Roma e l’applicazione del diritto secondo coscienza
Università
“Cardinal Stefan Wyszyński”
Varsavia
Direttore della rivista
Zeszyty Prawnicze
Intervenendo alla Conferenza Internazionale convocata per
commemorare il ventesimo anniversario della morte del professor Henryk
Kupiszewski[1], il professor Marek Kuryłowicz ha ricordato una sua
profezia: «… l’interesse per le istituzioni del diritto
romano (…) si manterrà finché rimarrà in vigore il
sistema istituzionale dei codici»[2]. Un sistema che, contrariamente a molteplici previsioni
anche di fresca data, resiste, invitando a confrontarsi nel contempo con le
istituzioni romane e quelle odierne con strumenti di analisi opportunamente
adeguati.
Nel prosieguo Kuryłowicz ha auspicato un fruttuoso
connubio tra gli studi storici e la dogmatica del diritto vigente nonché
una ancor più convinta ricerca di una sintesi del diritto romano che
possa fungere da introduzione al diritto privato contemporaneo. Kuryłowicz
intenderebbe estendere il campo d’indagine ai legami tra diritto romano,
storia dell’arte e letteratura, a tutto il retaggio classico.
Nell’intervento in parola si è felicitato con un „giovane
romanista di Lublino” per aver dischiuso al diritto romano una
prospettiva nuova e tonificante[3]. Il giovane studioso
è Maciej Jońca che propone tra altro di «avvicinare a piccoli
passi sia
E se si andasse ancora più oltre? Se si attingesse
più in profondità alle ricchezze del mondo antico? Non vi
rinverremmo soltanto modelli di buon diritto, ma anche lezioni di come
applicarlo bene e secondo coscienza.
Con vostro permesso, mi farò guidare da Aulo
Gellio e dal volume uscito dalla sua penna di antiquario, le Noctes Atticae. Gellio vi ha raccolto
tanti racconti che insegnano a vivere e a comportarsi[5]. Quattro hanno per protagonisti i giudici[6]. Nel primo il giudice si esime dal sentenziare
perché il caso non gli è chiaro[7]; nella seconda, rimanda la sentenza a tempo
indeterminato[8]; nella terza, aggiorna il dibattimento[9]; nella quarta, pronuncia la sentenza, ma non ne è
convinto[10].
Il giudice del primo racconto è lo stesso Aulo
Gellio, allora giovane e inesperto[11]. Giudice privato in un processo formulare, doveva
dirimere una vertenza riguardante la restituzione di un prestito. In fase
probatoria l’attore non aveva prodotto documenti né presentato
testimoni in grado di confermare la contrazione del prestito né esibito
alcun genere di prova. Tuttavia era uomo di specchiati costumi, degno di
fiducia e di notoria bontà, a differenza del convenuto, individuo
chiacchierato, ammanigliato con gente importante, ma più volte reo di
fellonia e truffa.
Potrebbe supporsi che il prestito fosse stato concesso
senza oculatezza oppure che l’attore ne esigesse la resa senza giusto
motivo; ad ogni modo era a corto di prove; forse voleva arricchirsi
capziosamente a scapito di un noto truffatore: che fu più furbo. Non solo
pretendeva l’assoluzione, ma anche la condanna dell’attore in base
a un iudicium calumniae decimae partis[12]. Pertanto non si dibatteva di solo prestito, ma anche di
dignità.
Gellio non sapeva cosa fare. Era convinto che
l’attore meritasse rispetto; del convenuto non si fidava. Per evitare
sentenze avventate, aveva chiesto lumi ad amici, come usavano a Roma i giudici
privati. Ma gli amici, giudici e avvocati esperti di tribunali, presi come
erano dalle loro cause, avevano fretta. Senza troppo disquisire gli avevano
consigliato di lasciar libero il convenuto non potendo provarsi che avesse
preso i soldi. Non l’avevano convinto.
Quindi – nell’ambito del suo officium iudicis - aveva chiesto
consiglio a Favorino di Arelate[13], allora filosofo di gran fama. Nel solco di Catone[14], Favorino aveva risaltato la mancanza di testimoni e
consigliato a Gellio di servirsi di un criterio supplementare – la
reputazione delle parti.
