sotto ulteriore profilo, la stessa
rivitalizzazione delle leges publicae ha un preciso valore simbolico,
sia perché formalmente recupera la figura del popolo legislatore, sia perché
dette leges diventano ora l’involucro
‘nuovo’ del contenuto etico-giuridico dei mores
del buon tempo antico. E poiché i mores
sono la più evidente espressione della volontà di un popolo, tanto che ne hanno
retto da soli per secoli il vivere civile, in tale suggestiva circolarità si
rende evidente il senso di una magistrale operazione politica, propria di una
straordinaria personalità di statista[12].
Non solo: ben consapevole del ruolo (e
della potenziale pericolosità) che il senato, quale effettivo ago della
bilancia ha sempre rappresentato nella storia costituzionale romana, è ad
Augusto che possiamo riferire l’intuizione magistrale di riconoscere,
assecondando una nuova fase nomogenetica dell’intero ordinamento, vigore
normativo ai senatus consulta, destinati
pertanto a divenire atti di normazione[13].
Significativo è ancora una volta il passaggio per cui, ad una formale
valorizzazione dell’influenza senatoria sulla produzione del diritto, si
affianca ben presto la prassi di farla precedere da un’oratio del princeps
medesimo recante la sua proposta all’assemblea; e, pure, che i temi su cui i patres verranno chiamati a pronunciarsi
sul piano normativo non riguarderanno più l’assetto dello Stato o la gestione
politica, bensì questioni essenzialmente di diritto privato o amministrativo:
concessione con contropartita, ancora una volta.
Se nella vecchia res publica, il sistema di pesi e contrappesi tanto lodato da
Polibio[14]
e, assai più tardi, da Montesquieu era
costituito sulla triade senato-consoli-comizi (nonché sull’operatività dei
principi di annualità e collegialità delle magistrature stesse), ora quel
sistema è incarnato nella realizzazione dei passaggi centrali della visione
augustea che mantiene l’equilibrio attraverso una serie di concessioni che non
trascurano alcun interlocutore sociale e, in tal guisa, lasciano ad Augusto le
mani libere per ciò che egli, dietro i suoi ispirati discorsi pubblici, intende
realizzare: non la mera restaurazione-salvaguardia del vecchio sistema, ma la
creazione di uno nuovo assetto politico-istituzionale, con un primus al vertice, intorno al quale
ruotano in orbita satellitare le nuove forme politiche, burocratiche,
amministrative ed economiche che egli andrà via via plasmando e che, dopo i
primi anni di apparente rispetto delle antiche prassi, ne romperanno il fragile
involucro per affermarsi nella loro univoca effettività[15].
Così la riforma delle province sarà
ispirata ad un duplice criterio: risanare e risollevare quei territori stremati
dallo sfruttamento indiscriminato dei governatori e dare vita ad un nuovo sistema
amministrativo, promuovendo in loco gli
insediamenti di cives al fine di favorire l’accettazione della
legislazione romana come preminente in un clima, laddove possibile, di
coesistenza e di collaborazione[16].
Lo stesso senato dovrà aprire le proprie
porte a un numero maggiore di cittadini provenienti dalle comunità alleate
(punto-chiave già della politica cesariana) ai fini di una propria maggiore
rappresentatività, nel flusso di quel processo di universalizzazione che i
senatori avevano sempre avversato ma che ora implacabilmente li sovrasta.
Roma è ormai al centro di una galassia
composta in modo eterogeneo da classi, correnti di pensiero, culti ed interessi
che deve riuscire a dominare, senza esserne dominata. Non a caso l’attenzione
per la cultura, per il mondo intellettuale, per l’istruzione e la diffusione
della conoscenza e delle scienze, ben oltre l’orizzonte culturale latino,
saranno un altro asso giocato dal princeps
per porre dapprima, e rafforzare poi, le fondamenta del proprio governo, il
prestigio dello stesso nel raccordo con le origini, ormai mitizzate, dell’Urbe
stessa, ponendosi così come basi precoci del culto laico e nostalgico dell’età
dell’oro augustea nella visione delle generazioni future. L’apertura di scuole,
biblioteche ed edifici funzionali all’utilitas
publica in Roma e nelle province, la libera circolazione e il confronto
degli studiosi e delle loro opere, offre finalmente alla capitale quel soffio
vivificante e cosmopolita che, almeno in questo campo, le era sino ad allora
mancato.
