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foddai - Assisi - CopiaJONAS, HOBBES E LE FORME DELLA PAURA

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G. MARIA ANTONIETTA FODDAI *

Università di Sassari [ foddaima@uniss.it ]

 

 

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Euristica della paura e responsabilità: la proposta di Jonas. – 3. Costruire la paura. – 3.1. Rappresentare la minaccia. – 4. Hobbes e la ‘passione’ della paura. – 4.1. Paura naturale, paura politica e paura religiosa. – 5. Jonas e la ridefinizione della paura. – 5.1. Incertezza e etica della conoscenza. – 6. Jonas, Hobbes e le forme della paura. – 7. Paura etica e responsabilità: note conclusive. – Abstract.

 

 

1. – Introduzione

 

Ogni epoca ha la sua paura: così come l’età moderna ha la paura della violenza, della morte che ciascun individuo può procurare all’altro, di cui Hobbes rappresenta il più importante teorico, così l’età postmoderna ha la paura della fine della specie umana e del mondo terrestre così come l’abbiamo conosciuto, e Jonas è il suo teorico.

Sebbene sia difficile incasellare Jonas in una corrente filosofica, non possiamo certo definirlo come un filosofo intuizionista o sentimentalista. Il suo viene accreditato come un approccio razionalista, che fonda i principi dell’etica sull’ontologia della vita finalisticamente orientata. Eppure Jonas si è imposto nel dibattito culturale della fine del secolo scorso come il filosofo della paura, quello che, nell’orizzonte filosofico contemporaneo, assuefatto alle ragioni della scienza e al ruolo rassicurante dei diritti, ha fatto ricorso all’emozione animale più antica, a quella passione universale che la riflessione sembrava aver condannato all’oblio.

Egli riconosce una forma di paura che serpeggia nella coscienza collettiva del nuovo millennio, alla quale conferisce dignità etica: la paura per il futuro della specie umana. Nel Principio responsabilità, l’opera ormai considerata un classico della filosofia[1], Jonas tematizza la paura come uno strumento morale necessario per superare l’inadeguatezza dell’etica moderna e fondare una nuova etica in grado di fronteggiare i rischi derivanti dal processo scientifico e tecnologico. Jonas dice che dobbiamo imparare ad avere paura delle concrete possibilità che l’uso illimitato del nostro potere comporta e che, di fronte al dubbio, dobbiamo sempre considerare l’ipotesi peggiore, perché la posta in gioco è troppo alta, e non possiamo affidarla al caso. Un tempo considerata «una debolezza dei timidi»[2], un’emozione da nascondere, la paura oggi deve assumere un valore conoscitivo, inducendo gli uomini alla prudenza[3]. Si tratta della tesi espressa dall’euristica della paura che rappresenta uno degli aspetti più originali della filosofia di Jonas e, allo stesso tempo, uno dei più criticati[4].

Eppure, nonostante sia stata oggetto di aspre critiche, la paura rimane un aspetto poco indagato del suo pensiero, soprattutto per il ruolo che svolge nella elaborazione del principio responsabilità. Questo articolo intende occuparsi del tema della paura e delle sue implicazioni per la responsabilità. La tesi sostenuta è che Jonas elabori un nuovo concetto di paura, plasmato da quella particolare forma di incertezza prodotta dall’età tecnologica. Sebbene i critici abbiano interpretato il tentativo di Jonas come la costruzione di un’etica fondata sull’irrazionalità di un’emozione, l’analisi intende mostrare che Jonas sostiene una teoria cognitivista della paura: la paura di cui egli parla nel Principio responsabilità non è un’emozione, intesa come reazione corporea e psicologica irriflessa, ma una forma di pensiero valutativo che compone la responsabilità.

Per mostrare quale forma e funzione assuma la paura nella tesi di Jonas, si farà riferimento ai significati che la paura assume in Hobbes, a cui lo stesso Jonas si richiama.

 

 

2. – Euristica della paura e responsabilità: la proposta di Jonas

 

Sia nell’immaginario collettivo, che nelle teorizzazioni moderne, la paura è un sentimento irrazionale, epistemologicamente ‘opaco’ che blocca l’azione[5].

Questa interpretazione ha le sue radici nel pensiero razionalista dell’Occidente, che va da Cartesio a Spinoza, e giunge fino a Kant, in cui emozioni, sentimenti e desideri vengono accomunati come passioni che la ragione deve tenere sotto controllo per poter orientare la volontà verso il bene, individuale o collettivo[6]. La lunga tradizione che condanna le passioni come fattore di turbamento, instabilità, pericolo, contrapponendole alla limpida certezza della ragione, ha visto la paura o come un’emozione che acceca individui e folle e che deve essere superata con la forza fredda della ragione, o come una forza da imbrigliare per il controllo delle masse[7]. Per Cartesio la paura è un sentimento che limita l’immaginazione, per Spinoza la paura, insieme alla speranza, è una passione incerta[8]. Entrambe sono incontrollabili e non si assoggettano al governo della ragione e della volontà. Del resto, come spiega Bodei, “passioni” e “ragione” sono termini “pre-giudicati”, inscritti in «costellazioni di senso teoricamente e culturalmente condizionate, anche se a noi familiari e ormai difficili da sostituire»[9].

In questi orizzonti di senso, ‘paura’ appartiene al mondo delle passioni e rappresenta la condizione dell’instabilità e dell’incertezza, ‘responsabilità’ è un prodotto dell’elaborazione razionale che esprime la garanzia della stabilità e della certezza. La prima viene comunemente intesa come un’emozione che produce reazioni incontrollabili e non consente di pianificare e prevedere il comportamento umano; la seconda esprime un giudizio basato sulla capacità dell’agente di adeguare il suo comportamento a un sistema predefinito di norme morali e giuridiche e sulla coerenza dei suoi atti col sistema normativo dominante. Mentre la paura è qualcosa che subiamo, da cui veniamo dominati al pari di qualsiasi altra emozione[10], il giudizio di responsabilità è qualcosa che noi stessi elaboriamo e governiamo.[11]

Nella tesi di Jonas, il significato della paura è associato all’euristica, ossia alla possibilità di apprendimento e di scoperta che viene offerta all’uomo dall’esercizio consapevole e controllato di questa emozione[12]. L’euristica della paura è uno strumento di ricerca che permette agli uomini di scoprire, attraverso la minaccia di uno stravolgimento dell’identità umana, il bene da salvaguardare: «(…) soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto di umanità da salvaguardare; abbiamo bisogno della minaccia dell’identità umana – e di forme assolutamente specifiche di minaccia – per accertarci angosciati della reale identità dell’uomo»[13]. Accanto alla riflessione razionale, la paura rappresenta una via d’accesso privilegiata e immediata alla scoperta del valore. Come scrive Jonas, si tratta di un sapere che scaturisce, «contro ogni logica e metodo»,[14] dalla percezione del pericolo. La responsabilità nasce da questa scoperta del valore dell’umanità, come dovere di preservarne e garantirne le condizioni di vita. Non vi è quindi niente di sorprendente nel modo in cui alcuni critici hanno accolto l’euristica della paura. Il richiamo alla paura è stato infatti interpretato come l’inaugurazione di una nuova era della superstizione, fondata sul potere inibitore delle emozioni, piuttosto che come uno strumento razionale, necessario per l’elaborazione dei principi etici[15].

Secondo l’interpretazione che qui si propone, Jonas opera un cambiamento semantico nel Principio responsabilità, attribuendo nuovi significati ai termini ‘paura’ e ‘responsabilità’ che vengono ridefiniti in una nuova cornice di senso, dominata dall’incertezza prodotta dall’incessante sviluppo tecnologico. È questa la chiave che permette a Jonas di allontanarsi dalla concezione moderna e di instaurare un’inedita relazione tra paura e responsabilità. La paura perde il suo significato di timore patologico e irrazionale per assumere quello di timore appropriato che induce alla prudenza e mobilita all’azione[16]. La responsabilità perde il suo carattere retrospettivo e sanzionatorio, per ridefinirsi come il dovere di affrontare l’incertezza per salvaguardare il destino delle generazioni future. La relazione tra paura e responsabilità tuttavia mostra altri significati, oltre a quelli appena delineati. La paura infatti non è solo la forza positiva che induce all’azione, ma la condizione conoscitiva dell’oggetto della nostra responsabilità; è ciò che spinge ad interrogarci sul significato di umanità e sulle condizioni di vita buona e giusta che noi vorremmo realizzare per l’intera umanità[17]. Questo ambizioso compito che Jonas assegna alla paura la ridefinisce come un sentimento morale che plasma e compone la stessa responsabilità che a sua volta ridefinisce e alimenta la paura, attraverso il ‘chi’ o ‘cosa’ verso cui siamo responsabili.

