franchini

 

 

Franchini-fotoLorenzo Franchini

Università Europea di Roma

 

IL PROBLEMA DELL’ESISTENZA DI UN IUS CONTROVERSUM IN ETÀ ARCAICA

 

Abstract:

 

The advent, between the third and second centuries BC, of secular jurisprudence marks the arising of a ius controversum, that will reach its zenits in the following centuries. In this paper, the Author questions the existence, mostly denied by doctrine, of a ius controversum in the previous era, characterized by the pontifical monopoly of interpretation. The analysis has been conducted trough a deep and careful study of how the pontifices gave their verdicts. From a diachronic perspective a ius controversum was always plausible. Otherwise in sincrony we must distinguish: for private sacred law and (substantive) civil law, matters for which one single pontifex was delegated each year, the latter could not establish ius controversum against himself; for public sacred law and civil process, matters for wich pontifices use to operate collegially, ius controversum remains merely potential, since were always and exclusively formalized the majority opinion.

 

L’avvento, a cavallo fra il III ed il II secolo a.C., di una giurisprudenza laica segna il sorgere di un ius controversum, destinato a svilupparsi al massimo nei secoli successivi. Franchini, in questo scritto, viceversa s’interroga sulla esistenza, per lo più negata in dottrina, di un ius controversum nell’epoca precedente, caratterizzata dal monopolio pontificale dell’interpretazione. La risposta viene data a seguito di un attento studio delle modalità con cui i pontifices davano i loro responsi: collegialmente, nelle materie di diritto sacro pubblico, e forse anche in quelle di diritto civile, limitatamente alla sfera del processo; a mezzo di un solo sacerdote ogni anno delegato, nelle materie di diritto sacro privato e in quelle di diritto civile sostanziale. La conclusione è che un ius controversum nella diacronia era sempre prospettabile; nella sincronia, solo all’interno del collegio, finché i pontefici discutevano, prima di emettere un decreto che, all’esterno, formalizzava però l’orientamento della sola maggioranza.

 

 

1. – A partire dall’ultima fase del III secolo a.C., e fino alla metà del III d.C., l’esperienza giuridica romana si caratterizza, come noto, per il suo carattere di ius controversum. Si assiste cioè alla impressionante diffusione, e al consolidamento, di indirizzi giurisprudenziali diversi: ciò che avviene sia col passare del tempo, nella diacronia, allorché ad un indirizzo interpretativo se ne sostituisce un altro, sia nella sincronia, giacché è dato riscontrare la normale, pacifica co-esistenza, nello stesso momento, di orientamenti opposti, atti a risolvere in maniera differente lo stesso genere di casi. Per il giurista moderno formatosi sui codici, tutto intriso di cultura legalistica, non è facile comprendere, “realizzare” fino in fondo, forse persino accettare l’idea che correnti interpretative consapevolmente contrapposte, che il diritto per esempio dei Sabiniani e quello dei Proculiani, costituissero ufficialmente entrambi, al contempo, il diritto vigente. Tutto ciò poté accadere perché in epoca preclassica e classica l’attività di consulenza si svolgeva in modo libero, e dunque casi simili venivano talora sottoposti, pressoché contemporaneamente, all’attenzione di giuristi diversi, con soluzioni diverse da essi dettate ed ispirate a diverse rationes decidendi. La pluralità, la divergenza dei flussi interpretativi si spiega in ragione dei loro diversi “punti di innesco”, talché la giurisprudenza delle generazioni successive ne fu sì inevitabilmente influenzata, ma collocandosi, a seconda delle circostanze, ora nell’alveo dell’uno ora in quello dell’altro. Ad ogni modo, la dialettica era spesso destinata a risolversi, nel medio-lungo periodo, con il prevalere dell’una o dell’altra impostazione, che diventava ius receptum[1]: fenomeno, questo, su cui gli studiosi si sono sovente interrogati, in rapporto ai fattori che ebbero a determinarlo. Tra questi riteniamo che debba essere annoverata anche la prassi[2], ivi compresa quella giudiziaria, le sentenze dei giudici, di cui taluni autori provano ritrosia a tenere conto, ma non certo altri[3].

 

2. – Tutto questo vale per l’epoca di una scienza giuridica divenuta, a Roma, già laica, e dunque a partire dalla fine del III - inizio del II secolo a.C. Ma se si risale ancora, nel tempo, vediamo che la funzione giurisprudenziale era affidata ai sacerdoti-pontefici.

Il pontificato, istituito secondo la tradizione da Numa[4], constava di un collegio in cui, alla vigilia della lex Ogulnia, erano compresi quattro membri, tutti di estrazione patrizia; quella legge, risalente al 300, li portò a nove, immettendovi anche i plebei[5]. Si trattava di una vera e propria istituzione della res publica romana[6], avente carattere accentrato e gerarchizzato, visto che i singoli membri dipendevano dal collegio e questo era convocato e presieduto dal pontefice massimo, ritenuto a ragione il vertice dell’intero apparato sacrale e sacerdotale di Roma, con poteri di vigilanza e persino di sanzione nei confronti dei ministri del culto resisi in qualche modo inadempienti[7]. 

Ma i pontifices esercitavano in maniera esclusiva la loro competenza nello studio, nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme non soltanto nel campo del ius sacrum (laddove si trattava di regolare i rapporti tra l’uomo e le divinità), ma anche, almeno fin verso la metà del III secolo, nel campo del ius civile (laddove si trattava di regolare i rapporti tra persona e persona, tra cittadino e cittadino). L’esistenza di un vero e proprio monopolio anche in quest’ultimo ambito è stata contestata, in dottrina[8], ma la precisa attestazione, in proposito, di almeno tre fonti sembra davvero assai difficile da eludere[9].

 

3. – In un quadro simile, segnato dalla competenza esclusiva della giurisprudenza sacerdotale, qual è quello proprio dell’epoca arcaica, vi è da chiedersi se sia lecito anche solo parlare di ius controversum.

Per rispondere a questa domanda occorre affrontare un tema, solitamente trascurato dagli studiosi, che potremmo chiamare del “diritto pontificale procedimentale”, concernente le diverse modalità, i diversi meccanismi con cui questi giuristi venivano a seconda dei casi consultati e davano di conseguenza i loro responsi. Ciò perché, come i prudentes di epoche successive, i pontifices non si interessavano delle quaestiones iuris di propria iniziativa, né il collegio si autoconvocava: occorreva che qualcuno gliele sottoponesse, chiedendo un parere. Quest’ultimo, nell’età del formalismo, sarà quasi sempre consistito nei certa verba da pronunciare[10] per il corretto svolgimento di un rito, civile o religioso, o nei certa gesta da compiere[11], o al limite in prescrizioni inerenti all’osservanza dei tempi rituali[12].

Con quali modalità, secondo quali procedure si svolgeva allora il famoso agere, cavere, respondere della giurisprudenza pontificale[13]? Dalle fonti chiaramente si ricava che i meccanismi erano diversi a seconda degli ambiti, delle materie per cui l’attività di consulenza doveva esercitarsi.

