Università di Sassari
I TRATTATI E LA GUERRA: LA LUNGA TRACCIA DELLA CONSUETUDINE
INTERNAZIONALE.
IL MEDIOEVO E L’ETÀ MODERNA
Sommario: 1. La prima Patristica.
– 2. S. Agostino.
– 3. L’avvento
dell’Islam. – 4. Il mutamento di indirizzo in Europa. – 5. I germi della trasformazione.
– 6. L’età moderna.
Il Cristianesimo si innesta nella tradizione religiosa dell’antico
Israele, da cui mutua, filtrandolo, il bagaglio dei precetti mosaici, primo fra
tutti quel “Non ucciderai” che era stato ribadito dalla predicazione di Gesù
come un divieto assoluto di ricorso alla violenza[1].
Sebbene non ancora elaborata e argomentata filosoficamente, la nuova religione
– pur permeata dalla cultura romana - diventa fonte di ispirazione permanente
di dottrine contrarie alla guerra.
Se Tertulliano[2],
rispondendo a quei Cristiani che giustificavano il proprio servizio allo Stato
argomentando che esso li obbligava all’uso delle armi, richiamava l’univocità e
la radicalità del Vangelo nel vietare ogni forma di violenza, Cipriano
avvertiva che nella formula dell'impegno battesimale era insita una sponsio atta a costituire un vincolo
giuridico di tutti i fedeli con Dio e fra di loro[3].
E che di conseguenza la guerra doveva essere condannata come assassinio
autorizzato[4]. Sulla
stessa linea si pone Lattanzio, al quale anzi proprio il tema della guerra
fornisce l’esempio utile ad una critica radicale della politica e del diritto
romano[5]. Il divinum
ius – visto come iustitia (divina),
cioè verum ius – si contrappone per
lui allo ius civile, suscettibile di
piegarsi all’utilitas del momento: ne
è dimostrazione proprio il popolo romano, il quale non ha inferto se non offese
legittime, in guerre dichiarate dai feziali, e però si è impadronito di tutto
il mondo[6].
Così pure S. Ambrogio afferma vigorosamente essere l’uso delle armi:
«a nostro officio … alienum … quia
animi magis quam corporis officio intendimus: nec ad arma jam spectat usus
noster, sed ad pacis negotia»[7].
E’ ben vero che metafore tratte dalla terminologia militare sono
assai frequenti nei primi Padri della Chiesa[8]
(non per nulla al concetto di miles
Christi, rinvia ripetutamente lo stesso S. Paolo)[9]:
contro il demonio è ingaggiata una battaglia che è un aspetto strategico della
missione di Cristo. Si tratta però di una battaglia la cui arma vincente
consiste nell'amare il nemico[10].
Tuttavia è un fatto che nei Vangeli compaiono figure di militari
senza che a ciò si accompagni un segno di riprovazione, o l'invito ad
abbandonare il loro servizio. In effetti sono proprio i problemi etici di
Bonifazio, un generale di mercenari gotici ariani, che sono affrontati da S.
Agostino in una lettera (scritta verso il 417) destinata a costituire la base del modificarsi del pensiero
cristiano in ordine all’uso della forza. S. Agostino (che già ha sotto gli
occhi la fragilità dell’Impero: la disfatta di Adrianopoli, ove è morto lo
stesso imperatore Valente è del 378, il sacco di Roma del 410) precisa qui che
come alcuni combattono contro il nemico invisibile con la preghiera, così i
militari contro quelli visibili, quindi a Bonifazio dice:
«Noli existimare neminem Deo placere
posse, qui in armis bellicis militat. In his erat sanctus
David, cui Dominus tam magnum perhibuit testimonium: inhis etiam plurimi illius
temporis justi. In his erat et ille Centurio qui Domino dixit,
Non sum dignus ut intres sub tectum
meum; sed tantum dic verbo,
et sanabitur puer meus»[11].
