Università di Parma
MATRIMONIO
E VINCOLI DA PARENTELA SPIRITUALE IN ETÀ TARDOANTICA
Abstract
Attraverso un esame dei testi biblici e della letteratura
patristica tanto occidentale che orientale, lo studio mira a ricostruire i
presupposti scritturistici e le basi teoretiche su cui avrebbe poggiato la
introduzione dell’impedimento da parentela spirituale e in particolare il
divieto di unioni matrimoniali tra padrino e battezzato. Esso già
osteggiato da consuetudini diffuse avrebbe trovato sanzione giuridica per la
prima volta nella legislazione giustinianea che lo avrebbe accolto affermandolo
in un apposito testo normativo (CI.5.4.26 del 530). Un rapido sguardo alle
fonti successive e in particolare a quelle giuridiche e canoniche mostra come
esso abbia conservato costante validità sino a tempi recenti, risultando
abrogato solo nel nuovo Codice di diritto canonico della Chiesa occidentale e
conservando, invece, vigenza nel regolamento di quella orientale.
SPIRITUAL
KINSHIP
Through an examination of the biblical texts and
patristic literature both Western and Eastern, the study aims to reconstruct
the scriptural presuppositions and theoretical basis on which would rest the
introduction of the impediment of “spiritual kinship”, and in
particular the prohibition of marital unions between godfather and baptized.
Already opposed by widespread customs, it would find
legal sanction for the first time in the Justinian legislation, with a specific
legal disposition (CI.5.4.26 of 530).
An expeditious review of the subsequent legal and
canonical sources shows how the impediment has preserved continuing validity
until recently, when it was abolished by the new Code of Canon Law of the
Western Church, while it keeps cogency in the Oriental Church.
C. 5.4.26: Imp. Iustinianus A. Iuliano p.p.: Si quis alumnam suam libertate
donaverit, et in matrimonio suo collocaverit, dubitabatur apud antiquos,
utrumne huiusmodi nuptiae legitimae esse videantur, an non. Nos itaque vetustam
ambiguitatem decidentes, non esse vetitum matrimonium censemus: si enim ex
adfectu omnes introducuntur nuptiae, et nihil impium neque legibus contrarium
in tali copulatione spectamus, quare praedictas nuptias inhibendas
existimaverimus? Nec enim homo sic impius inveniatur, ut, quam ab initio loco
filiae habuit, eam postea in suo collocaverit matrimonio, sed ei credendum est,
qui eam ab initio non ut filiam educavit, et libertate donavit, et dignam esse
postea suo putavit matrimonio. Ea videlicet persona omnimodo ad nuptias venire
prohibenda, quam aliquis, sive alumna sit sive non, a sacrosanto suscepit
baptismate, cum nihil aliud sic inducere potest paternam adfectionem et iustam
nuptiarum prohibitionem, quam huiusmodi nexus, per quem deo mediante animae
eorum copulatae sunt.
Ad
avviare il testo imperiale è la considerazione di quella particolare
relazione di affetto che si instaura tra nutritor
e alumna[1].
Il fenomeno dell’allevamento di bambini in tenera età, con lo
scopo di educarli e favorirne la crescita, era già largamente diffuso
agli inizi del Principato[2]
e non aveva mancato di attirare l’attenzione dei giuristi, che si erano
occupati di esso nelle loro trattazioni specie con riferimento ai legami che
potevano sorgere tra nutritor e alumna[3].
Se infatti, di norma, a essere coinvolti in quel rapporto erano giovani
schiavi, spesso in tenera età, allevati dal dominus o liberti manomessi ancora adolescenti, in altri casi le
attestazioni dei giuristi evidenziano come potesse trattarsi di bambini esposti
o venduti dai genitori che venivano a trovare nella sollecitudine di estranei[4]
sostegno alla crescita e all’educazione[5].
Mentre però nelle situazioni per prime indicate, ossia in confronto di alumni schiavi o asserviti al nutritor, le condizioni di vita a essi
riservate erano per lo più durissime e non mancavano eccessi che si
traducevano in abusi e sevizie di ogni tipo, ivi comprese quelle di carattere
sessuale, in relazione ai casi di nutritor
extraneus, ove i fanciulli non fossero stati accolti in condizione servile,
si instauravano di frequente vincoli affettivi che portavano a educare e amare
come figli adottivi coloro che erano stati raccolti[6].
Di
tali contrastanti rapporti ci forniscono attestazione due brani di Seneca il
Vecchio. Da una parte, infatti, il retore ci sottopone una sconcertante
testimonianza degli abusi e del trattamento senza scrupoli cui quei fanciulli
potevano essere sottoposti, ricordando il caso di un perverso susceptor che li accoglieva per
mutilarli e avviarli all’accattonaggio:
Sen., Contr., 10.4.pr e 2: Quidam expositos debilitabat et debilitatos
mendicare cogebat ac mercedem exigebat ab eis…2.- aliter in quemque
saeviens ossifragus iste alterius bracchia amputat, alterius enervat, alium
distorquet, alium delumbat, alterius diminutas scapulas in deforme tuber
extundit et risum e crudelitate captat…
dall’altro
lo stesso retore ci testimonia di uno stretto vincolo affettivo che legava il nutritor-educator all’alumnus, quale avrebbe potuto essere
quello di un vero e proprio padre adottivo[7]:
Sen., Contr., 9.3 pr.: Quidam
duos filios expositos sustulit, educavit…2.- pete quantum vis pro
disciplinis imputa quantum vis pro alimentis…7.- ego vos expositos
sustuli, ego educavi, ego aegrotantibus adsedi…
Questo
carattere quasi-parentale del rapporto che poteva costituirsi tra alumnus e nutritor non mancava però di produrre riflessi nel campo
giuridico. E come esso consentì il riconoscimento della nomina del
tutore operata dal nutritor,
configurando una prima ipotesi di scelta (del tutor) operata da un extraneus[8],
così venne a incidere sul campo dei rapporti matrimoniali e degli
impedimenti a essi relativi. La costituzione giustinianea sembra in proposito
tracciare una netta distinzione a seconda che quel legame affettivo sottendesse
o meno una relazione parentale riconducibile a quella esistente tra genitore e
figlio. Risolvendo i contrasti intervenuti apud
antiquos, nel primo caso, costituendo l’unione tra il patrono e la
liberta alumna legame impium atque legibus contrarium, ossia
fattispecie assimilabile a ipotesi di nozze incestuose, l’imperatore ne
esclude la legittimità[9],
mentre l’ammette ove si possa presumere che il nutritor abbia allevato l’alumna
non ut filiam, ma come essere
bisognoso, col quale il passare del tempo aveva indotto un sentimento profondo di
intimità che, coll’educazione e il conseguimento della
libertà, aveva accresciuto la stima fino a condurre
all’instaurazione di una legittima unione matrimoniale[10].