 

4. – Nel campo del diritto sacro pubblico[14] (offerta di voti da parte della res publica, dedicazione di templi, celebrazione di altre varie cerimonie), era il magistrato che, incaricato in ciò dal senato[15], provvedeva ad interpellare ufficialmente il collegio come tale, al fine di ottenere un decretum di risposta[16], che, una volta comunicato dal pontefice massimo[17] alle autorità interpellanti, sarebbe stato reso esecutivo dal senato con una sua seconda delibera[18]. In tale procedimento erano coinvolti, come si vede, alcuni dei più importanti organi dello stato, quali il magistrato ed il senato (il cui duplice intervento era probabilmente richiesto dal fatto che l’attuazione del responso collegiale, che imponeva la celebrazione di pubblici riti nel rispetto di formalità determinate, avrebbe poi comportato, nella maggior parte dei casi, l'assunzione di vincoli di natura religiosa a carico dell’intera cittadinanza).

Per comprendere se in un contesto simile la giurisprudenza romana potesse dar luogo ad un ius controversum, illuminante è soprattutto la testimonianza di Liv. 31.9.5.10 [19], da cui si ricava che nel 200 a.C. i pontifices consentirono che per la prima volta fosse pronunciato un votum ex incerta pecunia, apportando una modifica al tenore della tradizionale formula rituale (ex certa pecunia), nella quale era da sempre invece specificata la somma in denaro da accantonare ed eventualmente da spendere nel caso in cui, verificatasi la condizione apposta alla promessa, questa dovesse essere adempiuta. Ciò che dimostra come ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale se ne potesse sostituire un altro anche radicalmente contrapposto, ossia come, nella diacronia, potesse senz’altro darsi un ius controversum. Quanto alla sincronia, dal medesimo passo si evince che - come normalmente accadrà in epoche successive - non mancarono fra i giuristi dissensi e divergenze di opinione, espresse le une contemporaneamente alle altre[20]: ma si osservi che, in quest’epoca, esse erano inevitabilmente destinate a venire superate ed assorbite dal voto a maggioranza adottato dal collegio. Quindi ufficialmente non v’era ius controversum, se non entro i limiti di durata della seduta in cui i pontifices, all’uopo convocati, erano chiamati a pronunciarsi[21]: nulla che perciò potesse assumere rilievo all’esterno.

 

5. – E’ a nostro avviso sostenibile, pur in mancanza di una attestazione diretta nelle fonti, che una procedura simile, che implicava la consultazione dell’intero collegio da parte del magistrato, fosse seguita anche nel campo del ius civile, limitatamente alla sfera processuale[22]. Alludiamo ovviamente alle legis actiones - di cui almeno una, il sacramentum, ebbe per lungo tempo carattere anche religioso -, dal momento che esse, pur finalizzate ad accordare tutela ad interessi privati, erano riti solenni nei quali, oltre alle parti, era strutturalmente implicato un organo pubblico, ossia il pretore. I formulari delle actiones saranno stati elaborati, e via via aggiornati, dalla giurisprudenza pontificale, anche in funzione dei compiti che il magistrato giusdicente avrebbe dovuto assolvere (e che per lo più consistevano, come si sa, nella pronuncia di determinate parole, essenzialmente riconducibili alla triade do dico addico, in corrispondenza delle varie fasi del procedimento e secondo i tempi scanditi stabiliti dalla interpretatio sacerdotale). Si può senz’altro ravvisare, sotto questo profilo, un parallelismo significativo[23] fra il magistrato che, nell’esercizio dei suoi poteri d’imperio, ius dicit fra i cittadini ed il magistrato che, sempre munito d’imperio, pronuncia, per esempio, i verba di un pubblico voto. E’ allora lecito pensare che il pretore, ogni volta che si rendesse necessario apportare una modifica alle formalità secondo le quali doveva svolgersi una legis actio, e specie nell’ipotesi che si trattasse di formalità da osservarsi anche da parte sua, solesse esperire la sopra descritta procedura ufficiale di consultazione. Ciò, sebbene il meccanismo fosse qui, forse, semplificato, dal momento che, non trattandosi di questioni di rilievo politico generale o tali da impegnare l’intera cittadinanza, bensì soltanto di una lite fra privati, non vi era probabilmente bisogno di chiamare in causa il senato. Non vi sarà stato, a nostro avviso, né il senatoconsulto di autorizzazione né soprattutto quello di ratifica di un decreto che, pur formalizzando un vero e proprio responsum pro collegio[24], era di per sé privo di effetti generali, giacché dettava pur sempre soltanto la disciplina da applicarsi ad un processo fra privati[25].

Ribadiamo che manca una testimonianza espressa a conferma dell’osservanza di siffatta procedura, ben diversa da quella di cui in materia di ius civile ci riferisce Pomp. D. 1.2.2.6 [26], ossia la consultazione del pontefice singolo da parte dei privati. Ma ci confortano nella nostra convinzione altri due rilievi. Il primo è di ordine politico-istituzionale, e consiste nel prendere atto della circostanza che il magistrato – nell’esercitare la sua funzione ricognitiva del formalismo processuale o addirittura nell’introdurre modifiche ai formulari, specie laddove si trattasse di formalità da rispettarsi anche da lui stesso – non poteva ritenersi soddisfatto di un responso che il privato parte in causa asserisse di aver ottenuto dal singolo sacerdote incaricato: una eventualità simile sarebbe stata percepita, a nostro parere, come contraria alla dignità stessa della funzione di cui il pretore era titolare[27]. Il secondo rilievo trova un qualche appiglio nelle fonti, e precisamente nello stesso passo che pur attesta il praeesse privatis del consulente singolo, dato che appena prima vi si afferma che era invero il collegio depositario dell’interpretatio sulle actiones, le quali sembrano pertanto dotate, sotto questo profilo, di una certa autonomia rispetto agli altri istituti del diritto privato[28].

Il decreto pontificale – destinato ad essere sottoposto, anche in quest’ambito, a forme idonee di conservazione[29] – fungeva da precedente autorevolissimo, ed era quindi idoneo a consolidare la vigenza di riforme così introdotte: basti pensare, solo a titolo di esempio, a quella che comportò, nel contesto della legis actio sacramenti in rem immobiliare, la trasformazione del manum conserere nell’ex iure manum consertum vocare[30]. Tutto ciò, a conferma dell’esistenza di un ius controversum, quanto meno nella diacronia, nella sfera del processo arcaico, nel cui sviluppo già sicuramente incideva, secondo noi, la collaborazione tra pretore e giuristi, che non è una novità dell’età formulare.  

 

6. – Abbiamo visto come, dal medesimo passo di Pomponio sopra citato[31], si ricavi un altro dato di grande importanza, ossia che per le questioni in cui erano implicati interessi privati, per i quesiti inerenti all’applicazione al caso concreto di regole di ius civile (con particolare riferimento, secondo quanto si è detto, alla sfera negoziale) o di ius sacrum privatum, i meccanismi di consultazione previsti dall’ordinamento erano differenti. Più esattamente, vi si apprende che in età arcaica esisteva una prassi interna al collegio, secondo cui ogni anno un pontefice riceveva la delega, l’incarico di esercitare attività di consulenza ai privati (praeesse privatis). Titolare della funzione restava a nostro avviso il collegio come tale[32], al quale si poteva teoricamente ancora ricorrere, al fine di ottenere un decreto di risposta, specie, è lecito supporre, nelle questioni in cui i suoi membri si fossero, l’uno di seguito all’altro, diversamente pronunciati: è forse questo il caso, per esempio, della complessa materia della trasmissione dei sacra familiaria, per cui sono effettivamente rinvenibili, nelle fonti, tracce di decisioni collegiali, comunicate all’esterno dai pontefici massimi[33]. Ma in base ad un uso consolidato, avvalendosi dello strumento della ‘delega’ – al quale peraltro il collegio faceva di frequente ricorso, come si evince anche dai casi relativi al praeire verbis[34], i pontefici facevano sì che almeno in prima battuta, per comprensibili ragioni di praticità, e quindi nella quasi totalità delle ipotesi, fosse il singolo sacerdote incaricato a dare il responso al privato.