Non per questo Augusto trascura i
pilastri della tradizione romana ed affianca al mecenatismo l’organizzazione di
quei giochi e di quelle feste che sempre avevano rappresentato uno dei tratti
emblematici di quella civiltà e, anch’essi, una simbolica rappresentazione
delle sue origini.
Mancano ancora alcuni tasselli al nostro
tentativo di individuare i caratteri salienti dell’instaurazione del nuovo
regime ad immagine e somiglianza del suo ideatore.
Il primo investe il settore militare.
Augusto non commise certo l’errore di sottovalutare il ruolo fondamentale che
l’esercito ha rivestito durante tutto l’arco storico dell’esperienza romana.
Dopo la radicale riforma dovuta a Caio Mario, le gloriose e temute legioni
romane erano divenute a tutti gli effetti un centro di potere la cui influenza
ed il cui appoggio erano determinanti per l’ascesa o la caduta di qualunque
generale o uomo politico che ambisse calcare le scene della vita pubblica
romana.
Non solo, esse si pongono come
imprescindibili per il mantenimento della pax
Romana – nella Città, nelle province, nelle zone di confine – non meno di
quanto lo siano state nella fase della conquista.
Ottaviano predispone dunque la
riorganizzazione dell’esercito in una serie di unità stanziali collocate nei
diversi territori con funzione di vigilanza, integrazione, presidio, nonché di
informazione verso il potere centrale: in aggiunta crea nove cohortes praetoriae, quale guardia
personale a propria disposizione vitalizia.
In tal modo consegue una duplice
finalità: crea un apice per la carriera militare che motiva i soldati (romani o
stranieri, mercenari compresi) in direzione di un’ascesa gerarchica esente da
macchie nella speranza di servire il princeps,
un’ambizione che va ben oltre la mera prospettiva della preda di guerra e che
riporta in auge i valori di disciplina e obbedienza che dai tempestosi anni
delle guerre civili erano usciti inevitabilmente sviliti.
E, dato non meno importante, come già
accennato, il principe potrà disporre di una guardia personale, a tutela della
propria vita ed incolumità, che risponde esclusivamente a lui.
Non ultimo, per l’acquisto e il
mantenimento del consenso, il princeps
nel corso degli anni farà spesso ampio ricorso al proprio patrimonio personale
per attuare un programma efficiente di assistenza pubblica con finalità di
solidarietà sociale a favore degli strati meno fortunati della popolazione, i
quali non dispongono di mezzi, e spesso nemmeno di speranze, per migliorare la
propria misera condizione: il c.d. evergetismo
rappresenterà uno degli strumenti più efficaci ai fini di una
celebrazione della persona del principe da parte dell’opinione pubblica e dello
stesso proletariato, sino ad allora pressoché invisibile ai potenti, convinto
adesso di trovare in Augusto un ascoltatore attento e sensibile alle proprie
necessità e alle conseguenti richieste. Questo aspetto della politica
imperiale, tra l’altro, contribuirà non poco alla progressiva divinizzazione
della figura del princeps,
dimostrando ancora una volta il lungo orizzonte del pensiero di Ottaviano: nel
momento in cui si compie la definitiva consolidazione del nuovo regime, colui
che se ne trova al vertice potrà innestare proprio nell’elemento religioso e
cultuale quella fonte di legittimazione del proprio potere non più ravvisabile
negli scomparsi meccanismi di investitura democratica.
Data l’ampiezza e la capillarità del
programma augusteo, un ruolo-chiave per la realizzazione e il radicamento del
medesimo, al di là della presenza del suo stesso ideatore, va individuato nella
giurisprudenza: ai prudentes infatti
Augusto riconobbe il diritto di dare responsa
ex auctoritate principis, sulla scia del principio carismatico fondativo
della sua stessa supremazia.
