Contributi

 

 

image008MITO, RELIGIONE, CONDIZIONE FEMMINILE

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Tomasino Pinna

Università di Sassari

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il mito e la sua funzione creatrice e fondativa. – 3. La Genesi: il racconto di Eva e i suoi riverberi nel tempo. – 3.1. Tradizione ebraica. – 3.2. Tradizione cristiana. – 4. L’effetto di consacrazione e la violenza simbolica. – 5. Ossimori. – 5.1. L’ossimoro biologico. – 5.2. Gli ossimori logici. – 6. Rovesciamenti mitici. – 7. Una stanza tutta per sé. – Abstract.

 

 

1. – Premessa

 

Non posso certo propormi in questa sede come esperto di un tema, la storia delle donne, su cui esiste ormai una vasta e specifica bibliografia, e del quale l’argomento del convegno è parte[1].

Ma in questa iniziativa, nello stesso titolo del seminario, si individua fra i motivi qualificanti anche quello dei miti. Da storico delle religioni, allora (come tale intervengo), poiché il mito costituisce uno dei pilastri portanti di ogni edificio religioso, il mio contributo consisterà nell’individuazione di alcuni fattori pertinenti all’ambito mitico (in diversi contesti religiosi, ma privilegiando quello occidentale e cristiano) che appaiono significativi nell’individuazione delle dinamiche di formazione di modelli culturali e di strutture mentali che stabiliscono nessi tra condizione di donna e spazio di subordinazione.

La formazione degli archetipi e degli stereotipi che entrano in gioco nei casi di violenza sessuale (tema centrale di questo incontro) è sicuramente di varia matrice e di varia natura, e sarebbe davvero riduttivo e imperdonabilmente superficiale ricondurre quei motivi a determinanti monocausali d’ordine ideologico-religioso.

Ciò premesso, ritengo tuttavia che uno dei fattori (e non certo di secondo piano, bensì fra quelli decisivi) che intervengono nei processi costruttivi dell’immagine sociale della donna (con tutto ciò che ne consegue per la condizione femminile sul piano di obblighi, divieti, modalità relazionali: quindi, sul piano politico in senso lato) vada individuato, in profondità, in quella sfera produttrice di valori che è la funzione mitopoietica delle religioni.

 

 

2. – Il mito e la sua funzione creatrice e fondativa

 

Funzione essenziale del mito (che non è un racconto fantastico privo di senso, né una filosofia o una scienza di rango inferiore, ma un prodotto simbolico con una sua precisa specificità) è quella creatrice, fondativa del reale in tutte le sue dimensioni: cosmiche, divine, umane (miti cosmogonici, teogonici, antropogonici).

  Sui miti dell’origine dell’uomo si può dire che essi appaiano «disposti secondo due fondamentali orientamenti; da una parte mirano a spiegare e giustificare l’organizzazione sociale; dall’altra vogliono render conto della finitudine dell’essere umano, narrando a tal fine la comparsa della morte. Per quanto riguarda lo spazio sociale, in India, ad esempio, il mito dell’uomo cosmico originario, il cui smembramento ha dato origine agli uomini, servì da legittimazione religiosa del sistema delle caste; il mito cinese di Pangu, primo essere vivente nato all’interno dell’uovo primordiale, creatore e separatore del cielo e della terra, giustifica l’attribuzione di una funzione cosmica al “Figlio del Cielo”, cioè al sovrano dell’ “Impero di Mezzo” […]. Al di là dell’estrema diversità con cui è trattato questo tema, ritroviamo comunque spesso l’idea di una prima umanità creata immortale e divenuta mortale in seguito a un errore degli dei o a una colpa degli uomini. Molti miti africani, ad esempio, raccontano che l’umanità si rese responsabile di una trasgressione che diede origine alla morte e fece allontanare il creatore»[2].

I miti antropogonici, narrano – e nel narrare fondano come dato incontrovertibile in quanto ha origine in illo tempore, il tempo sacro del mito, nel quale si decidono una volta per tutte i destini degli uomini – caratteri e natura della condizione umana (mortalità, sofferenze, lavoro, differenze sociali, gerarchie, istituzioni)[3].

In particolare, interessano l’articolazione dei rapporti di genere uomo-donna.

Gli esempi possono essere davvero numerosi.

Ne riporterò alcuni, tratti da diversi sistemi religiosi, ma privilegerò infine quelli interni al cristianesimo.

Tra le popolazioni primitive di cacciatori e raccoglitori dei Murnghin australiani e dei Mundurucù dell’Amazzonia vi sono miti, in tutta evidenza finalizzati a dare fondamento alle condizioni di subordinazione delle donne, in cui si narra che in origine le donne avevano una posizione dominante, ma a un certo punto nelle vicende di quel tempo mitico è successo qualcosa che ha fatto sì che le condizioni cambiassero totalmente: la violazione di un tabù (l’incesto con uomini appartenenti allo stesso clan) o colpe come la contaminazione col sangue mestruo dello stagno totemico, han fatto sì che i rapporti si ribaltassero: da allora in poi, e per sempre, sarebbero stati gli uomini a comandare nella vita della tribù, e le donne a ubbidire[4].

Nell’induismo, con la sua organizzazione castale, in quello che si può chiamare il cursus honorum delle reincarnazioni nel ciclo del samsara, la condizione di donna appare punitiva: per un uomo è punitivo rinascere donna; di converso, per una donna è premiante rinascere uomo. Quel sistema castale (la cui genesi sta nel mito del gigante cosmico originario Purusha, dalle parti smembrate del cui corpo, gerarchicamente distribuite, nascerebbero i varna, le caste: dalla testa i brahmani, i sacerdoti; dalle spalle gli kshatriya, il ceto politico e guerriero; dalle cosce i vaiśya, i commercianti, gli artigiani, i lavoratori; dai piedi gli śudra, secondo una gerarchia del corpo mitico che traccia la gerarchia del corpo sociale) prevede regole matrimoniali rigide, in cui la donna è notevolmente sfavorita rispetto all’uomo nella possibilità di operare la scelta del partner. Soluzione ideale è l’endogamia: l’ipergamia (un uomo che sposa una donna di casta inferiore) viene tollerata e porta a un abbassamento di casta dell’uomo e dei figli nati dall’unione alla casta della donna; l’ipogamia (una donna che sposa un uomo di una jati inferiore) comporta sanzioni più severe, e nel caso la donna sia della casta più alta (brahamanica) e sposi uno śudra, essi diventeranno tutti, coi loro figli, non semplicemente śudra (come sarebbe nel caso di ipergamia), ma candala, cioè fuori casta, costretti a vivere ai margini della società ed esclusi dall’ordine dei varna[5].

In India (il fatto risale al gennaio del 2014) una ragazza di vent’anni è stata violentata per un’intera notte da un gruppo di dodici uomini del suo stesso gruppo tribale come punizione perché fidanzata con un ragazzo forestiero e musulmano. Si può dire che il sistema mitico (castale, endogamico, androcentrico) opera come supporto ideologico a barriere sociali, a obblighi e divieti sessuali, e che al suo interno possono determinarsi le condizioni culturali che sfociano in episodi di violenza, anche sessuale. Nel caso specifico, significativamente, l’atto di violenza di gruppo poggia sul supporto e l’autorizzazione del vecchio capo del villaggio, che, nel ruolo di garante della tradizione, l’ha stabilita come pena[6].