In base a quanto osservato, risulta chiara la ragione per cui, anche nell’ambito del diritto privato, l’esperienza giuridica romana arcaica non fu, come quella successiva, nella sincronia, un’esperienza di ius controversum: ossia perché, considerata l’esistenza di un organo, quale il collegio, che deteneva il monopolio dell’interpretazione giurisprudenziale, ma anche le specifiche descritte modalità con cui l’attività di consulenza sui casi veniva condotta - da parte di non più di un solo pontefice di volta in volta delegato -, l’eventualità che più orientamenti contrapposti costituissero contemporaneamente il diritto vigente risultava del tutto improspettabile. Era invece possibile, anche qui, nella diacronia, cioè in tempi diversi; ma doveva essere comunque assai raro, in materia di ius civile, che ad un mutamento d’indirizzo ne seguisse entro breve addirittura un altro, poiché di solito i singoli pontefici si attenevano ai precedenti[35], e se così non era un’eventuale pronuncia del collegio avrebbe comunque fatto immediatamente prevalere un orientamento a scapito degli altri e assicurato per molto tempo uniformità di interpretazione[36].

 

7. – Così operavano dunque i pontefici, controvertendo soltanto coi loro predecessori e, se anche fra di loro, unicamente all’interno del collegio, al fine di adottare poi una delibera comune. Al di fuori di queste dinamiche, e tranne il caso del ricorso alla legge, non poteva esservi evoluzione del diritto, dato che, essendo l’epoca arcaica dominata dal formalismo e da una concezione di tipo rituale di qualunque attività che si presumesse non priva di effetti rilevanti, solo per il tramite di un responso pontificale potevano introdursi modifiche ai formulari di atti e procedimenti, e qualsiasi prassi si allontanasse dagli schemi prefissati sarebbe risultata invalidante[37].

La situazione era, come si sa, destinata a cambiare, nel corso del III secolo, per via del cosidetto processo di laicizzazione della giurisprudenza. Ma all’interno di esso vanno individuati, in questa sede, i passaggi che più di altri produssero, tecnicamente, lo scardinamento dei meccanismi su cui si fondava il sistema generale delle procedure pontificali di consultazione.

L’avvenimento di maggior rilievo, sotto questo profilo, fu rappresentato dalla decisione, presa dal primo pontefice massimo plebeo, Tiberio Coruncanio[38], di dare i suoi responsi in pubblico, così che gli ascoltatori più interessati potessero costantemente assistervi e rendersi pertanto conto della ratio che di volta in volta, sulle più svariate materie, ispirava l’attività interpretativa del capo del collegio. Ora, l’episodio, al di là dell’impatto enorme che dovette avere sull’opinione pubblica per il fatto che definitivamente poneva fine alla tradizionale segretezza dell’interpretatio sacerdotale, è indizio importante di un’altra circostanza, che rileva appunto sotto il profilo procedimentale e della quale la dottrina, per questo, di solito non tiene conto: ossia che da qualche tempo con tutta probabilità non venivano più rispettati, da parte dei privati, i tradizionali meccanismi di consultazione. Non vi era più un singolo pontefice delegato che esaminava i quesiti posti dai patres familias, ma più pontefici singolarmente esercitavano la loro attività di consulenza, in contemporanea con altri[39]. L’esempio fornito dallo stesso capo del collegio alimentò certamente questa prassi, oltre a quella poi generalizzatasi dei responsi in pubblico: la conseguente perdita d’autorità del pontificato, inteso come organo collegiale di raccordo cogente dell’interpretazione, dovette senz’altro favorire la comparsa dei primi consulenti laici, il libero confronto tra i diversi orientamenti e finalmente la nascita di un ius controversum vero e proprio, tale cioè da svolgersi anche nella sincronia.

La nobilitas riconobbe l’autorevolezza dei primi giuristi che, pontefici o laici che fossero, mostravano di voler agire più liberamente, fuori dagli schemi procedimentali e sostanziali del passato; tanto più che gli interpreti di questa nuova sensibilità più aperta alla comunità e alle nuove istanze culturali di matrice anche straniera[40], forse mostravano di essere assai più disponibili a sancire il definitivo riconoscimento, in termini giuridici, di tutte quelle relazioni e situazioni che, anche al di fuori dalle strettoie del formalismo, da sempre erano, sul piano socio-politico, tenute anche a Roma in particolare riguardo e come ammantate di doverosità, in quanto fondate, per esempio, sulla fides[41].

 

8. – In conclusione, osserveremmo che, nonostante il clima significativamente nuovo caratterizzante quest’epoca di trapasso, non si deve pensare ad uno iato vero e proprio fra la tradizione pontificale e la stagione della giurisprudenza protolaica. 

A conferma di ciò basti addurre due semplici dati, per lo più trascurati, ma talmente essenziali che non si vede come la stessa manualistica possa continuare a prescinderne, per un opportuno aggiornamento di se stessa. Il primo è che addirittura un pontefice massimo, P. Licinio Crasso, esercitò, nel 208, la carica di praetor peregrinus[42]. Il secondo è che lo stesso S. Elio Peto Cato, sempre menzionato come il primo giurista non-sacerdote di cui si abbia notizia, apparteneva ad una famiglia di pontefici[43].

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione “in chiaro” da parte dell’organizzazione scientifica delle “Conferenze Romanistiche Sassaresi” (anno 2015 – MMDCCLXXVIII dalla fondazione di Roma); d'intesa con la direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] La nozione di ius receptum (o inductum) trova amplissima conferma nelle fonti: solo a titolo di esempio v. Gai 3.82; 3.160; D. 1.3.14; 1.3.32; 2.1.14; 9.2.51.2; 19.1.11.8; 21.2.56.7; 22.1.2; 24.1.1; 27.4.1pr.; 30.71.4; 35.1.24; 35.1.73; 39.3.3.3; 40.7.2.4; 41.2.1.14; 41.2.32.2; 44.7.5pr.; 45.1.4.2; Paul. Sent. 5.2.2; Gell. 12.13.3.