Nella visione imperiale è la considerazione dell’animus espresso dal nutritor nel condurre
il rapporto con l’alumna (ossia
la riconduzione di esso sotto aspetto non parentale) a esercitare una funzione
discriminante ai fini dell’esistenza dell’impedimento matrimoniale.
E la valutazione del legislatore, che esprime meraviglia per le condotte empie
di chi intende unirsi con colei che considera come filia, è nel senso di presumere il carattere puramente
affettivo, non parentale, assunto d’ordinario da quei legami (data la
finalità matrimoniale che li ispirava)[11].
Il vincolo sentimentale (adfectio maritalis)
che, nella concezione romana, legittimava le nozze, costituendone il
fondamento, è rintracciato da Giustiniano nella relazione stessa che
legava alumna e patrono, se
circoscritta nei limiti consentiti dalla religione e dal diritto, e dunque
all’imperatore non rimane che trarre le conseguenze dell’esistenza
di quel legame, concludendo retoricamente: quare
praedictas nuptias inhibendas existimaverimus?
Ma come un legame affettivo, se
rettamente impostato, può favorire la contrazione di vincoli matrimoniali,
così esso può essere di ostacolo alla loro legittima
instaurazione. Esiste in particolare un campo in cui, come riflesso della
dottrina cristiana, i vincoli di natura spirituale, generando relazioni
quasi-parentali, finiscono per esercitare i loro riflessi in campo
matrimoniale. Di questi appunto si occupa Giustiniano disciplinando, nella
seconda parte della costituzione in esame, la condizione dei battezzati.
La
nascita di un individuo realizza tra questi e le persone cui è legato da
vincoli di sangue (padre, madre, fratelli) una particolare relazione reciproca
che, per essere il legame primo e fondamentale che unisce i soggetti, è
indicato comunemente come parentela naturale o di sangue. A questa relazione
originaria ed elementare, indicata dai romani come cognatio, si riconducono le nozioni collegate di parentela legale,
basata su vincoli riconosciuti e tutelati dal diritto (adozione)[12],
e di parentela spirituale, fondata su legami di carattere trascendente.
E’ l’insieme congiunto di queste relazioni che contribuisce a
strutturare un’entità sociale, pur nella diversità degli
ordini (naturale, divino, ecc.) e delle prospettive da esse rappresentate. Tra
questi legami si realizza un intrecciarsi reciproco di rapporti e una analogia
di fondo che non si riduce solo all’utilizzo di una comune terminologia
(padre, figlio, figlioccio), ma alla riconduzione ad analoghi fondamenti.
Questa tendenza, già manifesta con riferimento alla parentela legale,
trova ancor più evidente conferma in relazione alla parentela
spirituale.
L’amministrazione
del sacramento del battesimo suppone la trasmissione di una nuova
“vita” nella grazia divina e per parte del battezzato la
“rinascita” a questa vita soprannaturale[13].
Ciò induce l’originarsi tra i soggetti partecipanti di una
relazione che proprio i rapporti di analogia con la parentela naturale portano
a configurare come un vincolo di generazione. Battezzante e battezzato si
configurano così come stretti da un legame paterno-filiale di natura
spirituale analogo a quello che si genera per via di consanguineità.
Anzi, in senso proprio, più che la relazione con il battezzante a
integrare parentela spirituale è il rapporto che si instaura tra
battezzato (e suoi parenti) e il padrino di battesimo[14]. La precisazione trova una
giustificazione nel fatto che durante i primi secoli dell’era cristiana i
fedeli accedevano al battesimo da adulti e dopo un lungo periodo di
preparazione[15], durante il quale
ricevevano una intensa e costante formazione che ordinariamente era impartita
da colui che poi sarebbe divenuto il padrino o la madrina (di battesimo). In
questo periodo si realizzava tra catecumeno e padrino un’assidua
convivenza che faceva sì che quest’ultimo apparisse come un vero
padre, anche se sotto il profilo più propriamente spirituale. Ciò
determinò in progresso di tempo la sostituzione del nuovo vincolo di
contiguità e prossimità fisica tra padrino/madrina e battezzato
(che ricalcava quello naturale) alla originaria considerazione del ministro come
padre spirituale[16]. Né quel legame
venne meno quando alla pratica antica di battezzare gli adulti si andò
sostituendo quella di amministrare il sacramento a fanciulli in tenera
età. Alla configurazione di quel legame come vincolo di generazione
naturale contribuivano, infatti, i tre compiti fondamentali che il padrino era
chiamato ad assolvere: garantire la persistenza del battezzato nella fede (per
cui riceveva la qualifica di sponsor
o fideiussor)[17],
condurre il battezzando alla fonte battesimale (da cui il nome di offerens) e, infine, ricevere il neofita
dopo il battesimo (per cui era indicato come susceptor o levans), atto
che le fonti canoniche indicavano significativamente come e sacro fonte suscipere seu levare[18].
Proprio quest’atto concorreva a rafforzare la configurazione del vincolo
battesimale come rapporto di generazione naturale. Come infatti in Roma il paterfamilias per affermare la
paternità sul nato soleva “ricevere” direttamente il figlio
dal grembo materno[19],
così il padrino, “ricevendo” il battezzato immediatamente
dopo il battesimo, riaffermava la paternità spirituale su di lui.
Ampia
conferma di questa configurazione naturalistica dei legami di parentela
spirituale offrono le fonti del Nuovo Testamento e in particolare le
attestazioni degli apostoli Pietro e Paolo. Quantunque nella Sacra Scrittura
non si trovi utilizzato direttamente il termine “parentela
spirituale”[20],
tuttavia l’esame dei testi biblici mostra come a volte già la
relazione tra l’Apostolo (maestro) e il suo discepolo fosse descritta
come un rapporto di consanguineità spirituale. Così
nell’epilogo della sua prima lettera l’apostolo Pietro, salutando i
destinatari anche a nome di Marco, chiamato più tardi a prestare la
propria opera nella redazione del Vangelo (e conosciuto anche come
collaboratore di San Paolo), al quale lo univa un’antica e profonda
relazione, lo chiama “figlio”, anche se non consta espressamente
che lo avesse battezzato:
I,
Pet., 5.13: Salutat vos, quae est in Babylone, coelecta et Marcus filius meus.
In
termini analoghi si esprimeva San Paolo in diversi scritti. In particolare
nelle lettere a Timoteo l’Apostolo dei gentili si rivolgeva a quello, che
aveva conosciuto a Listra durante il suo secondo viaggio[21],
quando Timoteo era già cristiano, chiamandolo filius meus, espressione che indicava il profondo vincolo che li
univa:
I, Tim., I.1-2: Paulus
apostulus Christi Iesu secundum praeceptum
dei salvatoris nostri et Christi Iesu spei nostrae, Timotheo germano
filio in fide: gratia, misericordia, pax a Deo Patre et Christo Iesu Domino
nostro.
e
così pure nella seconda lettera a quello indirizzata ribadiva quella
stretta relazione:
2, Tim., 2.1: Tu ergo,
fili mi, confortare in gratia, quae est in Christo Iesu[22].