Non vi è, in questa risposta, nessuna condanna aprioristica di
chi fa del bellum la sua professione,
ma l’esortazione a ricordare che la capacità di combattere è essa stessa dono
di Dio, pertanto non va usata contro la Sua volontà. La guerra, però, deve
tendere alla pace, non viceversa:
«Pacem habere debet voluntas, bellum
necessitas, ut liberet Deus a necessitate, et conservet in pace. Non enim pax
quaeritur ut bellum excitetur, sed bellum geritur ut pax acquiratur. Esto ergo
etiam bellando pacificus, ut eos quos expugnas, ad pacis utilitatem vincendo
perducas: Beati enim pacifici, ait Dominus, quoniam ipsi filii Dei vocabuntur».
L'idea di giustificare la guerra mediante la pace successiva non
era nuova, derivava da Aristotele[12],
ma è direttamente a Cicerone che S. Agostino si ispira, pur trasformando e
cristianizzando il suo pensiero. Perché se, come dice Cicerone, la guerra è
giusta per difendersi dalle offese o per recuperare beni sottratti
ingiustamente[13], S.
Agostino avverte che è necessario un ulteriore requisito, tutto nuovo – l’animus – ribadendo che il cristiano
deve restare, pur combattendo, pacifico, e mantenere la parola data anche nei
confronti del nemico.
Pax
servetur, pacta custodiantur suonava un canone del Concilio di Cartagine del 348[14], e S. Agostino ribadisce:
«Fides enim quando
promittitur, etiam hosti servanda est contra quem bellum geritur; quanto magis
amico pro quo pugnatur!»[15].
La distinzione fra bellum justum e bellum
iniustum conosciuta dalla Chiesa nel Medioevo trarrà le sue radici da
questi principi, che saranno fatti propri da tutta la letteratura canonistica
successiva, a cominciare da Isidoro di Siviglia il quale, rifacendosi direttamente
a Cicerone, sosteneva:
«De quo in
Republica Cicero dicit: Illa iniusta
bella sunt quae sunt sine causa suscepta. Nam extra ulciscendi aut
propulsandorum hostium causa bellum geri iustum nullum potest»[16].
A tali fonti si rifarà Graziano, giusto a metà del XII secolo[17],
nella straordinaria compilazione destinata a costituire il primo volume del Codex juris canonici. Tutta la Causa XXIII della Concordia discordantium canonum è per l’appunto dedicata all’uso della
forza legittima:
«Si homicidium est hominem occidere,
potest occidere aliquando sine peccato. Nam et miles hostem, et iudex vel
minister eius nocentem, et cui forte invito atque imprudenti telum manu fugit,
non michi videntur peccare cum hominem occidunt. Sed nec etiam homicidae isti
appellari solent»[18].
Ma ancora nel Penitenziale di Burcardo di Worms, che scrive
appena dopo il Mille, a chi uccideva in guerra per ordine dell’autorità
legittima che lo avesse imposto per riportare la pace, o eliminava il tiranno
che cercava di sovvertirla, veniva imposto di fare penitenza a pane e acqua nei
giorni stabiliti per tre quaresime. Se poi l’omicidio veniva commesso senza il
comando dell’autorità legittima, allora la penitenza era quella dovuta per un
omicidio volontario, e cioè pane e acqua per l’intera quaresima e per sette
anni[19].
A modificare l’atteggiamento della Chiesa fu ancora una volta un
nuovo fenomeno epocale, ossia la nascita e la pressione dell’Islam. La nuova
religione sembrava concepita proprio per una rapida espansione[20].
Essa non era riservata ad un popolo eletto, come quella ebraica ma, come il
Cristianesimo, aveva una vocazione universale. Inoltre, non vi erano dogmi – a
parte la fede in Dio e nel suo profeta Maometto – non sacramenti, né riti, né
clero. Per diventare musulmani era sufficiente la dichiarazione di fede.