Anche nel buddhismo, la legge del karma che regola il samsara stabilisce premi e punizioni. La violazione del karma può far rinascere punitivamente un uomo come donna, mentre fra i vantaggi di una vita rispettosa del karma vi è quello per cui le donne rinasceranno come uomini[7]. Ed è nota la resistenza del Buddha all’ingresso nella comunità monastica (il sangha) delle donne, che a malincuore egli accettò solo dietro l’insistenza della zia materna, Maha-Prajapati (che l’aveva allevato, andando in sposa al padre di Buddha, dopo la morte della madre Maya scomparsa appena sette giorni dopo la sua nascita), ma manifestando al discepolo Ananda tutte le sue preoccupazioni: la religione che sarebbe durata mille anni, con l’ingresso delle donne nella comunità monastica si sarebbe estinta dopo cinquecento anni. E comunque ogni monaca (bikhinnu), fosse pure la più vecchia, è in condizioni di assoluta subordinazione nei confronti dei monaci e, secondo le regole dettate da Buddha, «anche se ha già vissuto cento anni nell’ordine, deve salutare ogni monaco, alzarsi davanti a lui, inchinarsi davanti a lui, e rendergli gli onori dovuti, anche se egli fosse stato ordinato in quel momento»[8].

 

 

3. – La Genesi: il racconto di Eva e i suoi riverberi nel tempo

 

Nella tradizione ebraico-cristiana e nella cultura occidentale il punto di riferimento mitico obbligato sul tema donna è la vicenda di Eva nella Genesi (donna nata dopo l’uomo, da una parte dell’uomo, colpevole con la sua trasgressione della perdita della felicità paradisiaca e perciò responsabile della condizione umana mortale e sottoposta a sofferenze d’ogni genere). Il mito è così noto da far apparire persino banale farvi riferimento, e da indurre persino una sorta di pudore nello studioso che senta come obbligo professionale contribuire con dati di una qualche novità ai temi in discussione.

Ma farvi riferimento è imprescindibile, perché in quel mito si pone la radice ideologica che giustifica la condizione subalterna delle donne: tant’è vero che esso è stato in continuazione ripreso nella storia della civiltà cristiana dalle origini fino ad oggi (seppure oggi in termini mitigati, imposti dal contesto della modernità). Che grazie alla donna «la morte, la sofferenza e la fatica siano entrate nel mondo, sono verità poste fin dall’inizio delle Sacre Scritture e dalla tradizione patristica. Controllare e punire le donne […] è quindi compito degli uomini […]. A partire dall’antichità proverbi e detti, ma soprattutto trattati di medicina, di teologia, di didattica e di morale hanno fornito un intero arsenale»[9].

Un mito che, da San Paolo alla patristica, ai trattati teologici, ai manuali di caccia alle streghe, alla predicazione, ai testi sinodali e conciliari, non cessa di operare, nei due millenni di cristianesimo, come eterno ritorno nella storia dell’atto metastorico fondativo: una machine à penser la condizione di donna.

Quel mito ha rappresentato una sorta di motore immobile dell’ideologia antifemminista.

 

 

3.1. – Tradizione ebraica

 

Nella Genesi, al termine del racconto della creazione del mondo, si narra la creazione del genere umano nel sesto giorno, allorché Dio crea l’uomo a sua immagine, come momento più alto del suo atto creativo.

Troviamo due racconti della creazione che divergono[10].

In un primo racconto (Genesi, 1.27) il genere umano è «definito come l’adam, termine generico che designa sia l’uomo che la donna (“maschio e femmina lo creò”). […] L’umanità ha un’origine unica, è nata dall’adamo androgino, fondamento dell’uguaglianza assoluta degli uomini soggiacente a qualsiasi loro diversità»[11]. Secondo questo racconto, «l’adam originale era inizialmente maschile e femminile. Una serie di tappe successive ha portato alla separazione dei due aspetti di questo essere unico. Il testo della Genesi presenta […] una sequenza di affermazioni: dapprima “Maschio e femmina li creò”, poi “lo creò” e infine “li creò maschio e femmina”. Su questa base il Talmud [babilonese] immagina che in origine l’adam fosse un essere siamese, dal duplice aspetto. Le due persone, una maschile l’altra femminile, si trovavano unite schiena contro schiena nello stesso essere. Questa conformazione impediva loro di trovarsi faccia a faccia. Dio allora li separò perché potessero unirsi nel dialogo»[12].

Oltre a quello appena visto, c’è un secondo racconto della creazione (Genesi, 2.7 ss.), quello più noto e alla fine più significativo nel suo carattere fondativo della subalternità femminile, nel quale si trova la famosa scena della «costola» presa da Adamo per modellare Eva, l’ordine di non mangiare di uno solo degli alberi del giardino (l’albero della conoscenza del bene e del male), la tentazione del serpente, la trasgressione, l’induzione dell’uomo alla disubbidienza, la cacciata dal paradiso, la perdita dell’immortalità, l’inizio della sofferente condizione umana.

«Questi due racconti permettono di capire come mai la concezione ebraica della donna si sia sviluppata oscillando tra un atteggiamento adulatorio e una visione spregiativa»[13].

Nell’ebraismo non si sviluppò mai nessuna teoria del «peccato originale» in cui coinvolgere la colpevole responsabilità della donna. E anche se l’azione di Eva introdusse un elemento di disordine nel progetto divino destinato all’uomo (il «paradiso»), la femminilità non conobbe mai il «marchio d’infamia»[14], e troviamo, anzi, la valorizzazione di donne giuste (Sara, Rebecca, le profetesse, Debora giudice e capo politico della confederazione d’Israele) e celebri maestre di Talmud (anche se «in linea di massima lo studio della Legge non divenne mai un obbligo per le donne»). Non mancano però visioni spregiative: «nel rituale quotidiano l’uomo recita una preghiera di ringraziamento a Dio per “non averlo fatto donna” […]. La donna, da parte sua, ringrazia Dio per “averla fatta secondo la sua volontà”»[15]; e «i rabbini, in una preghiera quotidiana, ringraziavano Dio per non averli fatti né donna, né pagani, né ignoranti»[16], con un’associazione chiara che parla da sé. Ed «è innegabile che queste strutture abbiano pesato molto sulla visione cristiana della donna»[17].

 

 

3.2. – Tradizione cristiana

 

Nella visione cristiana della donna, «il racconto del modellamento di Eva da una costola di Adamo […] è stato percepito come il fondamento di una relazione di dipendenza, poiché sembrava indicare la priorità di Adamo e dunque la subordinazione di Eva nei suoi confronti […]. Si sviluppò così tutta un’esegesi androcentrica che, deducendo la superiorità di Adamo dalla sua anteriorità, pervenne a due conclusioni terribili: la donna, in quanto nata dalla costola di Adamo ̶ a da un osso soprannumerario, arriverà ad affermare [nel ‘600, il vescovo cattolico] Bossuet! –, non può essere a immagine di Dio; essa è pertanto destinata, per sua stessa costituzione, ad essere sottomessa al dominio maschile»[18].