Anche in questo caso, se vogliamo, siamo
di fronte ad una logica di scambio: da un lato i giuristi (anche se non tutti e
non sempre) si sentirono rassicurati circa il proprio ruolo e la propria
impronta metodologica (ancora squisitamente casistica pur trovandosi ad operare
in un contesto radicalmente in evoluzione); dall’altro il princeps poté avvalersi della loro collaborazione nel riformare il
settore delicato dell’amministrazione della giustizia, avviare la
burocratizzazione in senso centralistico dell’organizzazione statale, e
teorizzare al contempo le stesse funzioni demandate al princeps[17].
Che l’istituto del ius publice respondendi riveli poi anche il non dichiarato scopo di
selezionare una cerchia di giuristi politicamente non avversi alla riforma
augustea è innegabile[18],
per quanto non vada dimenticato che, così come le più risalenti istituzioni (e
l’antico sistema delle azioni di legge), anche il processo formulare, il ruolo
del pretore, la figura e l’operato del nobile sapiente repubblicano apparivano
in fase di declino, nella chiara difficoltà di fare fronte alle esigenze di una
società eterogenea e cosmopolita come quella segnata dal governo di Augusto.
Il principe evitò, come sempre,
soluzioni drastiche: si limitò ad affiancare alle antiche nuove forme
giurisdizionali, al culmine delle quali si pone la stessa auctoritas imperiale, destinandole per ciò stesso a condividerne le
fortune.
Anche se non è - né intende essere - un
trarre le fila di quanto fin qui detto, quel che ancora oggi maggiormente
affascina nella persona e nella statura storica di Caio Giulio Cesare Ottaviano
sono lo straordinario acume, la tempra costante, la sagacia politica non
disgiunta da una profonda conoscenza dell’animo umano, con cui egli seppe
cogliere il senso dei tempi e percepì di lavorare per la Storia, imparando dal
passato e rendendo il medesimo una forza e non un limite, nonché impegnandosi
strenuamente affinché Roma non solo si salvasse, ma recuperasse e conservasse
il proprio ruolo egemone, rendendosi come tale il vero opus della sua vita[19].
Intese, ab initio e con costante determinazione, lasciare su di essa
l’impronta di un potere in fondo di natura monarchica o davvero si considerò
fino all’ultimo un mero difensore della libera
res publica? I poli dell’alternativa sono in ultima analisi assai meno
districabili di quanto si vorrebbe. Le parole che ci ha lasciato, in senso
reale e metaforico incise sulla pietra, parrebbero deporre per la seconda delle
soluzioni appena accennate[20],
ma forse è qui più opportuno, e prudente, fermarsi alla formula di commiato,
tanto in linea con la sua indole, che stando a Svetonio egli pronunciò sul
letto di morte: «Acta est fabula,
plaudite»[21].
[Un evento
culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi
valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa
ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione
“in chiaro” da parte della direzione di Diritto @ Storia]
1 Il testo che compare
in questa sede riproduce l’intervento da me tenuto, su invito del FAI
Emilia-Romagna, in occasione delle giornate
di Primavera in celebrazione del
Bimillenario Augusteo (Museo Archeologico di Castelfranco Emilia [MO], 8
marzo 2014).
Ho preferito mantenere in buona sostanza la veste
originaria della relazione, corredandola del solo apparato critico
indispensabile. Lo scritto intende così porsi come un breve restatement dei tratti salienti della
politica augustea, rivolto, ora come allora, ad un pubblico costituito non
soltanto da esperti del ramo.
[2] La letteratura sul tema è sterminata.
Imprescindibili rimangono, quale punto di partenza: TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, II, Leipzig 1887,
707; 787 ss.; 841; 877; V. ARANGIO-RUIZ, Storia
del diritto romano, 7a ed., Napoli 1957, 215 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, vol.