In un primo tempo, Maometto aveva
proibito ogni forma di violenza: i suoi seguaci non dovevano contraccambiare il
male con il male. Tale atteggiamento mutò dopo l’Egira[21].
Le vicende che accompagnarono la predicazione contribuirono a favorire un
diverso atteggiamento circa l’uso della forza, e una rivelazione coranica
permise per l’avvenire ai Musulmani di usarla contro gli oppressori[22].
L’Islam si propone come una religione missionaria, tesa a
restaurare l’originaria condizione umana di sottomissione a Dio[23].
A tal fine, ogni Musulmano è tenuto ingaggiare una lotta morale e materiale (gihàd)[24] contro l’errore e l’incredulità. In
questa concezione, gli infedeli sono una potenziale fonte di violenza[25],
sono il dâr-al-harb[26], l’ambito della guerra, contrapposto al dâr-al-Islam, cioè alla comunità dei credenti[27],
concepita come un ambito di pace e di fratellanza. Il gihàd è il mezzo temporaneo per
raggiungere l’ordine islamico e trasformare in dâr-al-Islam il dâr-al-harb[28].
Funzionale a tale scopo è l’instaurazione di un governo a guida musulmana[29]:
perciò, alla morte di Maometto, si cominciò a considerare l’espansione di
quello da lui fondato e la sottomissione degli infedeli un dovere religioso[30].
E poichè l’ideale islamico non scinde fra Stato e religione[31],
scopo della comunità dei credenti divenne l’espansione dello Stato di Dio[32].
Numerosi versetti coranici parlano della necessità e del merito
della guerra condotta nel cammino di Allah[33],
legandosi all’idea che ogni Musulmano, morto combattendo contro gli infedeli, è
certo di guadagnare il Paradiso. Secondo alcuni, tuttavia, la dottrina del gihàd si sarebbe sviluppata non già al
tempo del Profeta, ma successivamente, in concomitanza con le conquiste,
collegandosi alle correnti apocalittiche[34]
del VII secolo[35] e al
favore riservato nel mondo sunnita a chi cade sul campo di battaglia,
concezione, questa, risalente all'epopea di Gilgamesh[36].
In definitiva, secondo la teoria
giuridica dell'Islam, la contrapposizione fra il dâr-al-Islam e il dâr-al-harb
sottintende uno stato di ostilità latente che può divenire conclamata. Ma in
quanto dovere collettivo, la guerra è una funzione dello Stato. Solo l'Imam è legittimato a dichiararla e a
chiamare i credenti a combatterla[37].
Pertanto, l’attivazione di questo dovere non si potrebbe verificare se
precedentemente non si è rivolto al nemico l'invito a desistere dall'errore e
abbracciare l'Islam[38].
Mentre poi ai Pagani era lasciata solo la scelta fra la conversione all’Islam e
la spada, i seguaci delle religioni rivelate, Cristiani ed Ebrei, come “popoli
del libro” avevano la scelta fra la conversione, e l’accettazione della
sottomissione pacifica al potere dei Musulmani[39],
con il conseguente obbligo del pagamento di un tributo (djizya). In quest’ultimo caso, essi divenivano dhimmi, ciò che li faceva rientrare nella Umma, la comunità del dar al Islam, ponendoli in una
condizione giuridica di sottoposizione ai Musulmani. Solo il rifiuto delle
prime due soluzioni rendeva lecita la loro punizione. L’iniziativa
ingiustificata di aprire le ostilità era proibita dall'Islam, che consentiva
l’uso della forza solo in funzione di autotutela[40].
D’altra parte, nella condotta della guerra, i combattenti
musulmani avevano il dovere di non versare il sangue di alcuno inutilmente: era
ad esempio proibita l’uccisione delle donne e dei fanciulli[41].
