Il
rifiuto delle cure. Un’esperienza giudiziaria[1]
Sostituto
Procuratore della Repubblica
Tribunale di
Sassari
SOMMARIO: Abstract.
– 1.
L’impatto dell’esperienza. – 2. La richiesta di
sospensione della terapia. – 3. L’unicità della richiesta.
– 4. Il
provvedimento sulla richiesta. – 5. La comunicazione del distacco.
– 6. Il rifiuto
d’infusione di liquidi. – 7. L’insegnamento dell’esperienza.
Il lavoro si presenta in uno stile oratoriale,
essendo la riproduzione fedele, ma non identica, del discorso tenuto ad un
convegno organizzato dai Dipartimenti di Giurisprudenza e Medicina
dell’Università di Sassari.
Si narrano a grandi linee i momenti salienti di una
richiesta di sospensione di terapia di sostegno vitale, avanzata per la prima
volta ad una Procura della Repubblica. Si pongono in evidenza le difficoltà
giudiziarie dovute alla mancanza di una legge in materia di diritto di fine
vita, dando risalto al disegno di legge che attualmente è nell’agenda dei
lavori parlamentari.
Intensità di tinte emotive su un caso molto coinvolgente
sul piano umano.
Come un comandante in una scialuppa di
naufraghi. Questa è la risposta che dò a chi mi chiede: «Come ti sei sentito,
come magistrato, ad occuparti del caso Nuvoli?»
Naufraghi, vittime, perché il caso Nuvoli è un
caso senza autori, con sole vittime. Ognuno aveva la sua ragione per sentirsi
vittima. Ma la ragione che accomunava tutti era la mancanza di una legge al
riguardo. La mancanza di una legge disciplinante l'ipotesi.... tragica
Una scialuppa a bordo della quale viaggiavano
lui, Giovanni Nuvoli, la moglie, i parenti, i medici, la commissione
parlamentare di inchiesta, la magistratura, l'a.s.l., la polizia giudiziaria.
Una scialuppa di naufraghi a bordo della quale
tacitamente ero stato eletto comandante. Emblematica al riguardo la relazione
della commissione parlamentare d’inchiesta, che conclude suggerendo
l'istituzione di un comitato etico presieduto dal sostituto procuratore titolare
dell'inchiesta. Un caso quindi visto da tutti e tre i poteri dello stato, il
potere politico ossia la commissione parlamentare di inchiesta, la direzione
a.s.l. ossia il potere amministrativo e il potere giudiziario ossia la
magistratura.
Ho sempre teso una membrana impermeabile fra i
problemi dell'attività lavorativa e la mia vita privata. Quella membrana aveva
retto senza dare alcun segno di cedimento per oltre 20 anni di magistratura. Ma
è stata lacerata come carta velina dal caso Nuvoli. Anche gli alberi
frangivento più saldi possono essere sradicati quando il maestrale è furibondo.
Giovanni Nuvoli era
ricoverato nel Reparto di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Civile di Sassari.
Era affetto da sclerosi laterale amiotrofica, che gli imponeva l’immobilità a
letto. Veniva ventilato artificialmente mediante apposito strumento. Comunicava
mediante il movimento delle palpebre, abbassandole per rispondere
affermativamente e tenendo gli occhi aperti per rispondere negativamente.
Grazie all’uso di una tavola che riportava le lettere dell’alfabeto, comunicava
perfettamente il suo pensiero: chi collaborava teneva in mano la tavola
dell’alfabeto e scorreva con il dito le lettere. Giovanni muoveva le palpebre
per bloccare sulla lettera dell’alfabeto desiderata il dito del collaborante.
In tal modo formava intere frasi, interi documenti. Solo in un secondo momento
gli era stato messo a disposizione un comunicatore acustico a comandi palpebrali.
Portava la sua
malattia con grande dignità. Per giudizio unanime. E con la presenza
incrollabile della consorte.
Durante il ricovero
avanzò alla Procura della Repubblica la richiesta di un provvedimento che
consentisse ad un medico estraneo al Reparto di entrarvi e di occuparsi
attivamente della sua persona, con messa a disposizione di farmaci e
attrezzature adatte. E ciò per fare ciò che era stato fatto nel caso Welby e
che i medici del Reparto non intendevano fare. Motivava la sua richiesta ritenendo
ottuso, ipocrita, inutile l’accanimento nel tenerlo “in vita”, con suo
virgolettato. Nonché antieconomico, per i costi alla comunità nazionale del
posto letto che occupava.
Avevo ovviamente l’obbligo istituzionale di provvedere
sulla richiesta. Sentivo tanto le tinte drammatiche che la coloravano, molto
più che il clamore mediatico che si era creato sulla vicenda. Per usare
un’espressione che sta passando di moda, si trattava di una richiesta di
eutanasia passiva.
