Aspetti e
problemi dell’universalismo romano. Ricerche di ius publicum (e ius sacrum)
*
Università di Sassari
Nel ricordo dell’Avvocato
Lucilio Secchi Tarugi
SOMMARIO: 1. La fine della religione
politeista romana. –
2. Luoghi
dell’universalismo romano: la urbs Roma «auspicato
inauguratoque condita». – 3. Una
religio per la pax deorum. – 4. Dimensione
religiosa dell’imperium populi Romani. –
5 Il sacrificio nella
religione romana. – 6. Tensioni universalistiche e aperture
(“tolleranza”) della religione politeista romana e dell’Impero Romano. – 7. “Aperture cultuali”
come “procedure operative” dell’universalismo religioso romano. – 8. Conclusione. – 9. Bibliografia.
Nel primo libro del Codex,
promulgato dall’imperatore Giustiniano «In
nomine Domini nostri Ihesu Christi» nell’anno 534 d.C., possiamo leggere –
raccolti nel titolo XI sotto la rubrica «de
paganis sacrificiis et templis» – ben dieci frammenti di costituzioni
imperiali che vietano, comminando pene severissime, soprattutto il compimento
degli antichi riti sacrificali[1]. Dunque,
nei primi decenni del VI secolo d.C. l’imperatore riteneva ancora necessario
ribadire le sanzioni comminate dai predecessori per coloro i quali avessero
violato il divieto di compiere cerimonie religiose in onore degli dèi romani.
Si tratta, a ben vedere, di una attestazione autorevolissima, quanto
involontaria, della sotterranea e tenace resistenza di sentimenti religiosi
popolari, che avevano bisogno per esprimersi delle pratiche cultuali elaborate
dall’antica religione politeista romana.
Eppure, nel tempo in cui l’imperatore Giustiniano procedeva alla
codificazione dello ius Romanum, erano trascorsi quasi due
secoli dalla morte di Costantino il Grande, alla cui opera legislativa
l’imperatore Costanzo, in una sua costituzione del 341 d.C., attribuiva la prima
normazione contraria ai sacrifici cruenti di animali[2]. Molti
anni erano passati anche dal 380 d.C., anno della promulgazione dell’editto di
Tessalonica, con il quale gli imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio I
avevano stabilito che tutti i popoli dell’Impero dovessero aderire a quella
religione «quam divinum Petrum apostolum
tradidisse Romanis»[3]. Molti
anni erano trascorsi, infine, da quell’otto novembre del 392, quando
l’imperatore Teodosio I, congiuntamente ai figli Arcadio e Onorio, aveva legiferato
la proibizione di qualsiasi atto di culto (foss’anche privato) che si ispirasse
all’antica religione del Popolo romano[4].
Così, per volontà dell’imperatore Teodosio I, cessava (almeno
ufficialmente) il culto degli dèi; ultima e definitiva prova dello strettissimo
legame che la religione politeista romana aveva sempre conservato, nel corso
della sua storia millenaria, con la politica della res publica romana e con la vita
del Populus Romanus Quirites. «Morte
per decreto», sintetizza con un’espressione assai efficace il grande storico
della religione romana Jean Bayet:
«Théodose a mis fin à l’ancienne religion
romaine. Mort par décret. Nul geste n’offre plus clair symbole: italique,
méditerranéenne, universelle, cette religion n’a cessé de se développer dans le
cadre d’exigences politiques; là est la plus surprenante originalité de son
évolution»[5].
Nei libri ab urbe condita di Tito
Livio traspare più volte la convinzione che la storia dei Romani costituisse la
prova più inconfutabile di come nelle vicende umane «omnia prospera evenisse sequentibus deos»[6];
unitamente ad un altro convincimento profondo: la pietas e la fides avevano
costituito (e costituivano) gli elementi essenziali per la legittimazione
divina dell’imperium del popolo
Romano. A suo avviso, gli dèi si sarebbero mostrati, in ogni circostanza, assai
più ben disposti verso coloro i quali avessero osservato la pietas ed onorato la fides[7].
Per il tema che intendo trattare, appare rilevante un altro
passo di Tito Livio, peraltro molto conosciuto, tratto dal quinto dei suoi ab urbe condita libri (Livius 5.52.1-3).
In questo testo, relativo alla narrazione degli eventi appena successivi alla
distruzione dell’Urbe ad opera dei Celti, il grande annalista, con un discorso
attribuito a Furio Camillo, ha voluto caratterizzare la città di Roma come il
luogo massimamente votato alla religione: Urbem auspicato inauguratoque conditam
habemus.
Livius 5.52.1-3: Haec culti neglectique numinis tanta
monumenta in rebus humanis cernentes ecquid sentitis, Quirites, quantum vixdum
e naufragiis prioris culpae cladisque emergentes paremus nefas? Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus;
nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis
sollemnibus non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiant. Hos omnes deos publicos privatosque, Quirites, deserturi estis?
Tito Livio 5.52.1-3: Vedendo
queste così grandi prove dell’importanza che ha nelle cose umane il rispetto
degli dèi, non avvertite, o Quiriti, quale empietà ci prepariamo a commettere,
appena scampati dal naufragio della colpa e della rovina precedente? Abbiamo
una città fondata con auspici e augurii, dove non vi è luogo che non sia pieno
di cose sacre e di dèi; per i sacrifici solenni, nonché i giorni, sono stati
fissati anche i luoghi in cui devono compiersi. Volete abbandonare, o Quiriti,
tutti questi dèi, pubblici e privati?
La valenza religiosa di questo testo liviano era stata colta
assai bene da Huguette Fugier nelle sue «ricerche sulle espressioni del sacro
nella lingua latina»:
«En fait, le populus ne pourrait subsister s’il perdait le milieu sacré qui le
nourrit pour ainsi dire, en quittant l’urbs
fondée avec l’acquiescement des auspices et par un acte inaugural; ou pour
exprimer la même idée à un niveau religieux un peu plus moderne, il ne pourrait
conserver la pax deorum, hors du cadre seul apte à contenir les sacrifices réguliers,
par lesquels cette “paix” se maintient. Telles sont les vérités que lui
rappelle Camille, pour ruiner la folle suggestion des tribuns, d’émigrer en
masse vers le site de Véies»[8].
Del resto il testo di Tito Livio è molto esplicito: con buone argomentazioni,
tutte svolte sul filo della teologia e dello ius sacrum, Camillo
sosteneva che il Popolo romano sarebbe perito qualora avesse abbandonato il
sito dell’urbs Roma, dove «nullus locus in ea non religionum
deorumque est plenus»; cioè l’unico luogo che aveva determinato (al momento
della fondazione) e poteva assicurare (nel tempo) l’identità religiosa e
giuridica del Popolo romano, in quanto fondato da Romolo con un atto inaugurale
seguendo il volere degli dèi. Detto in altre parole, il pensiero di Camillo è
che non si potesse conservare la pax deorum al di fuori del solo
ambito locale (la urbs Roma) adatto a contenere i riti e i
sacrifici che ordinariamente assicuravano al Popolo romano la conservazione
della pax deorum. Anzi nella parte finale del testo, si
confondono volutamente i luoghi con gli dèi onorati in quei luoghi: Tito Livio,
infatti, fa dire a Camillo che l’abbandono del sito di Roma corrisponderebbe
all’abbandono degli dèi romani: «Volete abbandonare, o Quiriti, tutti questi
dèi, pubblici e privati?»
Questo imprescindibile legame tra dèi e luoghi deputati al loro
culto, di cui la urbs Roma rappresenta un esempio tanto
significativo, non deve far dimenticare, tuttavia, che la religione politeista
romana, proprio perché finalizzata alla conservazione della pax deorum,
fu sempre caratterizzata da forti tensioni universalistiche e da costanti
“aperture” cultuali verso l’esterno.
Per comprendere le dinamiche della religione politeista romana
risulta fondamentale il concetto di pax deorum. La sapientia (teologica e giuridica) dei sacerdoti romani, mediante la
definizione del ne-fas – che è bene
ricordare riguardava tempo e spazio, (sia tempora sia loca) –
rivolgeva le sue prime e maggiori cautele ai rapporti tra uomini e dèi; con lo
scopo precipuo di preservare la pax
deorum. La conservazione della pax deorum richiedeva una
perfetta conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla; degli atti che mai dovevano
essere compiuti; delle parole che mai dovevano essere pronunciate.
«In queste condizioni – scriveva con la consueta acutezza
Riccardo Orestano – tutta la vita privata e quella pubblica erano dominate
dall'assillo ansioso e ininterrotto di operare in accordo con queste
"forze" o "deità", di procurarsi il loro ausilio, di
propiziarsi il loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro influenze ostili,
di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una loro reazione. La
paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o comportamento
potesse rompere la pax deorum da cui
dipendevano il benessere dell'individuo, della famiglia, della comunità,
rendeva il romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della
natura i segni della volontà divina»[9].
Nell'antitesi fas/nefas,
fondata in particolar modo sulla concezione teologica che spazio e tempo
appartenessero agli dèi, si manifestava compiutamente la peculiarità dei
rapporti tra uomini e divinità nel sistema giuridico-religioso romano. La
teologia e lo ius divinum dei
sacerdoti romani rappresentavano la vita
e la storia del Popolo romano in rapporto di imprescindibile causalità con la religio: era stata la volontà degli dèi
non solo a determinare il luogo – e il tempo – della fondazione dell’Urbs Roma (già il poeta Ennio vedeva, in
questo modo, l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est)[10]; ma
anche a sostenerne la prodigiosa “crescita” del numero dei cittadini (civitas augescens)[11]; infine,
sempre alla volontà degli déi si doveva l’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e la garanzia
della sua estensione sine fine[12].
I sacerdoti romani postularono, dunque,
fin dalle prime attestazioni della loro memoria storica e documentaria, il legame indissolubile della Urbs Roma con il culto
degli dèi e della vita del Popolo
romano con la sua religio; al fine di
conseguire e conservare, mediante i riti e i culti della religione politeista,
la pax deorum («pace degli dèi», ma
da intendere nel senso di «pace con gli dèi»).
«La
conception – d'ordre philosophique – du monde romain est celle d'un ensemble de
rapports ou de forces en équilibre: toute action humaine affecte par définition
cette harmonie naturelle et trouble l'ordre voulu par les dieux. D'où la
nécessité, avant (ou, au pire, après) toute action, de se concilier l'accord
des dieux témoignant leur adhésion. La paix universelle est alors sauvegardée.
La religion consiste ainsi à rester en bons rapports avec les dieux, pour les
avoir avec soi»[13].
Per la vita del Popolo Romano si riteneva indispensabile il
permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra gli uomini e le divinità,
considerate anch’esse come una delle parti (certo la più importante, in ragione
dell’intrinseca potenza che agli dèi si riconosceva) del sistema
giuridico-religioso romano; poiché, come ha scritto giustamente John Scheid:
«La République est effectivement une
association de trois partenaires: les dieux, le peuple et les magistrats»[14].
Dagli dèi, potenti immensamente rispetto agli uomini, i Romani
si aspettavano di ricevere pace e perdono[15]; senza
tuttavia ignorare che le loro colpe potevano essere punite da Iuppiter con gravissimi mali[16]. Emerge
così la nozione di pax deorum, che
secondo una suggestiva ipotesi avanzata da Marta Sordi potrebbe essere
addirittura «all'origine del concetto romano di pax». L’espressione pax deorum è attestata anche nella sua
forma arcaica, pax divom o deum, da Plauto[17],
Lucrezio[18], Virgilio[19] e Tito
Livio[20].
Dal punto di vista umano, il «legalismo religioso» dei sacerdoti
romani configurava la pax deorum come
una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività e individui dovevano
necessariamente attenersi per poter conservare il favore degli dèi. Ciò spiega,
tra l'altro, l'attenzione precisa e minuziosa dell'annalistica romana, erede
diretta dell'attività "storiografica" del collegio dei pontefici, nel
documentare fatti e avvenimenti suscettibili di turbare la pax deorum, le conseguenze negative per la vita comunitaria, i
rimedi rituali posti in essere per espiare[21]. In
questa prospettiva, può ben comprendersi anche il perché la conservazione della
pax deorum costituisse il fondamento
teologico dell'intero rituale e fosse considerato, al tempo stesso, l'elemento
basilare del sistema giuridico-religioso. Oggetto, dunque, dello ius del Popolo romano (ius publicum), che non a caso si
presenta, stando alla testimonianza del giurista Ulpiano, tripartito in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus[22].
Come si è detto, i sacerdoti romani teorizzarono sempre un
rapporto causale con la religio per
tutte le manifestazioni significative della vita
e della storia del Popolo romano. Gli antichi non avevano alcuna difficoltà a
riconoscere un segno del favore degli dèi nell’egemonia mondiale dei Romani;
tuttavia, erano anche coscienti del fatto che ciò non sarebbe potuto accadere
senza alcun merito da parte loro: essi infatti, per sensibilità e cautela verso
la religio, avevano superato di gran
lunga tutti gli altri popoli.
Al riguardo, risultano davvero importanti le definizioni
ciceroniane di religio, in cui la
parola è utilizzata quasi sempre nel senso di "culto degli dèi"[23]: due
passi del trattato “sulla natura degli dei” lasciano intravedere con grande
chiarezza questa legittimazione religiosa (e quindi, giuridica) dell’imperium del Popolo romano.
Cicero, De nat. deor.
2.8: Nihil nos P. Clodi bello Punico primo temeritas movebit, qui etiam per
iocum deos inridens, cum cavea liberati pulli non pascerentur, mergi eos in
aquam iussit, ut biberent, quoniam esse nollent? Qui risus classe devicta
multas ipsi lacrimas, magnam populo Romano cladem attulit. Quid collega eius L.
Iunius eodem bello nonne tempestate classem amisit, cum auspiciis non
paruisset? Itaque Clodius a populo condemnatus est,
Iunius necem sibi ipse conscivit. C. Flaminium Coelius religione neglecta
cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum
imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre
volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores
reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores[24].
In De nat. deorum 2.8, Cicerone sostiene che neglegere la religio ha sempre determinato intollerabili vulnera al Popolo romano; mentre l’osservanza della religio non può che produrre, nella
dinamica della storia, la costante amplificatio
della res publica: almeno finché i
Romani continueranno ad essere, rispetto agli altri popoli, «religione, id est cultu deorum, multo
superiores».
Nel secondo testo, Cicerone fa delineare a C. Aurelio Cotta i
principali campi della religio,
teorizzando che essa in sacra et in
auspicia divisa sit.
De nat. deorum 3.5: Cumque omnis
populi Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit si quid praedictionis causa
ex portentis et monstris Sibyllae interpretes haruspicesve monuerunt, harum ego
religionum nullam umquam contemnendam putavi mihique ita persuasi Romulum auspiciis, Numam sacris constitutis
fundamenta icisse nostrae civitatis, quae numquam profecto sine summa
placatione deorum immortalium tanta esse potuisse[25].
Da questo testo, emergono le convinzioni profonde della
tradizione sacerdotale in merito alle basi religiose e giuridiche della civitas romana. Sacra e auspicia non solo
costituiscono i due principali campi della religio,
ma devono essere considerati più propriamente gli originari fundamenta (riferibili, infatti, alle
origini dell’Urbs di Romolo e di Numa
Pompilio) della res publica: sia
l'elevato potere conseguito dal Popolo romano nel corso della sua storia, sia
l’estensione “mondiale” dell’imperium
populi Romani sarebbero del tutto inspiegabili sine summa placatione deorum immortalium.
La sottolineatura del carattere provvidenziale dell'Impero,
quasi un premio al Popolo romano per aver saputo superare in religiosità tutti
gli altri popoli, è motivo ricorrente in diverse opere ciceroniane: così,
nell'orazione De haruspicum responsis
si legge che per pietas e religio «omnis gentis nationesque superavimus»[26].
Anzi, a ben vedere, proprio la consapevolezza del ruolo
fondamentale esercitato dalla religio
nella vita della comunità romana costituiva una caratteristica saliente della
storiografia latina. Consapevolezza che traspare, ad esempio, nella Catilinae coniuratio di C. Sallustio Crispo.
Lo storico dei populares
contrapponeva il luminoso esempio dei nostri
maiores, religiosissimi mortales, alla corrotta decadenza dei
contemporanei, rimarcando con nostalgia e rimpianto, soprattutto che illi, a differenza di questi ignavissumi homines del suo tempo, delubra deorum pietate, domos suas gloria
decorabant[27].
Anche per Valerio Massimo, l’elemento basilare e caratterizzante
della civitas romana consisteva nel
principio omnia namque post religionem
ponenda semper nostra civitas duxit[28]. Spiegava,
infatti, l’autore dei Facta et dicta
memorabilia che per questa ragione i titolari della summa maiestas non
avevano mai esitato a mettersi a disposizione della civitas per compiere i riti sacri, stimando che avrebbero avuto il
governo del mondo, se avessero servito bene e costantemente il potere degli
dèi.
Per chiudere, una testimonianza dal campo avverso alla religione
politeista romana. Si tratta di Q. Settimio Fiorente Tertulliano, vero padre
della letteratura latina cristiana, il quale alla fine del II secolo d.C., nel
suo Apologeticum, contestava le
misure repressive anticristiane con precisi riferimenti a nozioni giuridiche
romane e polemizzava contro i molti dèi della religione tradizionale. La
polemica di Tertulliano in difesa della causa
Christianorum[29] tende
soprattutto a dimostrare infondata la stessa base teologica e giuridica della
religione politeista romana: vale a dire, illa
praesumptio, assai diffusa naturalmente tra i suoi contemporanei, secondo
cui i Romani sarebbero stati innalzati fino al dominio del mondo (ut orbem occuparint) solo in ragione
della grandissima pietà religiosa (pro
merito religionis diligentissimae), in quanto gli dèi concedono il massimo
della potenza ai popoli che più degli altri li venerano[30].
Nelle pratiche cultuali dell’antica religione politeista romana
(e quindi nella conservazione della pax
deorum) risalta la centralità dei
sacrifici di esseri animati (hostiae
o victimae). Per parlare dei
sacrifici, muoverò da un notissimo testo di Tito Livio, in cui è descritta
l’istituzione dei pontefici romani da parte del re Numa Pompilio.