Attraverso termini saldamente ancorati nell’orizzonte concettuale dell’etica contemporanea, Jonas veicola nuovi significati, producendo risultati inattesi, e non sempre compresi nella loro radicale novità.

 

 

3. – Costruire la paura

 

Il compito etico che Jonas affida all’umanità è quello di elaborare un genere del tutto nuovo di paura che egli illustra nel secondo capitolo del Principio responsabilità, dove presenta l’euristica della paura. Qui Jonas non descrive la paura come un’impressione immediata che denuncia uno stato fisico o psicologico, ma piuttosto come un concetto che deve essere riformulato sulla base dei mutamenti radicali che hanno investito l’agire umano. Questi riguardano il nuovo potere di scienza e tecnologia, il cui uso illimitato compromette le condizioni della vita umana sulla terra e la stessa idea di umanità, minacciata nella sua identità biologica. Jonas dice che dobbiamo imparare ad avere paura delle concrete possibilità che un uso sconsiderato del nostro potere comporta. Il problema dell’euristica della paura è proprio in questa frase: ‘dobbiamo imparare ad avere paura’. Significa che la paura è un dovere che consiste in una forma di apprendimento. Jonas non usa volentieri la parola ‘conoscenza’ riferita alla paura, perché sa di muoversi sul terreno sdrucciolevole delle emozioni, in cui è problematico argomentare una forma di conoscenza razionale del valore. Tuttavia egli ritiene essenziale fare ricorso proprio a questa emozione e non a un’altra, il che suggerisce due elementi di riflessione su cui si tornerà nelle pagine seguenti.

Il primo riguarda il fatto che la paura spesso ci coglie di fronte ad una situazione inattesa e nuova, in cui non abbiamo il controllo degli eventi e ci troviamo di fronte a un pericolo rappresentato da un’incertezza. L’incertezza indotta dall’impresa scientifica e tecnologica è ciò che per Jonas rappresenta la possibilità dell’inatteso, dell’imprevisto che potremmo non essere in grado di fronteggiare.

Il secondo è relativo a una caratteristica che tutte le emozioni presentano: non sono neutrali rispetto al valore, ‘ci’ accadono sempre in relazione a oggetti che per noi hanno valore, mostrando, al di fuori di ogni metodologia conoscitiva e struttura razionale, significati e priorità essenziali per le nostre vite[18].

La paura che dobbiamo costruire è strettamente connessa al valore di ciò che viene messo a rischio, ci permette di esprimere un giudizio valutativo sull’oggetto che suscita il nostro sentire[19].

Per questo potremmo dire che, con l’euristica della paura, Jonas vuole richiamare il potere cognitivo delle emozioni che egli intende porre al servizio dei principi etici[20].

Per far ciò è necessario rappresentare il male da cui deriva la paura. Mentre il bene ci può passare accanto senza che lo riconosciamo, scrive Jonas, non abbiamo esitazioni nella percezione del male, soprattutto quando lo subiamo; anzi, siamo in grado di cogliere il bene solo dopo che abbiamo sperimentato il male[21]. Quindi è da lì che deve partire la riflessione morale: la filosofia deve consultare i nostri timori derivanti dalla minaccia del male per capire in quale direzione deve orientare i suoi sforzi. Ma è proprio nella rappresentazione del male che Jonas coglie il limite all’impiego della paura come un’emozione.

 

 

3.1. – Rappresentare la minaccia

 

Il problema analizzato da Jonas riguarda il fatto che gli uomini non percepiscono nell’agire scientifico e tecnologico una reale minaccia; anzi, guardano ad esso con fiducia, come ad uno strumento in grado di migliorare progressivamente e indefinitamente le loro condizioni di vita, come uno strumento al servizio dell’umanità e non come il suo possibile mezzo di distruzione[22]. Di fronte agli esiti infausti di una catastrofe ecologica, le soluzioni vengono cercate nelle innovazioni tecnologiche che potranno condurre ad evitare eventi simili o a riparare i danni, piuttosto che arrestarne lo sviluppo. Ma ciò che appare più preoccupante agli occhi di Jonas, non sono tanto gli effetti immediati che possiamo avvertire e studiare, quanto quelli che non siamo in grado di prevedere o controllare. Il vero pericolo è dunque impercettibile, perché attiene agli esiti imprevisti e sconosciuti della tecnica. Per questa ragione è necessario sviluppare nuove forme di conoscenza eticamente orientate, esemplificate nell’euristica della paura. Il suo compito è quello di mostrare il pericolo silente, derivante dal crescente potere della tecnica, rappresentando il male da cui deriverebbe la minaccia all’identità umana.

Ma, secondo alcuni critici, è proprio questo il punto in cui l’euristica della paura mostra una fragilità argomentativa.

L’anello debole dell’argomentazione di Jonas si coglie nella distinzione tra euristica della paura e rappresentazione della minaccia[23]. Ciò di cui abbiamo paura non è il male che effettivamente ci colpisce, ma l’eventualità che questo accada; ciò che genera le nostre paure non è un male diretto, immediato, ma piuttosto la sua rappresentazione. La paura nasce, quindi, sempre da una rappresentazione soggettiva.

Se dal punto di vista psicologico questa distinzione ha una scarsa importanza, ne ha invece molta dal punto di vista concettuale. Se il male di cui parla Jonas è sconosciuto, perché non è ancora stato sperimentato, «e forse non ha analogie nell’esperienza passata e presente»[24], come possiamo rappresentarlo? È possibile, si chiede Sève, «anticipare tutte le minacce, anche quelle più distanti dalla nostra esperienza?»[25]. Mentre la paura generata da una minaccia reale ha un’effettiva capacità euristica, quella generata da una minaccia solo eventuale non può aspirare alla medesima efficacia, forse non è nemmeno una paura vera e propria.

Jonas è perfettamente consapevole del problema, quando scrive che la paura generata da un male immaginato non è assimilabile a quella derivante da un male direttamente sperimentato, non è una paura spontanea, ma piuttosto «un timore di genere intellettuale»[26] che dobbiamo costruire. «Ciò significa – egli scrive – che l’idea di quel che va temuto si presenta altrettanto poco spontaneamente del relativo timore. Anch’esso deve essere prima ‘provocato»[27].

Jonas impiega il verbo ‘essere’, riferito alla paura che nasce spontaneamente, al pari di un’emozione, e il verbo ‘dovere’, riferito al timore intellettuale, costruzione logica nascente da una prescrizione. La prima è un’emozione conosciuta, una reazione immediata e irriflessa che avvertiamo quando la nostra vita o quella dei nostri cari è in pericolo; la seconda non è un’emozione, non influisce sul nostro stato d’animo, perché non ci riguarda direttamente, non intacca la nostra sicurezza: il destino del nostro pianeta o delle generazioni future non fa parte di quel vincolo d’amore che ci spinge ad agire di fronte al pericolo. Eppure, scrive Jonas, “deve” (soll) poter influire su di noi, noi “dobbiamo” fare in modo che questo timore operi esattamente come potrebbe fare un’emozione. La prima corrisponde a uno stato che possiamo descrivere, la seconda è un comportamento che dobbiamo tenere.

Per cogliere meglio questa distinzione può essere utile richiamare la distinzione riformulata da Rawls tra “emozioni naturali” e “sentimenti morali”: le une spesso si accompagnano agli altri, ma ne sono concettualmente distinte. L’ansia e la paura per Rawls sono ‘solo’ emozioni, definibili anche come «stati d’animo naturali» che accompagnano altri sentimenti, come ad esempio l’indignazione, il rammarico, il senso di colpa, che vengono invece definiti come «sentimenti morali»[28]. La caratteristica principale dei sentimenti morali, che li distingue dalle emozioni, sta nel fatto che le persone, per spiegare lo stato d’animo in cui si trovano, fanno riferimento a un concetto morale e a una serie di principi ad esso collegati[29]. Mentre le emozioni derivano dalla nostra natura biologica, i sentimenti morali sono molto più complessi e richiedono una forma di elaborazione culturale, «perché presuppongono la comprensione e l’accettazione di certi principi e la capacità di giudicare conformemente ad essi»[30].