In quest’ambito il ruolo di san Paolo fu considerevole. L’apostolo delle genti riprese, interpretò, consolidò e diffuse quel mito antropogonico e la fondazione divina della inferiorità della donna.

Pur affermando l’uguaglianza di tutti gli esseri umani in Cristo, per cui non c’è né schiavo né libero, né uomo né donna («non esiste Giudeo né Greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o donna: tutti voi siete una sola persona in Gesù Cristo», Galati, 3, 28), ambigua è la sua posizione sulla donna, e di fatto a più riprese ne afferma la subordinazione all’uomo.

Nella I Lettera ai Corinzi scrive: «Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega e profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza il velo sul capo manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole mettere il velo si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza». Sempre nella stessa lettera prosegue: «le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse […]. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea» (1 Cor., 14.34-35).

Nella Lettera agli Efesini afferma: «le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito è infatti capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto» (Efes., 5.22-24).

Concetti ribaditi nella I Lettera a Timoteo: «La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non consento a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo. … Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione» (I Timot., 2.11-14).

Il pensiero di Paolo, che è servito a giustificare la segregazione femminile, «ha rappresentato uno dei fondamenti dell’antifemminismo cristiano. Infatti, concependo la donna come corpo dell’uomo e l’uomo come testa di questo corpo, come capo al quale la donna deve un’assoluta sottomissione […], ed elevando questo rapporto ad allegoria delle relazioni tra la Chiesa e il Cristo […] ha sacralizzato una situazione antifemminista»[19].

Nel III secolo Tertulliano, dopo aver ricordato l’episodio della Genesi e le dure parole pronunciate da Dio come una condanna alla colpevole Eva (a seguito della sua colpa avrebbe partorito con dolore, verso l’uomo sarebbe stato diretto il suo istinto ed egli l’avrebbe dominata), afferma, allargando il discorso ad ogni donna: «Non sai che anche tu sei Eva? La parola di Dio è ancora oggi efficace contro questo sesso, bisogna quindi che la sua colpa permanga tuttora. Tu sei la porta del demonio (diaboli janua), tu sei stata acquiescente al suo albero, tu per prima hai violato la legge divina. Tu sei colei che ha persuaso colui che il diavolo non fu capace di attaccare; con quanta facilità hai fatto cadere l’uomo, immagine di Dio. Per la pena da te meritata, cioè la morte, perfino il figlio Dio dovette morire»[20].

Alla fine del IV secolo Ambrogio conferma in diverse opere gli stessi principi. Nel De Paradiso, ad esempio, e in particolare nel commento alla prima lettera di Paolo a Timoteo ripercorre i diversi momenti della Genesi a giustificare la condizione di inferiorità della donna. Con i consueti argomenti: Adamo è stato creato da Dio per primo, e solo successivamente Eva, perché gli fosse inferiore; non Adamo ma Eva ha ceduto alla tentazione diabolica; è stata la donna autrice del peccato per l’uomo, non l’uomo per la donna. Per questo, «attraverso di lei la morte entrò nel mondo»[21].

Agostino nell’essere umano distingue «due componenti: il corpo sessuato e l’anima spirituale, capace di intelligenza e razionalità. Mentre però nel maschio (vir) questi due elementi non generano nessun dualismo, nella donna il corpo sessuato non costituisce il riflesso dell’anima. L’uomo è cioè piena immagine di Dio in tutto il suo essere, mentre la donna è immagine di Dio solo per quanto riguarda la sua anima, dato che la sua femminilità costituisce invece un ostacolo all’esercizio della ragione. La sua inferiorità è pertanto “naturale”, e serve unicamente a permetterle di avere dei figli»[22].

Nel Medioevo, i commentatori del testo sacro, nell’ottica generale della cultura del tempo che vede le donne come custodite e sottomesse, nella linea di San Paolo, «riconoscono la sottomissione della donna all’uomo come uno dei momenti della scansione gerarchica che regola i rapporti tra Dio, il Cristo e l’umanità; e inoltre trovano l’origine e il fondamento divini di quella sottomissione nella scena primaria della creazione di Adamo ed Eva e nelle loro vicende prima e dopo la caduta. Dal racconto biblico i commentatori ricavano la convinzione che la donna sia stata creata in una posizione di subordinazione rispetto all’uomo. Il corpo dell’uomo, creato per primo, appare infatti superiore al corpo della donna, creato in un secondo momento e a partire dal corpo dell’uomo; dono di Dio offerto all’uomo come aiuto, la donna è un provvidenziale strumento nelle mani dell’uomo capace di aiutarlo ai fini della generazione»[23].

La misoginia del clero e degli intellettuali del Medioevo (attraverso san Paolo, Ambrogio, Tertulliano, Giovanni Crisosostomo: da Goffredo di Vendôme a Graziano a Tommaso d’Aquino), concepisce la donna come «nemica», dal suo prototipo della Genesi, Eva[24].

«La maledizione divina che accompagna Eva nella sua discesa dal Paradiso terrestre alla terra ritorna puntuale nella vita di ogni donna condannandola a subire irrevocabilmente la dominazione dell’uomo»[25]. Predicatori, filosofi, teologi, funzionari di corte, laici colti, parlavano alle donne e delle donne con toni e modi diversi, ma sempre con le stesse parole, per imporre lo stesso modello della «donna custodita»: obbligo di sobrietà nel mangiare e nel vestirsi, modestia, castità, umiltà, sobrietà, silenzio, operosità, misericordia, parco uso della parola, la restrizione negli spostamenti, allontanamento dalla vita pubblica della comunità a favore dello spazio privato ed interno della casa e del monastero[26].

Tommaso d’Aquino affermava (riprendendo Aristotele) che la donna era un «maschio mancato» (femina est mas occasionatus), aliquid deficiens. Per via del peccato originale, era chiara la sua inferiorità rispetto all’uomo, al quale doveva sottomissione (subiectio et minoratio ex peccato est subsecuta), avendo minori capacità e dignità (mulier naturaliter est minoris virtutis et dignitatis quam vir), ed essendole riservata la mera funzione di strumento di procreazione (mulier facta est in adiutorium viro ad generationem). «Naturalmente la donna è sottomessa all’uomo, perché naturalmente nell’uomo abbondano di più il discernimento e la ragione» (naturaliter femina subiecya est viro, quia naturaliter in homine magis abundat discretio rationis)[27]. Anche nella quotidianità della vita domestica, nella quale diversi sono i compiti dei due sessi, è l’uomo ad essere il capo della donna (etiam propter domesticam vitam, in qua sunt alia opera viri et feminae, et in qua vir est caput mulieris)[28]. Per via della sua imbecillitas, la donna deve essere sotto tutela, e «ha bisogno del maschio non solo per generare, come negli altri animali, ma anche per una guida: perché il maschio è più perfetto quanto ad intelligenza e più forte quanto a coraggio»[29].