Livius 1.20.5-7: Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium,
ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus
hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent atque unde in eos sumptus
pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis
scitis subiecit, ut esset, quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris
neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec celestes
modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex
edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque
curarentur.
Nell’elenco delle materie di competenze dei pontefici, il cui
ordine non può ritenersi certo casuale, proprio le hostiae vengano collocate al primo posto; precedendo
rispettivamente dies, templa, pecunia, cetera sacra, funebria e prodigia. Le potenzialità classificatorie e sistematiche insite in
questo testo di Tito Livio non sono sfuggite alla parte più avvertita della
dottrina contemporanea: da Auguste Bouché-Leclercq, a Nicola Turchi, a Emilio
Peruzzi. Bisogna ricordare, poi, che le ricerche del Peruzzi hanno dimostrato
in maniera convincente la derivazione sacerdotale del testo liviano; si
sarebbero conservati elementi di autenticità assai risalenti, come la formula
onomastica del pontifex: «Tutti i
precisi particolari di Liu. 1.20.5-7 sul pontefice, che, ripeto – scrive lo
studioso –, è l’ultimo dei sacerdoti elencati e tuttavia, unico fra tutti, è
perfino rammentato con piena formula onomastica, denotano che la fonte prima da
cui deriva la notizia dello storico patavino è un testo redatto dai pontefici:
verosimilmente (poiché si tratta di una notizia storica, non di norme religiose
o giuridiche), gli annales maximi»[31].
Appare abbastanza credibile che la riforma religiosa di Numa
Pompilio[32] abbia imposto l’esigenza di
testi scritti, senza il cui ausilio doveva essere quasi impossibile osservare
la complessità dei sacra e delle caerimoniae e la minuziosa
regolamentazione dei sacrifici, testimoniate a proposito della religiosità di
quell'epoca. Di alcune delle prescrizioni rituali abbiamo notizia nella ‘vita
di Numa’ di Plutarco[33]: esse riguardavano
l’obbligo di sacrificare un numero dispari di vittime agli dèi celesti ed un
numero pari a quelli inferi[34]; il divieto di libare
agli dèi con vino[35]; il divieto di
sacrificare senza farina[36]; la necessità di
pregare e adorare la divinità compiendo un giro su sé stessi[37]. Apprendiamo inoltre,
da una testimonianza di Arnobio, che gli antichi attribuivano a Numa Pompilio
la composizione degli indigitamenta[38], appellativi rituali
delle divinità (nomina deorum et rationes
ipsorum nominum)[39], raccolti in seguito
dai sacerdoti in libris pontificalibus.
Alla luce di quanto si è detto, nel passo di Tito Livio deve
considerarsi particolarmente affidabile l’elenco, o per meglio dire l’ordine-gerarchia,
delle materie di competenze dei pontefici (quibus
hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus
pecunia erogaretur), poiché esso ricalcava l’ordine degli antichissimi sacra omnia exscripta exsignataque
istitutivi del sacerdozio pontificale, ritenuti dalla tradizione annalistica
opera dello stesso Numa Pompilio. Infine, non va dimenticato che secondo la
tradizione antiquaria (Varrone) questi libri
Numae avevano costituito il nucleo
primitivo dei libri pontificum[40].
Torniamo, ora, agli aspetti giuridici e rituali del sacrificio e
alla valenza teologica delle hostiae[41] nella
religione politeista romana. Il sacrificio (sacra
facere) si presenta come un’azione
rituale che permetteva alle diverse aggregazioni comunitarie romane di
stabilire, per mezzo della vittima immolata, forme di comunicazione con le
divinità destinatarie del sacrificio.
A proposito delle forme di religiosità romana, sarà bene
ricordare che il vocabolo cultus è un
derivato del verbo colere, utilizzato
indifferentemente in riferimento alla terra, agli uomini, agli dèi. Questo
significa che anche i rapporti con le divinità, per produrre i frutti
desiderati, necessitavano di assidue cure e di particolari attenzioni. L’uomo
doveva impegnarsi in una incessante attività cultuale, poiché solo così poteva
sperare di ricevere benefici sempre maggiori dall’immenso potere degli dèi;
tuttavia, come spiega Robert Turcan, nella concezione romana dei rapporti tra
l’umano e il divino le azioni cultuali degli uomini (con particolare riguardo
al sacrificio) erano reputate indispensabili per la stessa esistenza degli dèi:
«Il faut les faire agir, comme on fait
valoir la Terre Mère. Mais les dieux ont aussi besoin des hommes. Varron
déclarait craindre de les voir périr civium
neglegentia, victimes de la
négligence cultuelle des citoyens… Pour profiter de leur puissance, les Romains
doivent entretenir celle-ci par les sacrifices qui sont censés revigorer les
dieux»[42].
Teologia e ius divinum
mostravano nei confronti del sacrificio un atteggiamento bivalente: i sacerdoti
romani, da un lato, ritenevano che le azioni sacrificali costituissero i riti
più idonei per attrarre la benevolenza divina sulle vicende umane, volgendo in
tal modo a beneficio degli uomini l’immensa potenza degli dèi; d’altro lato,
consideravano i sacrifici indispensabili per la sopravvivenza delle stesse
divinità; le quali diventavano tanto più potenti, quanto più numerose erano le
vittime immolate sui loro altari (J. Bayet). Di questa concezione romana del
sacrificio, costituisce una prova anche l’uso del verbo mactare: come insegnano i linguisti (É. Benveniste), tale verbo,
dal significato originario di «accrescere», «fare più grande» (deriva infatti
dalla stessa radice di magis), ha
finito per acquisire il senso prevalente di «sacrificare», «immolare»:
Servius, in Verg. Aen.
4.57: MACTANT verbum sacrorum, kat' eÙfhmismÒn dictum, ut adolere; nam ‘mactare’
proprie est ‘magis augere’[43].
Nell’azione rituale del sacrificio, percepito come vero e
proprio nutrimento degli dèi[44], si
perfeziona in tutta la sua dimensione bilaterale il rapporto di reciprocità
insito nella concezione romana di religio.
Di certo, aveva presente questa concezione della religio M. Tullio Cicerone, quando scriveva nel de legibus che gli dèi e gli uomini
appartengono alla medesima societas,
alla medesima civitas e che la loro
associazione riposa nella comunanza della legge: lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus[45].
I sacerdoti romani avevano operato ab antiquo partizioni
fondamentali in materia di sacrifici:
Cicero, De leg. 2.29:
Quod ad tempus ut sacrificiorum libamenta serventur fetusque pecorum quae dicta
in lege sunt, diligenter habenda ratio intercalandi est, quod institutum perite
a Numa, posteriorum pontificum neglegentia dissolutum est. Iam illud ex institutis pontificum et haruspicum non
mutandum est, quibus hostiis immolandum quoique deo, cui maioribus, cui
lactentibus, cui maribus, cui feminis.
Essi potevano consistere in offerte incruente di prodotti della
terra (libamina), oppure in sacrifici
cruenti di esseri animati (hostiae, victimae). Quanto al risultato che si
voleva conseguire, la pratica dei sacrifici cruenti erano ritenuta di gran
lunga superiore alla semplice offerta di libamina,
in ragione del radicato convincimento che il sangue delle vittime sacrificali,
versato nell’azione rituale, risultasse sommamente gradito alle divinità (e ai
defunti):
Servius Dan., in Verg. Aen. 3.67: Ideo autem lactis et sanguinis mentio facta
est, qui adfirmantur animae lacte et sanguine delectari. Varro quoque dicit
mulieres in exsequiis et luctu ideo solitas ora lacerare, ut sanguine ostenso
inferis satisfaciant, quare etiam institutum est, ut apud sepulcra et victimae
caedantur. Apud veteres etiam homines interficiebantur, sed mortuo Iunio Bruto
cum multae gentes ad eius funus captivos misissent, nepos illius eos qui missi
erant inter se conposuit, et sic pugnaverunt: et quod muneri missi erant, inde
munus appellatum.
Nello stesso tempo, al fine di assicurare ai fedeli la piena
conoscenza delle modalità di celebrazione dei sacrifici, i sacerdoti romani
fissarono con estrema precisione sia le regole rituali, sia le tipologie degli
animali sacrificabili alle diverse divinità; in tal modo, diventava possibile
per i cittadini vincere ogni scrupolo religioso e associare a ciascun dio la
vittima più idonea[46]. Si
andarono elaborando classificazioni sempre più rigorose delle vittime
sacrificali, pur nella generale tendenza alla semplificazione dei genera hostiarum. Sul finire dell’età
repubblicana, il grande giurista C. Trebazio Testa, autore di un’opera
intitolata de religionibus, aveva teorizzato che tali genera potessero ridursi sostanzialmente a due[47].
In genere, nella pratica religiosa corrente col termine hostiae si designavano gli animali
piccoli, quali maiali, capre, pecore; mentre erano denominati victimae tutti gli animali più grandi,
soprattutto tori e vacche. I pontefici poi, nella classificazione delle
vittime, tenevano conto dell’età, del sesso[48], del
colore, o anche dello scopo che si voleva conseguire con il sacrificio[49].
Naturalmente, le vittime dei sacrifici non dovevano avere difetti fisici (purae):
Macrobius, Sat. 3.5.6:
Eximii quoque in sacrificiis vocabulum non poeticum ™p…qeton, sed
sacerdotale nomen est. Veranius enim in
Pontificalibus quaestionibus docet eximias dictas hostias quae ad sacrificium
destinatae eximantur e grege, vel quod eximia specie quasi offerendae
numinibus eligantur[50].
Per questo, come leggiamo in Macrobio, che trascriveva
letteralmente un brano delle quaestiones
pontificales di Veranio, prima del sacrificio era necessario procedere ad
una verifica che dichiarasse tali vittime electae
(scelte), eximiae, egregiae (separate dal gregge) e quindi
idonee all’immolazione.
Nella dinamica del sacrificio assumeva un certo rilievo anche la
volontà dell’animale destinato all’immolazione. I pontefici romani
consideravano requisito necessario per la validità dell’offerta e dell’azione
rituale il fatto che la vittima manifestasse in qualche modo il proprio
consenso. Per questa ragione l’animale non poteva essere condotto a forza
presso l’ara, poiché ciò avrebbe rappresentato un pessimo auspicio per il buon
esito del sacrificio[51].
Sarà bene tornare alle tensioni universalistiche della religione
politeista romana ed alle sue costanti aperture nei confronti delle religioni
straniere. Per cogliere le motivazioni profonde dell’atteggiamento “tollerante”
dei governanti romani (o per meglio dire, dei principes civitatis), i
quali non disciplinavano, di norma, i riti e le cerimonie con cui i popoli
dell’Impero adoravano le proprie divinità.
Nella storia religiosa dell’Impero Romano le religioni straniere
ebbero straordinaria rilevanza; perfino i cosiddetti culti orientali o
misterici, che pure differivano notevolmente dai riti tradizionali della
religione politeista romana. Si trattava, com’è noto, di culti molto popolari
(anche fra i cittadini romani), quali il culto di Cibele, proveniente dall’Asia
Minore; di Giove Dolicheno, Giove Eliopolitano e Atargatide, provenienti dalla
Siria; di Iside e Serapide provenienti dall’Egitto; di Mitra, divinità di
origine persiana. Di solito questi culti conservavano evidenti connotati della
tradizione religiosa delle regioni di origine; avevano sacerdoti professionisti
non pubblici, ma assunti dalle comunità di fedeli; infine, lo scopo del culto era
rivolto non tanto a propiziare la vita
e la potenza della comunità politica romana, quanto piuttosto ad ottenere il
benessere del corpo e dell’anima del singolo fedele.
Riguardo all’universalismo della religione romana, sarà bene
partire da un dato quasi ovvio: per i popoli che non credevano all’esistenza di
un unico dio, non c’erano falsi dèi. Le basi dell’universalismo religioso
romano poggiavano proprio su questa concezione politeistica e multireligiosa,
propugnata dalla teologia e dallo ius sacrum dei sacerdoti
romani; concezione ben sintetizzata da Cicerone in un passo dell’orazione Pro
Flacco:
Sua cuique civitati religio, Laeli, est, nostra nobis[52].
Per quanto gli dèi delle diverse popolazioni non fossero
ritenuti tutti egualmente potenti, tutti però erano ritenuti veri in eguale
maniera. I pontefici romani aggiornavano costantemente, per includervi nuovi
dèi, le liste delle divinità conosciute[53], i nomina deorum dei libri pontificum. Grazie a questi scrupoli
religiosi verso tutti gli dèi, la religione politeista romana ignorava, quasi
del tutto, il proselitismo e l’intolleranza.
«Si elle se gardait bien de détruire la
religion des peuples vaincus, elle était bien plus éloignée encore de vouloir
leur imposer la sienne»[54].
Si spiega, in tal
modo, la condotta tenuta dai Romani nei confronti delle religioni straniere nel
corso della conquista dell’Impero: non distruggevano i templi, né proscrivevano
le divinità dei popoli sottomessi; la religio
consigliava di onorarle in maniera adeguata, al fine di volgere anche la loro
potenza a favore dell’imperium populi Romani.
A questo punto, va
detto con chiarezza che riguardo alla religione
politeista romana risultano del tutto inadeguati – e forse anche un poco
fuorvianti – i concetti moderni di «libertà
individuale», «isolamento» e «laicizzazione». Costituirebbe ugualmente un grave
errore metodologico, assumere come parametro categorie quali «tolleranza» o
«intolleranza», per quanto l’immagine della religione romana come religione
tollerante costituisca un motivo ormai accettato, in maniera quasi unanime,
dalla dottrina più recente.
La prospettiva dei sacerdoti romani era piuttosto quella di tutelare i
diritti degli dèi, mossi dalla preoccupazione di non violare, seppure
inconsapevolmente, aliquid divini iuris. Si voleva salvaguardare, insomma, soprattutto il diritto
degli dèi di essere adorati come essi stessi avevano prescritto. Da qui traeva
legittimità il diritto del singolo fedele di adorare la divinità secondo la
propria coscienza, cioè nella forma che a lui sembrava più necessaria. Grazie a
questa peculiare concezione della pax
deorum, la religione
politeista romana, nel corso di una storia millenaria, fu sempre in grado di
far coesistere nel suo ambito le esigenze cultuali particolaristiche del
Popolo romano e la tensione universalistica della sua teologia e del suo
diritto (divino e umano).
Del resto, le fonti
antiche testimoniano di una religione civica affatto esclusivista, fin dalla
sua fase primordiale; la stessa tradizione antica ricorda, al riguardo,
l'introduzione a Roma di numerosi culti "stranieri" già ad opera dei
re. A ben vedere, questa apertura originaria della religione romana si ricava
dalla stessa memoria storica dei pontefici, i quali presentavano la coesistenza
di culti patrii e peregrini[55]
– regolamentata naturalmente dalla scienza sacerdotale –, quale dato
originario, e fra i più caratteristici, della riforma religiosa
dell’antichissimo re Numa Pompilio. Altre prove di questa originaria
"apertura" cultuale della religione romana arcaica sono costituite
sia dal carattere molto risalente dell'influenza greca, sia da quegli
«italische Einflüsse», magistralmente studiati da Kurt Latte nel suo manuale
sulla religione romana[56].
Abbiamo già visto che una costante apertura religiosa verso
l’esterno era fortemente connaturata alla stessa concezione romana di pax deorum.
La religione politeista romana, nell'intero arco del suo sviluppo storico, appare
caratterizzata dalla costante esigenza (e preoccupazione) di integrare l’
“alieno" (divino o umano): dalle divinità dei vicini fino alle divinità
dei nemici, in cerchi concentrici sempre più larghi, che potenzialmente
abbracciavano l'intero spazio terrestre e, quindi, tutto il genere umano. Dai
documenti sacerdotali emergono numerose testimonianze e frammenti delle
“procedure operative” che hanno permesso ai sacerdoti di dare corpo a questa
vocazione universalistica. Per ragioni di brevità, mi limiterò a segnalare solo
alcuni esempi.
1.
Varro, De ling. Lat.
5.33: Ut nostri augures publici dixerunt, agrorum
sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus.
Romanus dictus unde Roma ab Rom<ul>o; Gabinus ab oppido Gabis; peregrinus
ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his servantur
auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo [quod] enim
ex agro Romano primum progrediebantur. Quocirca Gabinus quoque peregrinus, sed
quod auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus dictus ab
hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur[57].
Il primo frammento attiene alla distinzione dei genera agrorum elaborata dagli auguri publici populi Romani;
distinzione che possiamo leggere, appunto, nel passo appena citato del quinto
libro De lingua Latina di M. Terenzio Varrone. La divisione dello spazio
in cinque agrorum genera rappresenta un mirabile esempio della
semplicità, dell’efficacia interpretativa e delle potenzialità universalistiche
della scienza sacerdotale. Pur salvaguardando la centralità dell’ager romanus
(anche verso gli dèi), la classificazione degli agrorum genera
mostra una fortissima propensione teologica e giuridica ad instaurare rapporti
– tanto reali quanto potenziali – con la molteplicità degli spazi terrestri;
con gli homines che hanno relazioni a vario titolo con questi spazi; con
gli innumerevoli dèi che quegli spazi (e quanti li abitano) presiedono e
tutelano.
2
Cicero, De nat. deor. 1.84: At primum, quot hominum
linguae, tot nomina deorum; non enim ut tu Velleius, quocumque veneris, sic
idem in Italia Volcanus, idem in Africa, idem in Hispania. Deinde nominum non magnus numerus ne in pontificiis quidem nostris,
deorum autem innumerabilis[58].
3
Servius Dan., in Verg. Georg. 1.21: [dique deaeque
omnes post specialem invocationem transit ad generalitatem, ne quod numen
praetereat,] more pontificum, (per) quos
ritu veteri in omnibus sacris post speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod
fiebat, necesse erat invocari, generaliter omnia numina invocabantur.