A differenza di Rawls, Jonas delinea la paura come un sentimento morale, la cui giustificazione non risiede in uno stato fisico (che può essere o meno presente), ma in un principio. Nel descrivere questa paura tutta da costruire, egli spiega che deriva da un «atteggiamento» (Haltung), che potremmo considerare come una particolare forma di educazione morale, che ci predispone ad accogliere i principi relativi al bene delle generazioni future[31].

È qui che possiamo notare il tentativo di Jonas di assegnare alla paura uno statuto morale, ancorando un’emozione universale all’elaborazione del principio etico della continuazione della vita umana. A differenza di un’emozione, che consiste in un evento, la paura non cessa, ma è un vincolo che deve accompagnare le scelte etiche e politiche, perché rappresenta la fragilità e la vulnerabilità dell’umanità, contro l’indifferenza del potere tecnologico.

Per questo potremmo dire che Jonas ce la presenta come un concetto valutativo che, «contro ogni logica e metodo»[32] esprime un valore legato all’oggetto il cui destino è divenuto incerto ed insicuro.

Forse, si potrebbe essere più precisi nell’analizzare la distinzione proposta da Jonas dicendo che mentre la prima forma di paura, generata da un male sperimentato e conosciuto, corrisponde a un concetto noto, all’interno del quale ricadono gli stati soggettivi che sperimentiamo, la seconda forma, derivante da un male solo immaginato e mai sperimentato, si richiama a un concetto che Jonas deve elaborare e che non figura nell’orizzonte culturale a noi familiare. Mentre il concetto ‘paura’ è in grado di esprimere, per comparazione, tutti gli stati fisici e psicologici che sono legati a oggetti o soggetti con cui intratteniamo delle relazioni di affezione, quello di ‘euristica della paura’ non gode della medesima condivisione, ma esige uno sforzo di concettualizzazione per il quale Jonas mette in campo la comparazione con il filosofo che ha maneggiato meglio di ogni altro questa emozione.

Jonas impiega lo stesso termine (Furcht) per descrivere le due paure, ma fa esplicito riferimento a Hobbes per spiegarne la differenza[33]. Non si tratta della paura egoistica, derivante dal timore per la propria vita, ma del timore per il destino delle generazioni future, «non riguarda né me, né qualcun altro che mi sia legato dal vincolo dell’amore o della convivenza» egli scrive, ma di un «timore di un genere intellettuale che è opera nostra»[34]; non nasce dalla rappresentazione di un danno concreto, effettivo, ma dall’immaginazione della sventura che potrebbe cogliere il futuro dell’umanità.

Se Jonas si affretta a prendere le distanze dalla paura hobbesiana, tuttavia non possiamo fare a meno di cogliere la puntualità con cui egli, così parco di citazioni[35], assume la paura di Hobbes come punto di partenza dell’analisi (e di chiederci se il richiamo a Hobbes celi qualche ulteriore argomento rispetto a quello della differenza).

 

 

4. – Hobbes e la ‘passione’ della paura

 

Hobbes è il filosofo che, più di ogni altro, ha scoperto il potere concettuale della paura, edificando su questa passione l’intero ordine politico e la sua conservazione[36].

A differenza della vanità e dell’onore, la paura è un’emozione universale che accompagna l’uomo lungo tutto l’arco della sua esistenza ed assume funzioni differenti in relazione alla diverse fasi della sua vita politica: nello stato di natura è la paura di venire privato della vita (“fear of violent death” [37]) il motivo che spinge gli individui alla stipulazione del patto di sottomissione alla volontà sovrana[38], nella società civile è la paura delle leggi dello Stato che ne garantisce la conservazione (“fear of punishment”)[39].Come precisa lo stesso Hobbes, avere paura (fearing) non significa essere terrorizzati, ma rappresentarsi il male futuro; espressioni della paura non sono quindi solo la fuga, ma anche il sospetto, la diffidenza, un continuo stato di allerta che spinge gli uomini ad agire con prudenza, «il far sì, scrive Hobbes, di non aver nulla da temere»[40]. Per effetto della paura, gli uomini si adoperano per eliminarla, agendo sulla causa che l’ha generata. «Chi va a dormire, chiude la porta, chi viaggia, si arma»[41]. La paura genera l’azione mirata e consapevole che spinge gli uomini a mettersi al sicuro, talvolta fuggendo, talvolta affrontando il pericolo[42].

Nell’elaborazione della paura dunque, concorrono sia i sensi, che generano le reazioni corporee descritte da Hobbes nella prima parte del Leviatano, dedicata all’uomo,[43] sia la ragione, che ha il compito di rappresentare il male futuro[44]. Nel De Cive, infatti, Hobbes chiarisce che «con i sensi si percepiscono le cose presenti, quelle future unicamente con la ragione»[45].

A uno sguardo più approfondito, la paura di Hobbes sembra sfuggire ad alcune categorie concettuali che si sono consolidate nel pensiero della modernità. Egli la configura come “passione” (passion) che noi erroneamente interpretiamo come ‘emozione’, espressione corporea non intenzionale che sfugge al controllo della coscienza[46]. In realtà non si tratta di un’emozione che si contrappone alla ragione, ma di una passione di cui la ragione è partecipe, che appare, proprio per questo motivo, molto più potente della ragione stessa[47].

Questo ci aiuta a capire perché in Hobbes il fine primario dell’uomo sia evitare il male, piuttosto che ricercare il bene.

Colpisce il fatto che Hobbes preferisca l’espressione negativa «evitare la morte» a quella positiva «conservare la vita» – scrive Strauss – Non è difficile tuttavia scoprirne la ragione. Che il conservare la vita sia il bene primario è confermato dalla ragione e soltanto dalla ragione. D’altra parte, che la morte sia il male primario è confermato dalla passione della paura della morte. E poiché la stessa ragione è impotente, l’uomo non si curerebbe di pensare alla conservazione della vita come il bene primario e più urgente se la passione della paura non lo costringesse a ciò[48].

 

 

4.1. – Paura naturale, paura politica e paura religiosa

 

Secondo la maggior parte degli studiosi, la paura primaria di cui parla Hobbes è quella della morte violenta. Tuttavia questo argomento mostrerebbe una concezione incompleta dell’antropologia hobbesiana, secondo cui alla base della paura della morte vi è una paura originaria che nasce dall’impossibilità di conoscere la realtà nelle sue origini e cause.

Si tratta, argomenta Blits, di una logica derivazione dall’idea di ragione hobbesiana che elabora la conoscenza solo di ciò che può essere esperito coi sensi e rappresentato con la mente. La rappresentazione, tuttavia, non coincide in alcun caso con l’oggetto percepito dai sensi. Si dà sempre uno scarto tra percezione e rappresentazione che fa sì che ciò che viene raffigurato dalla mente esista solo nella mente e non nell’oggetto percepito[49]. Le qualità sensibili di un oggetto che ci appaiono come luce, suono, forma o colore, scrive Hobbes, in realtà non esistono nell’oggetto in quanto tale, sono semplici movimenti della materia dell’oggetto con i quali essa agisce sui nostri corpi[50]. Il mondo che noi ci raffiguriamo come luce, suoni, colore, forme, non coincide col mondo reale, in sostanza non esiste. «Anche se Hobbes include lo studio dell’uomo nello studio della natura la cruciale implicazione di questa incorporazione è che l’uomo risulta escluso dal mondo del quale tradizionalmente veniva considerato parte»[51]. La paura nasce da questo estraniamento, da questa alienazione dal mondo, generata dall’impossibilità di conoscere le cause degli eventi e poterle prevedere[52]. Poiché può avere la piena conoscenza solo di ciò di cui egli stesso è causa, il mondo gli appare come un insieme di forze che non può controllare, al cui potere l’individuo risulta esposto. È questa radicale incertezza a generare la paura negli uomini, che Blits definisce come una paura «indeterminata e senza oggetto, una paura originaria dell’ignoto»[53]. A differenza del desiderio, che nasce dalla conoscenza dell’oggetto, la paura nasce dall’impossibilità della sua conoscenza. Mentre la paura degli altri uomini deriva da una forma di esperienza, diretta o indiretta, della ferocia umana, la paura originaria «precede ogni forma di esperienza e sta alla base di tutte le paure umane»[54].