 

[2] Il principale teorico della receptio moribus - a seguito della quale, soltanto, un mero indirizzo interpretativo avrebbe ottenuto piena e definitiva integrazione nell’ordinamento (civile), in quanto ormai assistito dalla generale approvazione di tutti i possibili artefici di usi e prassi giuridicamente applicativi dell’interpretatio stessa - è, come noto, F. Gallo, di cui v. qui per es. Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto, Torino, 1971; La consuetudine nel diritto romano, in Atti del colloquio romanistico-canonistico, Roma, 1979, 98 ss.; Produzione del diritto e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1.3.32), in BIDR, 92-93 (1989-1990), 70 ss.; La sovranità popolare quale fondamento della produzione del diritto in D. 1.3.32: teoria giulianea o interpolazione postclassica?, in BIDR, 94-95 (1991-1992), 1 ss.; L’‘officium’ del pretore nella produzione e applicazione del diritto, Torino, 1996, spec.te 21 ss.; Un nuovo approccio per lo studio del ‘ius honorarium’, in SDHI, 62 (1996), 9-10, 17-18 nt. 42, 28 nt. 72, 30-31 e ntt. 76-77, 32-42, 55-56; La recezione ‘moribus’ nell’esperienza romana: una prospettiva perduta da recuperare, in Iura, 55 (2004-2005), 1 ss.; Consuetudine e nuovi contratti, Torino, 2012, spec.te 27 ss., 40 ss., 69 ss., 86 ss., 99 ss., 108, 142 s., 149; La consuetudine grande sconosciuta, in RDR, 13 (2013), 1 ss.; ma v. anche per es. E. Betti, La creazione del diritto nella ‘iurisdictio’ del pretore romano, in Studi G. Chiovenda, Padova, 1927, 65 ss. spec.te 101, 106; L. Bove, La consuetudine nel diritto romano, I. Dalla repubblica all’età dei Severi, Napoli, 1971, spec.te 132; W. Waldstein, Gewohnheitsrecht und Juristenrecht in Rom, in ‘De iustitia et iure’. Festgabe U. von Lübtow, Berlin, 1980, 124; G. Provera, Il valore normativo della sentenza e il ruolo del giudice nel diritto romano, in Est. Hist.-Juríd., 7 (1982), 55 ss.; F. Bona, La certezza del diritto nell’età repubblicana, in La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, Padova, 1987, 127, 134 ss.; D. Mantovani, Gli esordi del genere letterario ‘ad edictum’, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio, Torino, 1996, 94-95 e nt. 118; P. Cerami, ‘Breviter’ su Iul. D. 1.3.32 (Riflessioni sul trinomio ‘lex, mos, consuetudo’), in Nozione, formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche F. Gallo, Napoli, 1997, 117 ss.; M.G. Taborda, La jurisprudence classique romaine et la construction d’un droit des affaires fondé sur la ‘fides’, in RIDA, 48 (2001), 174.

 

[3] Scetticismo hanno per es. dimostrato L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, 21, 59, 70, 71 nt. 133, 73, 74 e nt. 136; M. Talamanca, Recensione a F. Bona, La certezza, cit., in BIDR, 91 (1988), 854-856, e Recensione a F. Gallo, Produzione, cit., 744, e T. Giaro, Diritto come prassi. Vicende del discorso giurisprudenziale, in ‘Fides, Humanitas, Ius’. Studii L. Labruna, IV, Napoli, 2007, 2235; ma è oggi copiosa la letteratura favorevole a riconoscere un valore normativamente rilevante ai precedenti giudiziali, considerati non di per sé, ma in quanto accolgano i suggerimenti dei giuristi, conferendo ad essi effettività: per tutti v. ad es. L. Vacca, Contributo allo studio del metodo casistico nel diritto romano, Milano, 1976, 50-53, 62 nt. 40, 63-66, 82, 133-134, 138; La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, Torino, 1989, 38-41, 63, 73 ss.; Sulla rilevanza dei precedenti nel diritto giurisprudenziale romano, in Metodo casistico e sistema prudenziale. Ricerche, Padova, 2006, 79 ss., e I precedenti e i responsi dei giuristi, in Metodo casistico, cit., 129 ss.; G. Provera, Il valore normativo della sentenza, cit., 55 ss.; F. Bona, La certezza, cit., 134 ss.; U. Vincenti, Il valore dei precedenti giudiziali nella compilazione giustinianea, 2a ed., Padova, 1995; M. Marrone, Su struttura delle sentenze, motivazione e “precedenti” nel processo privato romano, in BIDR, 100 (1997), 37 ss.; M. Valentino, Il precedente giudiziale: esigenze di certezza e problema sistematico, in Labeo, 44 (1998), 292 ss.; M. Bretone, ‘Ius controversum’ nella giurisprudenza classica, in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Memorie Classe Scienze morali storiche e filologiche, ser. IX.23 (2008), 764-765; G. Luchetti, Il valore del precedente giurisprudenziale sul confine mobile tra potere legislativo e potere giudiziario. Profili romanistici, in AG, 234 (2014), 507 ss., spec.te 514 nt. 15, 523 ss., 527-528, con le fonti, sia giuridiche che letterarie, da questi autori variamente addotte a sostegno delle proprie argomentazioni.

 

[4] V. Liv. 1.20.5-7: Pontificem deinde Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia excripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec caelestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur.

 