I frammenti 2 (Cicero, De
nat. deor. 1.84) e 3 (Servius Dan., in
Vergilii Georgica 1.21) si riferiscono, invece, al collegio dei pontefici.
In De nat. deor. 1.84, Cicerone
attesta la rigorosa propensione dei pontefici romani a determinare, con la
maggiore certezza possibile, i nomina
deorum; divinità di cui tuttavia
sfuggiva alla conoscenza umana il dato numerico quantitativo. Il
frammento n. 3 si presenta in logica connessione col testo di Cicerone. Servio
Danielino riferisce all’antico mos pontificum una cautela rituale osservata
nelle solenni formule di preghiera rivolte agli dèi. Quasi ad esorcizzare
l'umana impossibilità di conoscere il numero degli dèi, i pontefici romani
prescrivevano al fedele di rivolgersi sempre ad generalitatem, ne quod numen praetereat, una volta pronunciata
l'invocazione alle divinità particolari onorate nella cerimonia. Non senza
ragione, proprio in questo antico mos
pontificum delle preghiere può
ravvisarsi la potenzialità
universalistica della religione politeista romana e la sua propensione
ad operare, fin dai primordia civitatis,
«una "apertura" illimitata» verso tutti gli dèi[59].
4
Festus, De verb. sign., v. Peregrina sacra, p. 268
L.: Peregrina sacra appellantur, quae
aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt † conata † [conlata
Gothofr.; coacta Augustin.], aut quae ob
quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex
Graecia Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt
accepta.
Il quarto frammento,
anch’esso riferibile al collegio dei pontefici, attiene al significato
teologico e cultuale, nonché alla concreta procedura operativa, dell'interpretatio Romana. Negli ultimi
decenni del Novecento, J.-L. Girard aveva dimostrato, in maniera assolutamente
convincente, che fu proprio l’interpretatio
Romana a consentire ai sacerdoti romani di conciliare l’assoluta fedeltà
alla religione nazionale, con la propensione all’apertura potenzialmente
illimitata verso i culti stranieri[60].
Grazie alla concreta procedura operativa dell’interpretatio Romana, i culti stranieri potevano di norma essere
integrati nel rituale romano, come ha sottolineato Sesto Pompeo Festo nella
definizione di peregrina sacra. A fondamento dell’interpretatio Romana stava un senso
“cosmico” e “politico” della religione, che si traduceva, secondo J. Bayet, nei
concetti di pax deorum e religio[61].
Mentre la propensione ad allargare la sfera degli dèi, e quindi dei rapporti
umani, fu una caratteristica congenita della religione politeista romana; ciò
determinava, necessariamente, un rapporto inscindibile tra «polythéisme et
pluralisme cultuel», poiché come ha scritto Robert Turcan: «Le polythéisme est
foncièrement étranger à l’esprit d’une “religion d’Etat”, puisqu’il implique la
possibilité d’un élargissement du panthéon à l’infini»[62].
5
Livius 5.21.3: Te
simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor ut nos victores in nostram
tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum
accipiat[63].
6
Macrobius, Sat. 3.9.6-9: Nam repperi in libro
quinto rerum reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in
cuiusdam Furii vetustissimo libro repperisse professus est. Est autem carmen huius
modi quo di evocantur cum oppugnatione civitas cingitur: “Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in
tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor
venerorque, veniamque a vobis peto ut vos populum civitatemque Carthaginiensem
deseratis, loca templa sacra urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis
eique populo civitatique metum formidinem oblivionem iniciatis, propitiique
Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis loca templa sacra urbs acceptior
probatiorque sit, mihique populoque Romano militibusque meis propitii sitis. Si
<haec> ita faceritis ut sciamus intellegamusque, voveo vobis templa
ludosque facturum”. In eadem verba hostias fieri oportet, auctoritatemque
videri extorum, ut ea promittant futura[64].
Gli ultimi due
frammenti proposti riguardano gli esempi più conosciuti di evocationes degli dèi del nemico[65].
Si tratta delle formule solenni concepite dai sacerdoti romani per l’evocatio delle divinità che proteggevano
due mortali nemici di Roma: la città etrusca di Veio e la metropoli africana
dell’impero dei Fenici d’Occidente, Cartagine. Non posso certo discutere, qui e
ora, le implicazioni teologiche e giuridiche della formula e del rito delle evocationes degli dèi del nemico;
basterà al riguardo richiamare i risultati conseguiti nel lavoro, ormai
fondamentale, di V. Basanoff[66].
Mi preme, invece, evidenziare ancora una volta, proprio nelle evocationes degli dèi del nemico, una
delle prove più significative della costante apertura religiosa verso l’esterno
della religione politeista romana; fortemente connaturata alla stessa
concezione di pax deorum elaborata dalla teologia e dal
diritto dei sacerdoti romani.
Nel sistema giuridico-religioso romano, sarebbe stato
improponibile interdire senza alcuna eccezione un culto, anche se straniero (pravae et externae religiones), poiché
una simile legislazione avrebbe contrastato con gli stessi principi della
religione politeista romana. Per questa ragione, il diritto romano, mentre
reprime le superstitiones[67], non
conosce divieti legali alla devozione personale verso qualsivoglia divinità. A
Roma, assai prima del progresso derivato dal sincretismo e dall’interpretatio Romana, la procedura dell’evocatio
e la consultazione dei libri Sibyllini avevano favorito
istituzionalmente l’integrazione delle divinità straniere fra gli dèi romani.
Per quanto, la loro naturalizzazione richiedesse evidentemente il gradimento
dei poteri pubblici, che qualche volta prendevano l’iniziativa anche in prima
persona[68].
Nella polemica anticristiana i tradizionalisti romani, ben
rappresentati nell’Octavius di
Minucio Felice dal discorso del pagano Cecilio Natale, sottolineavano quale
caratteristica peculiare della religione e dell’Impero Romano il rispetto per
gli dèi di tutti i popoli del mondo:
Minucius Felix, Octav.
6.2-3: Sic eorum potestas et auctoritas totius orbis ambitus occupavit, sic
imperium suum ultra solis vias et ipsius oceani limites propagavit, dum
exercent in armis virtutem religiosam, dum urbem muniunt sacrorum religionibus,
castis virginibus, multis honoribus ac nominibus sacerdotum, dum obsessi et
citra solum Capitolium capti colunt deos, quos alius iam sprevisset iratos, et
per Gallorum acies mirantium superstitionis audaciam pergunt telis inermes, sed
cultu religionis armati, dum captis in hostilibus moenibus adhuc ferociente
victoria numina victa venerantur, dum
undique hospites deos quaerunt et suos faciunt, dum aras extruunt [dum] etiam
ignotis numinibus et Manibus. Sic dum universarum gentium sacra suscipiunt,
etiam regna meruerunt[69].
Pur restando sempre fedele alle proprie divinità, il Popolo
Romano ha saputo venerare anche i numina
victa (cioè, le divinità dei popoli
sconfitti), nella costante apertura cultuale verso gli altri: dum undique hospites deos quaerunt et suos
faciunt. Da qui la convinzione di «aver meritato l’impero del mondo
accogliendo i culti di tutti i popoli».
K.W. HARL, Sacrifice
and Pagan belief in Fifth- and Sixth-Century Byzantium, in Past &
Present 128, 1990, 7 ss.; S. BRADBURY, Julian’s Pagan Revival and the Decline of Blood Sacrifice, in Phoenix 49, 1995, 331 ss.
Per la nozione di ius Romanum,
vedi ora P. CATALANO, Ius Romanum.
Note sulla formazione del concetto,
in La nozione di ‘Romano’ tra
cittadinanza e universalità [Da Roma alla Terza Roma, Studi II], Napoli
1984, 531 ss. [= ID., Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, Torino 1990, 53 ss.]. Quanto alla
«codificazione giustinianea del ius
Romanum commune», rinvio invece a S.
SCHIPANI, La codificazione del
diritto romano comune, Torino 1996, 3 ss.
Sull’imperatore Costantino,
tra le opere di carattere generale, R.
PARIBENI, Storia di Roma. Da
Diocleziano alla caduta dell’impero d’occidente, Bologna 1941, 47 ss.; F. LOT, La fin du monde antique et le début du Moyen Age, Paris 1951; S. MAZZARINO, L’impero romano, III, Roma-Bari 1976, 651 ss. Studi più tematici
sulla figura del grande imperatore: J.
BURCKHARDT, Die Zeit Konstantins
des Grossen, 4a ed., Leipzig 1924, in part. IX. Abschnitt: «Konstantin und
die Kirche», 373 ss. [= ID., L’età di Costantino il Grande, trad. it.
di P. Chiarini, Introduzione di S. Mazzarino, Roma 1970, 355 ss.]; A. PIGANIOL, L’empereur Constantin, Paris 1932; J. VOGT, Constantin
der Grosse und sein Jahrhundert, München 1949; C. CALDERONE, Costantino e
il Cattolicesimo, Firenze 1962; R.T.
MACMULLEN, Constantine, London
1987. Per gli aspetti pubblicistici e costituzionali, basterà rinviare a P. DE FRANCISCI, Storia del diritto romano, III, Roma 1943, 82 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, V, 2a ed., Napoli 1975, 110 ss.
(ivi altra bibliografia); per gli aspetti privatistici, vedi invece M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino. Persone e famiglia,
Milano 1938, 7 ss. Quanto all’atteggiamento dell’imperatore verso le due
religioni, cfr. N. TURCHI, La religione di Roma antica, Bologna
1939, 302 s.; A.
ALFÖLDI, The Conversion of Constantine and Pagan Rome, trad. ingl. di H.
Mattingly, Oxford 1948 [vedi anche in italiano: Costantino tra Paganesimo e Cristianesimo, trad. di A. Fraschetti,
Roma-Bari 1976]. Fra i lavori recenti dedicati alla politica religiosa di Costantino,
vedi A. EHRHARDT, Constantin d. Gr. Religionspolitik
und Gesetzgebung, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte (Rom. Abt.) 72, 1955, 127 ss. [= Konstantin der Grosse, hrsg. von H. Kraft, Darmstadt 1974, 388
ss.]; J. VOGT, Toleranz und Intoleranz im constantinischen
Zeitalter: der Weg der lateinischen Apologetik, in Saeculum 19, 1968, 344 ss.; F.
AMARELLI, Vetustas-innovatio. Un’antitesi apparente nella legislazione
di Costantino, Napoli 1978, 21
ss.; R.P.C. HANSON, The Christian Attitude to Pagan Religions up
to the Time of Constantine the Great, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.23.2, Berlin-New
York 1980, in part. 960 ss.; T.D.
BARNES, Constantine and Eusebius, Cambridge,
Mass. 1981; ID., Constantine's Prohibition of Pagan Sacrifice,
in American Journal of Philology 105,
1984, 69 ss.; P.A. BARCELÓ, Die Religionspolitik Kaiser Constantins des Grossen vor der Schlacht an
der Milvischen Brücke (312), in Hermes
116, 1988, 76 ss.; R.M.
ERRINGTON, Constantine
and the Pagans, in Greek, Roman and
Byzantine Studies 29, 1988, 309 ss.; G.
HÄRTEL, Bemerkungen zur Religionspolitik Konstantins I, in Klio 71, 1989, 374 ss.; R. LEEB, Konstantin und Christus. Die Verchristlichung der imperialen Repräsentation unter
Konstantin der Grossen als Spiegel seiner Kirchenpolitik und seines
Selbstverständnisses als christlicher Kaiser, Berlin-New York 1992; S. BRADBURY,
Constantine and the
Problem of Anti-Pagan Legislation in the Fourth Century, in Classical Philology 89, 1994, 120 ss.; E. LEHMEIER-G. GOTTLIEB, Kaiser Konstantin und die Kirche. Zur
Anfänglichkeit eines Verhältnisses, in E
fontibus haurire. Beiträge zur römischen Geschichte und zu ihren
Hilfswissenschaften (Heinrich Chantraine zum 65. Geburtstag), hrsg. R. Günther und S. Rebenich,
Paderborn-München-Wien-Zürich 1994, 163 ss.; J. CURRAN, Constantine and the Ancient Cults of Rome:
the Legal Evidence, in Greece &
Rome 43, 1996, 68 ss.
Valore della costituzione
CTh. 16.10.2, P.O. CUNEO (a cura
di), Legislazione di Costantino II,
Costanzo II e Costante (337-361), Milano 1997, 88 s. (ivi altra
bibliografia); L. DE GIOVANNI, Costantino e il mondo pagano. Studi di
politica e legislazione, 2ª ed., Napoli 1982, 137 ss.; ID., Il libro XVI del Codice Teodosiano. Alle
origini della codificazione in tema di rapporti Chiesa-Stato, Napoli 1985,
128.
Sul frammento CTh. 16.1.2 =
C. 1.1.1, vedi L. DE GIOVANNI, Il libro XVI del Codice Teodosiano. Alle
origini della codificazione in tema di rapporti Chiesa-Stato, cit., 32 s.; G. CRIFÒ, La Chiesa e l’Impero nella storia del diritto da Costantino a
Giustiniano, in Cristianesimo e
istituzioni politiche. Da Costantino a Giustiniano, a cura di E. dal Covolo
e R. Uglione, Roma 1997, 189 ss. Quanto poi alle implicazioni giuridiche
sottese all’uso del sostantivo Romani,
rinvio al bel libro di M.P. BACCARI,
Cittadini popoli e comunione nella
legislazione dei secoli IV-VI, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto
Romano dell'Università di Sassari, 9] Torino 1996, 47 ss.
Sull’imperatore Teodosio I,
vedi per tutti: A. LIPPOLD, Theodosius der Grosse und seine Zeit, München 1980; J. CURRAN, From Jovian to Theodosius, in The
Cambridge Ancient History, XIII: The Late
Empire, A.D. 337-425, ed. by A. Cameron-P. Garnsey, Cambridge 1998, 101 ss.; sui successori del
grande imperatore cristiano, R.C.
BLOCKLEY, The Dynasty of
Theodosius, ibidem, 111 ss. Per
la politica religiosa di questo imperatore, cfr. fra gli altri: J. GAUDEMET, La condamnation des pratiques païennes en 391, in Epektasis. Mélanges patristiques offerts au
Cardinal Jean Danielou, Paris 1972, 597 ss. [= ID., Etudes de droit
romain, I. Sources et théorie générale du droit, Napoli 1979, 251 ss.]; W. WALDSTEIN, Ecclesia in re publica,
in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte (Rom. Abt.) 100,
1983, 542 ss.; H.
BELLEN, Christianissimus Imperator. Zur Christianisierung der römischen Kaiserideologie von Constantin bis
Theodosius, in E fontibus haurire.
Beiträge zur römischen Geschichte und zu ihren Hilfswissenschaften, cit., 3
ss.; R. KLEIN, Theodosius der Grosse und die christliche
Kirche, in Eos 82, 1994, 85 ss.; R.M. ERRINGTON, Church and State in the First Years of
Theodosius I, in Chiron 27, 1997,
21 ss.; ID., Christian Accounts of the Religious Legislation of Theodosius I, in
Klio 79, 1997, 398 ss.
§ 2.
Sulla
pietas G. STÜBLER, Die
Religiosität des Livius, Stuttgart-Berlin 1941, 93; più recente D.S. LEVENE, Religion in Livy, Leiden-New York-Köln 1993, 174 ss.; G.B. MILES, Livy. Reconstructing Early Rome, Ithaca-London 1995, 79 ss. Quanto alla
fides: M.-L.
Deißmann-Merten, Fides Romana bei Livius,
Diss. 1964, Frankfurt am Main 1965;
W. FLURL, Deditio in fidem. Untersuchungen zu Livius und Polybios, Diss. München 1969, 127 ss.; P. BOYANCÉ, Études sur la religion romaine, Rome
1972, 105 ss. [Fides romana et la vie internationale], 135 ss. [Les
Romains, peuple de la Fides]; K.-J. Hölkeskamp, Fides - deditio in fidem - dextra
data et accepta: Recht, Religion und Ritual in Rom, in The Roman
middle republic. Politics,
religion, and historiography c. 400 - 133 B.C., edited by C.
Bruun, Rome 2000, 223 ss. Fides
e pietas vedi T.J. MOORE, Artistry
and Ideology: Livy’s Vocabulary of Virtue, Frankfurt am Main 1989, in part.
35 ss., 56 ss.
Visione complessiva delle concezioni religiose del
sommo annalista romano: G. STÜBLER,
Die Religiosität des Livius, cit.; I. KAJANTO, God and fate in Livy, Turku 1957; A.
PASTORINO, Religiosità romana
dalle Storie di Titus Livius, Torino 1961; W. LIEBESCHUETZ, The
Religious position of Livy’s History, in The Journal of Roman Studies 67, 1967, 45 ss.; D.S. LEVENE, Religion in Livy, cit. Per le formule di preghiera,
vedi invece F.V. HICKSON, Roman prayer language: Livy and the Aeneid
of Virgil, Stuttgart 1993.
G. SCHERILLO, Il diritto
pubblico romano in Titus Livius, in Aa.Vv.,
Liviana, Milano 1943, 79 ss., ha
sottolineato, a ragione, la notevole rilevanza dei libri ab urbe condita del grande annalista, quale fonte
privilegiata per la conoscenza della complessa materia dello ius publicum in età repubblicana; nello
stesso senso C.St. TOMULESCU, La valeur juridique de l'histoire de Tite-Live, in Labeo 21, 1975, 295 ss.
Caratterizzazione liviana
della città di Roma come luogo massimamente votato alla religione in A. FERRABINO, Urbs in aeternum condita, Padova 1942; J. VOGT, Römischer Glaube
und römisches Weltreich, Padova 1943. Per quanto riguarda, invece, più
specificamente l’ideologia, vedi H. HAFFTER,
Rom und römische Ideologie bei Livius,
in Gymnasium 71, 1964, 236 ss. [= ID., Römische Politik und römische Politiker,
Heidelberg 1967, 74 ss.]; M. MAZZA,
Storia e ideologia in Livio. Per un'analisi storiografica della
‘praefatio’ ai ‘libri ab urbe condita’, Catania 1966, in part. 129 ss.; G. MILES, Maiores, Conditores, and Livy's Perspective of the Past, in
Transactions of the American Philological
Association 118, 1988, 185 ss.; B.