Riferendosi
poi a Tito, l’apostolo usava analoghe espressioni per indicarne la comune
generazione nella fede:
Tit. 1.4: Tito germano
filio secundum communem fidem: gratia et pax a Deo Patre et Christo Iesu
salvatore nostro[23].
Ma
il testo in cui risulta più evidente l’affermazione di quel
rapporto spirituale che legava “maestro” e discepolo è
offerto dalla lettera, indirizzata a Filemone, con cui l’Apostolo
affidava a questi Onesimo, schiavo fuggitivo, particolarmente caro a Paolo:
Philem.
10-11: Obsecro te de meo filio, quem genui in vinculis, Onesimo qui tibi
aliquando inutilis fuit, nunc autem et tibi et mihi utilis.
Nel
frammento Paolo non solo chiamava Onesimo “figlio”, come nei casi
precedenti, ma affermava addirittura di averlo generato in catene, ossia
durante la sua cattività. Questa circostanza ha fatto supporre ad alcuni
interpreti che Onesimo fosse stato battezzato personalmente
dall’Apostolo. Non ci sono però prove di questo e non si è
conservata nessuna testimonianza in questo senso, anzi l’Apostolo era
restio a battezzare personalmente, perché nessuno potesse affermare che
ciò fosse avvenuto nel nome di Paolo. Così nella prima lettera ai
Corinzi egli affermava:
I Cor., 1.14-16: Gratias
ago Deo quod neminem vestrum baptizavi nisi Crispum et Gaium, ne quis dicat
quod in nomine meo baptizati sitis. Baptizavi autem et Stephanae domum; cetero
nescio si quem alium baptizaverim.
Il
brano testimonia tuttavia che San Paolo battezzò alcune persone[24],
anche se non esistono documenti scritti nei quali l’Apostolo si rivolgeva
ad alcuna di queste chiamandola con il termine di “figlio”.
Certo
da questi testi non si può concludere che esistesse un concetto
tecnicamente preciso di parentela spirituale. Quando Paolo si rivolgeva a
Timoteo e a Tito chiamandoli “mio vero figlio” intendeva piuttosto
riferirsi genericamente al loro compito di continuatori nell’opera di
divulgazione della fede da lui proclamata[25].
Ciò non vuol dire, tuttavia, che quei termini indicassero semplicemente
un modo di esprimersi del parlato comune dell’epoca o una forma affettiva
di alludere ad alcuni discepoli: essi rappresentavano piuttosto una
modalità precisa di segnalare persone con le quali si aveva una speciale
relazione di fraternità o filiazione spirituale, come, per esempio, per
l’appunto quelli con i quali si era instaurato un rapporto di battesimo e
sopra i quali si esercitava una certa paternità spirituale[26].
Il
battesimo, si è visto, costituiva l’inizio di una rigenerazione e
rinnovazione nello Spirito Santo che doveva portare a una nuova vita di fede in
Cristo: è dunque naturale che esso fosse considerato fonte di un
particolare legame di cognatio, anche
se più propriamente spiritualis[27].
Anzi quella nuova nascita dall’acqua e dallo Spirito Santo, secondo le
parole di Gesù durante il suo colloquio con Nicodemo, costituiva il
fondamento della appartenenza al Regno di Dio e alla Chiesa di Cristo, e
pertanto anche il rapporto tra i soggetti che a quell’atto intervenivano,
rafforzato dall’opera dello Spirito Santo, doveva rivestire più valore
di quello concretantesi nel semplice vincolo di parentela carnale. A proposito
di quell’episodio ricordava infatti Giovanni le parole chiarificatrici di
Gesù:
Ioh. 3.3-6: Respondit
Iesus et dixit ei: “Amen, amen dico tibi: nisi quis natus fuerit desuper,
non potest videre regnum Dei”. Dicit ad eum Nicodemus: “Quomodo
potest homo nasci, cum senex sit? Numquid
potest in ventrem matris suae iterato introire et nasci?”.
Respondit Iesus: “Amen, amen, dico tibi: nisi quis natus fuerit ex aqua
et Spiritu, non potest introire in regnum Dei. Quod natum est ex carne, caro est, et quod natum est ex
Spiritu, spiritus est”.
Come
conseguenza di queste concezioni si generava dunque una differenza, anzi
un’opposizione tra legami spirituali e carnali nei primi secoli del
cristianesimo. Questa trovava un proprio fondamento nelle dottrine gnostiche e
nel platonismo diffuso che lodavano tutto ciò che rappresentava la
realtà spirituale e, nello stesso tempo, disprezzavano quello che in
qualche maniera aveva riferimento all’esistenza materiale e al corpo[28].
Di qui la considerazione prevalente che finiva per essere riservata alla
parentela cosiddetta spirituale, scaturita dai sacramenti del battesimo e della
cresima (sacramenti della divina affiliazione e dell’azione dello Spirito
Santo), e l’incidenza che a essa si veniva progressivamente riconoscendo
in relazione ai legami matrimoniali[29].
La convinzione che dal sacramento del battesimo sorgesse un vincolo spirituale
tra il battezzato e il suo padre spirituale o padrino più dignitoso ed
elevato del legame di consanguineità carnale si sviluppò quasi
contemporaneamente nelle due parti dell’Impero attraverso il pensiero dei
Padri della Chiesa. Fu tuttavia necessario un lungo percorso di riflessione
perché esso assumesse il valore di impedimento matrimoniale.
A
esercitare una profonda influenza in proposito contribuì proprio il
pensiero della patristica. E’ nelle opere dei Padri latini che si trova
menzionata una prossimità spirituale tra le persone che osservano la
medesima fede (o che riconoscono gli stessi valori morali o intellettuali) cui
è chiaramente assegnata maggiore importanza della parentela carnale.
Già Sant’Ambrogio, nel trattare il tema della guarigione della
suocera di Pietro nel contesto della sua opera De viduis, sottolineava come non fosse il vincolo di sangue ma la
parentela di virtù a rendere prossimi, dal momento che ciascun essere
umano opera non nel dominio della carne ma in quello dello spirito:
Ambr.,
De viduis, 9, in PL 16, 250-251: Fac
et tu misericordiam et eris Petro proxima. Non sanguinis necessitudo,
sed virtutis cognatio proximos facit, quia non in carne ambulamus, sed in
spiritu. Ama ergo propinquitatem Petri, affinitatem Andreae, ut pro te rogent
et recedant cupiditates tuae[30].
Anche
Sant’Agostino, richiamando alla memoria le parole di Gesù[31],
sottolineava il maggior peso da attribuire alla parentela spirituale rispetto a
quella carnale, ricordando come non sia questa a consentire agli uomini di
diventare beati, ma l’obbedienza e l’imitazione delle persone
giuste e sante:
Aug. Hipp., De sancta virginitate, 3, in PL 40.398:
Quid aliud nos docens nisi carnali cognationi genus nostrum spiritale
praeponere nec inde beatos esse homines, si iustis et sanctis carnis
propinquitate iunguntur, sed si eorum doctrinae ac moribus oboediendo atque
imitando cohaerescunt?