Sotto il Califfato, la guerra non concerneva legalmente se non i combattenti;
donne, bambini, vecchi e malati ne erano esclusi ed erano vietati l’uccisione
degli ostaggi, così come le rovine e le devastazioni gratuite (come il taglio
degli alberi); e se evidentemente poteva darsi che i civili potessero essere
danneggiati o ridotti in prigionia, poteva accadere ugualmente, anche in caso
di gihâd, di vedere grandi carovane
di mercanti passare indifferenti fra le armate in combattimento[42].
Peraltro, fra il
dâr-al-Islam e il dâr-al-harb
certi intervalli di pace erano comunque permessi dalla legislazione coranica, e
i Musulmani potevano stabilire relazioni pacifiche con i non-Musulmani vuoi
individualmente, vuoi collettivamente, se una pace di questo genere non era
contraria ai loro interessi. A fornire un precedente in tal senso era il
trattato di Hudaybiya concluso dal Profeta con i non credenti della Mecca nel
6-628[43].
Il Corano non solo accorda ai Musulmani la possibilità di concludere un trattato di tal genere con il
nemico, ma gli fa anche obbligo di osservare i termini dell'accordo sino alla
fine del periodo specificato[44],
una volta che è stato accettato dai Musulmani. Non di altro si tratta che del
principio pacta sunt servanda,
sottolineato tanto dalla legislazione coranica[45]
quanto dalla dottrina. In diritto musulmano, insomma, l’accordo si stabilisce
nella prassi, cioè a dire fra le parti interessate, e riceve la convalida
dell'autorità. Infatti, il potere di concludere un trattato veniva sì
riconosciuto ai generali in campagna – i quali erano abilitati a negoziare con
il nemico, se questi voleva accordarsi con l'Islam – ma l’Imam si riservava il
diritto di non ratificare il trattato, se questo non era compatibile con gli
interessi dell’Islam. La sua approvazione era perciò necessaria per legare la
comunità islamica, e d'altra parte, anche dopo che era stato ratificato, il
trattato stesso era suscettibile di venire denunciato dall'Imam, il quale
poteva mettervi fine a condizione di notificare tale sua intenzione al nemico[46].
Inoltre, sul piano individuale anche lo Harbi (persona del dâr-al-harb)
poteva entrare nel dâr-al Islam a
condizione di avere ottenuto prima un amân
da un credente qualsiasi[47].
Anche sul piano collettivo, i non credenti potevano ottenere uno statuto
temporaneo di tal genere con un atto ufficiale direttamente o indirettamente
accordato dall'Imam, il quale in
questo caso concedeva agli abitanti di un territorio, il cui governatore aveva
concluso un trattato di pace con i Musulmani, il beneficio dell'amân acquisito da quello[48].
E’ sulla base di questi concreti accordi bilaterali che si viene costruendo la
dottrina islamica del diritto dei trattati.
Sta di fatto che è stata sostenuta la tesi che il concetto di gihàd possa aver influenzato quello di
crociata e, quale suo presupposto, di comunità dei popoli cristiani. In un
celebre scritto, il Pirenne avanzò la teoria che il sorgere stesso dell'Impero
carolingio si spiegherebbe con l'avanzata delle armi dell'Islam, contro cui,
sino alla battaglia del Garigliano, i potentati cristiani non riuscirono che a
difendersi a fatica, e la cui espansione, pur non potendo abbracciare tutto il
Mediterraneo – che era stato il cuore dell’impero di Roma - ne aveva però fatto
una barriera per la Cristianità, costretta, di conseguenza, a
"continentalizzarsi"[49].