FEICHTINGER, Ad maiorem gloriam Romae.
Ideologie und Fiktion in der Historiographie des Livius”, in Latomus
51, 1992, 3 ss.
Tensioni universalistiche
della religione romana e costanti “aperture” cultuali verso l’esterno: F. Sini, Impero Romano e religioni
straniere: riflessioni in tema di universalismo e “tolleranza” nella religione
politeista romana, in Sandalion.
Quaderni di cultura classica, cristiana e medievale 21-22, 1998-1999
[pubbl. 2001], 57 ss.; Id., Sua
cuique civitati religio. Religione e
diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 44 ss.; Id., Dai documenti dei sacerdoti
romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e del diritto pubblico di
Roma, in Diritto @ Storia 2,
Marzo 2003, < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Dai-Documenti.htm > ; Id., Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su
‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in La Condition des “autres” dans les systèmes juridiques de la
Méditerranée, sous la direction de F.
Castro et P. Catalano,
Paris 2001 [pubbl. 2004], 59 ss.
§ 3.
Per
la definizione del concetto di pax deorum:
H. FUCHS, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum
neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, 186 ss.; ampi riferimenti
alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla in P. VOCI, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, 49 ss. [= ID., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, 226 ss.]; ai quali sono
da aggiungere: J. BAYET, La religion romaine. Histoire
politique et psychologique (1957),
2a ed., Paris 1969 [rist. 1976], 57 ss. [= ID., La religione romana. Storia
politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino
1959 (rist. 1992), 59 ss.]; M. SORDI,
Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in AA.VV., La pace nel mondo antico, Milano 1985, 146 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di pax
e pax deorum, in Concezioni della pace. Seminario 21 aprile 1988 [Da Roma alla Terza
Roma, Studi - VI], a cura di P. Catalano e P. Siniscalco, Roma 2006, 39 ss.; Id., Mito e storia nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, 85
ss. (Appendice I: «Tempo della città e pax
deorum: l'infissione del clavus
annalis»). Vedi, ora, anche F. Santangelo, Pax
deorum and Pontiffs, in J.H. Richardson-F. Santangelo (eds.), Priests and State in the Roman World, Stuttgart 2011, 161
ss.
Ho trattato di pax deorum
in alcuni dei miei studi, che cito qui di seguito, anche per i costanti
aggiornamenti bibliografici: F. SINI,
Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico",
[Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 7]
Sassari 1991, 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente) [il libro, ora, è
consultabile anche on line; per il capitolo che qui interessa nel sito: http://www.dirittoestoria.it/dirittoromano/Sini-Bellum-Nefandum-Cap-V.htm ]; ID., La negazione nel linguaggio precettivo dei sacerdoti romani, in Il Linguaggio dei Giuristi Romani. Atti del
Convegno Internazionale di Studi, Lecce, 5-6 dicembre 1994, a cura di O.
BIANCO e S. TAFARO, [Università di Lecce – Dipartimento di Scienze
dell’Antichità. Studi di Filologia e Letteratura 5, 1999] Galatina 2000, 176
ss.; ID., Sua cuique civitati
religio. Religione e diritto pubblico in
Roma antica, cit., 167 ss., 262 ss.; Id.,
Люди
и боги в
римской
религиозно-юридической
системе: pax deorum,
время богов,
жертвоприношения = Uomini e Dèi nel sistema
giuridico-religioso romano: Pax deorum, tempo degli Dèi,
sacrifici (trad. in lingua russa a cura di M. Tchelintseva), in Ius Antiquum-Drevnee Pravo 8, Moskva, 2001, 8-30); Id., Aspetti giuridici e rituali
della religione romana: sacrifici, vittime e interpretazioni dei sacerdoti,
in Aa.Vv., Poteri religiosi e
istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente, Torino 2003, 19 ss.; Id., «Fetiales, quod fidei
publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto
internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis, pax),
in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e
contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A.
Burdese. (Padova - Venezia - Treviso, 14-15-16 giugno 2001), a cura di L.
GAROFALO, III, Padova 2003, 535 ss.; Id.,
Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso
romano, in Seminari di storia e di
diritto, III. «Guerra giusta»? La
metamorfosi di un concetto antico, a cura di A. CALORE, Milano 2003, 71
ss.; Id., Bellum, fas, nefas: aspetti religiosi e giuridici della guerra
(e della pace) in Roma antica, in Diritto @ Storia 4,
2005, § 9 < http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Sini-Guerra-pace-Roma-antica.htm >; ID., Diritto e pax deorum in Roma antica, in Diritto @ Storia 5, 2006 < http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm >
(trad. russa a cura di L.L. Kofanov, E.V. Liapustina, A.M. Smorchkov: Ф. СИНИ, Право
и pax deorum в
древнем Риме, in Antiquum-Drevnee
Pravo 19, Moskva 2007, 8-36 < http://www.dirittoestoria.it/iusantiquum/articles/Sini-Ius-Antiquum-19-2007.htm#_ftn127
>); Id., Pax deorum e sistema giuridico-religioso romano, in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di Luigi Labruna, VII,
Napoli 2007, 5165 ss.; Id., Religione
e poteri del popolo in Roma repubblicana, in Diritto @ Storia 6, 2007
(ma on line febbraio 2008) § 4 < http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Sini-Religione-poteri-Popolo-Roma-repubblicana.htm >; Id.,
La règle «iniussu populi
voveri non posse»: le peuple et la religion dans la Rome républicaine,
in Diritto @ Storia 9, 2010 (on line febbraio 2011) § 3 <
http://www.dirittoestoria.it/9/Tradizione-Romana/Sini-Iniussu-populi-voveri-non-posse.htm
>.
Sull’antitesi fas/nefas:
F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico",
cit., 83 ss. [il libro, ora, è consultabile anche on line; per il capitolo che
qui interessa nel sito: http://www.dirittoestoria.it/dirittoromano/Sini-Bellum-Nefandum-Cap-II.htm].
Ho utilizzato l’espressione
«sistema giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base
delle motivazioni offerte da P.
CATALANO, Linee del sistema
sovrannazionale romano, Torino 1965, 30 ss., in part. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia,
in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 445 s.; Id., Diritto e persone.
Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 57; con il
quale concorda, in parte, anche G. LOMBARDI,
Persecuzioni, laicità, libertà religiosa.
Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis Humanae'', Roma 1991, 34 s. La
validità del concetto di «ordinamento giuridico» viene ancora riaffermata negli
ultimi scritti di R. ORESTANO: Diritto. Incontri e scontri, Bologna
1981, 395 ss.; ID., Le nozioni di ordinamento giuridico e di
esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, 959 ss., in part.
964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano,
Bologna 1987, 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. CERAMI, Potere ed
ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, 10
ss.; e parzialmente da A. GUARINO,
L’ordinamento giuridico romano, 5ª
ed., Napoli 1990, 56 s.
Le varie ‘fondazioni’, di cui
Roma sarebbe stata oggetto in epoche diverse, sono state studiate da A. GRANDAZZI, La fondation de Rome. Réflexion sur l’histoire, Paris 1991; di cui
vedi, in part. 195, dove lo studioso francese sostiene che i Romani ebbero
piena coscienza di questo «recommencement perpétuel» che aveva caratterizzato
la storia della loro città.
Le implicazioni giuridiche e
politiche del concetto di civitas augescens, con particolare riguardo alla
raccolta di iura ordinata
dall’imperatore Giustiniano, sono state ben delineate da P. CATALANO, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano,
cit., XIV s. Sulla stessa linea
interpretativa, vedi M.P. BACCARI,
Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996], 759 ss.; EAD., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI,
cit., 47 ss.
Sul rapporto tra l’imperium sine fine di Aen. 1.278 e l’eternità di Roma, vedi P. BOYANCÉ, La religion de Virgile, Paris 1963, 54, per il quale proprio
sull’annuncio Imperium sine fine dedi
«sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu suprême repose pour ainsi
dire toute l’oeuvre». Già i commentari antichi (cfr. Servius, in Verg. Aen. 1.278) avevano stabilito
un nesso ben preciso tra l’imperium sine
fine e l’eternità di Roma; lo stesso orientamento si registra nella maggior
parte della dottrina contemporanea. Tuttavia, ad un esame più attento, il verso
non sembra avere univoco senso temporale. Lo interpretano in senso
spazio/temporale sia G. PICCALUGA, Terminus. I segni di confine nella religione
romana, Roma 1974, 209; sia R.
TURCAN, Rome éternelle et les
conceptions gréco-romains de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca [Da Roma alla Terza Roma, Studi I],
Napoli 1983, 16; mentre A. MASTINO, Orbis, kosmos, oikoumene: aspetti spaziali
dell’idea dell’impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e
profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi III] Napoli 1986, 71, sostiene
che nei due versi Aen. 1.278-279 è
attestata la propensione augustea a superare tutti i limiti di spazio:
«l’impero romano era almeno teoricamente un imperium
sine fine, che non aveva frontiere». Per
la bibliografia sul poema virgiliano, mi pare utile rinviare a W. SUERBAUM, Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie
mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.31.1, Berlin-New
York 1980, 3 ss. Quanto alla divini et
humani iuris scientia di Virgilio, vedi invece F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto
internazionale antico", cit., 17 ss. [il libro, ora, è consultabile
anche on line; per il capitolo che qui interessa nel sito: http://www.dirittoestoria.it/dirittoromano/Sini-Bellum-Nefandum-Cap-I.htm].
Sull’attività storiografica
dei pontefici romani e sull'influenza di essa per il formarsi della tradizione
annalistica, v. B.W. FRIER, 'Libri Annales pontificum Maximorum': the
Origins of the Annalistic Tradition, Roma 1979 [2ª ed. Ann Arbor 1998]; J.
RÜPKE, Livius, Priesternamen und
die annales maximi, in Klio 75, 1993, 155 ss. Sul nutrito
elenco di prodigi presenti nell'opera liviana, certo improntati – direttamente
o indirettamente – agli Annales Maximi,
v. E. DE SAINT-DENIS, Les énumérations de prodiges dans l'oeuvre
de Tite-Live, in Revue de Philologie
16, 1942, 126 ss.; J.Ph. PACKARD,
Official notices in Livy's fourth decade:
style and treatment, Ann Arbor 1970, 125 ss.; E. RAWSON, Prodigy list
and the use of Annales Maximi,
in The Classical Quarterly 21, 1971,
158 ss.; B. MACBAIN, Prodigy and expiation: a study in religion
and politics in Republican Rome, Bruxelles 1982, 82 ss. [Appendix A: index of prodigies].
Riguardo al frammento di Ulpiano
D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo
institutionum), mi pare che possano ormai considerarsi superate sia
affermazioni contrarie alla genuinità del testo (F. SCHULZ, Prinzipien
des römischen Rechts, München 1934; qui cit. in trad. it.: I principii del diritto romano,
trad. it. a cura di V. Arangio-Ruiz,
Firenze 1949, 23 nt. 33; U. von LÜBTOW,
Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt am
Main 1955, 618: «Die merkwürdige Dreiteilung des ius publicum: in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus stammt
sicherlich nicht von Ulpian»), sia dubbi e perplessità (B. ALBANESE, Premessa
allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, 192 nt. 295).
Favorevoli all'autenticità del testo, fra gli altri: F. STELLA MARANCA, Il
diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine
politiche, in ID., Scritti vari di diritto romano, Bari
1931, 102 ss.; SILVIO ROMANO, La distinzione fra ius publicum e ius privatum nella giurisprudenza
romana, in Scritti giuridici in onore
di Santi Romano, IV, Padova 1940, 157 ss.; G. NOCERA, Ius publicum
(D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae
iuris, Roma 1946, 152 ss.: «Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione
romana» (161); ID., Il binomio pubblico-privato nella storia del
diritto, Napoli 1989, 171 ss.; F.
WIEACKER, Doppelexemplare der
Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélanges De Visscher, II, Bruxelles 1949, 585, il quale sostiene
che la tripartizione sacra, sacerdotes,
magistratus è di inconfondibile stampo repubblicano; A. CARCATERRA, L’analisi del ius e della lex come elementi primi. Celso, Ulpiano,
Modestino, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 46, 1980, 272 ss.; G.
ARICÒ ANSELMO, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e
Cicerone, in Annali del Seminario
Giuridico dell'Università di Palermo 37, 1983, 447 ss., in part. 461 ss.;
H. ANKUM, La noción de ius publicum en derecho romano, in Anuario de Historia del Derecho Español
53, 1983, 524 ss.; M. KASER, Ius
publicum und ius privatum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte (R. A.) 103, 1986, 6 ss.; P. STEIN, Ulpian and
the Distinction between ius publicum and ius privatum, in Collatio iuris Romani. études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de
son 65ème anniversaire, II,
Amsterdam 1995, 499 ss.; V. MAROTTA,
Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000,
153 ss.
§ 4.
Su
religio sono da vedere H. FUGIER, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris
1963, 172 ss.; é. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2. Pouvoir,
droit, religion, Paris 1969, 265
ss.; H. WAGENVOORT, Wesenszüge altrömischer Religion, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
I.2, Berlin-New York 1972, 348 ss. [ripubblicato col titolo Characteristic Traits of Ancient Roman
Religion, in ID., Pietas. Selected Studies in Roman Religion,
Leiden 1980, 223 ss.]; G. LIEBERG,
Considerazioni sull'etimologia e sul
significato di religio, in Rivista di
Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, 34 ss.; R. MUTH, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 290 ss.; R. SCHILLING, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in ID., Rites, cultes, dieux de Rome, Paris 1979, 30 ss.; E. MONTANARI, v. Religio, in Enciclopedia
Virgiliana, IV, Roma 1988, 423 ss.
Le
concezioni religiose di Cicerone sono state studiate da M. VAN DEN BRUWAENE, La
théologie de Cicéron, Louvain 1937; da vedere anche: P. DEFOURNY, Les fondements de la religion d’après Cicéron, in Les études
Classiques 22, 1954, 241 ss., 366 ss.; R.D.
SWEENEY, Sacra in the Philosophic
Works of Cicero, in Orpheus 12,
1965, 99 ss.; J. GUILLÉN, Dios y los dioses en Cicerón, in Helmantica 25, 1974, 511 ss.; J. KROYMANN, Cicero und die römische Religion, in Ciceroniana. Hommages à Kazimierz Kumaniecki, Leiden 1975, 116 ss.;
L. TROIANI, Cicerone e la religione, in Rivista
Storica Italiana 96, 1984, 920 ss.; C.
BERGEMANN, Politik und Religion im
spätrepublikanischer Rom, Stuttgart 1992. Sul passo de
nat. deor. 2.8, C. BAILEY, Phases in the Religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn., 1972], 274 s.; M. HUMBERT, Droit et
religion dans la Rome antique, in Mélanges
Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, 196 s.; ma cfr. anche R. TURCAN, Religion romaine. 2. Le culte,
Leiden-New York-København-Köln 1988, 5 s.
Su
C. Aurelio Cotta, cfr. G.W.R. ARDLEY, Cotta and the Theologians, in
Prudentia 5, 1973, 33 ss.; W. HEILMANN, Auctoritas der Tradition und Ratio im Widerstreit. Zur Position des Cotta in Ciceros De natura deorum (3,5 und 3,51f.), in Der Altsprachliche Unterricht 36, 1994,
Heft 6, 23 ss.
Per
quanto attiene all’opera sallustiana e al contesto in cui maturò la “congiura”,
vedi: Z. YAVETZ, The Failure of Catiline's Conspiracy, in
Historia 12, 1963, 485 ss.; W. WIMMEL, Die zeitlichen Vorwegnahmen in Sallusts Catilina, in Hermes 95, 1967, 192 ss.; E.J. PHILLIPS, Catiline's Conspiracy, in Historia
25, 1976, 441 ss.; H.-J. GLÜCKLICH,
Gute und schlechte Triebe in Sallusts Catilinae coniuratio, in Der altsprachliche Unterricht 31, 1988, Heft 5, 23 ss.; W. DAHLHEIM, Die Not des Staates und das Recht des Bürgers. Die
Verschwörung des Catilina (63/62 v.Chr.), in Macht und
Recht. Grosse Prozesse in der Geschichte, hrsg. von A. Demandt, München
1990, 27 ss.; A. DRUMMOND, Law, politics and power. Sallust and the
execution of the Catilinarian conspirators, [Historia. Einzelschriften, 93]
Stuttgart 1995; G. PHILIPP, Gedanken zum Prooemium und zur
Charakterisierung Catilinas in Sallusts Coniuratio Catilinae, in Die Antike und
ihre Vermittlung. Festschrift für Friedrich Maier zum 60. Geburtstag,
München 1995, 137 ss.; A. GIOVANNINI,
Catilina et le problème des dettes,
in Leaders and Masses in the Roman World.
Studies in Honor of Zvi Yavetz, Leiden-New York-Köln 1995, 15 ss.; A.T. WILKINS, Villain or Hero. Sallust's Portrayal of Catiline, New York 1996.
Fra la sterminata bibliografia dedicata alla figura e
all’opera di Sallustio: G. FUNAIOLI,
v. C. Sallustius Crispus, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft, I A 2, Stuttgart 1920, coll.1913
ss.; W. SCHUR, Sallust als Historiker, Stuttgart 1934; D.C. EARL, The Political Thought of Sallust, Cambridge 1961; K.
HANELL, Bemerkungen zu der
politischen Terminologie des Sallustius, in Eranos 43, 1945, 263 ss. [ripubblicato in Das Staatsdenken der Römer, hrsg. von
Richard Klein, Wege der Forschung, Bd. 46,
Darmstadt 1966, 500 ss.]; R. SYME,
Sallust, Berkeley 1964 [= ID., Sallustio, trad. it. di S. Galli, Brescia 1968]; A. LA PENNA,
Sallustio e la "rivoluzione"
romana, Milano 1968; K.-E. PETZOLD,
Der politische Standort des Sallust,
in Chiron 1, 1971, 219 ss.; S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II.2, 4ª ed., Roma-Bari 1974, 3 ss.; J. MALITZ, Ambitio mala. Studien
zur politischen Biographie des Sallust, Bonn 1975; V.