IV parte I, Napoli 1974, 55-263; G. GROSSO,
Lezioni di storia del diritto romano,
4a ed., Torino 1965, 353 s.; M. MAZZA, in AA.VV., in Lineamenti di storia del diritto romano (dir. M. TALAMANCA), 2a
ed., Milano 1989, 375 ss. Più di recente: A. BORGNA, Augusto al potere: mores,
exempla, consensus, in ‘Princeps
legibus solutus’ (cur. A. MAFFI), Torino 2016, 47 ss.; F. GRELLE, I poteri pubblici e la giurisprudenza fra Augusto
e gli Antonini, in M. PANI, Continuità
e trasformazione tra Repubblica e Principato. Istituzioni, politica, società,
Bari 1991, 249 ss.; F. MILAZZO (ed.), Res
publica e princeps. Vicende politiche, mutamenti istituzionali e
ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano.
Atti del convegno internazionale di diritto romano (Copanello 25-27 maggio
1994), Napoli 1996, 323 ss.; M. PANI, Augusto
e il Principato, Bologna 2013, 21 ss.; J. OSGOOD, Caesar’s legacy: civil war and emergence of the Roman Empire, Cambridge
2006; P. CERAMI, in P. CERAMI-G. PURPURA, Profilo
storico-giurisprudenziale del diritto pubblico romano, Torino 2007, 150
ss.; R. SYME, La rivoluzione romana
(nella nuova edizione a cura di G. Traina), Torino 2014, 348 ss.; F. AMARELLI,
in AA.VV., Storia giuridica di Roma
(cur. A. SCHIAVONE), Torino 2016, 231 ss.
[3] Cfr. J. SCHEID, Res Gestae Diui Augusti (texte établi et traduit par), Paris 2007;
A.E. COOLEY, Res Gestae divi Augusti:
text, translation and commentary, Cambridge 2009; P. ARENA, Augusto, Res Gestae. I miei fatti, Bari
2014; R. LAMBERTINI, Avviamento allo
studio testuale del diritto romano, Torino 2015, 62 ss.
[4] Quanto al tema della ricerca del
consenso, si veda in particolare C. CASCIONE, Consensus: problemi di
origine, tutela processuale,
prospettive sistematiche, Roma 2003, 82 ss.; G. CRESCI MARRONE, Ecumene Augustea. Una politica per il consenso, Roma 1993. Per la vexata quaestio del significato di ‘auctoritas’, cfr. A. MAGDELAIN, Auctoritas principis, Paris 1947; M.A. LEVI, L’auctoritas di Augusto, in RIDA, 39, 1992, 185 ss.; M. PANI, Il principe e l’esercizio
giurisprudenziale, in Politica Antica,
2, 2012, 95 ss.; R. LAMBERTINI, op.cit.,
64. Mette appena conto rilevare che tramite la scelta accorta del termine ‘auctoritas’, il principe si collocava
ancora una volta in linea con la tradizione repubblicana richiamandosi all’auctoritas patrum, non nell’accezione
tecnica di necessità della ratifica (prima successiva, poi preventiva) dei
senatori alle deliberazioni comiziali ed elettorali perché esse avessero
valore, bensì al dato etico-sociale del prestigio che contraddistingueva
l’antico consesso e che, al di là della vincolatività specifica dei suoi consulta, ne faceva a tutti gli effetti
l’istituzione-guida dello Stato romano. In proposito cfr. F. CÀSSOLA - L.
LABRUNA, in AA.VV., Lineamenti di storia
del diritto romano, cit., 194 ss.