Neanche questa Gellio l’aveva presa per buona. Non
intendeva giudicare l’attendibilità delle parti in causa. Doveva
pronunciarsi sul prestito, non dare un iudicium
de moribus. Dovendo scegliere tra il
dovere di sentenziare ‒ [15] e il rifiuto di pronunciarsi de moribus ‒, preferì esimersi dalla sentenza. Si
giustificò con la giovane età e l’inesperienza;
confermò il rifiuto di sentenziare con il giuramento sibi non liquere: in altre parole
confessò di non essere riuscito a fare chiarezza[16].
Talvolta, quando il caso si delineava particolarmente
contorto, i giudici differivano il dibattimento a tempo indeterminato. A tal proposito
Aulo Gellio ricorda la vertenza per il compenso tra il celebre maestro di
retorica Protagora e il suo allievo Euatlos[17]. Questi aveva offerto a Protagora un compenso favoloso.
Versata in anticipo la prima rata, si era obbligato a partecipare la seconda
dopo aver vinto il primo processo. Tuttavia, concluso il corso di retorica, non
aveva iniziato la carriera forense. Era stato citato in giudizio da un docente
sicuro che comunque andasse, sarebbe riuscito a ottenere tutto il pattuito: in
virtù della sentenza, se favorevole, in virtù del contratto, se
il processo l’avesse perso. Un ragionamento che Euatlos aveva fatto suo,
ma ribaltato: ad ogni modo, non avrebbe pagato, o perché la sentenza gli
avrebbe dato ragione, o perché avrebbe perso la prima causa: e, per
contratto, l’avrebbe dovuta vincere[18]. I giudici decisero di soprassedere. Procrastinarono il
dibattimento a tempo indeterminato[19].
Di profilo in sostanza analogo la decisione dei giudici chiamati
a decidere il caso di una donna di Smirne accusata di aver avvelenato il marito
e il figlio[20]. Un caso noto, incontrovertibile, lineare. La donna era
rea confessa: li aveva avvelenati perché le avevano ucciso il figlio di
primo letto. Il proconsole Dolabella, all’epoca governatore
dell’Asia, aveva disposto che se ne dibattesse in consilium. Ma nessuno dei suoi membri se la sentì di
sentenziare: forse erano tutti convinti che quel castigo entrambi gli
avvelenati se lo erano meritati. Dolabella investì del caso gli
areopagiti di Atene, ma anche essi dovettero convincersi che una sentenza
affrettata non avrebbe fatto giustizia. E poiché non c’era fretta,
chiesero alla donna e ai suoi accusatori di tornare dopo cent’anni[21].
Rimandando ad kalendas
graecas o fissando l’udienza a distanza di lustri si arrivava, per
altre vie, a fare come Aulo Gellio che, mosso da dubbi piuttosto morali che
legali, aveva prestato il giuramento rem
sibi non liquere per esimersi dal giudicare.
Trovatosi in una situazione disagevole, Chilo Lacedemone,
uno dei sette saggi ed eforo di Sparta, si impose un comportamento diverso[22].
Prossimo a morire, Chilo confida agli amici di non avere
pentimenti. Soltanto in un caso non è certo di essersi comportato
secondo giustizia; e se ne preoccupa.
Era tra i tre giudici chiamati a giudicare un caso di
lampante chiarezza, punibile con la morte. L’accusato era un suo amico.
In punta di diritto avrebbe dovuto sentenziarsi il massimo della pena. Cosa
fare: condannare a morte un amico o violare la legge?[23] Bel dilemma. Si dimenò come uscirne fuori senza perdere la faccia.
Ebbe un’idea astuta. Si pronunciò discretamente per la condanna, ma
convinse gli altri giudici a pronunciarsi per l’assoluzione. Gli
sembrò di essere riuscito a contemperare il dovere del giudice con
quello dell’amicizia. Ma il dubbio era rimasto e l’avrebbe roso per
tutta la vita[24].
Fin dove è lecito spingersi per aiutare un amico?