Questi
riferimenti, se contribuivano ad affermare il concetto di parentela spirituale
discendente dalla comune fede e in particolare dai sacramenti del battesimo e
della confermazione, non arrivavano peraltro ancora a individuare quel legame
come un vero e proprio impedimento matrimoniale[32].
Per rintracciare le linee di pensiero che portarono a quella configurazione
bisogna guardare piuttosto ai testi dei padri della Chiesa orientale. In essi
è riservata una particolare considerazione al ruolo e all’ufficio
dei padrini, di cui si sottolinea il particolare legame spirituale con il
battezzato, considerato più meritevole di apprezzamento dello stesso
vincolo di consanguineità carnale.
Si
deve a Teodoro di Mopsuestia (350-428), primo fra i Padri orientali, il
riferimento più risalente a quell’ufficio[33].
Ma è nei testi dello pseudo Dionigi l’Aeropagita (fine V-inizio VI
sec.) che se ne ricorda il ruolo fondamentale per la formazione nella fede dei fanciulli
che ad essi venivano consegnati dai genitori fiduciosi nella sollecitudine e
nella dedizione che quelli avrebbero esercitato, come padri devoti, nei
confronti di coloro che avevano sollevato dal sacro fonte battesimale
(divenendone susceptores per la loro
salvezza). Il susceptor si presentava
dunque, nella visione dello pseudo Dionigi, come un padre, responsabile per la
fede del figlioccio in relazione alla sua salvezza[34].
E quel rapporto filiale, di generazione spirituale che implicava impegno e responsabilità,
trovò in seguito applicazione anche nei confronti del battesimo degli
adulti. Questi, accostandosi al sacramento della rigenerazione, erano soliti
presentare dei fideiussores (anadechomenoi) che, in quanto già
membri della Chiesa, avrebbero testimoniato della serietà della fede dei
battezzati[35]. La paternità
spirituale che si realizzava tra il padrino e il figlioccio assumeva
così configurazione precisa fino a trovare chiara espressione nelle
catechesi battesimali di San Giovanni Crisostomo (344/354-407). Mentre svolgeva
il suo ufficio ad Antiochia, questi pronunciò un sermone indirizzato ai
catecumeni orientali (390 circa)[36].
In esso egli indicava esplicitamente il padrino come padre spirituale (pateres pneumatikoi) del figlioccio e
quest’ultimo come suo figlio spirituale (tekna pneumatikoi)[37].
Ciò, precisava San Giovanni, discendeva dai compiti di istruzione,
vigilanza, correzione che quello si era assunti con la rilevazione dal fonte
battesimale. Con quell’azione, infatti, come un padre premuroso si era
impegnato a istruire con tenerezza il proprio figlioccio nel cammino della
fede, a esortarlo, consigliarlo e, se necessario, raddrizzarlo con affetto
sollecito in quanto garante dell’integrità della fede davanti a
Dio:
Ioh. Chrysostomus, Catech.
Bapt., II.15: Siete voi stessi a
desiderare che noi rivolgiamo qualche parola di esortazione a quelle persone
che si sono assunte il compito di farvi da tutori, per avvertirle che avranno
una larga ricompensa, se assolveranno diligentemente questo loro compito nei
vostri riguardi; ma, se lo trascureranno, saranno giudicati severamente.
Pensa, o amato, che il
rischio a cui si espongono quelli che offrono la loro garanzia nei prestiti di
danaro è molto maggiore del rischio di chi riceve il prestito… Se
dunque i garanti, nei prestiti in danaro, devono rispondere di tutta la somma
prestata, quanto maggiore sarà la responsabilità di esortare,
consigliare, correggere, con affetto paterno, coloro di cui ci si rende
garanti, in merito alle cose dello spirito e alla pratica della virtù.
16. - Non lo giudichino,
dunque, un compito facile; sappiano che condivideranno il premio con chi essi
hanno accompagnato, con premurose esortazioni, lungo la via della virtù,
ma non sarà risparmiata a essi una severa condanna, se non si
prenderanno a cuore questa incombenza. A loro usiamo dare il nome di padri
spirituali, perché capiscano da quale tenerezza devono lasciarsi
guidare, nell'educare alla vita spirituale le persone a loro affidate. Se
infondere l'amore alla virtù in persone estranee alla nostra parentela
è già compito stupendo, esso diventa doveroso quando si tratta di
colui che abbiamo adottato come figlio spirituale. Siete ormai avvertiti che,
se per pigrizia voi trascurate questo interessamento, correrete il rischio di una
severa condanna[38].
Questa
testimonianza, in cui il fideiussor
nella fede, cioè il padrino, è chiamato “padre
spirituale”, costituisce espressione precisa della valenza ormai assunta
dalla relazione nascente dal rapporto battesimale[39].
Quel legame, in quanto configura una rinnovata generazione, non può che
produrre una nuova nascita e questa non può che portare a un nuovo
vincolo di paternità. Dunque il padrino rappresenta per il battezzato il
padre spirituale. Da questo consegue che entrambe le persone risultano legate
da un rapporto di relazione spirituale, scaturito con la rilevazione dal sacro
fonte, dove è avvenuta quella rigenerazione. Anche se quella relazione
non assume ancora i caratteri di un impedimento matrimoniale, la configurazione
che ne offrono le fonti contiene già tutti i presupposti perché
come tale essa possa essere considerata.
A
fornirne la sanzione legislativa provvede appunto il provvedimento di
Giustiniano in C. 5.24.6. In esso l’imperatore, dopo aver ammesso il matrimonio
tra un uomo e una serva alla quale abbia donato la libertà, proibisce il
matrimonio tra il padrino e la sua figlioccia senza distinguere se
quest’ultima sia o meno sua alumna.
Diversa appare però nelle due disposizioni l’incidenza
dell’intervento imperiale. Mentre infatti nella prima parte del testo il
matrimonio tra un uomo e la sua serva, che egli ha reso libera, è
proibito in ragione di una relazione di comportamento padre/figlia e del
rapporto di intimità tra questi instaurato durante la fase di
educazione, nella seconda parte della disposizione la proibizione assume
carattere assoluto e persiste sempre come effetto della parentela spirituale
sorta dal sacramento del battesimo, indipendentemente dal fatto che si sia
tenuta o meno la donna come figlia o come alumna.