[5] Significative le testimonianze di Ovidio nelle Metamorfosi (15.833-834): iura suum
legesque feret iustissimus auctor exemploque suo mores reget, e, più diffusamente, di Svetonio., Aug. 89.2: In evolvendis
utriusque linguae auctoribus nihil aeque sectabatur, quam parecepta et exempla
publice vel privatim salubria, eaque ad verbum excerpta aut ad domesticos aut
ad exercituum provinciarumque rectores aut ad urbis magistratus plerumque
mittebat, prout quique monitione indigerent. Etiam libros totos et senatui
recitavit et populo notos per edictum saepe fecit ut orationes Q.Metelli ‘de
prole augenda’ et Rutili ‘de modo aedificiorum’ quo magis persuaderet utramque
rem non a se primo animadversam, sed antiquis iam tunc curae fuisse. Sul valore sintomatico dell’espressione si veda
F. GALLO, Interpretazione e formazione
consuetudinaria del diritto. Lezioni di
diritto romano. Edizione completata con la parte relativa alla fase di
codificazione, Torino 1993, 36 ss.; T. SPAGNUOLO VIGORITA, Le nuove leggi. Un seminario sugli inizi dell’attività normativa imperiale, Napoli 1992.
[6] Si è seguita qui la lezione proposta e argomentata
sul piano paleografico da F. COSTABILE, RG
34.1: “[POT]IENS RE[RV]M OM[N]IVM” e
l’Edictum ‘de reddenda re publica’, in Revisione
ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA), Studi
preparatori, I. Leges (cur. G.
PURPURA), Torino 2012, 255 ss., in seguito al ritrovamento del ‘Frammento
Botteri’ relativo al Monumentum
Antiochenum pertinente a Res Gestae
34.1 (P. BOTTERI, L’integrazione
mommseniana a Res Gestae 34,1 e il
testo greco, in ZPE, 144, 2003,
262 s.).
[7] Tacito, Ann. 1.9.5: “Non regno tamen
neque dictatura sed principis nomine constitutam rem publicam”. (Trad. it.:
Non tuttavia col regno né con la dittatura egli aveva costituito la res publica ma con il nome di
‘principe’).
[8] Lo
spirito delle leggi (trad. di S. Cotta, Torino 1996), 11.13.; ancora più
nel dettaglio, IDEM, Considerazioni sulle
cause della grandezza e della decadenza
dei romani (trad. di M. Mori, Torino 1980), 8: «Il governo di Roma fu
straordinario, in quanto, sin dalla sua origine, sia per lo spirito del popolo
che per la forza del senato o per l’autorità di certi magistrati, la sua
costituzione rese sempre possibile l’eliminazione di ogni abuso di potere»; ibidem, 11. «Il popolo romano, finché
vide sfilare l’uno dopo l’altro tanti personaggi, non si abituò mai a nessuno
di essi». (Cfr., per la traduzione e le riflessioni inerenti, U. VINCENTI, in
AA. VV., Storia del diritto romano,
cit., 21 s.).
[9] E.S.
RAMAGE, The nature and purpose of
Augustus Res Gestae, Stuttgart 1987; M. LOWRIE, Making an exemplum of yourself:
Cicero and Augustus, in S.J. HEYWORTH - P.G. FOWLER - S.J. HARRISON, Classical construction: Papers in memory of
Don Fowler, Classicist and Epicurean, Oxford 2007, 91 ss.
[11] La freddezza e la lucidità manifestate
già in giovane età da Ottaviano e la sua perizia nel condurre una serrata
campagna politico-militare tesa alla conquista del potere, pur con tutti i
prudenziali accorgimenti di cui si dice nel testo, non potevano non suscitare
anche illazioni e giudizi negativi sulla sua
persona e su presunte ambiguità della sua condotta pubblica e privata.
Sono in tal senso significative in particolare le testimonianze di Tacito e di
Svetonio circa le voci che ponevano in dubbio l’effettiva capacità militare di
Augusto, insinuavano un suo coinvolgimento nelle morti di Irzio e Pansa nella
battaglia di Forum Gallorum,
additavano la sua spietata crudeltà nell’ordinare le proscrizioni. In argomento
vedi, di recente, L. CANFORA, La prima marcia
su Roma, Bari 2007.
[12] Tale suggestione è in O. LICANDRO, L’irruzione del legislatore
romano-germanico. Legge, consuetudine e giuristi nella crisi dell’Occidente
imperiale (V-VI sec. d.C.), Napoli 2015, 76-77.