Fino a violare la legge, le consuetudini, il senso della giustizia? In tutti i
casi; soltanto in certuni? E come? Problemi annosi, di gran travaglio –
conferma Gellio – anche per gli antichi.
Massimamente perspicace al riguardo fu – dice
Gellio - Teofrasto, esimio peripatetico, autore di un trattato in tre libri
intitolato de amicitia[25]: importante il primo.
Apprendiamo da Gellio che Cicerone lo conosceva. Se ne avvalse
e lo rielaborò nel suo Laelius de
amicitia[26]. Per l’arduo dilemma di Chilo ebbe però
solo poche parole che Gellio riporta per esteso: “Credo che occorra attenersi a
tali principi quando i costumi degli amici siano inappuntabili e quando a essi
si conformino, senza eccezione alcuna, tutti i loro piani, desideri e faccende.
Ma quando ne siano in gioco la vita e l’onore, si prenderà la
parte dell’amico anche per quel che abbia fatto di ingiusto, a patto di
non incorrere indi soverchia infamia”[27]. Gellio commenta: quando siano in gioco la vita o il
buon nome di un amico, può pure non seguirsi la retta via. Ma quanto a
lungo, fino a dove, fino a macchiarsi di quale iniquità? Non lo precisa,
eppure deve sentire l’esigenza di porre qualche limite, se mette in bocca
a Cicerone un’affermazione che, expressis
verbis, in de amicitia manca:
“Per un amico non s’impugnano le armi contro la patria[28].
Può darsi che Gellio si fosse lasciato influenzare
da de officiis[29]: ad ogni modo non è da escludere che lo
conoscesse. Il problema dei doveri dell’amicizia – osserva
l’Arpinate – è alquanto intricato, specie riguardo ai
servigi prestati che sarebbe stato giusto negare, e a quelli negati che sarebbe
stato giusto prestare. Questo il
suo consiglio. Mai premettere all’amicizia quanto sia utile soltanto a
noi: ricchezze, onori, sollazzi, e altri simili piaceri. E, nondimeno, mai, a
favore di un amico, ribellarsi alla patria, rompere un giuramento, non essere
di parola: neanche da giudice chiamato a pronunciarsi sull’amico: vestita
la toga del giudice, si svestono i panni dell’amico. Come giudice, un
amico può fare ben poco: fissare in data agevole l’udienza, sempre
che la legge lo consenta. Quando, prestato il giuramento, pronuncia la
sentenza, il giudice chiama a testimoni gli dei, ovvero la propria coscienza,
che per l’Arpinate è dono divino, il più divino di quanti
alberghino nell’uomo. Bello l’uso, tramandato dai posteri, di chiedere
al giudice «di fare quello che in fede può fare». Quindi
anche di aiutare un amico quando la dignità dell’ufficio non
glielo impedisca. Tra amici non ogni richiesta è sacra; quando lo sia,
non è amicizia, ma cospirazione.
Gellio ricorda che per Pericle l’Ateniese, uomo
illustre e coronato di ogni virtù, l’amicizia non poteva andare
oltre i limiti imposti dalla fede[30]. Alla richiesta di un amico di spergiurare in suo
favore, Pericle rispose: «È giusto aiutare gli amici, ma
rispettando gli dei»[31] (alquanto più icastico in Moralia Plutarco: «l’amicizia cede davanti
all’altare»[32].
Da Cicerone Gellio passa a Teofrasto che, a suo dire,
dell’argomento aveva riflettuto ben meglio, senza peraltro scendere nel
dettaglio o distrarsi da superflui esempi, puntando piuttosto sul generale,
ancorché con parole brevi e schiette: «Ci si può macchiare
di una piccola, marginale vergogna o infamia, se non c’è altro
modo per avvantaggiare un amico in un affare assai importante. Una piccola
perdita di onore, subita aiutando un amico, può essere compensata dalla dignità
intatta dell’amico. Non è così quando su un piatto della
bilancia pesa un vantaggio caro all’amico, sull’altro la nostra
dignità. In tal caso, senza dubbio, la nostra dignità prevale. Ma
quando il vantaggio dell’amico è enorme, e la dignità da
noi persa minima, è il vantaggio dell’amico che prevale».