[5] Sulla lex Ogulnia v. Liv. 10.6.6 (Rogationem ergo promulgarunt ut, cum quattuor augures quattuor pontifices ea tempestate essent, placeretque augeri sacerdotum numerum, quattuor pontifices, quinque augures, de plebe omnes, allegerentur) e 10.9.2 (Pontifices creantur suasor legis P. Decius Mus, P. Sempronius Sophus, C. Marcius Rutilus, M. Livius Denter; quinque augures item de plebe, C. Genucius, P. Aelius Petus, M. Minucius Faesus, C. Marcius, T. Publilius. Ita octo pontificum, novem augurum numerus factus), da cui per la verità risulta che i pontefici furono portati ad otto, da quattro che erano. Ma già C. Bardt, Die Priester der vier grossen Collegien aus römisch-republikanischer Zeit, Berlin, 1871, 10-11, 32, aveva dimostrato che essi in seguito si trovano sempre in numero di nove, ciò che è confermato pressoché unanimemente anche da studi più recenti (v. per. es. G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Firenze, 1907, 223 e nt. 1; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München, 1912, 503 nt. 4; D.E. Hahm, Roman Nobility and three Major Priesthoods 218-167 B.C., in TAPhA, 94 (1963), 73; F. Guizzi, s.v. Pontefice, in ED, 34 (1985), 244; cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York, 1951, 282 e 393; H.H. Scullard, Roman Politics 220-150 B.C., Oxford, 1951, 58 nt. 1, 87 nt. 3, 180 nt. 2). Come risolvere il problema? Si è sostenuto che si tratta semplicemente di un errore di Livio, o perché furono aggiunti cinque pontefici, non quattro (v. per es. T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 3a ed., Leipzig, 1887, 22 nt. 1; J. Bleicken, Oberpontifex und Pontifikalkollegium, in Hermes, 85 (1957), 364 e nt. 3), o perché cinque erano quelli preesistenti (come potrebbe fra l’altro evincersi da una testimonianza in palese contrasto con quella liviana, ossia da Cic. rep. 2.14.26, secondo cui Numa avrebbe in origine fissato a cinque il numero dei pontefici: v. per es. G. De Sanctis, Storia, cit., 223 e nt. 1, il quale peraltro ipotizza che, in conformità al dettato della stessa legge Ogulnia, ai quattro plebei ne sia stato in seguito aggiunto un altro, allorché nel collegio si rese vacante uno dei posti patrizi; G. Wissowa, Religion, cit., 503 nt. 4; L. Pareti, Storia di Roma e del mondo romano, II, Torino, 1952, 77-78 e nt. 6; P. Grimal, L’Ellenismo e l’ascesa di Roma (traduz. ediz. 1965), Milano, 1967, 326; J.G. Wolf, ‘Comitia, quae pro conlegio pontificum habentur’. Zur Amtsautorität der Pontifices, in Das Profil der Juristen in der europäische Tradition. Symposion F. Wieacker, Ebelsbach, 1980, 1 nt. 2; F. Van Haeperen, Le collège pontifical (3ème s. a.C.-4ème s. p.C.), Bruxelles-Rome, 2002, 108 ss.); oppure che, fermi restando gli otto del 300, un altro pontefice fu incluso in seguito, entro il 218 (v. per es. L. Lange, Römische Alterthümer, I, 3a ed., Berlin, 1876, 371-372, secondo cui la cosa poté avvenire in coincidenza della nomina di Ti. Coruncanio primo pontefice massimo plebeo; T. Mommsen, Staatsrecht, cit., 22 nt. 1, il quale, come soluzione alternativa a quella dell’errore di Livio, ipotizza che l’inserimento del nono pontefice sia avvenuta in coincidenza della riforma che introdusse l’elezione del pontefice massimo da parte delle diciassette tribù; G. De Sanctis, Storia, cit., 223, che a sua volta ritiene plausibile questa ipotesi, in alternativa all’altra da lui sostenuta; F. D’Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della repubblica, Napoli, 1978, 95, il quale pare decisamente preferire questo orientamento; F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, Torino, 2008, 35 ss.); oppure che nei passi sopra riportati non si tiene conto del pontefice massimo, che poteva indifferentemente essere patrizio o plebeo (v. per es. K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München, 1960, 197 nt. 1; G.J. Szemler, ‘Religio’, Priesthoods and Magistracies in the Roman Republic, in Numen, 18 (1971), 113 nt. 73, e The Priests of the Roman Republic, Bruxelles, 1972, 29 nt. 1; K.J. Hölkeskamp, Das ‘plebiscitum Ogulnium de sacerdotibus’, in Rheinisches Museum, 131 (1988), 59; M. Beard - J. North, Pagan Priests. Religion and Power in the Ancient World, London, 1990, 35 nt. 45; M. Trommino, Struttura e composizione del collegio dei pontefici. Da Liv., urb. cond. 1.20.5 alla ‘lex Ogulnia’, una panoramica delle fonti, in RDR, 14 (2014), 8 ss.). A nostro avviso quest'ultima ipotesi è da considerarsi la meno probabile, dato che alla elezione del pontefice massimo – pur con riferimento ad un periodo più tardo, quale è quello compreso fra il 218 e il 167 – non sembra mai assolutamente accompagnarsi la preoccupazione che gli altri otto pontefici siano equamente divisi tra patrizi e plebei. Per il resto, occorre anzitutto constatare che in seguito il numero dei plebei sembra essere sempre costante, cinque: sulla base di questo potremmo allora supporre che il numero originario dei pontefici fosse quattro (pur con la massima cautela - dovuta anche al fatto che in quel periodo vi furono oltretutto vacanze nei collegi sacerdotali: cfr. Liv. 10.6.7 - si potrebbe infatti affermare che l’attestazione di Cic. rep. 2.14.26 non è in contrasto con quella liviana, dal momento che con la repubblica il collegio pontificale avrebbe perduto uno dei suoi componenti, ossia il re: di quest’avviso G.J. Szemler, s.v. ‘Pontifex’, in RE Suppl. 15 (1978), col. 341; F. D’Ippolito, Giuristi, cit., 96-97, che opportunamente richiama Serv. ad Aen. 3.80), e che ai quattro plebei cooptati nel 300 ne sia stato aggiunto un altro in seguito, o in applicazione di una clausola in tal senso contenuta nella stessa lex Ogulnia (in proposito, v. ancora G. De Sanctis, Storia, cit., 223 nt. 1; in questo caso l’errore di Livio propriamente consisterebbe nel non aver specificato che la legge ebbe per il momento, riguardo ai pontefici, un’attuazione solo parziale, ché per il resto l’autore patavino appare ben documentato in ordine a tutta la vicenda: su quest’ultimo punto, cfr. F. D’Ippolito, Giuristi, cit., 77 ss., 96, anche riguardo agli ambienti politici e culturali da cui provenivano i sacerdoti cooptati), o in applicazione di una norma di legge successiva, forse la stessa approvata per riformare il meccanismo di elezione del pontefice massimo (pur non sussistendo dubbi circa la necessità di un provvedimento formale per l’introduzione di un’ulteriore modifica al numero dei componenti il collegio pontificale, ci sembra infatti improbabile che per l’aggiunta del nono membro si sia fatto ricorso ad una legge ad hoc, della quale anche le scarse fonti a nostra disposizione avrebbero dovuto, a nostro avviso, darci conto).

 

[6] Nelle fonti, ed in particolare nella cronaca liviana degli avvicendamenti in seno al collegio, è insistente l’utilizzo della locuzione sacerdotes publici: v. ad es., per tutti, Liv. 25.2.1-2; 26.23.7-8; 41.21.8-9; 42.28.10-13. 

 

[7] Sui poteri di coercizione del pontefice massimo nei confronti dei sacerdoti sottoposti, che si estrinsecavano nella inflizione di multe (verso per es. flamini, rex sacrorum, auguri), di pene corporali o addirittura della morte (verso per es. le vestali), ci sia qui consentito rinviare al nostro Aspetti giuridici del pontificato romano. L’età di Publio Licinio Crasso (212-183 a.C.), Napoli 2008, spec.te 120 ss., 236 ss., 301 ss., 400 ss.; v. anche, ultimamente, per es. F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 68 ss., 98 ss.; Sacerdoti e magistrati nel diritto pubblico romano, in Diritto @ Storia, 10 (2011-2012), spec.te 3; J. Scheid, Le pontife et le flamine: religion et histoire à Rome, in Europe, 86 (2008), 159 ss.; M. Ravizza, Su alcuni casi di collisione tra pontefice massimo e sacerdoti-magistrati, in RDR, 13 (2013), 1 ss.

 

[8] V. in particolare F. Cancelli, La giurisprudenza unica dei pontefici e Gneo Flavio, Roma, 1996, scritto che, com’è evidente dal titolo, è interamente dedicato alle problematiche in questione.

 

[9] Si vedano Pomp. D. 1.2.2.6 (omnium tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant), Liv. 9.46.5 (ove espressamente si parla di civile ius, repositum in penetralibus pontificum), e Val. Max. 2.5.2 (Ius civile per multa saecula inter sacra caerimoniasque deorum immortalium abditum solisque pontificibus notum…).