[13] Se in Gaio (Inst. 1.4) ancora affiorava traccia di un’antica discussione in
merito alla possibilità per il senato di ‘facere
ius’, Ulpiano (D. 1.3.9 [16 ad ed.])
elimina qualsiasi dubbio al riguardo. Cfr. D. DALLA, in D. DALLA - R.
LAMBERTINI, Istituzioni di diritto romano,
3a ed., Torino 2006, 20 s.
[14] Polyb. 6.11.11-12: “Ἦν μὲν δὴ
τρία μέρη τὰ
κρατοῦντα τῆς
πολιτείας, ἅπερ εἶπα πρότερον
ἄπαντα ᾿οὕτως
δὲ πάντα κατὰ
μέρος ἴσως καὶ
πρεπόντως
συνετέτακτο καὶ
διῳκεῖτο διὰ
τούτων ὥστε
μηδένα ποτ᾽ἂν
εἰπεῖν δύνασθαι
βεβαίως, μηδὲ τῶν ἐγχωρίων, πότερ҆ ἀριστοκρατικὸν
τὸ
πολίτευμα
σύμπαν ἢ
δημοκρατικὸν ἢ
μοναρκικόν. Καί τοῦτ᾽
εἰκὸς ἧν
πάσχειν ᾽ὅτε μὲν
γὰρ εἰς τὴν τῶν ὑπάτων ἀτενίσαίμεν
ἐξουσίαν, τελείως
μοναρκικὸν ἐφαίνετ᾽
εἶναι καὶ
βασιλικόν, ὅτε δ᾽ εἰς τὴν
τῆς συγκλήτου
πάλιν ἀριστοκρατικόν
καὶ μὴν εἰ τὴν
τῶν πολλῶν ἐξουσίαν
θεωροίη τις ἐδύκει´
σαφῶς εἶναι
δημοκρατικόν”.(trad.:
Tutte e tre le forze di cui ho prima parlato avevano potere nella repubblica: e
così attraverso queste ogni affare particolare era regolato e amministrato con
equità e scrupolosità, tanto che nessuno, neppure tra gli stessi romani,
avrebbe potuto dire se quello fosse un regime aristocratico, o democratico o
piuttosto monarchico. Ed è naturale che fosse così. Quando infatti poniamo
attenzione al potere dei consoli, ci sembra che quel governo sia monarchico o
regio; se guardiamo al senato, ci pare aristocratico e invece se osserviamo il
potere del popolo, ci appare chiaramente democratico).
Per i passi tratti dalle opere di Cassio
Dione (ntt. 15 e 16), Polibio, Svetonio (nt. 17) e Tacito (nt. 7) si è scelto
di seguire le traduzioni contenute in Ab
urbe condita. Fonti per la storia del
diritto romano dall’età regia a Giustiniano, 2 ed., cur. N. PALAZZOLO, F.
ARCARIA, O. LICANDRO, L. MAGGIO, Catania 1999.
[15] Cassio Dione, Historia Romana, 53.32.5: καὶ
διὰ ταῦθʹ ἡ
γερουσία δήμαρχόν
τε αὐτὸν διὰ
βίου εἶναι ἐψηφίσατο,
καὶ
χρηματίζειν αὐτῷ
περὶ ἑνός
τινος ὅπου ἂν ἐθελησῃ
καθʹἑκάστην
βουλήν, κἂν μὴ ὑπατεύῃ,
ἔδωκε, τήν τε ἀρχὴν
τὴν ἀνθύπατον ἐσαεὶ
καθάπαξ ἔχειν ὥστε
μήτε ἐν τῇ ἐσόδῳ
τῇ εἴσω τοῦ
πωμηρίου
κατατίθεσθαι αὐτὴν
μήτʹ αὖθις ἀνανεοῦσθαι,
καὶ ἐν τῷ ὑπηκόῳ
τὸ πλεῖον τῶν ἐκασταχόθι
ἀρχόντον ἰσχύειν
ἐπέτρεψεν.