Anche in tal occorrenza Gellio richiama un suo
contemporaneo, il filosofo Favorino, per il quale «quel che la gente
chiama favore, non è altro che un allentamento, quando serva, del
dovere»[33].
Da Teofrasto Gellio trae l’invito a non giudicare
il comportamento delle persone prima di riflettere su circostanze, luoghi,
tempi e motivi del loro agire. Ogni caso è diverso e merita un giudizio
a parte, in genere sfumato.
Eccoci arrivati all’appunto finale.
Nei racconti brevi, qui appena riassunti, e in tutta la
sua opera nel contempo antiquaria e fortemente didattica, Gellio è
senz’altro attratto dall’etica. Si interessa al diritto in quanto
connaturato con l’etica: un tempo lo era.
Tal rapporto, per Gellio, è fuori discussione.
Poiché le sue competenze specifiche lasciano a desiderare, non si
avventura in esegesi da dilettante, ma leggendo le fonti si richiama
all’autorevolezza degli illustri. Gellio si diletta a metterli in causa.
Quando si misuravano con il diritto, i grandi saggi antichi non usavano
disgiungerlo dalla morale. Le strade dell’uno e dell’altra non si
erano ancora divaricate: sarebbe successo, ma dopo. Ne scrisse, tra altri,
anche il professor Henryk Kupiszewski[34].
Studiando le istituzioni del diritto romano, non
trascuriamo le componenti etiche che lo permeavano[35]. Sarà poi facile farle confluire nel nostro
diritto quotidiano.
[1] Cfr. Z. Benincasa,
Świat antyczny w oczach Profesora
Henryka Kupiszewskiego. Miedzynarodowa Konferencja, Warszawa 3 kwietnia 2014 r.
[Il mondo antico visto da Henryk Kupiszewski. Conferenza internazionale,
Varsavia 3 aprile 2014], «Zeszyty
Prawnicze» 14.2/2014, 241 e ss.
[2] Cfr. H. KUPISZEWSKI, Prawo
rzymskie a współczesność [Diritto romano e mondo contemporaneo], 2 ed., Kraków 2013,
294.
[3] M. KURYŁOWICZ, ‘Illotis manibus’. Henryk Kupiszewski i współczesne
dyskusje romanistyczne w Polsce, «Zeszyty Prawnicze» 15.2/2015,
110.
[5] Cfr. M.S. RUXER, Z
ateńskich wspomnień uniwersyteckich Aulusa Gelliusa [I ricordi
universitari ateniesi di Aulo Gellio], Poznań 1934; M.L. ASTARITA, La cultura nelle ‘Noctes Atticae’, Catania 1993; L.
HOLFORD-STREVENS, Aulus Gellius. An
Antonine Scholar and his Achievement, 2a ed., Oxford 2005, 65 ss.; J.
ZABŁOCKI, The Intellectual Background of Aulus Gellius, «Diritto@Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione
Romana» nr 6, 2007 (= http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Zablocki-Jan-Intellectual-background-Aulus-Gellius.htm … 2008-04-01).
[6] Cfr. J. ZABLOCKI, Appunti
sull’‘officium
iudicis’ nelle
‘Noctes Atticae’, [in:] Au-delà des fontierès.
Mélanges de droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz,
II, Varsovie 2000, 1115-1126.
[11] Cfr. Gell.14.2. Cfr.
inoltre W. KEULEN, Gellius the Satirist. Roman Cultural Authority in
‘Attic Nights’, Leiden-Boston 2009, 209,. 221 ss.
[13] Può darsi che le Noctes Atticae, si modellassero, come suggerisce Gell. praef. 8, sulle Pantodaph; iJstoriva di Favorino. Le idee filosofiche sono note
perlopiù grazie a Gellio che lo vuole protagonista di tante discussioni
su problemi di grammatica, filosofia e diritto. Cfr. L. HOLFORD-STREVENS, op. cit., 98 ss.
[14] Il brano citato da Gellio è tratto da
un’orazione di Catone, Pro L. Turio
contra Cn. Gellium, Malcovati fr. 206.