È per superare questa paura originaria, derivante dalla costante insicurezza che accompagna tutta l’esistenza umana, che paralizza l’individuo e ne indebolisce le azioni, che Hobbes modifica e rafforza questa passione, individuando la minaccia negli altri uomini, capaci di procurare all’individuo la morte. A differenza della prima, questa forma di paura è produttiva di effetti positivi, perché permette di esercitare una forma di controllo sulla realtà, prevedendo i mezzi per ridurre l’insicurezza e organizzando un ordine sociale le cui cause sono note agli uomini, in quanto effetto diretto del loro agire. È infatti il timore reciproco, scrive Hobbes nel De Cive, che crea società grandi e durevoli[55].

La risposta alla paura dell’ignoto, che abbiamo definito come paura ‘originaria’, si manifesta nella religione (“fear of power invisible[56]). Se lo Stato rappresenta la risposta alla paura di perdere la vita e il proprio corpo, la religione costituisce la risposta alla paura dell’ignoto, che gli uomini rivolgono a qualche potere o agente invisibile[57]. Lo stesso Jonas, in un breve testo scritto per un ciclo di lezioni canadesi, distingue le due paure hobbesiane: quella generata dal sovrano e quella nascente dalla potenza divina. Mentre la prima è originata da una forma di conoscenza reale, la seconda nasce dall’immaginazione di potenze sconosciute[58]. È quest’ultima a rappresentare un pericolo per lo Stato: «è impossibile che uno Stato possa sussistere ove qualcun altro oltre al sovrano abbia il potere di concedere ricompense maggiori della vita e di infliggere pene maggiori della morte»[59].

Le due paure infatti non sono sullo stesso piano, la paura indeterminata di una dannazione eterna è molto più potente di quella che ha ad oggetto la vita terrena e i propri beni. Per questo motivo Hobbes ritiene che il potere spirituale rappresenti un grave pericolo per l’ordine politico, costruito sul potere di disporre della vita e della morte degli individui e che debba essere saldamente ricondotto nelle mani del sovrano, unico corpo artificiale posto al di sopra degli individui.

Se possiamo definire la paura che segna l’individuo di Hobbes come lo stato di insicurezza derivante dall’impossibilità di controllare gli eventi e di essere costantemente esposto ad essi, notiamo che essa assume diverse forme e oggetti che definiscono una paura naturale, descritta nello stato di natura come il continuo timore di una morte violenta, una paura politica, derivante dal timore delle pene del sovrano, una paura religiosa, che si manifesta nel timore di una potenza invisibile. Delle tre, la più potente è la terza, perché indeterminata, senza oggetto e confini[60]. Delle tre, la terza è quella che Hobbes ritiene pericolosa per il vivere sociale e per questo cerca di contrastare, ricondurre nei confini della ragione e porre sotto il controllo del potere politico[61].

A quale di queste paure Jonas intende riferire il suo timore intellettuale?

 

 

5. – Jonas e la ridefinizione della paura

 

La paura di Hobbes presenta tre caratteri fondamentali: è una paura ‘egoista’, che si esprime nel timore dell’individuo di perdere la propria vita o quella dei suoi cari; è ‘naturale’, non intenzionale, poiché è causata dalla rappresentazione di un male futuro che l’individuo conosce o per esperienza diretta, o per esperienze analoghe; è infine un ‘male’, un sentimento negativo che non può essere eliminato, ma deve essere circoscritto e ridotto il più possibile[62].

La paura di Jonas, all’opposto, è ‘altruista’: il suo oggetto è il destino dell’umanità futura, del tutto estranea alla nostra esperienza storica e biologica; è un ‘timore intellettuale’, che nasce dalla rappresentazione di un male futuro che noi non conosciamo e non possiamo conoscere. Infine la paura è allo stesso tempo un ‘bene’ e un ‘dovere’; non dobbiamo cercare di eliminarla o ridurla, ma di coltivarla, di operare attivamente per «lasciarci influenzare e modificare dal benessere e dalla sventura, soltanto immaginate, delle generazioni future»[63].

È per queste ragioni, a giudizio di Sève, che l’euristica della paura non può aspirare alla medesima coerenza ed efficacia di quella hobbesiana. Infatti, se la paura derivante da una minaccia reale ha un’indubbia capacità euristica, quella derivante da una minaccia virtuale si rivela inefficace. Se alcuni dei danni possibili sono del tutto immaginabili, sono proprio quelli sconosciuti che non possiamo rappresentare a costituire una difficoltà che mina la costruzione di Jonas.

Come può una minaccia «soltanto immaginata»[64] essere oggetto di seria considerazione?

La tenuta logica dell’euristica della paura è ammissibile solo se la minaccia è configurabile nei limiti della nostra reale esperienza, al di fuori di questa non sortisce effetti pratici[65].

La conclusione è rafforzata da un argomento fattuale: quando il rischio è remoto e non viene percepito come un pericolo presente, le persone si rifiutano di prenderlo in considerazione, spinte dall’istinto di conservazione. È quella che viene definita anche come «strategia del diniego», che gli individui mettono in atto per evitare ogni forma di coinvolgimento «emotivo e attivo», mettendo a rischio la stessa conservazione dell’umanità[66].

Una paura così debolmente costruita non sembra in grado di ‘sostenere’ un principio responsabilità così forte che impone di arrestare l’azione sulla base della sola possibilità che questa metta in pericolo il destino dell’uomo.

Ciò che emerge dalle osservazioni puntuali di Sève è lo scarto tra un’antropologia hobbesiana, costruita sull’idea di prossimità e sincronicità,[67] e l’antropologia tecnologica di Jonas, che cerca faticosamente, senza riuscirvi del tutto, di superare la dimensione di un’etica del presente, costruita sulla percezione diretta degli effetti del nostro agire e sulla vicinanza degli individui, con un’idea di azione globale, dagli effetti a lungo termine proiettati in un futuro possibile. L’uomo di Jonas si trova a dover fronteggiare una situazione del tutto nuova che appare incoerente col suo profilo evolutivo. Per questa ragione egli appare come un «analfabeta emotivo»[68], incapace di costruire principi che travalichino i suoi confini percettivi e di estendere a un mondo plasmato dalla tecnologia un corredo di principi costruiti entro i confini del suo microcosmo[69]. I suoi strumenti etici, Jonas lo ripete più volte, sono inadatti per la nuova dimensione temporale e spaziale del suo agire.

Da qui lo sforzo di Jonas per appellarsi a quanto di più forte ed efficace possa strutturare i principi dell’azione. Per questa ragione egli ricorre all’impiego razionale della paura che, se da un lato mostra il ruolo fondante che le emozioni giocano nella sua proposta etica, dall’altro rivela la debolezza di una costruzione esclusivamente razionale dell’agire. Ma non è solo questo l’argomento che usa Jonas per giustificare il ricorso a questo sentimento morale, certo non nobile come la speranza, che tuttavia egli ritiene sia l’elemento cui ancorare il dovere della responsabilità[70]. L’altro elemento riguarda gli obiettivi della nuova etica, che non può (e forse non deve), per Jonas aspirare al summum bonum, come nella prospettiva dei sistemi etici della modernità che fa da sfondo a molte delle letture della sua opera, compresa quella di Sève.

Per Jonas, l’etica deve porsi un obiettivo più modesto e realistico, quello di prevenire il summum malum, anticipando le risposte e offrendo le adeguate soluzioni.

Piuttosto che «puntare ai miracoli» dovremmo, egli dice, domandarci quali siano «le aspirazioni, a lungo andare, sostenibili»[71]. Il nuovo carattere della sobrietà, che Jonas associa alla moderazione e alla prudenza, valori dimenticati che dovrebbero comporre il nostro nuovo repertorio etico, rafforza e integra il richiamo alla paura, che assume nuovi significati. Piuttosto che svolgere una funzione paralizzante nei confronti della scienza, piuttosto che veicolare pessimismo e rassegnazione, la paura sostiene il cammino prudente della conoscenza, rappresenta i valori cui, in ogni ambito dell’agire, la collettività deve richiamarsi per valutare le conseguenze delle proprie azioni[72].

 

 

5.1. – Incertezza e etica della conoscenza

 

L’euristica della paura non esprime solo una possibilità di apprendimento, ma un dovere relativo alle conseguenze dei processi innescati dalla tecnologia. Il problema sollevato dai critici, come abbiamo visto, riguarda l’aspetto conoscitivo che dovrebbe costituire l’oggetto della paura. Si tratta infatti della rappresentazione di futuri scenari che contengono un ampio e ineliminabile margine di incertezza, sebbene siano costruiti a partire dalle conseguenze prevedibili e accertabili delle azioni[73].