 

[10] Al principio della efficacia rituale delle parole correttamente pronunciate si ispirava il formalismo pontificale, che, come noto, era principalmente orale. Innumerevoli sono gli esempi da cui si può trarre il convincimento che, in ambito tanto sacrale quanto civile, il perfezionamento di un atto richiedesse la nuncupatio delle parole fissate nei formulari, che non erano modificabili senza l’autorizzazione dei pontefici, a meno che non si trattasse di meri aggiustamenti, quelli che la situazione contingente richiedeva. In tali frangenti, per la verità, non si trattava di modificare i formulari, quanto piuttosto di completarli inserendo dati di mero dettaglio, che adeguassero i certa verba alla situazione concreta: basti per es. pensare ai nomi del celebrante o della divinità destinataria del rito, o alle caratteristiche specifiche di un’offerta, etc. In ogni formula v’era una parte certamente intoccabile, invece, e nel dubbio era meglio chiedere consulto prima di utilizzarla, scongiurando così il rischio di un responso successivo che invalidasse l’intera cerimonia perché anche solo una parola era stata, magari, sostituita con un’altra: si rammenti in proposito il celebre caso di vites pronunciato in luogo di arbores, del quale ci riferisce Gai 4.11 e sul quale torneremo infra, § 6 nt. 37. In materia v. per es., ultimamente, J. Scheid, Rito e religione dei Romani (traduz. ediz. 2002), Bergamo, 2009, 95; A. Gaillot, Une impiété volontaire? La procession des jeux et le problème de l’‘instauratio’, in Rituels et transgressions de l’antiquité à nos jours, Amiens, 2009, 92; G. Crifò, A proposito di ‘pontifices’, in I riti del costruire nelle acque violate, Roma, 2010, 117; G. Turelli, ‘Audi Iuppiter’. Il collegio dei feziali nell’esperienza giuridica romana, Milano, 2011, 201-202; M. Ravizza, Su alcuni casi, cit., 3.

 

[11] Il formalismo pontificale è, come noto, anche gestuale. Numerosi sono gli esempi da cui si può trarre analogamente conferma che, in ambito tanto sacrale quanto civile, per porre in essere in maniera valida un atto si richiedeva talora non solo la pronuncia di certa verba, ma anche il compimento di gesta determinati: sul tema, v. gli autori citati alla nt. precedente, ed in particolare per es. J. Scheid, Rito, cit., 42 ss.

Tra tali gesti spiccano gli atti di apprensione manuale, in merito ai quali basti ricordare tutti quei casi in cui dall’apprensione con la mano di cose o persone derivava il nome stesso dell’istituto, come per la mancipatio, la conventio in manum, la manumissio, la prohibitio per manum, il manum conserere, la manus iniectio, ed anche il pignus (in quanto appellatum a pugno: v. Gai D. 50.16.238.2).

 

[12] Il principio della efficacia rituale degli atti posti in essere nei tempi appropriati è patrimonio della scienza pontificale. Il rilievo del tempo in cui si svolgeva un rito è attestata da diverse fonti, delle quali vogliamo qui soprattutto ricordare Liv. 1.20.5 (Pontificem deinde Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia excripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur) e Fest. 467 L (sollemnia sacra dicuntur, quae certis temporibus fiunt); cfr. per es. Varr. ling. 6.4.30; Cic. inv. 1.26.39-27.40; part. 11.37; Gell. 5.17.2; Macr. sat. 1.16.9-11; 23-24; Fest. 424 L. L’importanza della determinazione di tempi (non mai per es., in linea di principio, un dies ater) e di luoghi certi è confermata anche da quelle formule rituali, del cui tenore testuale siamo a conoscenza, contenenti clausole con le quali preventivamente ci si cautelava contro il rischio che l’invalidità di cerimonie, da celebrarsi in futuro, derivasse proprio da imperfezioni di genere siffatto: v. per es. Liv. 22.10.1-7; 36.2.2-5. In generale, a sostegno di quanto detto, v. recentemente per es. G. Crifò, A proposito di ‘pontifices’, cit., 118; A. Maiuri, ‘Sacra privata’. Rituali domestici e istituti giuridici in Roma antica, Roma, 2013, 37-38 e nt. 101.

A conferma del fatto che l’osservanza dei tempi rientrasse nella ritualità che i pontefici erano chiamati a salvaguardare va la circostanza che in certi casi, ad una qualche deminutio delle formalità orali o gestuali, si potesse sopperire con un’auctio rappresentata dallo scorrere di un tempo determinato. Ci riferiamo, evidentemente, alla norma di cui a Tab. 6.3, corrispondente a Cic. top. 4.23: usus auctoritas fundi biennium est, ceterarum rerum omnium annuus est usus. Essa trovava, come si sa, applicazione ove l’atto solenne d’acquisto non avesse sortito effetto perché omesso o perché non integrato nel rispetto di tutte le formalità di rito. 

 

[13] V. in proposito il ben noto passo di Cic. de or. 1.48.212, pur di per sé non soltanto riferibile, comprensibilmente, ai giuristi-sacerdoti.

 

[14] Per la legittimità di quest’espressione, che edifica sulla distinzione fra sacra publica e sacra privata, si rinvia soprattutto a Fest. 284 L, ove i primi sono definiti quae publico sumptu pro populo fiunt ed i secondi quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiunt; v. anche, per tutti, ad es., T. Mommsen, Staatsrecht, cit., 47 nt. 3; F.P. Casavola, Studi sulle azioni popolari romane. Le ‘actiones populares’, Napoli, 1958, 15. Per il resto, basti qui ricordare che le fonti citate nelle note immediatamente successive hanno tutte ad oggetto questioni inerenti alla elaborazione di formulari, relativi a voti solenni o ad altri riti, celebrando i quali la res publica stessa (e non i privati) avrebbe contratto, verso le divinità, impegni ad adottare determinati comportamenti, o comunque rapporti giuridicamente significativi. 

 

[15] V. in particolare Liv. 22.10.1; 26.34.12; 29.19.7-8; 29.20.10; 31.9.5-10; 38.44.3-6; 39.4.8-12; 39.5.7-10; 41.16.1-2; Cic. dom. 53.136.

 

[16] V. in particolare Liv. 24.44.7-9; 27.4.15; 27.25.7-10 (ove soprattutto compare la motivazione della decisione adottata); 27.37.4; 27.37.5-15; 30.2.13; 31.9.5-10; 32.1.9; 33.44.1-2; 34.45.7; 37.3.1; 39.5.7-10; 39.16.6-11; 39.22.4; 40.45.2; 41.16.6; Cic. har. resp. 7.13; Att. 4.2.3-4.

 

[17] V. in particolare Liv. 22.10.1; 34.44.1-3; Cic. dom. 53.136.

 

[18] V. in particolare Liv. 22.9.11; 33.44.1-2; 34.44.1-3; 39.5.7-10; 41.16.6; Cic. har. resp. 7.13. Talora un pontefice incaricato dal collegio interveniva anche alla celebrazione della cerimonia, si trattasse di dettare al magistrato le parole per un’esatta nuncupatio della formula del rito (è il cosiddetto praeire verbis) od assolvere ad altre incombenze, per lo più di carattere simbolico (si pensi al postem tenere in occasione della consacrazione di templi): v. qui, a titolo meramente esemplificativo, Liv. 4.27.2; 5.41.3; 9.46.6; 10.28.14-18; 22.9.7-10.8; 31.9.5-10; 36.2.2-5; 42.28.8-9; Cic. dom. 52.133 e 135.