Anche nel diritto canonico si presenta una visione assolutamente negativa. Nel cosiddetto Decretum Gratiani, che è fonte fondamentale del diritto canonico fino al XV secolo[30], si riporta l’opinione secondo cui «la donna non è stata fatta a immagine di Dio» e «anche se è dotta e santa, non deve pretendere di insegnare agli uomini nell’assemblea»[31]. E «a causa del peccato originale, che la donna ha portato nel mondo, le donne sono state ammonite dall’Apostolo ad essere modeste, ad essere sottomesse agli uomini e a velarsi come segno di soggezione»[32].

Queste teorie influirono a fondo sulla visione medievale e moderna della donna, giustificandone come naturale la discriminazione[33].

«I teologi cristiani, condividendo la concezione dominante che voleva la donna subordinata socialmente e giuridicamente, sostenevano che questa situazione era un fatto di natura, inerente cioè alla creazione stessa, attribuendo in questo modo a tale subordinazione una giustificazione teologica. Infatti un’interpretazione dei racconti fondanti della Genesi […] faceva ricadere la responsabilità principale del peccato originale su Eva, sulla prima donna, della cui colpevolezza tutte le altre donne diventano partecipi. Si formò così l’idea che la donna, incapace per debolezza costituzionale di resistere alla prima tentazione, fosse destinata per natura a un ruolo eterno di seduttrice, di intermediaria fra l’uomo e il demonio. Si spiega così la concezione ultramillenaria delle tre possibili condizioni di esistenza a cui le donne potevano avere accesso: in primo luogo la verginità, considerata la condizione più perfetta fra tutte, esaltata da tutta una letteratura agiografica, sebbene di fatto rappresenti la negazione stessa della specificità femminile; in secondo luogo la vedovanza; e infine, ma solo per ultima, la condizione matrimoniale, concepita come un necessario compromesso con il peccato della carne, compromesso giustificabile solo dalla procreazione»[34].

L’abate Goffredo di Vendôme nell’XI secolo, riprendendo il mito di Eva a giustificazione del disprezzo e persino dell’odio che la donna merita, scrive: «Questo sesso ha avvelenato il nostro primo genitore, che era anche suo marito e suo padre, ha strangolato Giovanni Battista, ha consegnato ai suoi nemici Sansone. In un certo qual modo, ha ucciso anche il Salvatore, perché se non fosse stato necessario per il suo peccato, nostro Signore non avrebbe avuto bisogno di morire. […] Questo sesso ha portato una duplice morte: se non avesse peccato e peccando non avesse fatto peccare il primo uomo, l’uomo non sarebbe morto nel corpo, né la sua anima sarebbe morta in eterno. Maledetto sia questo sesso […] che può essere più temuto quando è amato di quanto non possa esserlo quando è odiato!»[35].

A fine ‘400, un classico dell’antifemminismo, che si colloca all’interno di quel drammatico fenomeno (che imperversò in età moderna in Europa, ma anche oltre Oceano) che è la caccia alle streghe, il Malleus maleficarum, scritto dai domenicani tedeschi Heinrich Institor e Jakob Sprenger come manuale ad uso dei giudici impegnati nella persecuzione delle streghe, rappresenta una vera e propria antologia di pregiudizi antifemminili. Gli abominevoli comportamenti della strega (infanticidio, cannibalismo, osculum obscenum etc., inversione di tutto ciò che è norma) derivano dalla condizione difettosa e fragile della donna, che la induce a stipulare il patto col diavolo, asservita al quale diventa strumento di diffusione del male nel mondo. E anche qui tornano i motivi biblici, in particolare il tema mitico della prima donna della Genesi, e tutto il supporto delle riflessioni teologiche che su di esso si erano innestate per quasi millecinquecento anni, che servono a giustificare la persecuzione di un reato, declinato per eccellenza al femminile[36].

Anche l’iconografia risente di questa mentalità. Il quadro di Jean Cousin, Eva, prima Pandora, «opera capitale del Cinquecento, considerata come il primo nudo del Rinascimento», fonde in un’unica figura due mitologie antifemmiste (quella ebraico-cristiana e quella esiodea), accomunando e fondendo le due donne mitiche in quanto portatrici di ogni sventura per il genere umano: «gli attributi di questo corpo impassibile […] sono un teschio, un ramo di melo, i vasi di Pandora e un serpente. In questo nudo […] si decifra un’accumulazione di immagini negative tratte dalla mitologia, dalla Bibbia, dalla storia antica e da quella contemporanea, immagini aventi tutte per tema la donna fatale; si tratta d’un intreccio di allegorie il cui significato è d’ordine metafisico, morale e politico»[37]. Pandora ed Eva, l’eroina antica e la figura biblica «si congiungono per fare della donna la fonte di tutti i mali. Il tema di Pandora, dimenticato durante il Medioevo, ritrova un gran successo nel Cinquecento. Se l’accostamento dei due temi non è del tutto nuovo, la loro fusione in un’unica figura è invece originale»[38].

Di fronte a donne che acquisivano posizioni di comando nel campo del potere in tutte le sue forme, politico in particolare, esse sembravano come disturbare e porsi come una trasgressione dell’ordine gerarchico stabilito e accettato: «Rivolto a Mary Tudor, Mary Stuart e Caterina de’ Medici, nel 1558 il calvinista scozzese John Knox definiva il loro governo come “il mostruoso”, cioè contro natura “regime delle donne”»[39]. Ciò, in linea con quanto, nel XVI secolo, era ad esempio ritenuto opportuno da Jean Bodin (il filosofo e giurista teorico dell’assolutismo): cioè, lapidariamente, che le donne venissero «tenute lontane da tutte le magistrature, i luoghi di comando, i giudizi, le assemblee pubbliche e i consigli», così che si occupassero «solo delle loro faccende donnesche e domestiche»[40].

Il XX secolo è un secolo di grandi mutamenti, che influiscono in modo decisivo sui mutamenti della condizione femminile. Migliore salute, accresciuta longevità, allentamento della morsa delle costrizioni, democrazia, crescita economica, presenza delle donne nel mercato del lavoro, nel campo culturale e politico, con allargamento della sfera femminile pubblica[41].

E tuttavia continua a manifestarsi il «peso della morale religiosa nella volontà di controllare il ventre delle donne […] la Chiesa cattolica più di altre appare molto conservatrice in materia di rapporti tra i sessi – irrigidimento nei confronti di qualunque tipo di contraccezione, rifiuto del matrimonio dei sacerdoti o dellordinazione delle donne»[42].

L’antica colpa non sarà mai perdonata, come se fosse una colpa realmente, storicamente commessa: perché il mito, per chi vi crede, è storia sacra, cioè storia vera. E in ogni donna si conserva il retaggio della sua progenitrice mitica.

Erich Auerbach ha individuato persino in un poeta come Baudelaire innegabili influssi della visione della donna così maturata nella tradizione cristiana (con la quale per altri versi e in linea generale la concezione dell’artista sarebbe inconciliabile), tanto da ritenere che sullo specifico tema, visti la sua «rappresentazione degradante della sensualità, come il rapporto donna-peccato e desiderio-morte-corruzione […] la linea interiore delle Fleurs du Mal sarebbe impensabile senza la tradizione cristiana»[43].