Certo è che nell'846 Roma e Ostia furono saccheggiate dai Saraceni, che
risalendo il Tevere e l’Aniene giunsero sino a Subiaco e in tale occasione,
all'esercito di Franchi approntato per combattere i nemici di Cristo, con un
deciso capovolgimento di prospettiva circa il problema dell'uso della violenza
bellica, il papa Leone IV avvertiva che non avrebbe consentito che i Cristiani
venissero ulteriormente perseguitati: qualcosa di simile a quanto si profila
oggi che dalla Pacem in Terris di Giovanni XXIII[50],
le posizioni del Vaticano II e la Evangelium Vitae (ove si ribadisce che
non esiste collegamento fra giustizia e guerra)[51],
il risveglio d’un Islam espansivo e le diffuse, sanguinose persecuzioni dei
Cristiani sembrano voler riportare persino il Papa ad un ripensamento. Leone IV
incitava a combattere senza timore i nemici della fede, assicurando che la
ricompensa celeste non sarebbe stata negata a tutti coloro che fossero morti
combattendoli[52]. Nello
stesso senso si pronunciava Giovanni VIII nell'879[53].
L'idea di crociata come recuperatio
dei luoghi santi doveva prendere poi forma a causa della distruzione del tempio
del Santo Sepolcro e dell'intolleranza dimostrata da Hâkim[54]
contro i Cristiani di Gerusalemme, e venir propagata dall'Ordine di Cluny, i
cui abati riuscirono a radunare le forze necessarie a respingere i Musulmani
dalla Provenza e dalla Sardegna[55].
La dottrina bizantina sulla guerra non seguì l'evoluzione di
quella musulmana o di quella della Cristianità occidentale, restando fedele ai
primi Padri della Chiesa, anteriori a S. Agostino. I Bizantini non
comprendevano la gihàd e il grande
ideale religioso che spingeva i Musulmani contro l'Impero. Per essi, ad animare
i fedeli del Profeta era vuoi la speranza del bottino, vuoi un amore barbaro
della guerra, o la devozione alla cosa pubblica. Una contrapposizione di idee
che in qualche modo somiglia a quella odierna.
L’Occidente cristiano è peraltro sotto assedio: dal Nord subisce
le incursioni devastatrici degli Scandinavi, da Est si abbattono sulle terre
alemanne, italiane e borgognone quelle degli Ungheri. Ecco quindi che esso si
trova nuovamente a riflettere sull’uso legittimo della forza, che per lungo
tempo, in un’Europa politicamente polverizzata in un numero imprecisato di
signorie, unite da rapporti di tipo feudale, è appannaggio di una nobiltà di
spada determinata a difendere e possibilmente ampliare i propri domini.
Come
è stato da tempo osservato[56],
la concezione patrimoniale dello “Stato” comportava tanto che gli stessi regni
non fossero considerati altrimenti che come grandi domini, quanto che i dominia mostrassero relazioni di
imperio. L’intero quadro delle istituzioni medievali non presenta insomma
distinzione qualitativa fra “domini di diritto interno” e “domini di diritto
internazionale”, restando unicamente rilevante la complessa rete gerarchica che
tutti li legava all’interno di una medesima societas[57]. Sia l’esercito, sia la società stessa
sono tenuti insieme, in pace come in guerra, dal legame con il signore (Schutzherr: un legame che si scioglieva alla sua
morte) e dalla comune fede religiosa,
che portava a concepire la vita attraverso il prisma di un ordinamento
trascendente traente origine da una volontà divina tesa a imporre il rispetto della
personalità umana in tutti i suoi rapporti[58].
In guerra tutti i “grandi” del popolo erano obbligati alla fedeltà (Treue) ed al seguito (Gefolgschaft) nei confronti del re, allo
stesso modo in cui lo erano gli uomini del popolo nei confronti dei loro signori. Poiché questi ultimi erano
immediatamente obbligati nei confronti del re, tutto il popolo formava, per
così dire, una piramide di guerrieri – potenzialmente in conflitto anche fra
loro – che solo l’obbligo alla fedeltà e al seguito teneva uniti. Dunque è il
signore che porta la responsabilità della guerra. Poiché nessuna vittoria è
possibile senza l’aiuto di Dio, il combattente deve saperLo dalla propria
parte, cioè deve essere consapevole e convinto della legittimità della guerra[59].