É alla scienza che Jonas affida il compito di elaborare la proiezione degli effetti finali «probabili o anche soltanto possibili» dell’agire collettivo[74]. Sebbene queste previsioni non abbiano un valore epistemologico, tuttavia assumono un rilievo etico, relativo alla ricerca dei principi che dovranno orientare le azioni future. Si tratta, precisa Jonas, di una casistica immaginaria che illustri i possibili scenari aperti dalla tecnologia con il fine di «rintracciare e scoprire i principi ancora sconosciuti»[75]. La ricerca dei principi, tuttavia, non è genericamente orientata al bene, ma è condizionata dal primato assegnato alla proiezione negativa su quella positiva. Nella valutazione delle conseguenze delle azioni, infatti «si deve prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella di salvezza»[76]. L’argomento che Jonas usa per giungere a questa conclusione è basato sull’incertezza, che viene assunta come un principio normativo, nell’ambito del calcolo delle previsioni, che impone il dovere della prudenza e della conservazione[77].

Se nel linguaggio ordinario l’incertezza si riferisce ad uno stato di coscienza personale che significa dubbio, perplessità, esitazione[78], in quello scientifico ha assunto di recente una precisa valenza semantica che si riferisce alla sicurezza di non poter determinare con un sufficiente grado di approssimazione gli esiti di determinati fenomeni[79]. Mentre nella rappresentazione moderna e ancora dominante della scienza, la certezza rappresenta la condizione ‘normale’ e l’incertezza una mancanza temporanea e circoscritta, nella nuova visione contemporanea della scienza, l’incertezza diviene un elemento costitutivo del processo della conoscenza che determina una nuova consapevolezza nella gestione dei rischi e delle politiche pubbliche[80]. La recente riflessione, in ambito scientifico, sulla necessaria assunzione da parte della scienza di una nuova consapevolezza in merito alla politicità delle sue scelte, converge verso una nuova qualificazione dell’incertezza, assunta sia come principio epistemologico, sia come principio politico. A ben vedere, l’analisi di Jonas, accusata di rappresentare la scienza e la tecnologia come il nuovo male dell’umanità, si presenta coerente con alcune tesi elaborate dalla sociologia della scienza.

Jonas non fa menzione nei suoi lavori del concetto di incertezza scientifica, tuttavia si richiama costantemente a quella particolare forma di incertezza determinata dall’azione di scienza e tecnologia, assegnandole una valenza normativa. Per questo egli sostiene che dovremmo considerarla come un nuovo vincolo che, imponendo la priorità logica della prognosi peggiore rispetto alla migliore, plasma le scelte collettive e i principi che le orientano[81].

 

 

6. – Jonas, Hobbes e le forme della paura

 

Questa chiave interpretativa ci permette di cogliere i significati che Jonas assegna alla paura e le implicazioni che risultano dal suo accostamento a Hobbes.

L’incertezza in Hobbes è determinata dalla concezione meccanicista e atomista dell’universo che si presenta caotico, privo di un qualsiasi ordine precostituito all’indagine scientifica e dominato dal cieco principio della causalità necessaria. Il mondo, rappresentato da corpi in movimento, è un luogo estraneo per l’individuo, incapace di cogliere le cause prime degli eventi e costantemente esposto ad essi[82]. La paura originaria deriva da questa forma di alienazione dal mondo che Hobbes descrive come «un’apprensione perpetua riguardo al tempo a venire»[83]: è la paura del futuro, ignoto e senza senso, che gli uomini affrontano costruendo gli oggetti dell’apprensione: la vita, il corpo, i propri cari, i propri beni, le leggi e le pene del sovrano.

L’incertezza in Jonas è determinata dalla natura tecnologica e artificiale dell’universo contemporaneo, dominato dall’azione collettiva umana sfuggita al controllo degli scopi e dominata dalla scienza e dalla tecnologia, la cui complessità è tale da rappresentare un ordine cieco che non può essere controllato. La tecnica moderna si comporta come una nuova natura, governata dalla necessità, che gli uomini devono fronteggiare[84].

Anche la paura che vuole costruire Jonas è una paura originaria, senza un oggetto definito, che somiglia all’apprensione di Hobbes riguardo al tempo a venire; infatti non è rappresentabile, almeno non nel senso di poter configurare una minaccia della quale gli uomini abbiano una qualche forma di esperienza, ma è costantemente attiva e reale. L’argomento di Sève che esclude la possibilità di un raffronto tra Hobbes e Jonas proprio in virtù dell’irrapresentabilità del male oggetto della minaccia, viene indebolito dalla paura indeterminata e senza oggetto che accompagna l’individuo di Hobbes verso il futuro. È a questa forma originaria di paura che Jonas vuole richiamarsi, evocando il futuro come nuova dimensione temporale dell’etica. Per questo potremmo concludere, per rispondere alla critica di Sève, che è proprio l’irrappresentabilità della minaccia a costituire la minaccia stessa.

In Hobbes l’ordine politico è la risposta all’incertezza, il riuscito tentativo di costruire un ordine umano, distinto e separato dall’universo caotico e disordinato in cui gli uomini si trovano a vivere. La tesi di Hobbes ha come assunto implicito il superamento dell’incertezza, attraverso l’impresa umana che rappresenta lo stabile dominio delle cause. La scienza risponde all’ideale baconiano e promette il superamento dell’incertezza che acquista una valenza relativa e transitoria, assicurata dal progredire della conoscenza[85].

Nel mondo contemporaneo è la stessa azione dell’impresa scientifica a produrre un’inedita incertezza, che diventa un elemento ineliminabile e costitutivo dello stesso processo della conoscenza. La paura quindi non è uno stato da superare, ma un elemento permanente nella pianificazione delle azioni, funzionale alla ricerca delle soluzioni al problema dell’imprevedibilità dei loro effetti. Per questo, la paura di Jonas è un bene e non un male, per questo, spiega Jonas, dobbiamo coltivarla e imparare a fare affidamento «su un appropriato timore»[86]. Questo pensiero di Jonas è stato considerato come l’inaugurazione di una nuova religione laica della natura. I suoi critici infatti hanno interpretato il ricorso al potere della paura come uno «scacco della ragione argomentativa»[87], come una inopportuna e forse inutile risorsa che esprime l’impotenza della ragione. Tuttavia Jonas parla di un «appropriato timore»; l’aggettivo merita qualche riflessione che ci aiuti a chiarire il problema dell’efficacia e della natura di questa paura indotta.

Quella di Jonas, a detta dei critici, è una paura che non ‘fa paura’, una minaccia così remota e estranea al nostro destino da risultare incapace di innescare quei meccanismi biologici a cui il filosofo vorrebbe affidare la salvezza dell’umanità.[88]Mentre Hobbes ha il problema di governare e incanalare la paura naturale degli uomini, facendone uno strumento politico, Jonas deve fronteggiare il problema opposto: quello di un mondo che non ha paura, che ha affidato alla scienza e alla tecnologia il superamento delle sue paure, che ha consegnato alla scienza, e non all’etica, il compito di fronteggiare l’incertezza[89].

L’appropriatezza deriva dal fatto che è proprio la mancanza di paura a dover essere oggetto di preoccupazione e a dover essere attentamente considerata come una rassegnata consegna dell’agire al fare[90]. Quando Jonas parla di un «timore appropriato», intende riferirsi quindi a quel sentimento adeguato alle proporzioni assunte dal pericolo, che nasce da una rinnovata consapevolezza. L’adeguamento impone uno sforzo di elaborazione collettivo, governato da nuovi strumenti conoscitivi e nuovi principi politici.

Qui emerge il proposito di Jonas di restituire all’etica il suo ruolo di guida delle azioni umane, attraverso la qualificazione normativa dell’incertezza. Il principio responsabilità è infatti orientato al futuro ed è tanto più forte quanto opaco appare il destino dell’umanità.

È nel passaggio da una società moderna, nata per dominare l’incertezza, ad una postmoderna, costruita e dominata dall’incertezza, che Jonas ridefinisce la responsabilità.