[15] L’inosservanza del dovere di sentenziare incorreva
in una nota censoria oppure in una multa pretoria. Cfr. J. MISZTAL-KONECKA, Sędziowski
obowiązek wydania wyroku: regulacje prawa rzymskiego na tle prawa
polskiego [Il dovere del giudice di
sentenziare] «CPH» 64.2/2012, 117.
[16] Cfr. J. ZABŁOCKI, ‘Iudex qui iuravit
sibi non liquere’,
«Prawo Kanoniczne» 39.3-4/1996, 215-226; idem, Rozważania o procesie rzymskim [Riflessioni sul processo romano],
Warszawa 1999, 84 ss.
[18] Un ragionamento simile in Gell. 9.16. J.
MISZTAL-KONECKA, op. cit., 114 nota 3
rileva giustamente che gli avversari non solo erano in contrasto l’uno
con l’altro, ma anche ciascuno con se stesso. Entrambi si sarebbero conformati a una sentenza
favorevole, e nel caso fosse stata sfavorevole si sarebbero richiamati al
contratto.
[20] Cfr. Gell. 12.7. Il caso
in parola si trova ora nel libro VIII, e non IX, come afferma Gellio, dei Factorum et dictorum memorabilia di
Valerio Massimo (8.1.amb.2), nel quale Dolabella è Publio. Cfr. G. BERNARDI-PERINI, Le Notti Attiche di Aulo Gellio, II, Torino, 1992, 904 e nota 2; L.
HOLFORD-STREVENS, op. cit., 79, 316.
[22] Cfr. Gell. 1.3. L’aneddoto
su Chilo ripreso anche da Diog. Leart. 1.71. Cfr. inoltre W. KEULEN, op. cit., 229 ss.
[23] I tribunali collegiali romani potevano sentenziare a
maggioranza anche quando un giudice si astenesse dal voto non avendo
un’idea chiara del caso (cfr. D. 42.1.36). In assenza di uno dei tre
giudici la sentenza non poteva pronunciarsi (cfr. D. 42.1.39). Cfr. J. MISZTAL KONECKA, op. cit., 118.
[25] Gell. 13,5, ricorda che Teofrasto si annoverava tra i
più capaci allievi di Aristotele e per volontà del maestro prese
la direzione della scuola peripatetica. Su attività e dottrina
filosofica di Teofrasto leggi G. REALE, Storia
della filosofia antica, III, I sistemi dell’età ellenistica,
5a ed., Milano 1997, 125 ss., con ampi ragguagli bibliografici.
[26] Fu Sulla, nell’83 a.C., a portare i manoscritti di
Teofrasto a Roma. Cfr. W. TATARKIEWICZ, Historia filozofii, I:
Filozofia starożytna i średniowieczna [Filosofia antica e medioevale],
14a ed., Warszawa 1995, 158, che a p.154 osserva giustamente che tutti gli
scritti filosofici ciceroniani attingono ai Greci.
[32] Mevcri tou'
bomou' fivlo"
eijmiv, Cfr. Plut., Moralia
[33] Gell. 1,3,27: JH kaloumevnh cavri"
para; toi'"
ajnqrwvpoi",
tou'to e[stin u{fesi" akribeiva" ejn
devonti (= Fav. fr. 100 Garigazzi).
[35] Vedi M. KURYŁOWICZ, Etyka i prawo w sentencjach rzymskich jurystów[Etica e diritto
nelle sentenze dei giuristi romani, [in:] W kręgu problematyki władzy, państwa i prawa. Księga
jubileuszowa prof. Henryka Groszyka
[Potere, Stato, diritto. Scritti per il giubileo del prof. Henryk Groszyk],
Lublin 1996, 125-136; IDEM, Rzymskie
sentencje prawnicze o człowieku, sprawiedliwości i prawie [Uomo,
giustizia e diritto nelle sentenze giuridiche romane],
«Palestra» 33.7/1988, 71-83; IDEM, Prawo rzymskie. Historia, tradycja, współczesność
[Diritto romano.Tra storia, tradizione e il giorno d’oggi], Lublin
2013, 161-167.