(trad.: «E perciò il senato votò che Augusto fosse permanentemente tribuno e
gli diede il privilegio di presentare ad ogni riunione del senato qualsiasi
argomento, in qualsiasi momento volesse ed anche se in quel momento non era
console. Gli permisero altresì di essere titolare una volta per tutte e
perpetuamente del proconsolato, cosicché egli non dovesse più né deporlo né
averlo nuovamente rinnovato. E gli diedero sui territori assoggettati autorità
in ogni caso superiore a quella del governatore». Evidente dunque come il princeps si veda riconosciute via via le funzioni ed i poteri che nella
repubblica erano distribuite tra le varie magistrature del cursus honorum, senza tuttavia i limiti ad esse connaturati e
contestuali (annualità, collegialità, territorialità).
[16] Vedi tuttavia Cassio Dione, che (Historia Romana 53.12.1-3) pone in
evidenza gli intenti, non del tutto altruistici, che avrebbero guidato il princeps nella suddivisione delle
province tra imperiali e senatorie: τὴν
μὲν οὖν ἡγεμονίαν
τούτῳ τῷ τρόπῳ
καὶ παρὰ τῆς
γερουσίας τοῦ
τε δήμου ἐβεβαιώσατο, βουληθεὶς
δὲ δὴ καὶ ὣς
δημοτικός τις
εἶναι δόξαι, τὴν μὲν
φροντίδα τήν
τε προστασίαν
τῶν κοινῶν πᾶσαν
ὡς καί ἐπιμελείας
τινὸς
δεομένων ὑπεδέξατο, οὔτε δὲ πάντων
αὐτὸς τῶν ἐθνῶν
ἄρξειν οὔθ᾿ὅσων
ἂν ἄρξῃ, διὰ παντὸς τοῦτο
ποιήσειν ἔφη, ἀλλὰ τὰ
μὲν ἀσθενέστερα
ὡς καὶ εἰρηναῖα
καὶ ἀπόλεμα ἀπέδωκε
<τῇ βουλῇ>, τὰ δ᾿ἰσχυρότερα
ὡς καὶ σφαλερὰ
καὶ ἐπίκινδυνα
καὶ ἤτοι
πολεμίους τινὰς
προσοίκους ἔχοντα
ἢ καὶ αὐτὰ καθ҆
ἑαυτὰ μέγα τι
νεωτερίσαι
δυνάμενα
κατέσχε, λογῳ μὲν ὅπως
ἡ μὲν γερουσία ἀδεῶς
τὰ κάλλιστα τῆς
ἀρχῆς καρπῷτο, αὐτὸς δὲ
τούς τε πόνους
καὶ τοὺς
κινδύνους ἔχῃ, ἔργῳ δὲ ἵνα
ἐπὶ τῇ
προφάσει ταύτῃ
ἐκεῖνοι μὲν καὶ
ἄοπλοι καὶ ἄμαχοι
ὦσιν, αὐτὸς
δὲ δὴ μόνος καὶ
ὅπλα ἔχῃ καὶ
στρατιώτας
τρέφῃ. (trad.:
«In tal modo Augusto ebbe ratificato il suo potere dal senato ed altresì
dal popolo. Ma siccome egli ci teneva ad essere ritenuto democratico, mentre
accettava ogni cura e supervisione degli affari pubblici - dato che ciò
richiedeva attenzione da parte sua - al
contempo dichiarava che non avrebbe governato personalmente le province e comunque,
per quelle sotto la sua diretta gestione, essa non sarebbe durata
indefinitamente. Di fatto attribuì al senato le province più deboli mentre
trattenne presso di sé le più forti, asserendo che fossero meno pacifiche, più
insicure e precarie delle altre. La motivazione da lui dichiarata era che così
lasciava al senato la parte migliore dell’impero, riservando per sé avversità e
pericoli. Ma il suo reale proposito, tramite questa sistemazione era quello di
rendere i senatori disarmati ed imbelli, impreparati alla guerra, mentre egli
solo disponeva di armi e manteneva pronti i soldati»).