 

 

7. – Paura etica e responsabilità: note conclusive

 

Quanto più il concetto di incertezza abbandona la prospettiva transitoria, veicolata dal mito del progresso, per assumere una posizione stabile nelle scelte pubbliche, tanto più emerge la domanda di responsabilità. Questo ci spiega la nuova relazione che Jonas istituisce tra paura e responsabilità e che ha suscitato le critiche più aspre.

Se infatti alla paura si assegnano i caratteri dell’emozione che blocca l’azione e getta l’individuo in uno stato di incapacità, il richiamo alla responsabilità appare del tutto incongruo. Ma se leggiamo la paura attraverso l’euristica e il raffronto con Hobbes, allora il quadro diventa più coerente. La paura di Hobbes non lascia l’individuo inerme e privo di risorse in preda al timore; è strettamente connessa alla ragione strumentale che appronta i mezzi per cercare l’uscita da uno stato insostenibile di insicurezza. È quindi una paura che mobilita l’azione, che spinge alla ricerca di soluzioni, che orienta verso il bene individuale e collettivo. È su questa base concettuale che Jonas sembra costruire l’euristica della paura. Come riconoscono alcuni dei suoi attenti lettori, si tratta di una paura «attiva e mobilizzatrice»[91], che deve rendere gli uomini vigili, criticamente attivi nei confronti dei processi della conoscenza e nello sviluppo delle tecnologie[92].

Ma Jonas va oltre: la paura non è un’emozione che serve ad innescare il processo razionale di elaborazione etica, è una componente del nostro senso morale che ci avvicina alla sorte delle generazioni future, che ci muove alla preoccupazione per le creature vulnerabili. In questo Jonas si allontana dall’etica strumentale di Hobbes: per Jonas la nostra struttura passionale non è dominata dall’egoismo e dal timore, ma da quei sentimenti che ci permettono di intessere relazioni stabili, di costruire legami affettivi. Non è casuale che uno degli archetipi della responsabilità sia la cura dei genitori verso i figli neonati. Egli quindi non le assegna solo una funzione conoscitiva, ma un preciso ruolo morale, perché la sua finalità è quella di evitare il male e approntare tutti gli strumenti per fronteggiarlo.

 

 

Abstract

 

This essay aims at clarifying the concept of Jonas’s heuristic of fear. Although it has been severely criticized, fear remains an aspect of his thought which has drawn little attention, particularly regarding the role it plays in the elaboration of the imperative of responsibility. Jonas elaborates a new concept of fear, moulded by the particular form of uncertainty brought about by the technological age. Although critics have interpreted Jonas’ attempt as an ethics founded on irrationality and emotion, the present analysis shows that Jonas affirms a cognitivist theory of fear. The concept of fear he discusses in The Imperative of Responsibility is not an emotion as an immediate physical and psychological reaction, but a form of evaluative thinking that is part of responsibility. In order to illustrate form and function of fear in Jonas thought, I will refer to the meanings of fear in Hobbes, an author Jonas himself refers to.

 

Parole chiave

Jonas, Hobbes, euristica della paura, responsabilità, incertezza

Keywords

Jonas, Hobbes, heuristic of fear, responsibility, uncertainty

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

* Prof. associato di Filosofia del diritto / Dipartimento di Giurisprudenza / Università degli studi di Sassari / Viale Mancini, 5 / 07100 / Sassari / +39 079228800 / +39 347 0185205 / foddaima@uniss.it

 

[1] H. JONAS, Das Prinzip der Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Frankfurt am Main, Insel Verlag, 1979; ed. it, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi, 1990.

 

[2] H. JONAS, Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung, Frankfurt am Main, Insel Verlag, 1985. Ed. It. Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Torino, Einaudi, 1997, trad. P. Becchi e A. Benussi, 47.

 

[3] Ibidem. Si vedano inoltre le interviste a Jonas raccolte in H. JONAS, Dem bösen Ende näher. Gespräche über das Verhältnis des Menschen zur Natur, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1993, ed. It. H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, a cura di P. BECCHI, Torino, Einaudi, 2000, 82 ss.

 

[4] Cfr. D. BOURG, Bioéthique: faut-il avoir peur? in «Esprit», n. 171, 1991, 22-39. B. SEVE, Hans Jonas et l’éthique de la responsabilité, in «Esprit», n. 165, 1990, 72-88.

 

[5] L. BATTAGLIA, L’euristica della paura di Hans Jonas dinanzi alle sfide dell’ingegneria genetica, in «Lo sguardo. Rivista di filosofia», 2012, n. 8, 1, 55-71, (66), disponibile su http://www.losguardo.net/it/homepage/ (consultato il 22 gennaio 2016).

 

[6] Cfr. R. BODEI, Geometria delle passioni. Paura, speranza felicità: filosofia e uso politico, Bologna, Il Mulino, 1991; M. NUSSBAUM, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, tr. it. di R. Scognamiglio, L’intelligenza delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 2004, 37 ss. (si fa solo riferimento alla traduzione); E. LECALDANO, Un’etica senza Dio, Roma-Bari, Laterza, 2006, 48.

 

[7] Si vedano le riflessioni di H. ACHTERHUIS, La responsabilità tra il timore e l’utopia, in Hans Jonas. Natura e responsabilità, a cura di P. PELLEGRINO, Lecce, Milella, 1995, 99-110; J. GREISCH, L’amour du monde et le principe responsabilité, in La responsabilité, dirigé par M. VACQUIN, Paris, Éditions Autrement, 2002, 72-89.

 

[8] B. DE SPINOZA, Etica more geometrico demonstrata, Amsterdam, 1677, trad. it. di G. Durante, Etica, Milano, Bompiani, 2007, IV, Proposizione XLVII: «Gli affetti della speranza e della paura non possono essere buoni di per sé» Scolio: «A ciò si aggiunge che questi affetti indicano un difetto di conoscenza e un’impotenza della Mente; e per questa ragione anche la Sicurezza, la Disperazione, il Gaudio e il Rimorso sono segni d’un animo impotente», 231.

 

[9] R. BODEI, op. cit., 21-24.

 

[10] Cfr. J. DEIGH, Cognitivism in the Theory of Emotions, in «Ethics», CIV, (1994) n. 4, 824-854.

 

[11] Come è noto, ‘responsabilità’ presenta numerosi significati. La definizione che viene offerta nel testo risponde al concetto di responsabilità-capacità elaborato da H.L.A. HART, Punishment and Responsibility, Oxford, Oxford University Press, 1968, tr. it. di M. Jori, Responsabilità e pena, Milano, Edizioni di Comunità, 1981, 256 (si fa riferimento alla traduzione).

 

[12] J. GREISCH, op. cit., 74.

 

[13] H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 35, (Si fa riferimento alla traduzione).

 

[14] Ibidem.

 

[15] Cfr. L. BATTAGLIA, op. cit., 62. Cfr. inoltre L. SVENDSEN, Frykt, Oslo, Universitetsforlaget, (trad. inglese A Philosophy of Fear, London, Reaktion Books Ltd., 2008), che rimprovera a Jonas un vago richiamo alla prudenza come risposta alla paura, 66 (si fa riferimento alla traduzione).

 

[16] «Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità, non intendiamo la paura che dissuade dall’azione, ma quella che esorta a compierla; intendiamo la paura per l’oggetto della responsabilità», così H. JONAS, Il principio responsabilità, cit, 284. Cfr. sul tema R.J. WALLACE, Responsibility and Moral Sentiments, Cambridge - Massachusetts, London -England, Harvard University Press, 1994, 18 ss.

 

[17] Cfr. E. PULCINI, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’era globale, Milano, Bollati Boringhieri, 2009, 196.

 

[18] M. NUSSBAUM sostiene, nell’ambito di una teoria cognitivista delle emozioni, che le emozioni «sono in relazione a qualcosa: hanno un oggetto»; tale oggetto «è intenzionale: ovvero, esso appare nell’emozione nel modo in cui lo vede o lo interpreta la persona che prova l’emozione stessa», op. cit., 46-47 (si fa solo riferimento alla traduzione).

 

[19] Cfr. D. SAVAN, La teoria semiotica dell’emozione secondo Peirce, in Semiotica delle passioni. Saggi di analisi semantica e testuale, a cura di I. PEZZINI, Bologna, Società editrice Esculapio, 1991, 139-158, (140).

 

[20] H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 37 (si fa riferimento alla traduzione).

 

[21] H. JONAS, ivi, 35 (si fa riferimento alla traduzione).