Qualsiasi sostituto procuratore degno di tale
nome sa che cosa deve fare se ha davanti un morto. I problemi nascono se
qualcuno ancora non è morto e vuole invece morire. Con quella richiesta in
mano, scorrevo inutilmente la rubrica del mio cellulare alla ricerca dell’anima
pia di un collega che mi potesse aiutare. Ma chi potevo chiamare? Era la prima
volta in Italia che un sostituto veniva investito di una tale richiesta.
Per provvedere sulla richiesta si potevano
battere diverse strade. La prima cosa che passa in mente ad un pubblico
ministero, non solo per deformazione
professionale, è quella di vedere se c’è o no un reato, perché ciò che
legittima l’intervento del pubblico ministero, a parte ipotesi particolari, è
proprio la commissione di un fatto di reato. Veniva in mente il reato di
violenza privata, l’articolo 610 del codice penale: chiunque con violenza o minaccia costringe taluno a fare o omettere o
tollerare qualche cosa. Ma questa ipotesi poteva essere scartata, dato che
la violenza o minaccia mancavano nel caso di specie, nel quale semplicemente il
medico si asteneva dal fare qualcosa, si asteneva dallo staccare il
ventilatore.
Nell’ipotesi in cui ci fosse stato un reato si
sarebbe potuto pensare di fare un sequestro preventivo del respiratore dal quale
Giovanni dipendeva. In seguito a ciò, si sarebbe potuto nominare ausiliario di
polizia giudiziaria un medico che poi staccasse il ventilatore per far si che
le conseguenze del reato cessassero. Ma ripeto che la commissione della
violenza privata era a mio avviso da escludersi.
Come d'altra parte non pareva ipotizzabile un rifiuto di atti di
ufficio per ragioni di sanità: l'articolo 328 del codice penale incrimina il
fatto del pubblico ufficiale che si rifiuta, per ragioni di sanità, di compiere
un certo atto, in questo caso il distacco del ventilatore. Questa ipotesi
delittuosa pareva da escludersi, per la ragione ovvia che manca un dovere del
medico di procedere al distacco del ventilatore. D'altra parte se così non
fosse tutti i medici che si rifiutano di interrompere una terapia di sostegno
vitale dovrebbero essere sottoposti a procedimento penale appunto per rifiuto
di atti di ufficio, il che non mi risulta sia mai stato fatto.
Questi incertezze
sono destinate ad essere superate con il disegno di legge Lenzi, in materia di
disposizioni anticipate di trattamento[2]. All’art. 1 VII co. è
infatti previsto che «Il medico è tenuto
a rispettare la volontà espressa dal paziente e in conseguenza di ciò è esente
da responsabilità civile o penale». Qui sta la portata innovatrice, volta a
colmare una lacuna legislativa, del ddl Lenzi, attraverso l’individuazione
della posizione giuridica soggettiva passiva connessa al diritto ex art. 32 co. 2 Cost. Ma per una lacuna
colmata si apre una voragine: a fronte di tale dovere non è previsto il diritto
del medico di rifiutarsi di prestare la propria opera se contraria ai propri
principi etici: di essere, cioè, obiettore di coscienza.
In ogni caso mai è
giustificato l’abbandono del paziente al suo destino. È infatti obbligo del
medico, già previsto dall’art. 39 del codice di deontologia medica e ora
inserito nell’art. 1 co. 6 del ddl, accompagnare il paziente verso la morte,
anche attraverso l’erogazione di cure palliative, indispensabili per lenire le
sofferenze che il trapasso necessariamente comporta.
Una curiosità
lessicale: nel titolo del ddl figura ancora come oggetto il testamento biologico, nonostante l’espressione si stia
abbandonando: le disposizioni anticipate non sono in realtà un testamento di
vita, ma di morte.
Tornando al caso Nuvoli, non era configurabile
un reato a carico dei medici e conseguentemente non si potevano utilizzare gli
strumenti posti a disposizione dal codice di procedura penale. Allora avevo pensato
che forse una risposta poteva essere data in altro modo, che forse un medico
poteva comunque essere nominato per staccare il ventilatore, anche in assenza
di una specifica disciplina normativa. Ma mi sono chiesto: qui che cosa sto
facendo? Perché quando manca una disciplina che regola un caso occorre rifarsi
all'art 12 II comma delle preleggi: si devono cioe applicare le disposizioni
normative che regolano casi simili o materie analoghe. E in assenza di
disposizioni normative che regolino casi simili o materie analoghe si applicano
i principi generali dell'ordinamento dello Stato. Pensai: se io nomino un
medico e prevedo con quali modalità il distacco deve avvenire sto in definitiva
facendo un lavoro che non è mio, perché mi sto creando la regola di giudizio,
sto facendo un lavoro che spetta al legislatore e non al magistrato. Il
legislatore crea la regola di giudizio e il magistrato la applica. I magistrati
senza leggi sono come i medici senza farmaci. L’applicazione della legge fa
parte del dna del magistrato: dategli una legge e lui la applica, non ci pensa
due volte.