PÖSCHL, Sallust, 2ª ed.,
Darmstadt 1981; K. BÜCHNER, Sallust, 2ª ed., Heidelberg 1982. Per
maggiori informazioni rinvio a L. DI
SALVO, Nota bibliografica, in Opere di Caio Sallustio Crispo, 2ª ed.,
a cura di P. Frassinetti e L. Di Salvo, Torino 1991, 29 ss.
Sui temi della decadenza e
del rapporto tra espansione e crisi delle istituzioni repubblicane nella
visione storica di Sallustio, vedi fra gli altri: C. PERL, Sallust und
die Krise der römischen Republik, in Philologus
113, 1969, 201 ss.; E. KOESTERMANN,
Das Problem der römischen Dekadenz bei
Sallust und Tacitus, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, I.3, Berlin-New York 1973, 786 ss.; K. BRINGMANN, Weltherrschaft und innere Krise Roms im Spiegel der
Geschichtsschreibung des zweiten und ersten Jahrhunderts v.Chr., in Antike und Abendland 23, 1977, 28 ss.; C. VENTURINI, Luxus e avaritia nell’opera di
Sallustio, in Athenaeum 57, 1979,
277 ss.; J.M. ALONSO-NUÑEZ, La crisi in Sallustio, in La rivoluzione romana, inchiesta tra gli
antichisti, Napoli 1982, 208 ss.; H.
WOLFF, Bemerkungen zu Sallusts
Deutung der Krise der Republik, in Klassisches
Altertum, Spätantike und frühes Christentum. Adolf Lippold zum 65. Geburtstag gewidmet, Würzburg 1993, 163 ss.; K. HELDMANN, Sallust
über die römische Weltherrschaft. Ein Geschichtsmodell im Catilina und seine
Tradition in der hellenistischen Historiographie, Stuttgart 1993; E. SCHÜTRUMPF, Die Depravierung Roms nach den Erfolgen des Imperiums bei Sallust, Bellum Catilinae Kap. 10 - philosophische Reminiszenzen, in Imperium Romanum. Studien zu Geschichte und Rezeption. Festschrift für
Karl Christ zum 75. Geburtstag, Stuttgart 1998, 674 ss.
Quanto
agli aspetti biografici, vedi R. HELM,
v. Valerius Maximus, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, VIII A 1, Stuttgart 1955, coll. 90
ss.; R. Faranda, Introduzione,
a Valerio Massimo, Detti e fatti
memorabili, a cura di R. F., 1ª ed. 1971, rist. Torino 1976, 9
ss. (ivi anche la bibliografia precedente).
Edizioni recenti dell’opera
di Valerio Massimo sono quelle curate da R.
COMBÈS, Valère Maxime. Faits et
Dits Mémorables, Voll. I-II (libri I-III, IV-VI), Paris 1995, 1997; e da J. BRISCOE, Valeri Maximi Facta et dicta memorabilia. 2 Voll.,
Stuttgart-Leipzig 1998.
Fra gli studi degli ultimi
decenni (ma resta ancora utile il saggio di A.
Klotz, Studien zu Valerius Maximus
und den Exempla [Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der
Wissenschaften, Philosophisch-Historische Abteilung] München 1942) da vedere: F. Römer, Zum Aufbau der Exempelsammlung des Valerius Maximus, in Wiener Studien 103, 1990, 99 ss.; W.M. Bloomer, Valerius Maximus and the Rhetoric of the new Nobility, London 1992;
C. SKIDMORE, Practical Ethics for Roman Gentlemen. The Work of Valerius Maximus,
Exeter 1996; i contributi raccolti da J.-M.
DAVID, in Valeurs et mémoire à
Rome. Valère Maxime ou la vertu recomposée, Paris 1998 (saggi, oltre che
dello stesso David, di Y. LEHMANN, C. LOUTSCH,
M. COUDRY, M. CHASSIGNET, M. HUMM, A. JACQUEMIN, M.L. FREYBURGER); infine H.-F. MUELLER, Roman Religion in Valerius Maximus,
London and New York 2002; consultabile in formato pdf ora anche on line nel
sito internet: https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwiEw_LU-fPTAhVqBcAKHdQ-BMUQFggzMAA&url=http%3A%2F%2Fwww.e-reading.club%2Fbookreader.php%2F136035%2FRoman_Religion_in_Valerius_Maximus.pdf&usg=AFQjCNGyoZIDmubcoqkKt9a7UvIz0r9yVA
(scaricato il 1 maggio 2012).
Fra la bibliografia su
Tertulliano, basterà citare R. BRAUN, "Deus Christianorum". Recherches sur le vocabulaire doctrinal de
Tertullien, Paris 1962; R. KLEIN, Tertullian und das römische Reich,
Heidelberg 1968; J.-C. FREDOUILLE, Tertullien et la conversion de la culture antique, Paris 1972; C. RAMBAUX, Tertullien face aux morales des trois premiers siècles, Paris 1979;
T.D. BARNES, Tertullian. A
historical and literary study, 2ª ed., Oxford 1985.
Alla sua opera apologetica
sono dedicati i lavori di C. BECKER,
Tertullians Apologeticum. Werden und
Leistung, München 1954; e di P.
FRASSINETTI, Tertulliano e l'“Apologetico”, Genova 1974.
Per lo studio dei riferimenti
a nozioni giuridiche romane e del vocabolario giuridico di Tertulliano, vedi P. VITTON, I concetti giuridici nelle opere di Tertulliano, Roma 1924; A. BECK,
Römisches Recht bei Tertullian und
Cyprian. Eine Studie zur frühen Kirchenrechtsgeschichte, (1930) rist. Aalen 1967, in part. 49 ss., 60 ss.; J.K. STIRNIMANN, Die praescriptio Tertullians
im Lichte des römischen Rechts und der Theologie, Freiburg in der Schweiz
1949, in part. 39 ss.; R.D.
SIDER, Ancient Rhetoric and the
Art of Tertullian, Oxford 1971, 74 ss.; J.
GAUDEMET, Le droit romain dans la
littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle, [Ius Romanum Medii
Aevi, pars I, 3, b], Mediolani 1978, 15 ss.
Quanto alla possibile
identificazione del polemista cristiano con l’omonimo giurista, vedi W. KUNKEL, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Weimar 1952,
236 ss.
§ 5.
Sulla figura del primo
sovrano sabino di Roma, K. GLASER,
v. Numa Pompilius, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft, XV.1, Stuttgart 1936, coll. 1242
ss.; J. GAGÉ, Apollon romain. Essai sur le culte d’Apollon
et le développement du ritus Graecus
à Rome des origines à Auguste, Paris 1955, 297 ss.; S. ACCAME, I re di Roma
nella leggenda e nella storia, Napoli s.d. (1965), 206 ss.; R.M. OGILVIE, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965 [Reprinted 1998], 90
ss.; J. POUCET, Recherches sur la légende sabine des
origines de Rome, Louvain-Kinshasa 1967, 138 ss.; A. STORCHI MARINO, C.
Marcio Censorino, la lotta politica intorno al pontificato e la formazione
della tradizione liviana su Numa, in Aion
(Archeol.) 14, 1992, 105 ss.; V. BUCHHEIT, Numa-Pythagoras in der Deutung Ovids, in
Hermes 121, 1993, 77 ss.
Fra gli studiosi che si sono
occupati delle riforme religiose attribuite a Numa, da vedere: F. RIBEZZO, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma,
in Rendiconti dell'Accademia dei Lincei,
ser. VIII, vol. 5, 1950, 553 ss.; E.M.
HOOKER, The Significance of Numa's
Religious Reforms, in Numen 10, 1963,
87 ss.; F. DELLA CORTE, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, 3 ss.; M.A. LEVI, Il re Numa e i penetralia pontificum, in Rendiconti dell'Istituto Lombardo 115, 1981 (pubbl. 1984), 161 ss.; J. MARTINEZ PINNA, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, 97 ss.; J.
POUCET, Les origines de Rome. Tradition et histoire,
Bruxelles 1985, in part. 194 ss., 219 ss.; infine L. FASCIONE, Il mondo
nuovo. La costituzione romana nella 'Storia di Roma arcaica' di Dionigi
d'Alicarnasso, I parte, Napoli 1988, 128 ss.; G. CAPDEVILLE, Les
institutions religieuses de la Rome primitive d'après Denys d'Halicarnasse,
in Pallas 39, 1993, 153 ss.
Riguardo a Tito Livio
1.20.5-7, alcuni studiosi hanno ritenuto determinante la tripartizione: quibus hostiis, quibus diebus, ad quae
templa (così, ad esempio, il grande storico francese A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes
de l'ancienne Rome. Étude historique sur les institution religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], 60-61: «La
meilleure analyse des livres liturgiques serait donc l’étude complète du culte
romain. Mais notre plan est plus restreint. Oublions pour un moment la
variété des divers actes religieux, consécrations, vœux, expiations… etc., dont
nous aurons occasion de parler au chapitre suivant, et bornons-nous à remplir
avec quelques rares débris de textes mutilés le cadre indiqué par Tite-Live: quibus hostiis, quibus diebus, ad quae
templa sacra fierent»); altri, come lo storico della religione romana
NICOLA TURCHI, La religione di Roma
antica, cit., 41, propugnano una divisione della materia in cinque parti:
controllo rituale, responsi sull'attività circa le cose sacre e pubbliche,
controllo sul culto degli dèi patri e sull'accettazione dei culti stranieri,
controllo sul diritto funerario, espiazione e neutralizzazione di fulmini e
altri prodigi funesti; altri ancora – è il caso del linguista EMILIO PERUZZI, Origini di Roma, II. Le lettere, Bologna 1973, 165 s. – ritengono
di poter individuare anche il contenuto, o almeno l’ordine di disposizione
della materia, dei primitivi libri pontificum proprio sulla base del citato
passo di Tito Livio, «da cui traspare che la copia consegnata al pontefice era
divisa in sette capitoli»: la divisione delle materie prospettata dal Peruzzi è
la seguente: A) caelestes caerimoniae, comprendente i sacra dei collegi sacerdotali maggiori e
gli altri sacra pubblici e privati,
divise in cinque capitoli: 1 quibus hostiis, 2 quibus diebus, 3 ad quae
templa, 4 unde in eos sumptus pecunia, 5 cetera
publica privataque sacra; B) 6 iusta
funebria et ad placandos manes; C) 7 prodigia
fulminibus aliove quo visu missa.
Sui nomina deorum che si invocavano negli indigitamenta, risulta ancora utile il vecchio lavoro di I.A. AMBROSCH, Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; indispensabili,
invece, sia il libro di A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., 24 ss.; sia il manuale di J.
MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III.
Das Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an. New
York 1975], 7 ss. [= ID., Le culte chez les Romains, I, trad. di
M. Brissaud, Paris 1889, 10 ss.]. Adde: J. BAYET, Les feriae sementivae et les indigitations dans le culte de Cérès
et de Tellus, in Revue d'Histoire des
Religions 137, 1950, 172 ss. (ora in ID.,
Croyances et rites dans la Rome antique,
Paris 1971, 175 ss.); G.B. PIGHI,
La religione romana, Torino 1967, 45
ss.; A. PASTORINO, La religione romana, Milano 1973, 199
ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, 2a ed.,
Paris 1974, 50 ss. [= ID., La religione romana arcaica, trad. it. a
cura di F. Jesi, Milano 1977, 46 ss.]; R. DEL
PONTE, La religione dei Romani, Milano 1992, 78 ss.
Archivio
dei pontefici: J.-V. LE CLERCQ, Des journaux chez les Romains, recherches
précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments
des journaux de l’ancienne Rome, Paris 1838, in part. 127 ss.; I.A.
AMBROSCH: Studien und Andeutungen
im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, in part. 159
ss.; ID., Observationum de sacris Romanorum libris particula prima,
Vratislaviae 1840; E. LUEBBERTUS, Commentationes pontificales, Berolini
1859; A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l’ancienne Rome, cit., 19 ss.; P. PREIBISCH, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; ID.,
Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; J. MARQUARDT, Römische
Staatsverwaltung, III, cit., 299 ss. [= ID.,
Le culte chez les Romains, II, cit.,
358 ss.]; R. PETER, De Romanorum precationum carminibus, in Commentationes Philologae in honorem Augusti
Reifferscheidii, Vratislaviae 1884, 67 ss.; ID., Quaestionum
pontificalium specimen, Argentorati 1886; W. ROWOLDT, Librorum
pontificiorum Romanorum de caeremoniis sacrificiorum reliquiae, Halis
Saxonum 1906; C.W. WESTRUP, On the
Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College,
København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal WESTRUP nel quarto volume
della sua opera di maggiore impegno: Introduction
to early Roman Law. Comparative
sociological studies, IV. Sources and Methods,
London-Copenhagen 1950); G. ROHDE,
Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices, Berlin 1936, 14 ss.; R.
BESNIER, Les archives privées,
publiques et religieuses à Rome au temps des rois, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano 1953, 1 ss.; G.B.
PIGHI, La religione romana, cit., 41 ss.; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, 1. Libri
e commentarii, Sassari 1983, 17 ss.; J.A.
NORTH, The books of the pontifices,
in La mémoire perdue. Recherches sur l’administration romaine, Avant-propos de C. Moatti, Rome
1998, 45 ss.
Studi
sul sacrificio nella religione politeista romana: E. LUEBBERTUS, Commentationes
pontificales, cit., 99 ss.; A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit.,
98 ss.; J. MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III, cit.,
170 ss. [= ID., Le culte chez les Romains, I, cit., 205
ss.]; C. KRAUSE, De Romanorum hostiis quaestiones selectae,
Diss. Marpurgi 1894, 9 ss.; ID., v. Hostia,
in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, Suppl. V, Stuttgart 1931, coll. 236 ss.; C. BLECHER, De extispicio capita tria, in Religionsgeschichtliche
Versuche und Vorarbeiten 2, 1903-1905 [Gissae 1905], 171 ss.; G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, 410 ss.
Fra la dottrina più recente
sul sacrificio, sono da vedere: N.
TURCHI, La religione di Roma
antica, cit., 119 ss.; J. BAYET,
Histoire politique et psychologique de la
religion romaine, cit., 129 ss. [= ID.,
La religione romana. Storia politica e
psicologica, cit., 142 s.]; K. LATTE,
Römische Religionsgeschichte, München
1960, 209 ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., 549
ss. [= ID., La religione romana arcaica, cit., 477 ss.]; E. KADLETZ, Animal sacrifice in Greek and Roman religion, Diss. Washington
1976, Univ. Microfilms Inter., Ann Arbor, Mich. 1983; S.R.F. PRICE, Between
Man and God: Sacrifice in the Roman Imperial Cult, in The Journal of Roman Studies 70, 1980, 28 ss.; AA.VV., Le sacrifice dans l’Antiquité [Entretiens sur l’Antiquité classique,
27], Genève 1981; C. GROTTANELLI e N.F. PARISE, a cura di, Sacrificio
e società nel mondo antico, Roma-Bari 1988; R. TURCAN, Religion
romaine. 2. Le culte, cit., 4 ss.; da ultima, A.V. SIEBERT, Instrumenta
sacra. Untersuchungen zu römischen Opfer-, Kult- und
Priestergeräten, Berlin-New York
1999, 11 ss.
Quanto alla figura e
all’opera del giurista C. Trebazio Testa, vedi M. TALAMANCA, Trebazio
Testa fra retorica e diritto, in G.G. ARCHI, a cura di, Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana.
Atti di un Seminario. Firenze 27-28 maggio 1983, Milano 1985, 29 ss.; R.A. BAUMAN, Lawyers in Roman republican
politics: a study of the Roman jurists in their political setting in the Late Republic and Triumvirate,
München 1985, 123 ss.; M. D’ORTA, La giurisprudenza tra Repubblica e
Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa, Napoli 1990. Sul frammento di
Trebazio, cfr. E. LUEBBERTUS, Commentationes pontificales, cit., 103;
F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896
[rist. an. Roma 1964], 405 fr. 3; PH.E.
HUSCHKE - E. SECKEL - B. KÜBLER, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquias, editione sexta, I, Lipsiae 1908 [Reprint Leipzig
1988], 44 fr. 3.
Veranio Flacco (o Q. Veranio),
giurista di diritto sacro e antiquario dell’età augustea, scrisse anche
un’opera sugli auspici, intitolata probabilmente Auspiciorum libri: così
M. SCHANZ - C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed., München 1927 [rist.
an. 1966], 600. Più in generale, vedi E.A. GORDON, v. Veranius, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, VIII A 1, Stuttgart 1955, col. 937. I frammenti sono
stati raccolti da F.P. BREMER, Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1,
cit., 5 ss.; H. FUNAIOLI, Grammaticae Romanae Fragmenta, cit., 429
ss.; Ph.E. HUSCHKE - E. SECKEL - B. KÜBLER,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias,
I, cit., 50 ss.
§ 6.
Sguardo d’insieme: G. BOISSIER, La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, 3ª ed., Paris 1884,
334 ss.; W. LIEBESCHÜTZ, La religione romana, in A. SCHIAVONE (direz.), Storia di Roma, 2. L’impero mediterraneo, III.
La cultura e l’impero, Torino 1992, 237 ss.; J. SCHEID, Religione e
società, in A. SCHIAVONE
(direz.), Storia di Roma, 4. Caratteri
e morfologie, Torino 1989, 631 ss.
Fra
la più recente bibliografia sulle religioni orientali, vedi R. TURCAN, Sénèque et les
religions orientales, Paris 1967; R. DU
MESNIL DU BUISSON, Études sur les dieux phéniciens hérités par
l'Empire Romain, Leiden 1970; M.J. GREEN, Provincial Cults, in J. WACHER
(Ed.), The Roman World, London 1987,
785-795 [trad. it.: Il mondo di Roma
imperiale, III. Economia, società e
religione, Roma-Bari 1989, 285 ss.];
R. TURCAN, Les cultes orientaux
dans le monde romain, Paris 1989; M.