 

[19] Cum dilectum consules haberent pararentque quae ad bellum opus essent, civitas religiosa in principiis maxime novorum bellorum, supplicationibus habitis iam et obsecratione circa omnia pulvinaria facta, ne quid praetermitteretur quod aliquando factum esset, ludos Iovi donumque vovere consulem cui provincia Macedonia evenisset iussit. Moram voto publico Licinius pontifex maximus attulit, qui negavit ex incerta pecunia voveri debere, quia ea pecunia non posset in bellum usui esse seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri: quod si factum esset, votum rite solvi non posse. Quamquam et res et auctor movebat, tamen ad collegium pontificum referre consul iussus si posset recte votum incertae pecuniae suscipi. Posse rectiusque etiam esse pontifices decreverunt. Vovit in eadem verba consul praeeunte maximo pontifice quibus antea quinquennalia vota suscipi solita erant, praeterquam quod tanta pecunia quantam tum cum solveretur senatus censuisset ludos donaque facturum vovit. Octiens ante ludi magni de certa pecunia voti erant, hi primi de incerta.

 

[20] Sul dissentire, all'interno del collegio, cfr. F. Bona, La certezza, cit., 121-122, e Il ‘docere respondendo’ e ‘discere audiendo’ nella tarda repubblica, in Lectio sua’, II, Padova, 2003, 1142; M. Talamanca, Diritto e prassi nel mondo antico, in Règles et pratique du droit dans les réalités juridiques de l’antiquité, Catanzaro, 1999, 142-143; S. Randazzo, ‘Collegium pontificum decrevit’. Note in margine a CIL X.8259, in Labeo, 50 (2004), 144.

 

[21] Per la verità Livio ci riferisce di un parere che il pontefice massimo P. Licinio Crasso, poi messo in minoranza dagli altri pontefici dentro il collegio, avrebbe espresso già in precedenza, presumibilmente in senato, dove, da censorius (cfr. Liv. 27.6.17-18, riguardo alla magistratura rivestita dieci anni prima), avrebbe potuto prendere la parola tra i primi. Era infatti possibile che i pontifices (qui, addirittura, il loro capo) si pronunciassero informalmente ed autonomamente su qualche caso: in senato, in particolare, dato che essi ne erano tutti solitamente membri, o addirittura nell’ambito dei rapporti interpersonali normalmente coltivati dagli esponenti dell’élite cittadina; ma i pareri enunciati dai sacerdoti in tali circostanze, pur muniti di una certa comprensibile autorevolezza, non erano considerati in alcun modo vincolanti né per le autorità interpellanti né tanto meno per gli altri membri del collegio che, se formalmente consultati, potevano anche radicalmente sovvertire il suggerimento che in precedenza era stato espresso a titolo personale. Di tali responsi dati a seguito di consultazione informale restano altre tracce nelle fonti: v. per es. Cic. Att. 4.2.4, ove si riferisce di una decisione adottata de omnium conlegarum sententia, ossia dopo che un pontefice aveva vagliato il parere concorde dei colleghi considerati uti singuli, senza che fosse ufficialmente interpellato il collegio come tale. 

 

[22] Facevano probabilmente eccezione, però, quegli atti negoziali che pur dovevano compiersi davanti al magistrato apud quem legis actio est. Per un elenco di fonti relative a questi negozi v. per es. F. Bona, ‘Ius pontificium’ e ‘ius civile’ nell'esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in ‘Contractus’ e ‘pactum’ (Atti Copanello 1988), Napoli, 1990, 227 ntt. 51-52.

 

[23] Nel caso specifico, poi, del sacramentum, rito giurisdizionale di origine, come si è detto, sacrale, tale parallelismo risulta quanto mai evidente.

 

[24] Sull’espressione responsum pro collegio, da intendersi come “responso dato a nome del collegio”, v. per es., Cic. dom. 53.136; har. resp. 10.21; Gell. 11.3.2; cfr., per tutti, ad es. J.G. Wolf, ‘Comitia, quae pro conlegio pontificum habentur’, cit., 1 ss.; G. Mancuso, Studi sul ‘decretum’ nell’esperienza giuridica romana, in AUPA, 40 (1988), 79 e nt. 29.

 

[25] Su questa linea, essenzialmente, G. Mancuso, Studi, cit., 78 ss., che tuttavia, pur individuando intelligentemente la categoria dei responsi collegiali non resi esecutivi dal senato, attribuisce ad essa una ampiezza forse eccessiva, non approfondendo l’indagine allo scopo di meglio illustrare in quali casi fosse, presumibilmente, previsto l’esperimento di tale procedura semplificata.

 

[26] Omnium tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant, ex quibus constituebatur quis quoquo anno praeesset privatis.

 

[27] Per meglio persuaderci della fondatezza del nostro ragionamento, proviamo anzi ad esaminare un caso limite, certo storicamente verificatosi: quello inerente alla prima volta in cui un privato intenda avvalersi di un nuovo rimedio appena introdotto con legge (per esempio l’actio communi dividundo, prevista dalla lex Licinnia), nell’ambito di una legis actio (per esempio la iudicis postulatio). Certo i relativi formulari saranno stati subito elaborati dalla giurisprudenza pontificale: ex novo, e tenendo conto delle disposizioni dettate dalla legge, le quali tuttavia, senza la indispensabile mediazione dei giuristi, risultano essere del tutto inoperanti. Ebbene, non è accettabile che in un’ipotesi del genere il magistrato potesse sentirsi appagato da un responso nel frattempo richiesto dal privato ed esercitasse la sua giurisdizione sulla base di quello: per la stessa ragione, non si vede allora perché, anche quando in tempi successivi si sarebbe trattato di apportare modifiche o aggiornamenti ai certa verba della nostra azione, non si sarebbe dovuto seguire di nuovo, preferibilmente, la stessa procedura. 

 

[28] Potrebbe anzi ravvisarsi, a nostro avviso, nella struttura stessa di Pomp. D.1.2.2.6, l’implicito riferimento al magistrato: dato il binomio privati-pontefice delegato, è forse possibile enucleare, in posizione dialettica, il binomio pretore-collegio (del quale ultimo, non a caso, Pomponio ha fatto cenno, come si è detto, appena sopra, per rilevarne la competenza sulle actiones). Ciò ovviamente non esclude che, nella sfera del processo, potesse essere emesso anche un responso individuale, vertendo inizialmente la questione, ad es., sulle formalità, orali o gestuali, da osservarsi da parte dei soli litiganti privati; ma non è immaginabile che il pretore, le cui incombenze d’altronde erano, come noto, strutturalmente connesse al formalismo delle parti, dovesse poi attenervisi, tanto da rinunciare a consultare personalmente il collegio.

 

[29] I decreta pontificum erano conoscibili in quanto probabilmente raccolti e conservati nei commentarii, distinti dai libri che invece contenevano formule rituali: per un approfondimento di tale importante questione, che oltre tutto involve quella relativa alla presumibile esistenza di un archivio pontificale, si rinvia all’ampia opera di F. Sini, di cui vogliamo qui soprattutto ricordare Documenti sacerdotali di Roma antica, I, Libri e commentarii, Sassari, 1983, 96 ss., e Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una palingenesi, in Diritto @ Storia, 4 (2005), spec.te § 2-3.

 

[30] In merito a tale vicenda, descritta da Gell. 20.10.8-9 - che oltretutto fissava al magistrato regole nuove da rispettare, afferenti alle parole, ai tempi e ai luoghi del rito - ci sia permesso di rinviare al nostro La desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano, 2005, 71 ss.