 

 

4. – L’effetto di consacrazione e la violenza simbolica

 

Funzione fra le più importanti delle religioni e dei miti è quella di esercitare un effetto di consacrazione sulla realtà storica. Nel caso specifico, l’approccio alla storia (che è il piano del mutevole, del relativo e dell’arbitrario), mediato dall’effetto di consacrazione, sottrae alla sua dimensione di storicità la disuguaglianza tra uomo e donna, ontologizzandola: legittimando quanto è arbitrario e assolutizzando quanto è relativo, con tale alchimia ideologico-sacrale si eternizza e si rende immutabile quella subalternità. Il mito (e più in generale, l’ideologia religiosa), in quanto principio ordinatore del mondo, che opera da strumento di classificazione e di conoscenza del reale, impone schemi di pensiero, categorie organizzative del mondo sia naturale sia sociale, che si traducono immediatamente in criteri non solo di organizzazione e valutazione ma anche di azione, generatori di modelli comportamentali. Nel caso specifico, la realtà cosmizzata sacralmente è la gerarchia fra i sessi: il superiore (l’uomo) e l’inferiore e il sottomesso (la donna). Questo l’ordine, questo il grado.

I miti così intesi configurano dunque una struttura strutturante. Sappiamo però che essi non sono essenze atemporali, perché sono prodotti storici, determinati da particolari condizioni storicamente date: sono, cioè, strutture strutturate. Perché essi, però, esercitino efficacemente quelle funzioni di consacrazione, devono essere imprescindibilmente rispettate delle condizioni: chi vive e agisce all’interno di un dato campo religioso deve misconoscere il fatto che il mito sia una struttura strutturata, cioè storicamente determinata e condizionata da interessi propri dei produttori e dei fruitori così come si trovano costituiti entro sistemi di relazione di poteri e di dominio. Soltanto misconoscendo i limiti della conoscenza resa possibile dall’ideologia religiosa e dal mito, può davvero esercitarsi l’efficacia simbolica che è loro propria, e dunque la consacrazione di una realtà percepita come frutto di volontà e poteri divini, al di fuori della storia e delle sue mutevoli vicende, e perciò fuori discussione e da conservarsi inalterata[44].

La corrispondenza tra strutture sociali e strutture mentali (grazie all’intermediazione dei sistemi simbolici, di cui la religione, i miti sono parte) così ipotizzata da Bourdieu comporta funzioni politiche. I sistemi simbolici, oltre ad essere strumenti di conoscenza, sono infatti strumenti di dominio, e rappresentano la risultante di rapporti di forza tra classi, etnie, sessi, per cui possiamo parlare di «violenza simbolica»[45] esercitata sulla donna tramite le valenze fondative del discrimine insite nei sistemi mitico-religiosi.

La violenza simbolica radicata nel dispositivo mitico, generatore di schemi di pensiero preriflesso (e che può rappresentare l’atrio di altre forma di violenza, anche non simboliche), opera senza che debbano ogni volta intervenire costrizioni esterne ad organizzare le condizioni di vita femminile negli spazi della subordinazione (nella famiglia, nei sistema educativi e scolastici, nel sociale, nell’accesso alle professioni, nell’esercizio di diritti politici). La condivisione da parte di tutti i soggetti della relazione, non solo quelli favoriti (gli uomini) ma anche quelli sfavoriti (le donne), di una visione del mondo così sacralizzata determina una sostanziale armonia nei rapporti. Ognuno, nel rispetto delle regole, gioca la sua parte, e il soggetto sfavorito vive la sua subordinazione accettandola in quanto ne misconosce la matrice storica, antropologica, e diventando in tal modo guardiano di se stesso. L’immagine di sé in quanto esse finisce per coincidere col percipi.

È «il sistema mitico-rituale» a ratificare e amplificare «il principio dell’inferiorità e dell’esclusione delle donne»[46].

C’è secondo Bourdieu da evidenziare «il lavoro storico di destorificazione» dei meccanismi culturali e politici che stanno alla base, in tutte le società, della affermazione del dominio maschile. Riportiamo direttamente la sue parole: «In effetti è chiaro che l’eterno, nella storia, non può essere altro che il prodotto di un lavoro storico di eternizzazione. E ciò significa che per sfuggire completamente all’essenzialismo, non si tratta tanto di negare la permanenza e le invarianti, che fanno incontestabilmente parte della realtà storica; occorre piuttosto ricostruire la storia del lavoro storico di destorificazione o, se si preferisce, la storia della (ri)creazione protratta delle strutture oggettive e soggettive del dominio maschile che si è sviluppata ininterrottamente, da quando esistono uomini e donne, e attraverso la quale l’ordine maschile si è continuamente riprodotto di età in età. In altre parole, una “storia delle donne” che intenda mostrare, anche suo malgrado, forti elementi di costanza e di permanenza, deve, se vuole essere conseguente, considerare anche, e forse anzitutto, la storia degli agenti e delle istituzioni che concorrono in permanenza ad assicurare tali permanenze, chiesa, stato, scuola ecc., e che possono variare, nelle diverse epoche, quanto a peso relativo e a funzioni. Non può accontentarsi di registrare, per esempio, l’esclusione delle donne dall’una o dall’altra professione, dall’una o dall’altra carriera, dall’una o dall’altra disciplina; deve prendere atto e rendere conto della riproduzione e delle gerarchie (professionali, disciplinari ecc.) nonché delle disposizioni gerarchiche che esse favoriscono spingendo le donne a contribuire alla loro esclusione dai luoghi da cui sono comunque escluse»[47].

L’habitus, in quanto disposizione mentale interiorizzata e durevole di percezione e valutazione della realtà indotta dai miti, conduce alla accettazione delle condizioni vigenti di disparità come fossero un dato inserito nell’ordine naturale delle cose (naturaliter, ad esempio, ricordiamo che la donna è inferiore all’uomo secondo Tommaso d’Aquino). L’autodevalorizzazione che ne deriva (di cui ampia è la documentazione) da parte di chi occupa una posizione dominata nella struttura di dominazione (qui, la donna) avviene mediante l’adesione ai principi di ordinamento del mondo sociale, e del rapporto uomo-donna, come realtà che vanno da sé e fuori discussione. Si afferma così una naturalizzazione delle relazioni d’ordine, che in questo caso riguarda la gerarchia fra i sessi, ma che più in generale interessa, nelle varietà delle configurazioni mitiche, tutte le forme di gerarchia operanti nei contesti sociali interessati.

 

 

5. – Ossimori

 

5.1. – L’ossimoro biologico

 

Nella concezione millenaria cristiana, della donna si propongono modelli, e anche qui san Paolo fa testo. È la verginità ad essere considerata «la condizione perfetta, esaltata da tutta una letteratura agiografica […]; in secondo luogo, la vedovanza; infine, solo per ultima, la condizione matrimoniale, concepita come un necessario compromesso con il peccato della carne, compromesso giustificabile solo dalla procreazione»[48]. L’affermazione paolina del «primato della verginità rispetto al matrimonio» come modello di perfezione fa osservare che «la piena realizzazione della donna è in questo modo concepita solo nella rinuncia alla propria specificità e all’unico ruolo riconosciutole dalla società [quello generativo]. In altre parole, mentre presso i pagani la donna è definita dal suo sesso e dalla sua funzione materna, nel cristianesimo essa deve smettere di essere donna se vuole avere accesso alla propria perfezione»[49].