Mancando una legge e non potendo portare giù
dalla soffitta il vecchio diritto polveroso del libro cuore, altro non potevo
fare che dichiarare inammissibile la richiesta. Scrissi a chiare lettere che
l'ordinamento è schizoide perché da una lato riconosce il diritto di rifiutare
le cure e dall'altro non prevede la disciplina necessaria per dare attuazione a
quel diritto. Scrissi anche «Nessuno può ergersi a giudice dell’altrui coscienza»,
per mettere in rilievo che non si poteva forzare la coscienza dei medici, che
non intendeva sospendere la terapia ventilatoria.
Oltremodo difficoltoso si era presentato poi un
altro momento, quello del trasferimento di Giovanni a casa sua. La asl offrì
tutta la sua collaborazione, uscendo allo scoperto, quale attore del rapporto
diagnostico-terapeutico, che assai spesso non è bilaterale: medico-paziente, ma
trilaterale. Con un terzo attore che è appunto la struttura sanitaria e
ondeggia fra l’ombra e la penombra, in quell’oscuro palcoscenico chiamato
malattia.
Dimesso Nuvoli dall’ospedale e curato a casa,
alcuni medici fecero uno studio certosino, molto ben fatto, sul caso clinico.
In seguito scrissero alla Procura della Repubblica che un certo giorno e ad una
certa ora avrebbero provveduto al distacco del ventilatore, precisando che ciò
sarebbe avvenuto salvo diversa indicazione della Procura. Pareva profilarsi una
sorta di silenzio assenso, se la Procura non avesse risposto. Mi sentivo
arbitro della vita e della morte. Mi venivano in mente quelle note frasi di
Ippocrate: la vita è breve, l’arte è lunga, il giudizio è difficile. Redassi
allora un provvedimento nel quale scrissi che dal silenzio della procura non si
sarebbe potuta trarre alcuna conseguenza giuridica, che erano salvi tutti i
provvedimenti in caso di distacco del ventilatore. A quel punto rinunciarono e
non procedettero al distacco.
Giovanni successivamente prese la decisione di
rifiutare l'infusione di qualsiasi liquido nel suo corpo fatta eccezione per i
sedativi. E questa sua volontà venne rispettata, in attuazione dell'articolo 32
II co. della costituzione. Apprezzabilissimo il comportamento del medico che aveva
in cura Nuvoli, perché non lo ha abbandonato a sé stesso, ma facendosi
interprete di alcuni principi deontologici che esistono da quando esiste la
medicina, ha seguito il malato fino alla morte.
Sono emblematiche le parole che lui scrisse in una
comunicazione che fece alla Procura «Cerco e cercherò per quanto possibile di
trovare un linguaggio che possa farlo recedere, chi rifiuta la vita spesso è
perché avendone idealizzato un'unica forma la ama a tal punto da non poterne
sopportare il peso quando questa non corrisponde alle nostre aspettative,
proseguirò nel tentativo apparentemente improbo di risvegliare quanto di vivo
esiste in lui». Il comportamento di questo medico è stato esemplare, perché ha
accompagnato il paziente alla morte: obbligo del medico non è solo quello di
curare il paziente ma anche quello appunto di saperlo accompagnare alla morte,
di partecipare alle reali angosce di una vita che sta per spegnersi. Non è vero
che malattia e morte sono un dramma di un solo personaggio.
Nei giorni, nei mesi che hanno segnato il caso
Nuvoli mi veniva spesso in mente quel millenario insegnamento filosofico, per
il quale la vita non può essere vissuta appieno se non si accetta l’idea
dell’umana finitezza. Quell’insegnamento per il quale molte malattie possono
colpirci ma che ne esiste soltanto una con la M maiuscola che si chiama rifiuto
della malattia e rifiuto della morte. Ed esiste correlativamente una sola
guarigione con la G maiuscola che si chiama accettazione della malattia,
accettazione della morte. E che è veramente maturo l’essere umano che sa dire
senza riserve a sé stesso: «Accetto l’idea della malattia dei miei cari e della
morte dei miei cari; accetto l’idea della mia malattia, della mia morte».
Quando ero giudice a Venezia mi invitarono a
parlare in un convegno sull'interdizione e l'inabilitazione. Sul frontespizio
del depliant di quel convegno c'era una frase che non dimenticherò mai. La
frase è questa: «Nessuno desidera la sofferenza ma chi se la stringe al petto è
un vincitore».
[1] Testo rivisto della relazione al convegno: I temi di fine vita fra scienza e legge
svoltosi, il 15 febbraio 2017, nell’aula Segni del Dipartimento di
Giurisprudenza dell’Università di Sassari, per iniziativa dell’associazione
studentesca ELSA.