Come conseguenza di questa relazione perde rilevanza il fatto
dell’eventuale convivenza o la considerazione filiale manifestata. Ad
assumere importanza è la natura del vincolo in forza del quale quelle
persone sono unite spiritualmente, che si configura ormai con i caratteri di
una relazione di tipo parentale. Secondo il testo del Codice giustinianeo,
dunque, la proibizione del matrimonio tra il padrino e la sua figlioccia,
generata dalla parentela spirituale originata dal battesimo, trova il suo
fondamento nella relazione di paterna
adfectio che tra di loro si è instaurata. Questa unisce il padrino suscipiens alla battezzata più
strettamente di quanto il legame di sangue unisca il padre alla figlia, dal
momento che Dio stesso si pone tra loro. Per questa ragione la norma
appositamente proibisce il matrimonio tra i parenti spirituali, introducendo un
divieto assoluto che acquista rilevanza non soltanto sul piano giuridico ma
anche su quello canonico[40].
Pur
non risultando alcun testo normativo che in precedenza avesse trattato la
parentela spirituale sotto l’aspetto dell’impedimento matrimoniale,
non si può tuttavia pensare che il disposto della costituzione
giustinianea sia stato formulato dal nulla[41].
Come testimoniato dalle numerose attestazioni delle fonti considerate, esisteva
una precisa linea di pensiero già affermata dai padri della Chiesa tanto
orientali quanto occidentali nel senso di considerare sotto veste parentale il
vincolo battesimale, anche se questa non aveva ottenuto riscontro in
disposizioni dei canoni conciliari (tra 300 e 695) e neppure era stata oggetto
di attenzione nei libri penitenziali del VI e VII secolo. Proprio
quell’orientamento si era tradotto in una pratica osservata[42]
e a quella si era rifatta la costituzione giustinianea traducendolo in un
preciso impedimento matrimoniale.
Del
radicamento profondo di quell’impedimento e del rilievo da esso assunto
anche in età successiva a quella giustinianea forniscono altresì
testimonianza alcune fonti ecclesiastiche e letterarie. Nei suoi Dialoghi il
Papa Gregorio I (590-604) ricordava una terribile vicenda udita da Massimiano,
vescovo di Siracusa. Un curiale aveva battezzato la vigilia di Pasqua una
giovane, rendendola in conseguenza sua figlioccia. Terminata la cerimonia, egli
aveva invitato quest’ultima a celebrare nella sua casa
l’avvenimento. Dopo aver però bevuto in eccesso finì per
violare la fanciulla e, dopo una settimana di grandi sofferenze morali, il
padrino morì, ma – prosegue il racconto – dopo essere stato
sotterrato il suo corpo bruciò nella tomba fino alla totale
consumazione:
Greg. Magn., Dial., 4.32, in PL 77.372-373: Quidam Curialis illic sacratissimo paschali Sabbato
iuvenculam cuiusdam filiam in baptismate suscepit. Qui post ieiunium domum
reversus, multoque vino inebriatus, eamdem filiam suam secum manere petiit,
eamque nocte illa (quod dictu nefas est) perdidit. Cumque mane facto
surrexisset, reus cogitare coepit ut ad balneum pergeret, ac si aqua balnei
lavaret maculam peccati. Perrexit igitur, lavit, coepitque trepidare ecclesiam
ingredi. Sed si tanto die non iret ad ecclesiam, erbescebat homines; si vero
iret, pertimescebat iudicium Dei… Die autem septimo subita morte
defunctus est. Cumque sepulturae traditus fuisset, per longum tempus cunctis
videntibus de sepulcro illius flamma exiit, et tandiu ossa eius concremavit,
quousque omne sepulcrum consumeret, et terra quae in tumulum collecta fuerat
defossa videretur.
Nel
resoconto del Papa appare chiaro come sia proprio la condizione di parentela
spirituale implicata dal rapporto tra figlioccia e padrino che costituisce la
causa che provoca la severa punizione inflitta a quest’ultimo. Ciò
evidenzia come il mancato rispetto di quel vincolo inducesse un atteggiamento
di naturale riprovazione che trovava ampio riconoscimento nell’ambiente
ecclesiastico oltre che nella considerazione dei fedeli. Dunque
l’episodio pone in luce come, nell’Italia bizantina e per
estensione in Oriente, esistesse una tradizione consolidata in materia e questa
poggiasse sulla particolare considerazione riservata al vincolo di parentela
spirituale[43].
Analoga
deduzione si può trarre dal Liber
Historiae Francorum, composto verso l’anno 727, che riferisce un
avvenimento verificatosi alla fine del secolo sesto. Secondo il resoconto
riportato, il re Chilperico si sarebbe separato da sua moglie Audovera
perché questa aveva battezzato la sua stessa figlia appena nata in
assenza del re e su istigazione di una donna, Fredegunda, con la quale il re si
sarebbe unito dopo l’avvenimento:
Lib.
Hist. Franc., 31, in MGH, Script. rer. Merov., 2.292-293: Habebat
tunc Chilpericus tres filios de Audovera regina sua…Cum autem Chilpericus
rex…contra Saxones ambulassent, Audovera regina gravida remansit quae
peperit filiam. Fredegundis vero per ingenium consilium dedit ei, dicens:
…dominus meus rex victor revertitur; quomodo potest filiam suam non
baptizatam gratulanter recipere? Cum haec audisset regina, baptistyrium
praeparare precepit vocavitque episcopum qui eam baptizare deberet. Cumque
episcopus adfuisset, non erat matrona ad praesens, qui puellam suscipere
deberet. Et ait Fredegundis: “numquam similem
tuae invenire poterimus, qui eam suscipiat. Modo tumet ipsa suscipe eam”.
Illa vero haec audiens, eam de sacro fonte suscepit. Veniens autem rex victor,
exiitque Fredegundis obviam ei dicens: “Deo gratias quia dominus noster
rex victoriam recepit de adversariis suis, nataque est tibi filia. Cum qua
dominus meus rex dormiet hac nocte, quia domina mea regina conmater tua est de
filia tua Childesinda?” Et ille ait: “Si cum illa dormire non queo,
dormiam tecum”…
Al
di là dei dubbi suscitati dal racconto[44]
anche l’episodio narrato pone in luce la rilevanza riconosciuta alla
parentela spirituale (nell’ipotesi si sarebbe trattato del caso di una commater[45]),
ma in particolare esso evidenzia il valore di vero e proprio impedimento
matrimoniale a essa assegnato. Da ciò la necessità, ricordata dal
racconto, della separazione tra i coniugi qualora quella relazione si fosse
instaurata tra marito e moglie durante il matrimonio. La convinzione che, per
mezzo del battesimo, si creassero nuovi legami interpersonali trovava
attraverso quella vicenda ancora una volta precisa riaffermazione.