[17] I giuristi svolgeranno ruoli-chiave sia
nella cancelleria imperiale sia nel consilium
principis, che, forse istituito dai successori di Augusto stesso, si
perfezionerà sino ad essere istituzionalizzato da Costantino con il nome di consistorium. Anche per questo la
giurisprudenza romana viene ricordata come l’unica tra le molteplici fonti di
produzione del diritto ad essere stata continuativamente operativa (sebbene in
ruoli assai diversificati) lungo tutto l’arco storico dell’esperienza giuridica
romana. In merito all’istituto dei consilia
principis, vedi F. AMARELLI, in AA. VV., Storia giuridica, cit., pp. 272 ss., e,
ibidem, L. DE GIOVANNI, pp. 379, 383 s.
[18] Su tutti Marco Antistio Labeone,
fondatore della scuola dei Proculiani ed insigne giurista, il quale “animato da
un’idea folle e smisurata di libertà”
secondo la testimonianza di Ateio Capitone, si rifiutò di riconoscere la
legalità del regime augusteo, al punto da non considerare valido “se non quanto
era stato costituito e sancito nei tempi antichi di Roma” (Gell. Noct. Att. 13.12. 1-2).
[19] Svet. Aug. 28: Quam voluntatem, cum prae se identidem ferret, quodam etiam edico his
verbis testatus est: “Ita mihi salvam
ac sospitem rem p. sistere in sua sede liceat atque eius rei fructum percipere,
quem peto, ut optimi statusauctor dicar et moriens ut feram mecum spem, mansura
in vestigio suo fundamenta rei p. quae iecero. (trad.: «Questa intenzione, ripetutamente da lui esposta, venne attestata
anche in un editto con queste parole: così mi sia concesso di restaurare la
repubblica salva ed integra nella sua sede e di ottenere la ricompensa che
desidero, di essere additato come il fondatore di un ottimo assetto politico e,
morendo, di portare con me la speranza che le basi della repubblica rimangano
incrollabili quali le ho gettate io»).
[20] L’iconografia legata alla monetazione
parla, per esempio, un linguaggio assai diverso: cfr. D. MANTOVANI, Leges et Iura P(opuli) R(omani) Restituit.
Principe e diritto in un aureo di Ottaviano, in Atheneum 96, 2008, (estr.) 51 («Nella moneta, Ottaviano è
addirittura effigiato su entrambe le facce. La pretesa di un governo
autocratico è di rivendicare a sé l’intero potenziale rappresentativo di una
moneta: diritto e rovescio diventano entrambi immagini dell’imperatore. Nel suo
aureo, mentre dice di avere restaurato leges
et iura, Ottaviano appare già in qualche modo come diritto vivente o, per
lo meno, guardando al rotolo che impugna e allo scrinium appoggiato a terra che altri ne contiene, egli ha in mano
e ai suoi piedi tutto il diritto»).
[21] Svet. Aug. 99: Supremo die identidem exquirens, an iam de se tumultus foris esset,
petito speculo capillum sibi comi ac malas labantes corrigi praecepit et
admissos amicos percontatus, “ecquid iis videretur mimum vitae commode
transegisse”, ediecit et clausulam : εἰ δέ τι Ἔχοι
καλῶς τᾠ
παιγνίῳ δότε
κρότον kαὶ
πάνντες ἡμᾶς
μετὰ χαρᾶς
προπέμψατε. (Trad. it.:
«Il suo ultimo giorno, dopo avere chiesto ripetutamente se fuori vi fosse già
agitazione per causa sua, preso uno specchio , diede ordine di pettinarlo e di
correggergli le guance cadenti e fatti quindi entrare gli amici chiese se, a
parere loro, avesse ben recitato la commedia della vita, e soggiunse anche la
consueta formula finale “ora, se tutto vi è piaciuto in questa recita, orsù
applaudite”». (La traduzione è di F. DESSÌ, in SVETONIO, Vite dei Cesari, Milano
1998).