Modello dei modelli di perfezione è Maria, la christotóchos, la theotóchos: vergine, madre, figlia del figlio: la perfezione è prospettata nella negazione dell’unico ruolo, quello generativo, riconosciutole dalla società. Dove si procede a una sospensione delle leggi naturali: una sorta di ossimoro biologico[50].

 

 

5.2. – Gli ossimori logici

 

A quest’ossimoro si accompagnano altri ossimori, di tipo logico, già presenti in Paolo (uguaglianza in Cristo, ma disparità di fatto) e frequenti negli atteggiamenti, in particolare in età contemporanea, delle massime autorità religiose, quando (dovendo fare i conti con una cultura rinnovata, laica, democratica, che esercita la sua forza d’urto) parlano dell’uguaglianza fra i sessi e della pari dignità, ma con conseguenza pratiche e operative che di fatto contraddicono le premesse.

Certo, nella Chiesa si osserva attualmente un declinare della lunga tradizione di antifemminismo. L’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) «riconoscendo la necessità di prendere in considerazione gli apporti della modernità, indicava, tra i vari “segni del tempo” che rivelavano una presa di coscienza della pari dignità degli esseri umani, la decolonizzazione, la promozione sociale degli operai e l’emancipazione della donna. Quest’analisi fu esplicitata più diffusamente dal Concilio Vaticano II»[51].

Paolo VI (Gaudium et spes, 1965) sottolinea la pari dignità personale dell’uomo e della donna. Ma insieme riafferma che «nella tradizione cattolica e ortodossa il problema è posto in termini differenti: qui il sacerdote esercita un potere sacro al servizio dei fedeli. Questo potere è stato sempre appannaggio del sesso maschile per una ragione simbolica di identificazione del sacerdote con il Cristo, figlio di Dio fatto uomo. Paolo VI, nella lettera inviata il 30 novembre 1975 all’arcivescovo di Canterbury, dichiarava che la Chiesa “ha sempre sostenuto che l’esclusione delle donne dal sacerdozio è conforme al disegno di Dio sulla Chiesa”. Sulla stessa identica linea Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis (30 maggio 1994), opponeva un rifiuto “definitivo” all’ordinazione delle donne, precisando comunque che “la non ammissione delle donne all’ordinazione sacerdotale non può significare che esse abbiano una dignità minore, né che esse siano oggetto di una discriminazione”»[52].

Si nega in tal modo di fatto (esercitando una discriminazione) ciò che in linea di principio si afferma (la pari dignità).

 

 

6. – Rovesciamenti mitici

 

E comunque esistono, oltre alle distinzioni e sperequazioni di genere, profonde distinzioni all’interno stesso del mondo femminile, che non è, né è mai stato, un mondo uniforme, perché attraversato e segnato da distinzioni di classe sociale, che determinano percorsi esistenziali certamente diversi (di libertà, di opportunità, di agiatezza, di educazione, di cultura), più o meno agevoli, più o meno difficoltosi. Ciò non andrebbe mai dimenticato.

Un esempio di femminismo religioso, di esegesi femminista della Bibbia, si osserva nella ripresa, in particolare in ambito protestante, a fine ‘800 (l’Ottocento è un secolo di grandi impegni e forti mutamenti nel rapporto fra i sessi e nella lotta per l’emancipazione femminile), del tema di Eva nella Genesi, reinterpretato in senso egualitario nel rapporto uomo-donna (Eva, ad esempio, come conclusione, e quindi perfezione dell’atto creativo, dopo il quale Dio, concluso il suo progetto, si riposa). Fra le altre, va ricordata su questa linea interpretativa l’inglese Elisabeth Cady Stanton, con il suo Women’s Bible (a fine secolo). Questa la parola d’ordine delle militanti più convinte del femminismo anglosassone del XIX secolo: «Pregate Dio, Essa vi esaudirà!»[53]. Né va dimenticata la battaglia per l’accesso al ministero religioso, compresa la carica di pastore, e ai diritti politici. Un tipo di femminismo religioso ben presente anche fra i quaccheri[54].

Il contemporaneo mito di Wicca[55]: mito di ribaltamento, immagine speculare e rovesciata, subalterna alla logica fondativa del piano mitico (passo indietro? … ritorno alla dimensione del mito e della sacralità in quanto spazio individuato come pertinente per la risoluzione di sporgenze critiche (la condizione femminile subalterna) che sono storiche ma che vengono trattate metastoricamente, appunto in proiezione mitica.

È un ritorno alla dimensione sacrale del mito come spazio risolutivo di sporgenze critiche (la condizione femminile) storiche.

In realtà, «noi – come nota Ernesto de Martino – non possiamo abbassare le armi della critica davanti al “numinoso” e rinunziare a ritrovare gli uomini e le motivazioni umane che l’hanno di volta in volta generato nella concretezza delle diverse situazioni culturali. La coscienza dell’origine e della destinazione umana di tutti i beni culturali […] è lo strumento di analisi più indispensabile che portiamo con noi» (= etnocentrismo critico)[56], se no, chiacchiericcio indistinto. Dunque, riduzione antropologica del sacro, e del mito.

 

 

7. – Una stanza tutta per sé

 

Sotto questo punto di vista ben più lucido, pragmatico e dissacrante appare l’atteggiamento libero, laico e demistificatorio di Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé (che prospetta una soluzione storica, non mitica, a un problema che è storico): se Shakespeare fosse stato donna, senza tutti i privilegi legati alla condizione maschile, come, appunto, una stanza tutta per sé (ciò che significa: educazione, mezzi, cultura, libertà, strumenti ecc.) avrebbe potuto avere la stessa creatività? La sua ipotetica sorella Judith, con lo stesso talento ma senza quei mezzi, vittima di pregiudizi e convenzioni, si suicidò. L’emancipazione richiede, scrive Virginia Woolf, una rendita di «cinquecento sterline l’anno a vita» e «una stanza tutta per sé»: elementi che tornano spesso nell’opera, ricchi di valenze; simbolici, certo, ma non certo mitici.

 

 

Abstract

 

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] La sede cui si fa riferimento è il Seminario Riflessi in uno specchio scuro. Miti, archetipi e stereotipi nel processo per violenza sessuale, a cura del Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università di Sassari, col patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Sassari, che si è tenuto a Sassari nei giorni 19-20 marzo 2014. Sulla storia delle donne ho in particolare tenuto conto del fondamentale G. Duby, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente, 5 voll., Laterza, Bari 1990-1992 (I, L’antichità, 1990; II, Il Medioevo, 1990; III, Dal Rinascimento all’età moderna, 1991; IV, L’Ottocento, 1991; V, Il Novecento, 1992) e anche di Aa.Vv., Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea, Viella, Roma 2002.