Ma
sono le stesse fonti giuridiche a testimoniare della penetrazione e del
radicamento di quel vincolo e dell’impedimento che ne conseguiva. Nella
Ecloga di Leone III Isaurico (2.2) si ritrova infatti una disposizione dello
stesso imperatore, emanata probabilmente nel marzo del 726, che modifica e
integra il precedente regime giustinianeo. La nuova norma stabiliva da un lato
il divieto di nozze tra il padrino e la figlioccia (e pertanto ugualmente di
quello tra madrina e figlioccio), come già in precedenza aveva deciso
Giustiniano, e inoltre disponeva la proibizione del matrimonio tra il padrino e
la madre del battezzato, che era stata introdotta in precedenza dal canone 53
del Concilio Trullano (a. 692); dall’altra parte, però,
introduceva un nuovo divieto: il figlio di un padrino non poteva contrarre
matrimonio né con la figlioccia di suo padre, né con la madre di
questa[46]:
Ecl.2.2:
Kekwvluntai dev, o[soi ejk tou? ajgivou kaiv swthriwvdou"
baptivsmato" ajllhvloi" proshnwvqhsan, toutevstin o; ajnavdoco" ejk
th?" ijdiva" qugatro;" kai; th?" aujth?" mhtrov",
wjsauvtw" de; kai; oj aujtou? uijo;" ejk th?" toiauvth" qugatro;"
kai; th?"aujth?" mhtrov"...
Si trattava certo di innovazione
significativa in quanto estendeva i vincoli derivanti dal battesimo alla
fraternità spirituale, ossia ai rapporti tra il figlio o la figlia del
padrino e i suoi figliocci. Quel che rileva è, però, non solo la
persistenza dell’impedimento della parentela spirituale nella
compilazione leonina, ma la sua attualità e continua evoluzione
testimoniata dalla incorporazione di nuovi vincoli impostisi nella pratica come
naturale sviluppo delle proibizioni precedentemente stabilite dal Codice
giustinianeo.
Inizialmente
maturato nella tradizione consuetudinaria, quel vincolo aveva ottenuto
successivo riconoscimento e precisa regolamentazione nella legislazione
giustinianea: ma questa non aveva costituito che un momento, sia pure
determinante, di una lunga tradizione che, recepita e poi canonizzata prima nel
regolamento della Chiesa orientale e poi in quella occidentale, aveva generato
un doppio percorso che attraverso sviluppi distinti ha portato sino ai tempi
moderni[47].
[1] Questo vincolo
trovava estrinsecazione sul piano giuridico nel riconoscimento di una serie di
provvidenze che si consentiva al nutritor
di assumere nei confronti degli alumni.
Così un rescritto di Alessandro Severo riconosceva e disciplinava la
pratica di costituire una dote all’alumna
(C. 2.3.10) e alcune testimonianze delle fonti giurisprudenziali comprovano la
possibilità di beneficare nel testamento i fanciulli raccolti e allevati
o anche di istituirli eredi alla stregua dei figli legittimi. Cfr. in proposito
D. 27.1.32 (Paul. 7 quaest.)
[2] Ne fornisce
attestazione Scevola in D. 40.4.29 (Scaev. 23 dig.), ove il giurista del II sec., nell’affrontare alcuni
problemi successori legati all’esposizione dei fanciulli, tratteggia in
poche battute, ma con efficacia, circostanze ed effetti di quella deplorevole
condizione: Uxorem praegnantem
repudiaverat et aliam duxerat: prior enixa filium exposuit: hic sublatus ab
alio educatus est …
[3] Particolare
attenzione a quei rapporti e alla necessità di prendersi cura di questi
soggetti in condizione di debolezza fisica e materiale, provvedendo alle loro
necessità, aveva manifestato in particolare proprio Scevola occupandosi
dell’assegnazione di curatori agli alumni
impuberi (D. 33.2.34.1, Scaev. 18 dig.;
D. 36.1.64 (62), Scaev. 4 resp; D.
33.1.21.4, Scaev. 22 dig.) ovvero
della nomina tramite fedecommessi di amministratori con funzione di curatores dei beni (D. 33.1.18.1, Scaev.
14 dig.; 34.1.15 pr., Scaev. 17 dig.; 34.2.18.1, Scaev. 22 dig.; 34.4.30 pr., Scaev. 20 dig.; 36.1.80.(78)12, Scaev. 21 dig.).
[4] Le fonti
giurisprudenziali ricordano come potesse trattarsi anche di ingenui allevati da un parente o dal
padre naturale. Cfr. D. 34.9.16.1 (Pap. 8 resp.),
su cui R. Astolfi, Femina probrosa, concubina, mater solitaria,
in SDHI, 31, 1965, 56.
[5] Si sofferma sul
fenomeno, sia pure sotto il particolare profilo della datio tutoris ad opera del nutritor,
L. Desanti, De confirmando tutore vel curatore, Milano 1995, 34-44, che, oltre
a richiamare l’ampia letteratura in argomento, ricorda come le fonti
giurisprudenziali distinguano con esattezza i diversi tipi di rapporto che
potevano intercorrere tra chi designava il tutore (testamentario) e il pupillo.
In particolare, nell’indicare i soggetti diversi dal padre che potevano
intervenire in proposito, i giuristi non mancavano di far riferimento anche
all’extraneus di cui, forse a
partire da Scevola, si ammetteva potesse essere confermata la designazione (in
questo senso cfr. D. 27.1.32, 7, Paul. 7 quaest.,
in precedenza ricordato (nota 3), oltre a D. 26.3.4, Paul., l. sing. exc. tutel. e D. 26.3.1.1, Mod.
6 exc.). Numerose altre attestazioni delle
fonti confermano poi la possibilità che il nutritor non fosse legato da alcun vincolo di parentela o patronato
rispetto all’alumnus,
così Gai, 1.19; P. S. 5.6.16; D. 20.1.8 (Ulp. 73 ad ed.); D. 29.5.1.10
(Ulp. 50 ad ed.); D. 40.2.13 (Ulp. 6 off.
proc.); D. 40.2.14 pr. (Marc. 4 reg.); D. 45.1.132 pr. (Paul. 15 quaest.); Inst. 1.6.5).
[6] Come ha
sottolineato L. Desanti, De confirmando tutore vel curatore cit.,
42, nt. 61, il sorgere di questi vincoli come effetto dell’allevamento e
dell’iniziazione a un mestiere ad opera del nutritor trovava riconoscimento anche in altre civiltà
dell’Oriente mediterraneo, portando ad aggregazioni simboliche alla nuova
famiglia concretanti vere e proprie forme di adozione.
[8] In questo senso L.
Desanti, De confirmando tutore vel curatore cit., 43, la quale sottolinea
come probabilmente sia proprio questo il primo caso in cui, in epoca classica,
si consentì anche all’estraneo di nominare il tutore. La studiosa rileva
infatti come in origine fosse concesso solo a determinati estranei di indicare
un tutore da confermare e che l’estensione di tale possibilità in
via generale sia avvenuta solo in epoca successiva al periodo tra fine I e
metà II sec., in cui più ampia risulta esser stata la presenza di
alumni (cfr. in tal senso D. 26.3.4 e
D. 27.1.32, che parlano genericamente di quivis
extraneus).
[9] Se infatti in
età postclassica e giustinianea continuavano a non esservi limiti alle
unioni tra liberta e patrono, tuttavia, nel caso che il padrone avesse allevato
sin dalla nascita una schiava domestica, si dubitava che potesse sposarla una
volta manomessa, dato il sospetto che potesse essergli figlia e il matrimonio
un incesto. Così R. Astolfi,
Studi sul matrimonio nel diritto
postclassico e giustinianeo, Napoli 2012, 83.