GAWLIKOWSKI, Les dieux de
Palmyre, in Aufstieg und Niedergang
der Römischen Welt, II.18.4, Berlin-New York 1990, 2605 ss.
Sul culto di Cibele: M.J. VERMASEREN, Cybele and Attis. The
myth and the cult,
London 1977; Ph. BORGEAUD, La Mère des
dieux. De Cybèle à la Vierge Marie,
Paris 1996; K. SUMMERS, Lucretius' Roman Cybele, in Cybele, Attis and related cults. Essays in
memory of M.J. Vermaseren, Leiden-New York-Köln 1996, 337 ss.; S.A. TAKACS, Magna deum
mater Idaea, Cybele, and Catullus' Attis,
Ibidem, 367 ss.
Sui culti di Giove Dolicheno
e Giove Eliopolitano: P. MERLAT, Jupiter Dolichenus. Essai d'interprétation
et de synthèse, Paris 1960; M.P.
SPEIDEL, The Religion of Iuppiter
Dolichenus in the Roman Army, Leiden 1978; Y. HAJJAR, Divinités
oraculaires et rites divinatoires en Syrie et en Phénicie à l’époque romaine,
in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, II.18.4, cit., 2242 ss.
Sul culto di Iside: R.E. WITT, Isis in the Graeco-Roman world, Ithaca,
N.Y 1971; F. LE CORUS, Isis, mythe et mystère, Paris 1977; F. SOLMSEN, Isis among the Greeks and Romans, Cambridge, Mass. - London 1979; S.A. TAKÁCS, Isis and Sarapis in the Roman World,
Leyde 1995; R. MERKELBACH, Isis Regina-Zeus Sarapis. Die
griechisch-ägyptische Religion nach den Quellen dargestellt, Stuttgart-Leipzig 1995.
Infine per quanto riguarda il
culto di Mitra: M. CLAUSS, Mithras. Kult und Mysterien, München 1990; R. TURCAN, Mithra et
le mithriacisme, Paris 1993; D.
FINGRUT, Mithraism. The Legacy of
the Roman Empire's Final Pagan State Religion, Toronto 1993; A. MASTROCINQUE, Studi sul mitraismo (Il mitraismo e la magia), Roma 1998; R. BECK, The Mysteries of
Mithras: A new Account of their Genesis, in The Journal of Roman Studies 88, 1998, 115 ss.
Per la nozione giuridica di
“impero” risulta ormai indispensabile il saggio di P. CATALANO, Alcuni
sviluppi del concetto giuridico di imperium populi Romani, in Popoli e spazio romano tra diritto e
profezia, cit., 649 ss.
Per una discussione sul
problema de «La libertà nella Roma arcaica e repubblicana», vedi G. LOMBARDI, L'editto di Milano del 313 e la laicità dello Stato, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
50, 1984, 10 ss., il quale si propone di «chiarire come la consapevolezza del
fondamento dell'autonomia dell'uomo sia sostanzialmente mutata a séguito del
diffondersi del cristianesimo» (11); ID.,
Persecuzioni, laicità, libertà religiosa.
Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis humanae", Roma 1991.
Sulla “Isolierung”: F. SCHULZ, I principii del diritto romano, trad. it. di V. Arangio-Ruiz,
Firenze 1949, 16 ss. Cfr. A. VARSILONA,
Il principio di isolamento nel diritto romano, in Archivio Giuridico "F. Serafini” 201, 1981, 37 ss.
Impostazione alternativa alle tesi dello Schulz in R. ORESTANO, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e
umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939 (ma 1940), 194
ss.; ID., I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967,
99 ss. Una decisa critica «contro l’ “isolamento” del diritto e contro
l’evoluzionismo» è stata espressa da P.
CATALANO, La religione romana «internamente»: il punto di vista
giuridico, in Studi e Materiali di
Storia delle Religioni 20, n.s., 1996, 148 ss.; nello stesso senso M. PIANTELLI, Una ricerca su ritus
in epoca arcaica, in Studi in onore
di G. Grosso, VI, Torino 1974, 236 s. Aderiscono invece, nella sostanza,
all’impostazione dello Schulz: M. KASER,
Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Catania 3,
1948-49, 77 ss. [ripubblicato in Ars boni et aequi. Festschrift für Wolfang Waldstein zum 65. Geburtstag,
hrsg. von M.J. Schermaier und Z. Végh, Stuttgart 1993, 151 ss.]; ID., Religiöse Begriffe in
frührömischen Recht, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 67, 1950, 47 ss.; C. GIOFFREDI, Religione e diritto
nella più antica esperienza romana, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 20, 1954, 261; G. PUGLIESE, L'autonomia del diritto rispetto agli altri
fenomeni e valori sociali nella giurisprudenza romana, in La storia del diritto nel quadro delle
scienze storiche. Atti del primo Congresso Internazionale della Società
Italiana di Storia del diritto, Firenze 1966, 162; F. Wieacker, Römische
Rechtsgeschichte, I, München 1988, 318 ss.
Sul concetto di
“laicizzazione” vedi, brevemente, le puntuali riflessioni di P. CATALANO-P. SINISCALCO, Laicità tra diritto e religione. Documento
introduttivo del XIV Seminario “Da Roma alla Terza Roma”, pubblicato in Index 23, 1995, 461 ss.; in part.
paragrafo 5 «'Laicizzazione' della giurisprudenza e cosiddetta 'Isolierung' del
diritto», 463: «Il sistema romano antico, sia precristiano sia cristiano, non
conosce l'isolamento del diritto rispetto alla morale o alla religione. Non vi
è isolamento del diritto nell'età repubblicana (ius civile in penetralibus pontificum repositum erat, Livius
4.3.9), né nell'Impero cristiano (publicum
ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit, D. 1.1.1.2).
Quanto alla giurisprudenza, significativa è la definizione contenuta in D.
1.1.10.2: divinarum atque humanarum rerum
notitia, iusti atque iniusti scientia. [...] E' corrente poi nella dottrina
romanistica l'uso del termine "laico" per indicare i giuristi non
sacerdoti (onde si parla di laicizzazione della giurisprudenza)».
Sostanziale “tolleranza”
religiosa della religione politeista romana: M. ADRIANI, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma
antica, in Studi Romani 6, 1958, 507
ss.; R. BLOCH, La religione romana, in H.-Ch. PUECH,
Storia delle religioni, I.2 L'Oriente e l'Europa nell'antichità,
trad. it., Roma-Bari 1976, 554 s., il quale indica l'apertura e la tolleranza
verso divinità straniere come «un'espressione singolare e affascinante della
religione romana»; M. SORDI, Pax deorum e libertà religiosa nella storia
di Roma, cit., 150 s.
Sottolinea, invece, le
ambiguità insite nell'atteggiamento "tollerante" dei Romani A. MOMIGLIANO, Appunti preliminari
sull'«opposizione religiosa» all'impero romano, in ID., Saggi di storia
della religione romana, Brescia 1988, 154; ma in altro senso, ID., The disadvantages of monotheism
for a universal State, in Classical
Philology 81, 1986, 285 ss.
Sull’introduzione a Roma di
numerosi culti "stranieri" già ad opera dei re, vedi P.M. MARTIN, L'idée de royauté à Rome. I. De la Rome royale au consensus républicain,
Clermont-Ferrand 1982, 110 ss.; quanto all’influenza greca e italica sulla
religione romana: E. NORDEN, Aus altrömischen Priesterbüchern,
Lund-Leipzig 1939, 246 ss.; J. GAGÉ,
Apollon romain. Essai sur le culte
d'Apollon et le développement du "ritus Graecus" à Rome des origines
à Auguste, Paris 1955; K. LATTE,
Römische Religionsgeschichte, cit.,
148 ss.; G. RADKE, Zur Entwicklung der Gottesvorstellung und
der Gottesverehrung in Rom, Darmstadt 1987, 31 ss.; A. BERNARDI, La Roma dei re fra storia e leggenda, in Storia di Roma, I. Roma in Italia, direzione di A. Momigliano e A. Schiavone, Torino
1988, 191 s. (con breve cenno a «culti locali e influenze greco-asianiche»); M.A. LEVI, Appunti su Roma Arcaica,
in La Parola del Passato 46, 1991,
121 ss.
§ 7.
Sul complesso fenomeno dei rapporti
con gli dèi dei vicini e con gli dèi dei nemici, interpretato in termini di
"estensioni" e "mutamenti" della religione tradizionale,
vedi G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., 409
ss., 425 ss. [= Id., La religione romana arcaica, cit., 355
ss., 369 ss.].
In merito alla divisione
dello spazio terrestre elaborata dal collegio degli auguri (agrorum genera: Varro, De ling. Lat. 5.33) e, più in generale,
sul valore giuridico dell'ager,
rinvio al saggio P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., 492 ss.
A proposito del rapporto tra
Cicero, De nat. deor. 1.84 e i libri dei pontefici: A.S. PEASE, M. Tulli Ciceronis De natura deorum, I, Darmstadt 1968 [rist. della
1ª ed. 1955], 426; M. VAN DEN BRUWAENE,
Ciceron, De natura deorum. Livre premier,
Bruxelles 1970, 146; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 94 e 96.
G.
ROHDE, Die Kultsatzungen der
römischen Pontifices, cit., 18-19, formula invece l’ipotesi che Cicerone
abbia attinto alle Antiquitates rerum
divinarum di Varrone.
Sul passo di Servius, in Verg. Georg. 1.21: F. SINI, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei baccanali: alcune riflessioni su
‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, cit., 59 s.
Quanto alla fonte del testo
verriano [Festus, De verb. sign., v. Peregrina sacra, p. 268 L.], F. BONA,
Contributo allo studio della composizione del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, Milano 1964, 16 n. 11,
ipotizza che possa essere una “glossa catoniana”: una delle glosse, cioè, «il
cui lemma è costituito da espressioni verbali o nominali tratte dal lessico di
Catone (nella quasi totalità dalle orazioni)»; nello stesso senso ID., Opusculum Festinum, Ticini 1982, 15.
Sui sacra peregrina vedi, per tutti, J.
MARQUARDT, Römische
Staatsverwaltung, III, cit., 42 ss., 74 ss. [= Le culte chez
les Romains, I, cit., 44 ss., 81 ss.]; G.
WISSOWA, Religion und Kultus der
Römer, cit., 348 ss.; M. VAN DOREN,
Peregrina sacra. Offizielle
Kultübertragungen im alten Rom, in Historia 3, 1955, 488 ss. Cfr. R.
TURCAN, Lois romaines, dieux
étrangers et «religion d’Etat»”, in M.P. BACCARI (a cura di), Diritto e religione da Roma a Costantinopoli
a Mosca, Roma 1994, 23 ss.
Per un esame della
documentazione antica e della dottrina moderna sulla formula e sul rito dell’evocatio: vedi l'ampio studio di V. BASANOFF, Evocatio. Étude
d'un rituel militaire romain,
cit.; ma anche K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., 125;
G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., 425 s. [= ID., La religione romana arcaica, cit., 369 s.]; P. BRUUN, Evocatio
deorum: some notes on the Romanization of Etruria, in H. BIEZAIS (ed.), The
Myth of the State: based on papers read at the Symposium on the Myth of the
State hold at Abo, 6th-8th September 1971, Stockholm 1972, 109 ss.
(consultabile anche on line nel sito: https://ojs.abo.fi/ojs/index.php/scripta/article/download/683/862/ ); J.
ALVAR, La fórmula de la evocatio y su presencia en contextos
desacralizadores, in Archivo Español
de Arqueología 57, 1984, 143 ss.; ID.,
Matériaux pour l’étude de la
formule sive deus, sive dea, in Numen 32, 1985,
236 ss.; J. RÜPKE, Domi militiae.
Die
religiöse Konstruktion des Kriges in Rom, Stuttgart 1990, 162 ss.; A. BLOMART, Die evocatio und der Transfer fremder Götter von der Peripherie nach Rom, in H. CANCIK-J. RÜPKE (hrsg.), Römische Reichsreligion und Provinzialreligion, Tübingen 1997, 99
ss.
L'evocatio
di Giunone Regina è stata studiata, fra gli altri, da V. Basanoff, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain,
cit., 42 ss.; S. Ferri, La Iuno Regina di Veio, in Studi
Etruschi 24, 1955, 106 ss.; J.
Hubaux, Rome et Véies. Recherches sur la chronologie
légendaire du moyen âge romain, Paris 1958, 154 ss.; R.E.A.
Palmer, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays,
Philadelphia 1974, 21 ss.; G. DUMÉZIL,
La religion romaine archaïque, cit., 426 s. [= Id.,
La religione romana arcaica, cit.,
370 s.]; P. BRUUN, Evocatio deorum: some notes
on the Romanization of Etruria, cit.; R. Bloch, Interpretatio, cit., 15
ss.
Il contesto storico dell’evocatio di Giunone di Cartagine, è ben
ricostruito da V. BASANOFF, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, cit., 37 ss. Vedi anche R. BLOCH, Interpretatio, cit., 17 s.; N.
BERTI, Scipione Emiliano, Caio
Gracco e l'evocatio di Giunone da
Cartagine, in Aevum 64, 1990, 69
ss.
Sull’antitesi religio/superstitio: W.F. OTTO, ‘Religio’ und ‘Superstitio’, in
Archiv für Religionswissenschaft 14, 1911, 406 ss.; M. SACHOT, ‘Religio/superstitio’. Historique d’une subversion et d’un retournement”, in Revue de l’Histoire des Religions 208,
1991, 355 ss.
Per
superstitio invece: E. RIESS, v. Aberglaube, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft 1, Stuttgart 1894, coll. 29 ss.; I. PFAFF, v. Surperstitio, ibid. 4, 1,
Stuttgart 1931, coll. 938 ss.; R.C. ROSS,
Superstitio, in The Classical Journal 64,
1968-69, 354 ss.; S. CALDERONE, Superstitio, in Aufstieg und Niedergang der
Römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, 377 ss. (ivi anche indicazione
delle fonti); D. GRODZYNSKI, Superstitio, in Revue des Études Anciennes 76, 1974, 36 ss.; L.F. JANSSEN, Die Bedeutungsentwicklung
von superstitio/superstes, in Mnemosyne 28, 1975, 135 ss.; W. BELARDI, Superstitio, [Biblioteca di ricerche linguistiche e filologiche, 5]
Roma 1976.
Approfondimenti
sui libri Sibyllini: R. BLOCH: Les origines étrusques des Livres Sibyllins,
in Mélanges offerts à A. Ernout,
Paris 1940, 21 ss.; ID., La divination romaine et les livres
sibyllins, in Revue des Études
Latines 40, 1962, 118 ss.; ID.,
Les prodiges dans l'antiquité classique
(Grèce, Étrurie et Rome), Paris 1963 (sui libri sibillini 86 ss.); ID., L'origine des livres Sibyllins à Rome: méthode de recherche et critique
du récit des annalistes anciennes, in AA.VV., Neue Beiträge zur Geschichte der alten Welt, 2. Römisches
Reich, Berlin 1965, 281 ss.; H.W. PARKE, Sibyls
and sibylline prophecy in classical antiquity, London and New York 1988,
190 ss. (Appendix II: The Libri Sibyllini).
E. NORDEN,
De Minucii Felicis aetate et genere
dicendi, Greifswald 1897; J. SCHMIDT,
Minucius Felix oder Tertullian? Philologisch-historische
Untersuchung der Prioritätsfrage des Octavius und des Apologeticum unter
“physiognomischer Universalperspektive” [Inaugural-Dissertation München], Borna-Leipzig 1932; H.A. GÄRTNER, Die Rolle und die Bewertung der skeptischen Methode im Dialog Octavius
des Minucius Felix, in Panchaia.
Festschrift für Klaus Thraede, [Jahrbuch für Antike und Christentum, Erg.
22] Münster Westfalen 1995, 141 ss. Quanto alla cultura classica
dell’autore cristiano, vedi P. COURCELLE,
Virgile et l’immanence divine chez
Minucius Felix, in Mullus. Festschrift
Theodor Klauser, [Jahrbuch für
Antike und Christentum, Erg. 1] Münster Westfalen 1964, 34 ss.; E. HECK, Vestrum est – poeta noster. Von der Geringschätzung Vergils zu seiner Aneignung in der
frühchristlichen lateinischen Apologetik, in Museum Helveticum 46, 1990, 102 ss. (in part. 109 ss.); V. BUCHHEIT, Vergil als Zeuge der natürlichen Gotteserkenntnis bei Minucius Felix
und Laktanz, in Rheinisches Museum für
Philologie 139, 1996, 254 ss.
Fine e suggestiva analisi del
testo di Minucio Felice quella proposta da A.
WLOSOK, Rom und die Christen. Zur
Auseinandersetzung zwischen Christentum und römischem Staat, Stuttgart 1970, 68 ss.; testo che la studiosa tedesca
ha considerato, a ragione, esempio significativo «der heidnischer Einwände
gegen das Christentum». Vedi anche l’articolo di S.
BODELÓN, El discurso anticristiano
de Cecilio en el Octavio de Minucio
Félix, in Memorias de Historia
Antigua 13-14, 1992-1993, 247 ss.: si tratta di una traduzione in lingua
castigliana con apparato critico essenziale.
Sulle opposte visioni dei
cristiani (che si leggono in Minucius Felix, Octav. 25.1-7), con riferimenti ai probabili modelli storici e
filosofici, appaiono condivisibili le ipotesi formulate da E. HECK, Minucius Felix und der römische Staat. Ein Hinweis zum 25. Kapitel
des Octavius, in Vigiliae Christianae 38, 1984, 154 ss.; cfr. inoltre S. BODELÓN, El discurso antipagano de Octavio en la obra de Minucio Félix, in Memorias de Historia Antigua 15-16,
1994-1995, 51 ss.