 

[22] Cfr. F. VOLPI, «Le paradigme perdu»: l’éthique contemporaine face à la technique, in Aux fondements d’une éthique contemporaine. H. Jonas et H.T. Engelhardt, Direction scientifique et présentation par G. HOTTOIS, Paris, Vrin, 1993, 163-179, (175); cfr. inoltre P.P. PORTINARO, Il profeta e il tiranno. Considerazioni sulla proposta filosofica di Hans Jonas, in «Nuova civiltà delle macchine», 1992, n. 1, 100-111, (104).

 

[23] B. SEVE, La peur comme procedé heuristique et comme instrument de persuasion, in Aux fondements d’une éthique contemporaine. H. Jonas et H. T. Engelhardt, cit., 107-125.

 

[24] H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 36.

 

[25] B. SEVE, La peur comme procedé heuristique et comme instrument de persuasion, cit., 109.

 

[26] H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 36.

 

[27] Ibidem.

 

[28] J. RAWLS, A Theory of Justice, Cambridge, Mass., The Belknap Press of Harvard University Press, 1971, tr. it. di U. Santini, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1991 (4a ed.), 394 (si fa riferimento solo alla traduzione).

 

[29] Ibidem. Cfr. Inoltre M.D. HAUSER, Moral Minds. The Nature of Right and Wrong, New York, HarperCollins Publishers, 2006, tr. it. di A. Pedeferri, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, Milano, Il Saggiatore, 2007, che analizza il ruolo delle emozioni nella teoria di RAWLS, 62 ss.

 

[30]J. RAWLS, op. cit., p. 399.

 

[31] Cfr. JONAS, Il principio responsabilità, cit., p. 36 (ed. originale, 65).

 

[32] H. JONAS, Il principio responsabilità., cit., 35, (si fa riferimento alla traduzione).

 

[33] H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung, cit., 65; (tr. it. cit., 36). Jonas predilige il termine ‘Furcht’ al termine ‘Angst’. Quest’ultimo, oltre a significare ‘paura’, esprime i significati di ‘ansia’ e ‘angoscia’ che apparirebbero coerenti con la proposta filosofica di Jonas. Non si può ignorare il fatto che ‘Angst’ sia un termine gravido di implicazioni filosofiche che richiama esplicitamente la filosofia heideggeriana. Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tubingen, Niemeyer, 1927, tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Torino, UTET, 1986 (2a ed.), (si fa riferimento alla traduzione italiana). Per Heidegger “Angst” esprime un’esperienza fondamentale: la possibilità di un’apertura privilegiata verso la scoperta dell’autenticità. In tal senso può essere tradotta con ‘angoscia’ e ‘ansia’, più che ‘paura’. Quest’ultima per Heidegger si determina in relazione a un oggetto determinato. (par. 30, 233 ss.), mentre l’angoscia esprime l’isolamento del soggetto e il suo spaesamento di fronte al Nulla (cfr. Essere e tempo, par. 40, part. 294). È la situazione emotiva dell’angoscia che rivela al soggetto «l’essere-gettato nella morte» (par. 50, 379). Nella scelta dell’impiego di “furcht” da parte di Jonas possiamo leggere anche l’ambivalenza che egli manifesta nei confronti del pensiero di Heidegger che, se da un lato ha lasciato tracce profonde nel suo pensiero e nella teoria della responsabilità, dall’altro induce Jonas a prenderne le distanze. Sul punto si vedano le osservazioni dello stesso JONAS, in Philosophie. Rückschau und Vorschau am Ende des Jahrhunderts, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1993, tr. it. di C. Angelino, La filosofia alle soglie del duemila, Il Melangolo, Genova, 1994, 32 ss.

 

[34] H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 36.

 

[35] Cfr. O. DEPRE, Hans Jonas, Ellipses, Paris, 2003, 6.

 

[36] Cfr. R. BODEI, op. cit., 83. Cfr. D. PASINI, “Paura comune” e “paura reciproca” in Hobbes, in ID. Problemi di filosofia politica, Napoli, Jovene, 1977, 155-212; V. MURA, Il potere della paura, la paura del potere: le tesi di Hobbes e di Ferrero, in La paura e la città, a cura di D. PASINI, vol. II, Roma, Astra, 1984, 103-134; N. BOBBIO, Da Hobbes a Marx, Napoli, Morano, 1965; L. STRAUSS, Natural Right and History, Chicago, University of Chicago 1953, tr. it. di N. Pierri, Diritto naturale e storia, Genova, Il Melangolo, 1990, 195 ss.

 

[37] HOBBES, Leviathan, (ed. Or. London, 1651), ed. by R. Santi, Milano, Bompiani, 2004, (English version) cap. VI, par. 58.

 

[38] HOBBES, Leviathan, (ed. Or. London, 1651), tr. it. di A. Pacchi, Leviatano, Roma - Bari, Laterza, 2004 (13a ed.), 102.

 

[39] HOBBES, Leviathan, cit., XVII, par. 1 (trad. it. 139.)

 

[40] Hobbes, De Cive, Amsterdam, 1647, tr. it. di T. Magri, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, Roma, Editori Riuniti, 1988, cap. I, 2, 82, nota: «É stato obiettato che gli uomini sono tanto lontani dal costituirsi in società civile per paura che, se si temessero reciprocamente, l’uno non potrebbe sopportare la vista dell’altro. Chi muove questa obiezione ritiene, a mio parere, che temere non sia altro che essere terrorizzati. Io invece intendo con questo termine una previsione del male futuro; e ritengo che sia proprio di chi ha paura non solo il fuggire, ma anche il sospettare, il diffidare, lo stare in guardia, il far sì di non avere nulla da temere».

 

[41] Ibidem.

 

[42] Cfr. R. SANTI, Metus Revealed. Hobbes on Fear, in «Agathos: An International Review of the Humanities and social Sciences», II (2011) n.2, 67-80: «La paura motiva le azioni umane specialmente quando prevale nel processo decisionale, che Hobbes chiama “deliberazione”» (72).

 

[43] HOBBES, Leviatano, VI, 50: «I segni migliori della presenza delle passioni stanno nell’espressione del volto, nei movimenti del corpo, nelle azioni, nei fini e negli scopi che veniamo a conoscere per via diversa come presenti negli individui in questione».

 

[44] Ivi, VI, 45: «L’avversione, unita alla convinzione di un danno arrecato dall’oggetto, viene detta TIMORE» (FEAR).

 

[45] De Cive, III, 31, 112 (si fa riferimento alla traduzione).

 

[46] Cfr. S. JAMES, Passion and Action. The Emotions in Seventeenth-Century Philosophy, Oxford, Clarendon Press, 1997, 4.

 

[47] Cfr. R.J.H. BLITS, Hobbesian Fear, in «Political Theory», XVII (1989), n. 3, 417-431. Cfr. le riflessioni di BODEI, op. cit, 84-85.

 

[48] L. STRAUSS, Che cos’è la filosofia politica? Scritti su Hobbes e altri saggi, Urbino, Argalia Editore, 1977, 150. Cfr. E. CASTRUCCI, La forma e la decisione, Milano, Giuffré, 1985, 5.

 

[49] T. HOBBES, Leviatano, I, 12: «E anche se ad una certa distanza l’oggetto vero e reale sembra assumere la forma dell’immagine che suscita in noi, tuttavia l’oggetto è una cosa e il fantasma o l’immagine un’altra» (trad. italiana).

 

[50] Ibidem. Cfr. A. GARGANI, Hobbes e la scienza, Torino, Einaudi, 1971, 104 ss. Cfr. inoltre T. MAGRI, Introduzione al De Cive, cit., 12 ss.

 

[51]J. H. BLITS, op. cit., 421.

 

[52] T. HOBBES, Leviatano, XII, 87 (trad. italiana).

 

[53] J.H. BLITS, op. cit., 424.

 

[54] Ivi, 425.

 

[55] HOBBES, De Cive, cit., I, 2, 82. Si vedano le riflessioni di PASINI, op. cit., 502-503.

 

[56] HOBBES, Leviathan, cit., VI, 36.

 

[57] T. HOBBES, Leviatano, XII, 87: «Questo perpetuo timore che accompagna incessantemente l’umanità sprofondata nell’ignoranza delle cause, per così dire nelle tenebre, deve necessariamente avere qualcosa per oggetto. Perciò, quando non vi è nulla da vedere, non vi è nulla cui imputare la propria buona o cattiva fortuna, se non un qualche potere o agente invisibile». Cfr. inoltre Ivi, VI, 46.