[10] Nel
quadro della preservazione dell’istituto matrimoniale Giustiniano, come
aveva adottato severe misure repressive contro gravi forme di unioni vietate,
così interviene, talvolta, per consentire unioni la cui
regolarità era contestata o precedentemente rigettata, E’
così che Giustiniano autorizza, a certe condizioni, il matrimonio di
senatori con donne di teatro (C. 5.4.23) o quello tra liberti e persone di alto
rango (Nov. 78.3). Ma sono le unioni servili che, senza essere mai del tutto
riconosciute in diritto, beneficiano del favore imperiale. A partire
dall’epoca postclassica il movimento di tolleranza si accentua e
Giustiniano si cura di svilupparlo. In questa tendenza si inserisce l’emanazione
del provvedimento adottato nella prima parte di C. 5.4.26. Contro le incertezze
della dottrina classica ad ammettere il matrimonio dell’alunna liberata
con il suo antico padrone, Giustiniano interviene, dunque, risolvendo la
controversia in favore della validità dell’unione matrimoniale. Cfr. J. Gaudemet, Iustum matrimonium, in RIDA 3, 1950, 325, ora in Études de droit romain, III,
Napoli 1979, 361-362.
[11] Sottolinea come
Giustiniano, pur non riconoscendo l’esistenza del divieto, non si
discostasse del tutto dalla considerazione espressa da qualche giurista circa
la possibile natura incestuosa delle unioni tra nutritor e alumna L. Desanti, De confirmando tutore vel curatore cit., 43, che evidenzia come
proprio per tale ragione l’imperatore fosse dovuto ricorrere alla
presunzione che «il patrono – giacché desiderava sposare
l’alumna – non
l’avesse allevata ut filia».
Ritiene che un divieto generale fosse ingiustificato, potendosi al più
temere «un’ombra di incesto», come sospettato dagli antichi,
P. Voci, Vicende della legislazione giustinianea negli anni 528-534, in SDHI 69, 2003, 102, poi in P. Voci, Ultimi studi di diritto romano cit., 334.
[12] Per queste
nozioni, con riferimento al sistema romano, cfr. F. La Rosa, Osservazioni
sulla parentela in età arcaica, in Studi per G. Nicosia, IV, Milano 2007, 327-333.
[13] Che questa
convinzione dell’originarsi in conseguenza del battesimo di nuovi legami
interpersonali avesse trovato espressione nella tradizione consuetudinaria
prima di ricevere sanzione normativa nella legislazione imperiale ed essere
successivamente canonizzata prima nel regolamento della Chiesa Orientale e poi
in quello della Chiesa Occidentale è sottolineato da V. Gorbatykh, L’impedimento della parentela spirituale nella Chiesa latina e
nelle Chiese orientali. Studio storico-canonico, Roma 2008, 5.
[14] In questo senso E.
De León, La «cognatio spiritualis»
según Graciano, Milano 1996, 72, il quale osserva come la relazione
più rilevante nella nozione di parentela spirituale non sia quella tra
il ministro del battesimo e il battezzato, ma appunto quella tra il battezzato
e il padrino di battesimo.
[15] Si trattava del
catecumenato, espressione che deriva dal verbo greco kathxew, equivalente al
latino instruo.
[17] Il padrino
infatti, oltre che padre spirituale in forza della nuova generazione alla vita
di fede che dava luogo a un rinnovato rapporto di adfectio spiritualis, assolveva appunto al ruolo di fideiussor, di garante di quello stato.
[18] Oltre a questo,
altri termini che si ritrovano nelle fonti per indicare le funzioni che il
padrino svolgeva durante il battesimo sono quelli di tenens e accipiens,
quest’ultimo in particolare per indicare l’atto del prendere il
battezzato dalle mani del ministro. Analogamente il battezzato veniva indicato
come levatus o susceptus.
[20] In proposito V. Gorbatykh, L’impedimento della parentela spirituale nella Chiesa latina e
nelle Chiese orientali. Studio storico-canonico cit., 10, rileva come nei
testi Apostolici e nelle opere di Padri latini non esistesse un concetto di
parentela spirituale corrispondente a quello formulato successivamente dalla
legislazione giustinianea e poi precisato nei secoli successivi,.
[21] Act., 16.1-2: Pervenit autem in Derbem et Lystram. Et ecce
discipulus quidam erat ibi nomine Timotheus, filius mulieris Iudaeae fidelis, patre
autem Graeco; huic testimonium reddebant, qui in Lystris erant et Iconii
fratres.
[23] Peraltro Tito,
diversamente da Timoteo, non risulta fosse già cristiano prima
dell’incontro con Paolo e dunque si è supposto che potesse essere
stato battezzato dall’Apostolo: cfr. in tal senso E. De León, La «cognatio spiritualis» según Graciano cit.,
14.
[24] Cfr. pure Act., 16.33: Et tollens
eos in illa hora noctis lavit eos a plagis, et baptizatus est ipse et omnes
eius continuo.
[25] Così R.A. Wild, Le lettere pastorali, in R.E.
Brown - J.A. Fitzmaier - R.E. Murphy (ed.), Nuovo Grande
Commentario Biblico, Brescia 1997, 2002 (orig. ing. 1990), 1171,
1173.
[26] Al di fuori dei
testi apostolici ricordati, le cui indicazioni non sono però sufficienti
per poter riscontrare un concetto abbastanza preciso di parentela spirituale
nei primi tempi del cristianesimo, non si incontrano neppure nelle fonti
immediatamente successive, quali la Didachè
e la Didascalia, altri indizi di un
puntuale utilizzo di quella nozione. Cfr. in proposito E. De León, La «cognatio spiritualis» según Graciano cit.,
15.
[27] Cfr. Tit. 3.4-5:
“Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore
nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù
di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un
lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello spirito”.
[28] Si sofferma su
questi aspetti V. Gorbatykh, L’impedimento della parentela spirituale
nella Chiesa latina e nelle Chiese orientali. Studio storico-canonico cit.,
9.
[29] Oltre che nelle
collezioni indicate in precedenza (nota 27) anche dalla Traditio apostolica, che raccoglieva le prime tradizioni giuridiche
della Chiesa Occidentale, esulava la nozione precisa di parentela spirituale.
[30] In proposito e
più in generale sulle concezioni di Sant’Ambrogio relative alla
condizione femminile e alla vedovanza cfr. l’introduzione di G. Biffi a Sant’Ambrogio, De viduis. Le vedove, Siena 2002, 13.
[31] Mt. 12.48-50:
«Ed egli, rispondendo a chi lo interrogava, disse: “Chi è
mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Poi stendendo la mano verso i
suoi discepoli disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli;
perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei
cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”».