* Questo articolo si basa essenzialmente sul testo della
conferenza in tema di universalismo e tolleranza nella religione politeista
romana (Montepulciano, palazzo Tarugi, 31 maggio 2003); promossa dalla Associazione “Domus
Taurisia” per iniziativa della
Professoressa Nicla Bellocci (Università di Siena) e dell’Avvocato Lucilio
Secchi Tarugi, fondatore e presidente della Associazione.
Sono sempre stato molto grato ed onorato di quell’invito.
[1] C. 1.11.1 = CTh. 16.10.4: Imp. Constantius A. ad Taurum pp. Placuit omnibus locis atque urbibus
universis claudi protinus templa et accessu vetito omnibus licentiam
delinquendi perditis abnegari. [1] Volumus
etiam cunctos sacrificiis abstinere. [2] Quod si quis
aliquid forte huiusmodi perpetraverit, gladio ultore sternatur. Facultates
etiam perempti fisco decernimus vindicari et similiter puniri rectores
provinciarum, si facinora vindicare neglexerint. D. k. Dec. Constantio A. VII et Constante III conss. [a.
354]. C. 1.11.2 = CTh. 16.10.9: Imppp.
Gratianus Valentinianus et Theodosius AAA. Cynegio pp. Ne quis mortalium ita faciendi
sacrificii sumat audaciam, ut
inspectione iecoris extorumque praesagio vanae spem promissionis accipiat vel,
quod est deterius, futura sub exsecrabili consultatione cognoscat. Acerbioris
etenim imminebit supplicii cruciatus eis, qui contra vetitum praesentium vel
futurarum rerum explorare temptaverint veritatem. D. VIII k. Iun.
Constantinopoli Arcadio A. et Bautone conss. [a. 385]. C. 1.11.3 = CTh.
16.10.15: Impp. Arcadius et Honorius AA. Macrobio et Procliano vicario. Sicut
sacrificia prohibemus, ita
volumus publicorum operum ornamenta servari. Ac ne sibi aliqua auctoritate
blandiantur, qui ea conantur evertere, si quod rescriptum, si qua lex forte
praetenditur: abreptae huiusmodi chartae ex eorum manibus ad nostram scientiam
referantur. D. IIII k. Febr.
Ravennae Theodoro cons. [a.
399]. C. 1.11.4 = CTh. 16.10.17: Impp. Arcadius et Honorius AA.
Apollodoro Proconsuli Africae. Ut
profanos ritus iam salubri lege submovimus, ita festos conventus civium et
communem omnium laetitiam non patimur submoveri. Unde absque ullo sacrificio atque ulla superstitione damnabili
exhiberi populo voluptates secundum veterem consuetudinem, iniri etiam festa convivia,
si quando exigunt publica vota, decernimus. D. XIII k. Sept. Patavi Theodoro cons. [a. 399]. C.
1.11.7.1: Impp. Valentinianus et Marcianus AA. Palladio pp. Quisquis autem contra hanc serenitatis
nostrae sanctionem et contra interdicta sacratissimarum veterum constitutionum sacrificia exercere temptaverit, apud
publicum iudicem reus tanti facinoris legitime accusetur et convictus
proscriptionem omnium bonorum suorum et ultimum supplicium subeat. D. prid.
id. Nov. Marcianus A. cons. [a. 451]. C. 1.11.8 pr.: Impp. Leo et Anthemius AA.
Dioscoro pp. Nemo ea, quae saepius paganae superstitionis
hominibus interdicta sunt, audeat pertemptare, sciens, quod crimen publicum
committit qui haec ausus fuerit perpetrare [a. 472 ?].
[2] CTh. 16.10.2: Imp<p>. Constantius <et Constans
A>A. ad Madalianum agentem vicem p(raefectorum) p(raetori)o. Cesset
superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Nam quicumque contra legem divi principis parentis nostri
et hanc nostrae mansuetudinis iussionem, ausus fuerit sacrificia celebrare,
competens in eum vindicta et praesens sententia exeratur. Cfr. anche CTh.
9.16.1 = C. 9.18.3: Imp. Constantinus A. ad Maximum p. u. Nullus haruspex limen alterius accedat, nec ob alteram causam, sed
huiusmodi hominum quamvis vetus amicitia repellatur, concremando illo haruspice
qui ad domum alienam accesserit, et illo qui eum suasionibus vel praemiis
evocaverit, post ademptionem bonorum in insulam detrudendo: superstitioni enim
suae servire cupientes poterunt publice ritum proprium exercere. Accusatorem autem huius
criminis non delatorem esse sed dignum magis praemio arbitramur. Pp. Kal. Feb. Romae, Constantino A. V. et Licinio Caes. coss.
(a. 319 d.C.). CTh. 9.16.2: Idem ad populum.
Haruspices et sacerdotes et eos qui huic ritui adsolent ministrare ad privatam
domum prohibemus accedere, vel sub praetextu amicitiae limen alterius ingredi,
poena contra eos proposita si contempserint legem. Qui vero id vobis
existimatis conducere, adite aras publicas atque delubra et consuetudinis
vestrae celebrate solemnia; nec enim prohibemus praeteritae usurpationis
officia libera luce tractari (a. 319).
[3] CTh. 16.1.2 = C. 1.1.1 pr.-1: Imppp. Gratianus
Valentinianus et Theodosius AAA. Edictum ad populum urbis Constantinopolitanae.
Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari, quam
divinum Petrum apostolum tradidisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso
insinuata declarat quamque pontificem Damasum sequi claret et Petrum
Alexandriae episcopum virum apostolicae sanctitatis, hoc est ut secundum
apostolicam disciplinam evangelicamque doctrinam patris et filii et spirictus
sancti unam deitatem sub pari maiestate et sub pia trinitate credamus. [1]
Hanc legem sequentes Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti,
reliquos vero dementes vesanosque iudicantes haeretici dogmatis infamiam
sustinere, nec conciliabula eorum ecclesiarum nomen accipere, divina primum vindicta, post etiam motus nostri, quem ex
caelesti arbitrio sumpserimus, ultione plectendos. D. III k. Mart. Tessalonica
Gratiano V et Theodosio AA. conss.
[4] CTh. 16.10.12: Imppp.
Theodosius, Arcadius et Honorius AAA. Ad Rufinum p.p. Nullus omnino, ex
quolibet genere, ordine hominum dignitatum, vel in potestate positus, vel
honore perfunctus, sive potens sorte nascendi seu humilis genere, conditione,
fortuna: in nullo penitus loco, in nulla urbe, sensu carentibus simulacris, vel
insontem victimam caedat; vel, secretiore piaculo, Larem ignem ero Genium,
Penates nidore veneratus, accendat lumina, imponat tura, serta suspendat. [1]
Quod si quispiam immolare hostiam sacrificaturus audebit, aut spirantiam
exta consulere, ad exemplum maiestatis, reus, licita cunctis accusatione, delatus, excipiat sententiam competentem, etiamsi nihil contra salutem principum, aut de
salute quaesierit. Suffici, emin ad
criminis molem, naturae ipsius leges velle rescindere, inlicita perscrutari, occulta recludere, interdicta temptare, finem, quaerere salutis alienae, spem alieni interitus polliceri. [2] Si
quis vero mortali opere facta, et aevum passura simulacra imposito ture venerabitur, ac (ridiculo
exemplo metuens subitoque ipse simulaverit)
vel redimita vittis arbore, vel erecta effossis ara cespitibus vanas immagines, humiliore licet muneris praemio, tamen plena religionis iniuria, honorare temptaverit, is, utpote
violatae religionis reus, ea domo
seu possessione multabitur, in qua
eum gentilicia constiterit superstitione famulatum. Namque omnia loca, quae turis constiterit vapore fumasse, (si tamen ea in
iure fuisse thurificantium probabuntur) fisco nostro adsocianda censemus. [3] Sin vero
in templis fanisve publicis, aut in aedibus agrisve alienis, tale quispiam
sacrificandi genus exercere temptaverit, si ignorante domino usurpata constiterit, XXV. librarum
auri multae nomine cogetur inferre; conniventem vero huic
sceleri par ac sacrificantem poena retinebit. [4] Quod
quidem ita per iudices, ac defensores et curiales
singularum urbium, volumus custodiri, ut ilico per hos comperta in
iudicium deferantur per illos delacta plectantur. Si quid
autem ii tegendum gratia, aut incuria praetermittendum esse crediderint, commotione iudiciariae subiacebunt. Illi vero
moniti si vindictam dissimulatione distulerint, XXX. librarum auri dispendio multabuntur; officiis quoque eorum damno parili subiugandis. Data VI id. Nov. Arcadio A.
II et Rufino coss.
[5] J. BAYET, La religion romaine. Histoire politique et
psychologique (1957), 2è éd. revue et corrigée, Paris 1973, 277 [= ID., La religione romana. Storia politica e psicologica,
trad. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959 (rist. 1992), 298].
[6] Livius 5.51.4-5: Equidem, si nobis cum urbe simul positae
traditaeque per manus religiones nullae essent, tamen tam evidens numen hac
tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem neglegentiam divini cultus exemptam
hominibus putem. Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas res vel
adversas; invenietis omnia prospera
evenisse sequentibus deos, adversa spernentibus. Cfr. 1.9.3-4: Urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus
ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem. 1.21.1-2: Ad haec consultanda
procurandaque multitudine omni a vi
et armis conversa, et animi
aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse
rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat, ut fides ac ius
iurandum pro legum ac poenarum
metu civitatem regerent. Et cum
ipsi se homines in regis
velut unici exempli mores formarent, tum finitimi etiam populi, qui antea
castra non urbem positam in medio ad sollicitandam
omnium pacem crediderant, in eam
verecundiam adducti sunt, ut civitatem
totam in cultum versam deorum violare ducerent nefas. 1.55.3-4: Inter principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam
tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium
sacellorum exaugurationes admitterent
aves, in Termini fano non
addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est, non
motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum
sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere. 8.3.10: Hoc demum proelium Samnitium res ita infregit,
ut omnibus conciliis fremerent minime id quidem mirum esse, si impio
bello et contra foedus suscepto, infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent. 28.11.1: In civitate tanto discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum adversorumque causas in deos
verterent, multa prodigia nuntiabantur.
[7] Livius 44.1.9-11: Paucis
post diebus consul contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei
perpetrato in fratrem, cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum
veneficia, caedes, latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum
Romanum, direptiones sociarum urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque
invisa essent, sensurum in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum
fastigii venerit.
[8] H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la
langue latine, Paris 1963, 207; vedi anche la riflessione di C.M. Ternes, Tantae molis erat… De la ‘nécessité’ de fonder Rome, vue par
quelques écrivains romains du –1er siècle, in “Condere Urbem”. Actes des 2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg
(janvier 1991), Luxembourg 1992, 18 s.
[10] Svetonius, August. 7:
cum, quibusdam censentibus Romulum
appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus
potius vocaretur, non solum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque
religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicatur, ab auctu vel
ab avium gestu gustuve, sicut etiam
Ennius docet scribens: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est;
cfr. anche Livius 1.4.1: Sed debebatur,
ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii
principium.
[11] D. 1.2.2.7 (Pomponius libro
singulari enchiridii): Augescente
civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium
Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur
ius Aelianum.
[12] Vergilius, Aen.
1.275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus
excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine
dicet. / His ego nec metas
rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi.
[13] M. HUMBERT, Droit
et religion dans la Rome antique, in Mélanges
Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, 195.
[14] J. SCHEID, Le
prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la
fin de la République, in Aa.Vv.,
Des ordres à Rome, direction de C.
Nicolet, Paris 1984, 269 s.
[15] Cicero, Pro Rabir.
per. 5: ab Iove Optimo Maximo
ceterisque dis deabus immortalibus, quorum ope et auxilio multo magis haec res
publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem ac veniam peto;
Ovidius, Amor. 1.2.21: veniam pacemque rogamus; Livius 39.10.5:
pacem veniamque precata deorum dearumque.
Cfr. Plautus, Merc. 678: Apollo, quaeso te ut des pacem propitius;
Livius 1.16.3: pacem praecibus exposcunt;
3.7.8: veniam irarum caelestium finem
pesti exposcunt; Seneca, Med.
595: Parcite, o divi, veniam precamur.
[16] Vergilius, Aen.
12.849-852: Hae Iovis ad solium saevique
in limine regis / apparent acuuntque metum mortalibus aegris, / si quando letum
horrificum morbosque deum rex / molitur, meritas aut bello territat urbes;
per quanto nella religione tradizionale Iuppiter
non era legato alla morte, come possiamo leggere nel commento a Virgilio del
grammatico tardo antico Servio: Servius, in
Verg. Aen. 12.851: letum horrificum volunt Iovem non esse
mortis auctorem, sed posse mortis genere vel prodesse vel obesse mortalibus.
[19] Vergilius, Aen.
3.369-373: Hic Helenus caesis primum de
more iuvencis / exorat pacem divom
vittasque resolvit / sacrati capitis, meque ad tua limina, Phoebe, / ipse manu
multo suspensum numine ducit, / atque haec deinde canit divino ex ore sacerdos.
Questo è anche l'unico testo di Virgilio in cui troviamo
esplicitamente menzionata l'espressione pax
deorum; il contenuto, poi, è di particolare solennità rituale, in quanto il
verbo exorare nel linguaggio
sacerdotale significa impetrare, come
del resto aveva già spiegato Servius, in
Verg. Aen. 3.370: exorat pacem divum aut de sacrificantum
more requirit, utrum tempus consulendi esset; nam et hoc vehementer quaeritur,
ut in sexto cum virgo poscere fata tempus ait; aut certe, quod et melius est,
de sacrificantum more ante nefas expiat ab harpyia praedictum, et sic venit ad
vaticinationem. Ut autem hic expiatam famem intellegamus sequens efficit locus,
ut aderitque vocatus Apollo, cum constet, nisi in hoc intellexeris loco, famis
causa nusquam invocatum esse Apollinis numen. Dubitationem autem in hoc loco
'exorat' facit; nam 'orare' est petere, 'exorare' impetrare: ergo impetrat
pacem aut ad inquirendum tempus, aut ad mitigandum famis periculum.
[20] Livius 3.5.14: His
avertendis terroribus in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum
mulierumque turba implebantur; cfr. 7.2.2: nisi quod pacis deum
exposcendae causa tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit;
42.2.3: prodigia expiari pacemque deum peti praecationibus, qui
editi ex fatalibus libris essent, placuit.
[21] Cfr., Livius 2.36.1; 3.5.14; 3.10.6; 4.9.3; 4.12.6; 4.21.5;
4.30.7; 5.13.4; 6.20.16; 7.2.2; 7.3.3; 7.27.1; 7.28.7; 8.6.9; 8.9.6-12; 8.25.1;
10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13; 22.3.11; 22.9.7; 22.36.6; 23.31.15; 23.36.10;
23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9; 25.7.7-9; 25.16.1; 25.17.3; 26.23.3-6; 26.45.9;
27.4.11; 27.11.1; 28.27.16; 30.2.9-13; 30.38.8.
[22] D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro
primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et
privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad
singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim.
Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit.
[23] Cfr. anche Cicero, De
nat. deor. 1.117 (religionem, quae
deorum cultu pio continetur); De leg.
1.60 (cum suis, omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram
religionem susceperit); 2.30 (Quod
sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum,
ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non
possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper
populum indigere. Discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus
praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint
sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset
infinitum, neque ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra
collegium nosset); ed ancora De har.
resp. 18 (Ego vero primum habeo
auctores ac magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta
fuisse sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum
prudentiam non dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint; qui statas
sollemnisque caerimonias pontificatu, rerum bene gerendarum auctoritates
augurio, fatorum veteres praedictiones Apollinis vatum libris, portentorum
expiationes Etruscorum disciplina contineri putaverunt).
Una diversa definizione di religio
è data dal commentatore virgiliano Servius, in
Verg. Aen. 8.349: religio id est metus, ab eo quod mentem
religet dicta religio.
[24] Anche Virgilio si mostra sensibile a tale ideologia, al punto
da attribuire allo stesso Iuppiter le
parole dei versi Verg., Aen.
12.838-840: Hinc genus Ausonio mixtum
quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis, / nec
gens ulla tuos aeque celebrabit honores; cfr. F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto
internazionale antico", [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano
dell'Università di Sassari, 7] Sassari 1991, 192 n. 27.
[25] Cicero, De nat.
deor. 3.5: Sed ante quam de re, pauca de me. Non enim mediocriter moveor
auctoritate tua Balbe orationeque ea quae me in perorando cohortabatur ut
meminissem me et Cottam esse et pontificem; quod eo credo valebat, ut
opiniones, quas a maioribus accepimus de dis immortalibus, sacra caerimonias
religionesque defenderem. Ego vero eas defendam semper semperque defendi, nec
me ex ea opinione, quam a maioribus accepi de cultu deorum inmortalium, ullius
umquam oratio aut docti aut indocti movebit. Sed cum de religione agitur, Ti.
Coruncanium P. Scipionem P. Scaevolam pontifices maximos, non Zenonem aut
Cleanthen aut Chrysippum sequor, habeoque C. Laelium augurem eundemque
sapientem quem potius audiam dicentem de religione in illa oratione nobili quam
quemquam principem Stoicorum. Cumque – potuisse.
[26] Cicero,
De har. resp. 19: Etenim quis est tam vaecors
qui aut, cum suspexit in caelum, deos non sentiat et ea quae tanta mente fiunt,
ut vix quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem persequi possit, casu
fieri putet, aut, cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc
tantum imperium esse natum et auctum et retentum? Quam volumus licet, patres
conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec
calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique ipso huius gentis ac terrae
domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione
atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique
perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus.
[27]
Sallustius, Cat. 12.1-5: Postquam
divitiae honori esse coepere et eas gloria imperium potentia sequebatur,
hebescere virtus, paupertas probro haberi, innocentia pro malivolentia duci
coepit. Igitur ex divitiis iuventum luxuria atque avaritia cum superbia
invasere: rapere consumere, sua parvi pendere, aliena cupere, pudorem
pudicitiam, divina atque humana promiscua, nihil pensi neque moderati habere.