 

[2] F. Lenoir, Y. Tardan-Masquelier, La religione, voll. I-VI, UTET, Torino 2001 (orig., Encyclopédie des religions, Bayard Editions, Paris 1997), vol. IV, 462 ss. Sul mito cinese del “macrantropo” Pangu, primo degli esseri viventi, nato all’interno dell’uovo primordiale, che crescendo e morendo creerà il mondo, I. Robinet, Cina: l’uomo a immagine dell’universo, in Lenoir, Tardan-Masquelier cit., vol. IV, 481 ss.

 

[3] Nello stesso IV volume, L’uomo e le rappresentazioni del divino, di Lenoir, Tardan-Masquelier son da vedere, per uno sguardo panoramico, i saggi, curati da diversi specialisti, sui miti relativi, oltre che alle cosmogonie, alla nascita dell’uomo, al rapporto uomo-donna, alla struttura dell’essere umano in diversi ambiti storico-religiosi (Mesopotamia; Egitto; India vedica; buddhismo; Grecia; Roma; Cina; islamismo; ebraismo, cristianesimo; Aztechi; mondo dei popoli primitivi etc.)

 

[4] Cfr. A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1995, 93 ss. (Murnghin) e 103 s. (Mundurucù).

 

[5] Cfr. S. J. Tambiah, From varna to cast through mixed unions, in J. Goody (a cura di), The character of kingship, Cambridge 1973.

 

[6] «La Repubblica», 24/01/2014, 19: Frequenta un ragazzo straniero sia condannata a uno stupro. India, la sentenza della vergogna. Grave una ventenne, arrestati il “giudice” e 12 assalitori. Il capo villaggio e i giovani violentatori sono stati arrestati perché la ragazza, cui era stato imposto il silenzio, ha dovuto dare conto dei fatti per via del ricovero il giorno successivo in un ospedale per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

 

[7] A. Bertholet, Dizionario delle religioni, Editori Riuniti, Roma 1991, 139.

 

[8] I. Sordi, Buddha, Ediz. Futuro, Verona 1981, 45. Si possono vedere su questo motivo: O. Botto, Buddha e il Buddhismo, Mondadori, Milano 2001, 43, 120 s.; H. Arvon, Il buddismo, Milano 1977, 51 ss.; G. R. Franci, Il buddhismo, Bologna 2004, 43 s.

 

[9] Ch. Kaplisch-Zuber, in Duby, Perrot II, 21. Ma vedi anche sempre nel II volume dell’opera di Duby, Perrot il lavoro di Ch. Frugoni, Punto di vista della Chiesa relativamente alla donna, dove torna proprio il tema mitico delle origini come continua base ideologica che giustifica la subordinazione della donna.

 

[10] Si vedano i due contributi di Sh. Trigano, Ebraismo: «Uomo e donna li creò», in Lenoir, Tardan-Masquelier, cit., IV, 499-504 e Idem, Ebraismo: l’uomo creato a immagine di Dio, in Lenoir, Tardan-Masquelier, IV, 475-479.

 

[11] Sh. Trigano, Ebraismo:l’uomo creato a immagine di Dio, in Lenoir, Tardan-Masquelier, cit., IV, 476.

 

[12] Trigano, Ebraismo: «Uomo e donna li creò» cit., 499.

 

[13] «Le qualità negative della donna (golosa, indiscreta, pigra, gelosa, volubile, maldicente, ladra, scostumata e superficiale) si alternano alle sue qualità positive (dotata di una fede più forte di quella degli uomini, di maggiore capacità di giudizio e maggior sensibilità)». Così nella tradizione talmudica e nel Midrash: Trigano, Ebraismo: «uomo e donna li creò» cit., 500.

 

[14] Trigano, Ebraismo: «Uomo e donna Dio li creò» cit., 500 s.

 

[15] Trigano, ivi, 502.

 

[16] M. Meslin, Cristianesimo: uguaglianza ontologica e discriminazione sociale, in Lenoir, Tardan-Masquelier, cit., IV (505-511), 506.

 

[17] Ibidem

 

[18] Ibidem

 

[19] Meslin, 508.

 

[20] Tertulliano, De cultu feminarum, in Migne, PL 1, coll. 1418-1419: «In doloribus et anxietatibus paries, mulier, et ad virum tuum conversio tua: et ille dominabitur tui. Et Evam te esse nescis? Vivit sententia Dei super sexum istum, in hoc saeculo: vivat et reatus necesse est. Tu es diaboli janua, tu es arboris illius resignatrix, tu es divinae legis prima desertrix, tu es quae eum persuasisti, quem diabolus aggredi non valuit. Tu imaginem Dei, hominem, tam facile elisisti: propter tuum meritum, id est mortem, etiam Filius Dei mori habuit»

 

[21] Ambrogio, In Epistolam Beati Pauli ad Timotheum Prima, Migne PL 17, col. 494: «Adam enim primus creatus est, deinde Eva et Adam non est seductus, mulier autem seducta […]. Praefert virum mulier, propter quod primus creatus est, ut inferior sit mulier quia post virum er ex viro creata est. Adjicit et aliud, quia diabolus non virum seduxit, sed mulierem; vir autem per mulierem deceptus est […] per illam mors intravit in mundum». L’opera De Paradiso, in Migne PL 14.

 

[22] Meslin, Cristianesimo: uguaglianza ontologica e discriminazione sociale cit., 508.

 

[23] C. Casagrande, La donna custodita, in Duby, Perrot, Storia delle donne, II, 110.

 

[24] J. Delarun, La donna vista dai chierici, in Duby, Perrot cit., 24-55. Per Graziano, «la donna, anche se dotta e santa, non deve pretendere di insegnare agli uomini [viros] nell’assemblea», ivi, 50.

 

[25] Casagrande, La donna custodita cit., 110 s.

 

[26] Casagrande, La donna custodita cit., pp. 112, 124. Si veda il capitolo X (Gli inviati di Satana: III - La donna, 473-534) di J. Delumeau, La paura in Occidente, Sei, Torino 1994 (orig., Parigi 1978).

 

[27] Summa Theologiae, parte I, quest. 92, art. 1, 2. Cfr. J. Delumeau, La paura in Occidente cit., 483.

 

[28] Summa Theologiae, parte I, quest. 92, art. 2.

 

[29] Somma contro i Gentili, lib. III, cap. 123 (trad. it., Mondadori, Milano 2009). Cfr. Delumeau, op. cit., 483.

 

[30] È una raccolta di fonti di diritto, con commento, redatta dal monaco camaldolese Graziano nella prima metà del XII secolo, negli anni 1140-1142, in base alle conclusioni dei concili pregressi. Ebbe grande autorità nella chiesa latina, fu poi integrato e aggiornato con altri testi, leggi, documenti - extravagantes, cioè fuori dal Decretum Gratiani - che insieme andarono a costituire un complesso normativo che prese corpo definitivamente nel 1582 nel Corpus Juris Canonici, che restò in vigore fino al 1917, allorché venne emanato il Codex Iuris Canonici; nel 1983 è promulgato per la chiesa latina un Codice di diritto canonico.

 

[31] Delarun cit., 50.