 

[31] D. 1.2.2.6, riportato supra, alla nt. 26.

 

[32] Il che pare risultare in modo chiaro dalla fonte in esame, giacché Pomponio riconosce formalmente soltanto al collegio la scientia interpretandi, in merito a qualsivoglia genere di questioni.

 

[33] V. Cic. leg. 2.19.47-21.53, nella lettura autorevolmente datane, per es., da F. Bona, ‘Ius’, cit., 219, 224, e da M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 701.

 

[34] Spesso infatti un pontefice incaricato dal collegio interveniva alla celebrazione di pubbliche cerimonie, allo scopo di dettare al magistrato le parole per un’esatta nuncupatio della formula del rito: v. ad es., per tutti, Liv. 4.27.2; 5.41.1-3; 9.46.6; 31.9.5-10; 36.2.2-5; 42.28.8-9.

 

[35] Cfr., su questo punto, ad es. M. Talamanca, Diritto, cit., 142-143.

 

[36] Qualcosa del genere abbiamo ipotizzato che potesse essere accaduto, come si è visto, in materia di sacra familiaria.

 

[37] Di particolare rilievo, in proposito, tra le molte testimonianze, quella di Gai 4.11. Si tratta, come noto, del passo delle Institutiones in cui si riferisce del responso (presumibilmente pontificale) che, nell’ambito della legis actio sacramenti, dichiarò irrituale la pronuncia, da parte dell’attore, di una parola in luogo di un’altra, prevista dalla legge delle XII tavole, ossia di vites al posto di arbores: Unde eum, qui de vitibus succisis ita egisset, ut in actione vites nominaret, responsum est eum rem perdidisse, cum quia debuisset arbores nominare eo, quod lex XII tabularum, ex qua de vitibus succisis actio competeret, generaliter de arboribus succisis loqueretur. Per la dottrina, v. ad es. M. Wlassak, Die klassische Prozessformel, Wien-Leipzig, 1924, 84-85 e nt. 33; J. Paoli, ‘Verba praeire’ dans la ‘legis actio’, in RIDA, 3 (1950), 315 e ntt. 75-76, 317; S. Riccobono, La ‘voluntas’ nella prassi giudiziaria guidata dai pontefici, in Festschrift F. Schulz, I, Weimar, 1951, 302 ss., 306 e nt. 4; F. Gallo, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto, cit., 112; D. Nörr, Der Jurist im Kreis der Intellektuellen: Mitspieler oder Aussenseiter (Gellius, Noctes Atticae 16.10), in Festschrift M. Kaser, München, 1976, 79; A.M. Giomaro, La tipicità delle ‘legis actiones’ e la ‘nominatio causae’, Milano, 1988, 29, 64; P. Frezza, Storia del processo civile in Roma fino all’età di Augusto, in Scritti, III, Roma, 2000, 181.

 

[38] Su questo personaggio v. soprattutto D. 1.2.2.35 (Iuris civilis scientiam plurimi et maximi viri professi sunt: sed qui eorum maximae dignationis apud populum Romanum fuerunt, eorum in praesentia mentio habenda est, ut appareat, a quibus et qualibus haec iura orta et tradita sunt. Et quidem ex omnibus, qui scientiam nancti sunt, ante Tiberium Coruncanium publice professum neminem traditur: ceteri autem ad hunc vel in latenti ius civile retinere cogitabant solumque consultatoribus vacare potius quam discere volentibus se praestabant), e 1.2.2.38 (Post hos fuit Tiberius Coruncanius, ut dixi, qui primus profiteri coepit: cuius tamen scriptum nullum exstat, sed responsa complura et memorabilia eius fuerunt); cfr. per es. Cic. de or. 3.33.134; Brut. 14.55; Sull. 7.23; Planc. 8.20; Liv. Per. 18; Gell. 4.6.10. V. anche per es. D'Ippolito, Sul pontificato massimo di Tiberio Coruncanio, in Labeo, 23 (1977), 131 ss.; J. Vernacchia, ‘Cogitabant pontifices’, in ‘Sodalitas’. Scritti A. Guarino, I, Napoli, 1984, 315 ss.; F. Sini, ‘A quibus iura civibus praescribebantur’. Ricerche sui giuristi del III secolo a. C., Torino, 1995, 81 ss.; M.T. Fögen, Storie di diritto romano (trad. ed. 2002), Bologna, 2005, 161 ss., spec.te 164-165; G. Valditara, ‘Leges’ e ‘iurisprudentia’ fra democrazia e aristocrazia, in SDHI, 80 (2014), 38

 

[39] Circa l’avvenuto mutamento dei tradizionali meccanismi di consultazione v. ad es., per l’età più avanzata, Cic. har. resp. 6.12-7.13.

 

[40] Cic. de or. 3.33.135 non esita a definire ‘politissima, transmarina atque adventicia questa ‘sapientia di più ampie vedute.

 

[41] Da quanto detto traspare la nostra predilezione per la teoria c.d. “policentrica” dell’origine dei giudizi di buona fede, sostenuta soprattutto da M. Talamanca, di cui v. per es. s.v. Processo (dir. rom.), in ED, 36 (1987), 28 e nt. 187, 29 e nt. 194; s.v. Contratto e patto nel diritto romano, in Dig. disc. priv.-Sez. civ., 4 (1989), 64; s.v. Vendita (dir. rom), in ED, 46 (1993), 310, nt. 63; La buona fede nei giuristi romani, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti A. Burdese, IV, Padova, 2003, 42; ma v. anche, per alcune valutazioni di carattere generale conformi a questa impostazione, per es. A. Magdelain, Les actions civiles, Paris, 1954, 48; A. Carcaterra, Intorno ai ‘bonae fidei iudicia’, Napoli, 1964, 116 ss., 208; C.C. Turpin, ‘Bonae fidei iudicia’, in CLJ, 33 (1965), 264; C.St. Tomulescu, La clause ‘ex fide bona’ dans la soi-disant ‘Lex Rubria de Gallia Cisalpina’, in BIDR, 78 (1975), 187, 190; V. Marotta, Tutela dello scambio e commerci mediterranei in età arcaica e repubblicana, in Ostraka, 5 (1996), 65 e ntt. 14-15, 107; M.J. Schermaier, ‘Bona fides’ in Roman Contract Law, in Good Faith in European Contract Law, Cambridge, 2000, 77; A. Fernández de Buján, De los ‘arbitria bonae fidei’ pretorios a los ‘iudicia bonae fidei’ civiles, in Il ruolo della buona fede, cit., II, 32.

 

[42] V. Liv. 27.22.3. Cfr., tra i pochissimi, per es. L. Amirante, L’origine dei contratti di buona fede, in Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano, Milano, 1988, 85, il quale, pur trascurando questo importante dato, opportunamente ipotizza la non estraneità della perizia pontificale all’attività giurisdizionale del praetor peregrinus.  

 

[43] V. Liv. 22.35.1-2, ove si fa riferimento ad un Q. Elio Peto pontefice morto a Canne. Cfr. per es. A. Manzo, Note sulla giurisprudenza arcaica, in SDHI, 80 (2014), 109 ss.