[32] Che questa
concezione non fosse chiaramente presente nei testi dei Padri latini, ma che esistessero
fondamenti scritturistici sufficienti per fondarne la configurazione è
sottolineato da E. De León,
La «cognatio spiritualis»
según Graciano cit., 15.
[35] Questa esigenza
della presenza di un fideiussor,
cioè di un padrino, è attestata anche dalle Constitutiones Apostolicae, 3.16, in PG. 1, 798, che precisano come normalmente si dovesse trattare di
un diacono per un maschio e di una diaconessa per le femmine.
[36] L’importanza
della testimonianza considerata consiste nel rappresentare un documento non
ufficiale che, diversamente da decretali o canoni conciliari, riflette, come
altri della sua stessa natura, in maniera diretta ed efficace il modo di
concepire e attuare quelle relazioni nella pratica sociale ed ecclesiastica.
[37] Cfr. E. De León, La «cognatio spiritualis» según Graciano cit.,
55, con richiami bibliografici in proposito, il quale precisa che «es
indudable que la terminología familiar
se ha utilizado con frecuencia en el seno del cristianismo, specialmente
durante los primeros siglos, porque este uso favorecía la
consideración del bautismo come un “nuevo nascimiento”, del
que obviamente nacía también un nuevo parentesco pero espiritual».
[39] Con il termine di
“padre spirituale” a Bisanzio si designava anche il direttore
spirituale e successivamente anche il confessore, ma il verbo enadexomai utilizzato nel brano di
Crisostomo indica il rilevare (suscipere) e dunque si riferisce
più propriamente al padrino.
[40] Il disposto
imperiale, facendo esplicita menzione del nexus
per il tramite del quale animae eorum
copulatae sunt, indica con chiarezza la particolare natura spirituale del
vincolo che costituisce causa dell’impedimento matrimoniale sancito
dall’imperatore. Analoga proibizione non è viceversa stabilita dal
testo della costituzione tra il ministro del battesimo e il battezzato, dato
che la disposizione, indicando come susceptor
a sacrosanto baptismate la persona vincolata, si riferisce senza dubbio
alla figura del padrino.
[41] Si
è supposto, tra l’altro, che tali impedimenti siano stati fissati
attorno alla fine del IV sec. (tuttavia anche questa indicazione non trova
piena conferma, dato che la lettera Deus
dedit di Adeodato I, papa dal 615 al 618, inviata a Gordiano di Siviglia,
è oggetto di rilievi critici da parte della dottrina). Quello che si ha
di più certo circa l’antichità dell’impedimento
dirimente che nasce dalla parentela spirituale sono dunque la legge di
Giustiniano e il canone 53 del Concilio di Trullo. Prima di quel provvedimento,
infatti, noi non abbiamo nessun documento autentico che faccia menzione
dell’affinità spirituale. Si deve ritenere tuttavia, come
evidenziato, che le basi di quel divieto risalissero più indietro nel
tempo e affondassero le loro radici nel grande rispetto che i primi cristiani
avevano per i loro “padri” spirituali. Questo doveva averli indotti
ad astenersi da simili matrimoni senza che vi fosse né un vero canone
né una legge che li proibisse.
[42] La dottrina si
è a lungo interrogata sulla origine della disposizione giustinianea,
formulando ipotesi diverse; così mentre da un lato, sulla base di
considerazioni formali, si è supposto che essa fosse stata emanata per
iniziativa della Chiesa, dall’altro si è ricollegato tale
indirizzo a una usanza già da qualche tempo osservata, diventata
progressivamente costume popolare consolidato. Così J. Gaudemet, L’Eglise dans l’Empire romain
(IVͤ-Vᵉ siècles), Paris 1958, 528.
[43] Solleva qualche
perplessità in proposito E. De
León, La «cognatio
spiritualis» según Graciano cit., 56, sottolineando come
«el papa Gregorio en ningún momento hace expresa referencia a esa
cualidad come si fuera el motivo que agrava la conducta del
varón», e in conseguenza ritenendo insufficiente quella
testimonianza a comprovare l’esistenza di un costume normativo
consolidato in proposito.
[44] In proposito si
è infatti osservato che nella Historia
Francorum di Gregorio di Tours non si trova traccia di questo episodio e
dunque si deve ritenere che esso sia una leggenda senza fondamento inserita dal
redattore del Liber, ciò in
considerazione anche del fatto che l’impedimento di cognatio spiritualis superveniens sarebbe stato introdotto
successivamente e potrebbe trovar giustificazione solo al momento della
redazione dell’opera considerata e non in quello del verificarsi
dell’avvenimento narrato.
[45] Il novero degli
impedimenti da cognatio spiritualis
era andato accrescendosi nel corso del tempo fino a ricomprendere un novero
sempre più ampio di relazioni. Così alla paternitas spiritualis, tra il padrino o il ministro del culto e il
battezzato, si era aggiunta la compaternitas
(directa), tra padrino o ministro e i
genitori del battezzato, la fraternitas
spiritualis, tra la discendenza del padrino o del ministro del battesimo e
il battezzato e la sua discendenza. Accanto a queste relazioni spirituali si
erano anche configurate quella di compaternitas
indirecta, tra la moglie del padrino o del ministro del sacramento e i
genitori del battezzato, e quella di cognatio
superveniens, che intercorreva tra marito e moglie quando uno di loro
diventava padrino del proprio figlio. In argomento cfr. V. Gorbatykh, L’impedimento della parentela spirituale nella Chiesa latina e nelle
Chiese orientali. Studio storico-canonico cit., 75-97.
[46] Dubbio è
viceversa che il testo dell’Ecloga prevedesse altri impedimenti, quali
quello che avrebbe dovuto stabilire che il ministro del battesimo non poteva
unirsi con la donna battezzata né con la figlia o la madre di quella o
che il figlio del battezzante non poteva contrarre nozze con le medesime
persone per cui esisteva divieto nei confronti del padre. Queste ultime due
limitazioni che riguardavano il battezzante e suo figlio si sarebbero dovute
riferite al ministro tanto laico quanto ecclesiastico del battesimo, dal
momento che in Oriente i chierici potevano contrarre matrimonio. Discussione
del problema con ampi richiami alla bibliografia in proposito in V. Gorbatykh, L’impedimento della parentela spirituale nella Chiesa latina e
nelle Chiese orientali. Studio storico-canonico cit., 151-152 e nt.33.
[47] Ancora presente
nel CIC/17, l’impedimento di parentela spirituale è caduto nella
Chiesa occidentale con la promulgazione del Codex
Iuris Canonici il 25 gennaio 1983. Già prima, peraltro,
quell’impedimento era suscettibile di dispensa in relazione alle
circostanze particolari dei singoli casi. Al contrario esso è rimasto in
vigore nel Codex Canonum Ecclesiarum
Orientalium del 1990, che lo prevede tra il padrino o la madrina da una
parte e la battezzata o il battezzato e i suoi genitori dall’altra, e ne
fa discendere la inabilità di dette persone a contrarre validamente
matrimonio.