 

[32] Decretum Gratiani, Causa 2, quaestio 7, dove si vieta alle donne di sostenere un’accusa contro un sacerdote, nonostante nel Vecchi Testamento le donne fossero diventate anche giudici: nel Nuovo Testamento, e secondo l’Apostolo, a causa del peccato originale ciò non è più possibile. Analoghe considerazioni in Causa 33, quaestio 5.

 

[33] Una discriminazione, nota Meslin, «sacralizzata sulla base di un’esegesi erronea»: Meslin parla di esegesi erronea? Mi sembra discutibile questa notazione sulla “erroneità” dell’esegesi, come se nel testo sacro ci fosse una verità e una sola,a ssoluta, da interpretare non erroneamente!

 

[34] Meslin, 509.

 

[35] Riporto integralmente il brano in questione: Goffridi Abbatis Vindonicensis, Epistolae, lib. IV, Epistola XXIV, in Migne PL 157, col. 168: «Sexus iste nostrum primum venenavit parentem, suum quoque maritum et patrem, jugulavit Samsonem, quodam etiam modo interfecit Salvatorem, quia nisi ejus culpa exigeret, Salvator noster pro nobis mori necessarium non haberet. Heu quantos jam perdidit! quos adhuc potest perdere non desistit! Ut breviter dicam, omnibus qui perierunt, qui pereunt, seu qui usque in finem saeculi perituri sunt, sexus iste duplicem contulit mortem. Nisi enim peccasset, et peccando primum hominem peccare fecisset, homo non moreretur in corpore, nec ejus anima in aeternum periret. Vae sexui, cui nec timor inest, nec verecundia, nec bonitas, nec amicitia, qui magis timeri potest cum amatur, quam cum odio habetur».

 

[36] Tale opera, pubblicata nel 1487, è disponibile anche in traduzione italiana: Heinrich Institor, Jakob Sprenger, Il martello delle streghe, Marsilio, Padova 1977. Sulla presenza del tema mitico della Genesi anche nell’ideologia religiosa che tratteggia la figura della strega, vedi, fra i tanti, J.-M. Sallmann, Strega, nel III vol. di Duby, Perrot, Storia delle donne, 458.

 

[37] F. Borin, Immagini di donne, in Duby, Perrot III, 226.

 

[38] Borin, 227 e fig. 3. Un’altra iconografia di epoca precedente, in cui è presente l’accostamento, anche se non la fusione, fra le due figure, è ricordata da Borin: nel 1481, «Berthold Furtmayr dipinge la miniatura dell’Albero della vita e della morte (fig. 2) per un Missale Romanum, libro ufficiale dei ministri del culto della Chiesa cattolica romana e quindi strumento privilegiato di trasmissione del sapere. Vi si può leggere immediatamente la dicotomia Bene/Male, Salvatrice/Madre-di-tutti-i-mali, incarnata da Maria e da Eva. La Vergine, a sinistra, coglie sull’albero, vicino ad un piccolo crocifisso, l’antidoto al peccato mortale: l’ostia che trasmette agli eletti seguiti da un angelo con la scritta “Vedete, questo è il pane degli angeli, il pasto dei pellegrini”. A destra Eva, la cui nudità risplende, attirando tutta l’attenzione, tende ai poveri il frutto proibito colto sull’albero, vicino ad un teschio (e in tal modo “nutre male”); accanto, uno scheletro che regge un’altra iscrizione: “Dall’albero proviene il male della morte e il bene della vita”, accompagna coloro che si comunicano così. Due immagini della morte inquadrano la nostra madre universale. Tutto è tondeggiante in quest’immagine: lo spazio della scena, i medaglioni, l’albero, l’ostia e la mela, il seno e il ventre di Eva, vero omaggio grafico alla femminilità. La posizione di Eva, a destra, le conferisce un’importanza predominante e la situa cronologicamente dopo la Vergine, come se la figura di Maria non cancellasse completamente il peccato originale. In questo dramma della dannazione, l’uomo è relegato in secondo piano: il Cristo, vincitore della morte, appare solo in piccolo sull’albero e Adamo, il primo vivente, resta semi-nascosto. La scena è completamente dominata dalla duplice presenza femminile e pare che la visione negativa abbia il sopravvento».

 

[39] N. Zemon Davis, Donne e politica, in Duby, Perrot, III, 202.

 

[40] N. Zemon Davis, Donne e politica cit., 201.

 

[41] Duby, Perrot, vol. V, Il Novecento, Bari 1992.

 

[42] Françoise Thébaud, Introduzione, in Duby, Perrot, vol. V (3-17), 11.

 

[43] E. Auerbach, Saggio introduttivo a Ch. Baudelaire, I fiori del male, tr. it., Feltrinelli, Milano 1977, XXVIII.

 

[44] Si veda, sull’argomento, P. Bourdieu, Genèse et structure du champ religieux, in «Revue Française de Sociologie» XII, 1971, 295-334.

 

[45] Si veda su tale concetto P. Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 2014 (orig., Paris 1998), 43 ss.

 

[46] P. Bourdieu, Il dominio maschile, cit., 53.

 

[47] P. Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 2014 (orig., Paris 1998), 98 s.

 

[48] J. Delarun, in Duby, Perrott, II, 33 s.

 

[49] Meslin, Cristianesimo: uguaglianza ontologica e discriminazione sociale cit., 508.

 

[50] Si riprende il famoso verso dantesco del canto XXXIII del Paradiso. Su nascite miracolose e virginali, si può ricordare anche quella della madre del Buddha, Maya, che era rimasta incinta dopo aver sognato un elefante bianco che le entrava in grembo da un fianco, e dopo dieci mesi di gravidanza l’aveva dato alla luce, senza dolore, da un fianco: cfr., fra i tanti, Botto, op. cit., 10 s.

 

[51] Meslin, 510.

 

[52] Meslin, 510-511.

 

[53] Jean Bobérot, La donna protestante, in Duby, Perrot, IV, 202; 192-208.

 

[54] Cfr. I. Chirassi Colombo, Il “femminismo politico” di Joyce Lussu tra sibille, streghe e comunanze, in «Proposte e ricerche» 70, 2013, 54.

 

[55] V. Lanternari, Ecoantropologia. Dall’ingerenza ecologica alla svolta etico-culturale, Edizioni Dedalo, Bari 2003, 16-19 e l’intero capitolo settimo (“Ecologia e religione: neopaganesimo ed ecofemminismo”, 181-213), che è dedicato ai temi del neopaganesimo, dell’ecofemminismo, della figura della Dea, dell’esclusione o della presenza subalterna del maschio. Su Wicca e sui movimenti del “neopaganesimo” ebbero forti influenze i lavori di Margaret Murray e di Marja Gjmbutas. Fra gli ultimi lavori sul tema, si può vedere M. Menicocci, Vita da streghe. Caratteri strutturali e forme di socializzazione del movimento neopagano, in «Antropos» 2006-2, 55-61, con annessa bibliografia.

 

[56] E. de Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 2008 (I ed., 1961), 42. Cfr. P. Coppo, Tra psiche e culture. Elementi di etnopsichiatria, Bollati Boringhieri, Torino 2003, 41.