Operae pretium est, cum domos atque villas cognoveris in urbium modum
exaedificatas, visere templa deorum, quae nostri maiores, religiosissumi
mortales, fecere. Verum illi delubra deorum pietate, domos suas gloria
decorabant, neque victis quicquam praeter iniuriae licentiam eripiebant. At hi
contra, ignavissumi homines, per summum scelus omnia ea sociis adimere, quae
fortissumi viri victores reliquerant: proinde quasi iniuriam facere, id demum
esset imperio uti.
[28] Valerius Maximus, Fact. et dict. memor. 1.1.9: Qui praetor a patre suo collegii
Saliorum magistro iussus sex lictoribus praecedentibus arma ancilia tulit,
quamvis vacationem huius officii honoris beneficio haberet. Omnia namque post
religionem ponenda semper nostra civitas duxit, etiam in quibus summae
maiestatis conspici decus voluit. Quapropter non dubitaverunt sacris imperia
servire, ita se humanarum rerum futura regimen existimantia, si divinae
potentiae bene atque constanter fuissent famulata.
[29] Tertullianus, Apolog.
1.1: Si non licet vobis, Romani imperii
antistites, in aperto et edito, in ipso fere vertice civitatis praesidentibus
ad iudicandum, palam dispicere et coram examinare, quid sit liquido in causa
Christianorum; si ad hanc solam speciem auctoritas vestra de iustitiae
diligentia in publico aut timet aut erubescit inquirere; si denique, quod
proxime accidit, domesticis indiciis nimis operata infestatio sectae huius os
obstruit defensioni: liceat veritati vel occulta via tacitarum litterarum ad
aures vestras pervenire.
[30] Tertullianus, Apolog.
25.1-2: Satis quidem mihi videor probasse de falsa et vera divinitate, cum
demonstravi, quemadmodum probatio consistat, non modo disputationibus nec
argumentationibus, sed ipsorum etiam testimoniis, quos deos creditis, ut nihil
iam ad hanc causam sit retractandum. Quoniam tamen Romani nominis proprie
intercedit auctoritas, non omitto congressionem, quam provocat illa praesumptio dicentium, Romanos pro
merito religionis diligentissimae in tantum sublimitatis elatos et impositos,
ut orbem occuparint, et adeo deos esse, ut praeter ceteros floreant, qui illis
officium praeter ceteros faciant.
[31] E. PERUZZI, Origini di Roma, II. Le lettere, Bologna
1973, 162. Cfr. ID., Le origini di Roma, I. La famiglia,
Firenze 1970, 142 ss.: «L’importanza di questo argomento e silentio è indubbia: la
principale fonte scritta degli storici di Roma sono gli annales maximi, e, come è verosimile che dedicassero particolare
attenzione a fatti di significato religioso, così è assolutamente certo che
essi erano il documento più preciso e minuzioso della tradizione pontificale.
Ora, il passo di Liu. 1.20.5 è una scarna notizia, espressa non meno ieiune di quelle degli annales, che reca un elemento davvero
singolare. Trattando della più antica età regia, non di rado lo storico
patavino indica la parentela dei personaggi, sia pure concisamente (per esempio
1.22.1 “Tullum Hostilium nepotem Hostili”, 1.34.1-2 “Lucumo … Demerati
Corinthii filius erat”), però questo è l’unico caso in cui egli menziona un
individuo con la sua formula onomastica, quale doveva apparire in registrazioni
burocratiche: Numa Marcius Marci filius; formula, si
noti, dell’età di Numa Pompilio, poiché questo sovrano, come diceva il
sarcofago riportato alla luce nel 181 a.C., si chiamava ufficialmente Numa Pompilius
Pomponi filius rex Romanorum. Ritengo probabile che la
notizia di Livio risalga in ultima analisi agli annales» (144 s.).
[34] Servius, in Verg.
Buc. 5.66: Sane quaeritur, cur duo
altaria Apollini se positurum dicat, cum constet supernos deos impari gaudere
numero, infernos vero pari, ut numero deus impare gaudet, quod etiam
pontificales indicant libri = P.
Preibisch, Fragmenta librorum
pontificiorum, Tilsit 1878, 13 fr. 56. Cfr. anche Servius Dan., in Verg. Buc. 8.75; Macrobius,
Sat. 1.13.5.
[35] Plinius, Nat. hist. 14.88:
Romulum lacte, non vino libasse indicio
sunt sacra ab eo instituta, quae hodie custodiunt morem. Numae regis proxumi
lex est: "Vino rogum ne respargito". Quod sanxisse illum propter
inopiam rei nemo dubitet. Eadem lege ex imputata vite libari vina diis nefas
statuit, ratione excogitata ut putare cogerentur alias aratores et pigri circa,
pericula arbusti. M. Varro auctor est Mezentium Etruriae regem auxilium Rutulis
contra Latinos tulisse vini mercede quod tum in Latino agro fuisset.
[36] Plinius, Nat. hist.
18.7: Numa instituit deos fruge colere et
mola salsa supplicare atque, ut auctor est Hemina, far torrere, quoniam tostum
cibo salubrius esset, id uno modo consecutus, statuendo non esse purum ad rem
divinam nisi tostum. Cfr. Servius Dan., in
Verg. Buc. 8.82.
[37] Cfr. Livius 5.21.16: Convertentem
se inter hanc venerationem traditur memoriae prolapsum cecidisse; idque omen
pertinuisse postea eventu rem coniectantibus visum ad damnationem ipsius
Camilli, captae deinde urbis Romanae, quod post paucos accidit annos, cladem;
Svetonius, Vitell. 2: Idem miri in adulando genii, prius C.
Caesarem adorare ut deum instituit, cum reversus ex Syria non aliter adire
ausus esset quam capite velato circumvertensque se, deinde procumbens.
[38] Arnobius, Adv. Nat.
2.73.18: Non doctorum in litteris
continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire?
[39] Servius, in Verg. Georg.
1.21: Quod autem dicit ‘studium quibus
arva tueri’, nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris
pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum continent,
quae etiam Varro dicit. Nam, ut supra diximus, nomina numinum ex officiis
constant imposita, verbi causa ut ab occatione deus Occator dicatur, a
sarratione Sarritor, a stercoratione Sterculinus, a satione Sator. Seguo la
lezione del testo serviano offerta da B.
Cardauns: M. Terentius Varro,
Antiquitates rerum divinarum, I. Die Fragmente, Wiesbaden 1976, 64 fr. 87;
l'insigne studioso ritiene, non senza ragione, che il passo di Servio sia in
realtà un frammento varroniano, tratto dal XIV libro delle Antiquitates rerum divinarum [Op.
cit. II. Kommentar, 184]. Vedi anche, brevemente, F. SINI, Documenti
sacerdotali di Roma antica, 1. Libri e commentarii, Sassari 1983, 108 s.
[41] Servius Dan., in Verg.
Aen. 2.156: HOSTIA vero victima et dicta quod dii per illam hostiantur,
id est aequi et propitii reddantur, unde hostimentum aequationem.
[43] P. PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, cit.,
19 fr. 120. Cfr. Varro, De ling. Lat.
5.112: Augmentum, quod ex immolata hostia
desectum in iecore <imponitur> in por<ric>iendo a<u>gendi
causa. Magmentum a magis, quod ad religionem magis pertinet: itaque propter hoc
<mag>mentaria fana constituta locis certis quo id imponeretur.
[44] R. TURCAN, Le sacrifice mithriaque: innovations de sens
et de modalités, in Aa.Vv., Le sacrifice dans l’Antiquité
[Entretiens sur l’Antiquité classique, 27], Genève 1981, 361.
[45] Cicero, De leg.
1.23: Est igitur, quoniam nihil est
ratione melius, eaque est et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis
societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis
est: quae cum sit lex, lege quoque
consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio
legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia,
ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et potestatibus
parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique
divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una civitas
communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in civitatibus ratione
quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur
status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut
homines deorum agnatione et gente teneantur.
[46] Servius, in Verg.
Georg. 2.380: Victimae numinibus
aut per similitudinem aut per contrarietatem immolantur: per
similitudinem, ut nigrum pecus Plutoni; per contrarietatem, ut porca, quae
obest frugibus, Cereri, ut caper, qui obest vitibus, Libero, item capra Aesculapio,
qui est deus salutis, cum capra numquam sine febre sit.
[47] Macrobius, Sat.
3.5.1: Cum enim Trebatius libro primo
de Religionibus doceat hostiarum genera esse duo, unum in quo
voluntas dei per exta disquiritur, alterum in quo sola anima deo sacratur, unde
etiam haruspices animales has hostias vocant. Nello stesso senso, anche Servio Dan., in Verg. Aen. 4.56: duo enim genera hostiarum sunt: unum, in quo voluntas dei per exta
exquiritur; alterum, in quo sola anima deo sacratu: unde etiam aruspices animales
hostias appellant.
[48] Servius, in Verg.
Aen. 8.641: Aut certe illud ostendit,
quia in omnibus sacris feminini generis plus valent victimae. Denique si per marem litare
non possent, succidanea dabatur femina; si autem per feminam non litassent, succidanea
adhiberi non poterat.
[49] Servius, in Verg. Aen.
12.170: nam in rebus, quas volebant
finiri celerius, senilibus et iam decrescentibus animalibus sacrificabant, in
rebus vero, quas augeri et confirmari volebant, de minoribus et adhuc
crescentibus inmolabant.
[50] P. PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, cit.,
19 fr. 113; F.P. BREMER, Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1,
Lipsiae 1898 [rist. an. Roma 1964], 8 fr. 8; H. FUNAIOLI, Grammaticae
Romanae Fragmenta, I, Lipsiae 1907 [rist. an. Roma 1964], 431 fr. 4; Ph.E. HUSCHKE
- E. SECKEL - B. KÜBLER, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta, I,
Lipsiae 1908 [Reprint Leipzig 1988], 51 fr. 4.
[51] Macrobius, Sat.
3.5.8: Observatum est a sacrificantibus ut, si hostia quae ad aras duceretur fuisset vehementius reluctata
ostendissetque se invitam altaribus admoveri, amoveretur quia invito deo
offerri eam putabant. Quae autem stetisset oblata, hanc volenti numini dari
aestimabant. Cfr. anche Servius, in
Verg. Aen. 2.140: Sed hic dicendo ‘effugia’ verbo sacrorum et ad
causam apto usus est. Nam hostia quae ad aras
adducta est immolanda, si casu
effugeret, ‘effugia’ vocari veteri more solet; in
cuius locum quae supposita fuerat, succidanea; si gravida
fuerat, forda dicitur; quae sterilis
autem est, taurea appellatur: unde ludi Taurei dicti, qui ex libris
fatalibus a rege Tarquinio Superbo instituti sunt propterea,
quod omnis partus mulierum male cedebat. Alii ludos
Taureos a Sabinis propter pestilentiam institutos dicunt, ut lues publica in has hostias verteretur.
[52] Cicero, Pro Flacco 28.69: Auri ratio constat, aurum in aerario est; furtum non reprehenditur,
invidia quaeritur; a iudicibus oratio avertitur, vox in coronam turbamque
effunditur. Sua cuique civitati religio,
Laeli, est, nostra nobis. Stantibus Hierosolymis pacatisque Iudaeis tamen
istorum religio sacrorum a splendore huius imperi, gravitate nominis nostri,
maiorum institutis abhorrebat; nunc vero hoc magis, quod illa gens quid de
nostro imperio sentiret ostendit armis; quam cara dis immortalibus esset
docuit, quod est victa, quod elocata, quod serva facta.
[53] Arnobius, Adv.
Nat. 2.73.18.
[54] G. BOISSIER, La religion romaine d’Auguste aux Antonins,
I, 3ª ed., Paris 1884, 228.
[55] Livius 1.20.6-7: Cetera quoque omnia publica privataque
sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios
ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec celestes modo caerimonias,
sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque
prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Commento al passo in R.M. OGILVIE,
A Commentary on Livy. Books 1-5,
Oxford 1965 [reprinted 1998], 101.
[56] K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, München
1960, 148 ss.
[57] A. BRAUSE, Librorum de disciplina augurali ante Augusti
mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875, 42, fr. XXVII.
[58] Cfr. Gellius, Noct. Att.
13.23.1: Comprecationes deum immortalium,
quae ritu Romano fiunt, expositae sunt in libris sacerdotum populi Romani et in
plerisque antiquis orationibus; Augustinus, De civ. Dei 4.8.
[59] M. ADRIANI, Tolleranza
e intolleranza religiosa nella Roma antica, in Studi Romani 6, 1958, 516.
[60] J.-L. GIRARD,
Interpretatio Romana. Questions historiques et problèmes de méthode, in Revue
d'Histoire et Philosophie Religieuses 60, 1980, 21 ss.
[62] R. TURCAN, Lois romaines, dieux étrangers et «religion d’Etat», in Diritto e religione
da Roma a Costantinopoli a Mosca, a cura di M.P. Baccari, Roma 1994, 31.
[63] S. FERRI, La Iuno Regina di Veii, in Studi Etruschi
24, 1955, 106 ss.; J. HUBAUX, Rome et Véies. Recherches
sur la chronologie légendaire du moyen âge romain, Paris 1958, 154 ss.; R.E.A. PALMER, Roman Religion
and Roman Empire. Five Essays, Philadelphia 1974, 21 ss.; R. BLOCH, "Interpretatio", in ID., Recherches
sur les religions de l’Italie antique, Genève 1976, 15 ss.
[64] Sul frammento e sul giurista sono da vedere P. PREIBISCH, Fragmenta librorum
pontificiorum, cit., 11 fr. 52; F.P. BREMER, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, I, cit., 29 fr. 1; C. THULIN, Italische sakrale Poesie und Prosa. Eine metrische Untersuchung, Berlin 1906, 59 ss.;
Ph. E. Huschke - E. Seckel
- B. Kübler, Iurisprudentiae
anteiustinianae reliquias, I, cit., 15 fr. 1.
[65] Plinius, Nat. hist. 28.18: Verrius Flaccus auctores ponit, quibus
credat in obpugnationibus ante omnia solitum
a Romanis sacerdotibus evocari deum, cuius in tutela id oppidum esset,
promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in
pontificum disciplina id sacrum, constatque ideo occultatum, in cuius dei
tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent; Servius, in Verg. Aen. 2.351: EXCESSERE quia ante
expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. [Servius Dan.] Inde est, quod
Romani celatum esse voluerunt, in cuius dei tutela urbs Roma sit. Et iure
pontificum cautum est, ne suis nominibus dii Romani appellarentur, ne
exaugurari possint; Macrobius, Sat. 3.9.2-5: Constat
enim omnes urbes in alicuius dei esse tutela, moremque Romanorum arcanum et
multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent urbem hostium eamque iam capi posse
confiderent, certo carmine evocarent
tutelares deos; quod aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam
si posset, nefas aestimarent deos habere captivos. Nam propterea ipsi Romani et deum in cuius tutela urbs Roma est et
ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. Sed dei quidem nomen non
nullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris insitum et ideo vetusta
persequentibus quicquid de hoc putatur innotuit. Alii enim Iovem crediderunt,
alii Lunam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto silentium denuntiat;
alii autem, quorum fides mihi videtur firmior, Opem Consiviam esse dixerunt.
Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est, caventibus Romanis ne
quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili
evocatione paterentur, si tutelae suae nomen divulgaretur.
[66] V. BASANOFF,
Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, Paris 1947.
[67] D. 48.19.30 (Modestinus libro primo de poenis): Si
quis aliquid fecerit, quo leves hominum animi superstitione numinis terrentur,
divus Marcus huiusmodi homines in insulam relegari rescripsit.
[68] Cfr. Livius, 5.53.10-11: At etiam, tamquam veterum religionum memores, et peregrinos deos
transtulimus Romam et instituimus novos. Iuno regina transuecta a Veiis nuper
in Aventino quam insigni ob excellens matronarum studium celebrique dedicata
est die! Aio Locutio templum propter caelestem vocem exauditam in Nova via
iussimus fieri; Capitolinos ludos sollemnibus aliis addidimus collegiumque ad
id novum auctore senatu condidimus.
[69] Le opposte visioni dei cristiani si leggono in Minucius Felix, Octav. 25.1-7: At tamen ista ipsa superstitio Romanis dedit auxit fundavit imperium,
cum non tam virtute quam religione et pietate pollerent. Nimirum insignis et
nobilis iustitia romana ab ipsis imperii nascentis incunabulis auspicata est!
Nonne in ortu suo et scelere collecti et muniti immanitatis suae terrore
creverunt? Nam Asylo prima plebs congregata est: confluxerant perditi,
facinerosi, incesti, sicarii, proditores, et ut ipse Romulus imperator et
rector populum suum facinore praecelleret, parricidium fecit. Haec prima sunt
auspicia religiosae civitatis! Mox alienas virgines iam desponsatas, iam
destinatas et nonnullas de matrimonio mulierculas sine more rapuit violavit
inlusit, et cum earum parentibus, id est cum soceris suis, bellum miscuit,
propinquum sanguinem fudit. Quid inreligiosius, quid audacius, quid ipsa
sceleris confidentia tutius? Iam finitimos agro pellere, civitates proximas
evertere cum templis et altaribus, captos cogere, damnis alienis et suis
sceleribus adolescere cum Romulo regibus ceteris et posteris ducibus disciplina
communis est. Ita quicquid Romani tenent colunt possident, audaciae
praeda est: templa omnia de manubiis, id est de ruinis urbium, de spoliis
deorum, de caedibus sacerdotum. Hoc insultare et inludere est, victis
religionibus servire, captivas eas post victorias adorare. Nam adorare quae
manu ceperis, sacrilegium est consecrare, non numina. Totiens ergo Romanis
inpiatum est quotiens triumphatum, tot de diis spolia quot de gentibus et
tropaea. Igitur Romani non ideo tanti, quod religiosi, sed quod inpune
sacrilegi; neque enim potuerunt in ipsis bellis deos adiutores habere, adversus
quos arma rapuerunt, et quos postulaverant detriumphatos colere coeperunt. Quid autem isti dii pro
Romanis possunt, qui nihil pro suis adversus eorum arma valuerunt?