 

[58] E. SPINELLI, F. VERDE, H. Jonas: The Function of Fear in Lucretius and Hobbes, in «Paradigmi. Rivista di critica filosofica», (2011), 2, 183-195. Il testo è parte di un più ampio dattiloscritto che riporta un ciclo di lezioni che Jonas tenne tra il 1950 e il 1954 al Carleton College di Ottawa, sul tema delle radici antropologiche del sentimento religioso. In esso una parte è dedicata a Hobbes e ad alcune brevi considerazioni sulla paura religiosa (in particolare 192). È da rimarcare il fatto che il testo è stato pubblicato per la prima volta nel 2011 da Spinelli e Verde che ne hanno curato l’edizione critica.

 

[59] T. HOBBES, Leviatano, XXXVIII, 363; cfr. inoltre De Cive, VI, 11, 134: «Infatti nessuno può servire due padroni, e colui che crediamo di dovere obbedire per paura della dannazione non è meno padrone di colui cui obbediamo per paura della morte naturale, anzi, semmai lo è di più».

 

[60] Anche JONAS valuta attentamente la rilevanza di questo tipo di paura, derivante dal senso del sacro, escludendola dal novero delle possibili soluzioni in Philosophical Essays. From Ancient Creed to Technological Man, Chicago, The University of Chicago Press, 1974; tr. it. a cura di A. Dal Lago, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Bologna, Il Mulino, 1991, 62.

 

[61] Cfr. l’analisi di R. SANTI che individua una dimensione naturale e tre dimensioni sociali della paura in Hobbes, op. cit.

 

[62] B. SEVE, La peur comme procédé heuristique et comme instrument de persuasion, cit, 115.

 

[63] H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 36. Si vedano sul punto le osservazioni di A. MICHELIS, Libertà e responsabilità. La filosofia di Hans Jonas, Roma, Città Nuova, 2007, 163.

 

[64] B. SEVE, La peur comme procedé heuristique et comme instrument de persuasion, cit., 110-111.

 

[65] È quello che sostiene NUSSBAUM quando scrive che le emozioni sono “localizzate”, perché il loro oggetto ci riguarda direttamente, op. cit., 51 (si fa riferimento alla traduzione).

 

[66] Così E. PULCINI, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’era globale, cit., 173.

 

[67] Sull’impiego dei termini ‘sincronicità’ e ‘prossimità’ riferiti all’etica, cfr. K.O. APEL, Il problema di una macroetica universalistica della co-responsabilità, in «Informazione filosofica», IV (1993), n.11, 17.

 

[68] L’espressione è di G. ANDERS, Wir Eichmannsöhne, München, Verlag C.H. Beck, 1964; tr. it di G. Saluzzi, Noi figli di Eichmann. Lettera aperta a Klaus Eichmann, Firenze, Giuntina, 1995, 33 (si fa riferimento solo alla traduzione).

 

[69] Si vedano le osservazioni di F. VOLPI, op.cit., 74-175.

 

[70] Cfr. le critiche di R. BODEI che, nell’Introduzione a BLOCH Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994, accusa Jonas di svuotare di senso categorie come “speranza”, “utopia” e “realtà”, annullate dall’impiego della paura, XIII.

 

[71] H. JONAS, Dem bösen Ende näher. Gespräche über dal Verhältnis des Menschen zur Natur, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1993; tra. it. a cura di P. Becchi, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Torino, Einaudi, 2000, 88 (si fa riferimento alla traduzione).

 

[72] H. JONAS, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, cit., 88.

 

[73]H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 36.

 

[74] Ivi, 37.

 

[75] Ivi, 38.

 

[76] Ivi, 39.

 

[77] Ibidem: «Ma proprio quella incertezza che minaccia di paralizzare l’azione etica per la responsabilità sul futuro, come la intendiamo qui, e che naturalmente non è limitata alla profezia di sventura, va inclusa anch’essa nella teoria etica come condizione di un nuovo principio, che dal canto suo può diventare operante come norma pratica».

 

[78] Cfr. Il mondo incerto, a cura di E. AGAZZI e M. PERA, Roma-Bari, Laterza, 1995.

 

[79] Cfr. D.B. RESNIK, The Ethics of Science, London, Routledge, 1998, 63 ss.; si veda il volume della rivista «Notizie di Politeia», Politiche dell’Incertezza, Scienza e Diritto, a cura di B. DE MARCHI e M. TALLACCHINI, XIX (2003), n. 70. Sui differenti gradi di incertezza cfr. B. WINNE - U. FELT et Al., Taking European Knowledge Society Seriously, European Commission, Directorate-General for Research, Science, Economy and Society, Belgium, 2007, tr. it. di M. Tallacchini, Scienza e Governance. La società europea della conoscenza presa sul serio, Roma, Rubbettino, 2008, 64 ss. (si fa riferimento alla traduzione).

 

[80] Si vedano al riguardo le tesi di FUNTOWICZ, S. and RAVETZ, J., “Uncertainty, Complexity and Post-normal Science”, in Environmental Toxicology and Chemistry, 1994, 12, 1881-1885, che propongono, in contrapposizione al concetto moderno di scienza ‘normale’, quello di «scienza post-normale», in cui «i fatti sono incerti, le poste in gioco alte e le decisioni urgenti», 1882.

 

[81] A. GARGANI, Il vincolo e i codici simbolici, in AA.VV., Il vincolo, Milano, Raffaello Cortina, 2006, 61-86.

 

[82] Cfr. C.A. VIANO, Vita emotiva ed etica politica in Hobbes, in «Rivista critica di storia della filosofia», XVII (1962), n. 4, 355-392, (360 ss.); si veda inoltre A. GARGANI, Hobbes e la scienza, cit., 106.

 

[83] L. 87

 

[84] B. SEVE, Hans Jonas et l’éthique de la responsabilité, cit., 73.

 

[85] Cfr. H. ACHTERHUIS, op. cit., 104.

 

[86] H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 36.

 

[87] B. SÈVE, Hans Jonas et l’éthique de la responsabilité, cit., 119; ma si veda anche K.O. APEL, Responsabilità oggi. Soltanto un principio di preservazione e autolimitazione oppure pur sempre di liberazione e realizzazione dell’umanità?, in K.O. APEL, P. BECCHI, P. RICOEUR, Hans Jonas: il filosofo e la responsabilità, Milano, Albo Versorio, 2004, 69-101, (82 s.); sui limiti della teoria etica di Jonas e la sua complementarietà con la Diskursethik cfr. D. BÖHLER, In dubio contra projectum. Mensch und Natur, in Spannungsfeld von Verstehen, Konstruieren und Verantworten, in Ethik für die Zukunft. Im Diskurs mit Hans Jonas, Hrsg. D. BÖHLER und I. HOPPE, Munchen, C.H. Beck, 1994, 244-276 (260).

 

[88] Cfr. E. LECALDANO, Una nuova concezione della responsabilità morale per affrontare le questioni dell’etica pratica del XXI secolo, in «Lo sguardo – Rivista di Filosofia», 2012, n.8, 31-46, che attribuisce a Jonas una visione antropologica «che vede la base motivazionale dell’etica esclusivamente nella paura», 41. Disponibile su http://www.losguardo.net, (consultato il 22 gennaio 2016).

 

[89] Cfr. J. DELUMEAU, La peur en Occident, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1978; tr. it. di N. Grüber, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XII al XVIII secolo, Torino, SEI, 1979.

 

[90] Cfr. H. ARENDT, The Human Condition, Chicago - London, The University of Chicago Press, 1958, tr. it. di S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1988 (2a ed.), 7. Sui rapporti tra il pensiero di Jonas e Arendt cfr. S. COURTINE-DENAMY, Hans Jonas-Hannah Arendt. Histoire d’une complémentarité, saggio introduttivo a H. JONAS, Entre le néant et l’éternité, Paris, Belin, 1996, 7-74.

 

[91] B. SEVE, Hans Jonas et l’éthique de la responsabilité, cit., 77.

 

[92] Cfr. inoltre P. BECCHI, Hans Jonas. Un profilo, Brescia, Morcelliana, 2010, 56 ss. C. ANGELINO, Introduzione a H. JONAS, la filosofia alle soglie del duemila, cit., 23; P.P. PORTINARO, Introduzione a H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., XXIII.