Non esisteva, al momento, un legame totalizzante come quello che assoggetta
l’individuo allo Stato moderno. La soggezione personale dei vassalli nel nono e
decimo secolo assunse la forma del diritto del signore di richiedere al
vassallo di prestare aiuto militare e di essere assistito personalmente da lui
in caso di necessità[60].
Illuminante è la forma fidelitatis tramandata
dai libri feudorum. Qui si prevede
che, nel legarsi al suo signore, il vassallo giuri: «Et si scivero te velle iuste aliquem offendere et inde generaliter, vel
specialiter fuero requisitus: meum tibi
sicut potero, prestabo auxilium»[61].
Il mancato assolvimento dell’obbligo pone il vassallo al rischio di perdere il
feudo. Ma al termine “requisitus” la
Glossa spiega: «Istud verbum non ponitur hic
sine causa. Nec enim vasallus tenetur officium offerre domino: quantocunque
enim tempore steterit, quando domino non servierit, ob hoc non amittit feudum
dum tamen domino petenti servire paratus sit si tamen sciverit domino magnum
periculum imminere, puta mortem, vel captionem, vel quid simile: tunc ultro se
ei offerre debet». E al verbum “offendere” la stessa Glossa precisa:«bene iuste dicit: quia non tenetur vasallus
dominum adiuvare si iniuste velit eum offendere, nisi ad domini defensionem vel
nisi dubitetur utrum iuste an iniuste velit eum offendere». Dunque
l’obbligo del vassallo di prestare servizio in armi al signore non è assoluto
bensì soggetto a condizioni. Egli dovrà accorrere in sua difesa in caso di magnum periculum, come una minaccia di
morte o di rapimento, eventualità certo non infrequente in un tempo in cui le
controversie sfociavano di frequente in una faida[62],
nonostante la costituzione fredericiana relativa alla pace dell’Impero,
recepita nei Libri Feudorum - e di
qui nel Volumen . Essa imponeva:
«Haec
edictali lege in perpetuo valitura iubemus, ut omnes nostro subiecti imperio
veram et perpetuam pacem inter se observent: et ut inviolatam inter omnes in
perpetuo observent duces marchiones, comites, capitanei valvasores et omnium
locorum rectores cum onmibus locorum primatibus et plebeis»[63].
Ma
primo e fondamentale presupposto di una faida legittima è l’esistenza di un
fondamento giuridico, giacchè essa tende al ristabilimento del diritto violato
(altrimenti non di legittima faida si tratterebbe ma di rapina, iniustum bellum) ed esige che siano rispettate alcune condizioni: anzitutto la
formale notifica della diffida, quindi
il rispetto dei limiti stabiliti dalla consuetudine, senza la qual cosa l’uso dei mezzi propri del combattimento diventa
disonorevole. Chiaramente i Libri Feudorum stabiliscono che, ove il dominus muova guerra ad alcuno, il
vassallo non è obbligato a prestargli il proprio auxilium se non sa o almeno dubita che tale guerra sia giusta[64].
Se gli è manifesto che invece il dominus
l’ha mossa irrationabiliter, allora
egli sarà tenuto a prestargli aiuto solo ad
defensionem; ad offendendum no, e
potrà seguire il suo signore solo si
vult, senza per questo perdere il feudo.
Nei confronti del dominus colpito da
bando o scomunica, si ammette anzi la
absolutio del vassallo dall’obbligo del servizio in quanto
sciolto dal giuramento di fedeltà.
Tali princìpi si riflettono nel paradigma della guerra giusta
che canonisti e civilisti vanno sviluppando al riguardo, fermo restando che,
come puntualizza Azzone: «Pacta, quae non
dolo malo nec contra legem sunt inhita, servanda sunt; maxime quando ex publica
causa fuerit, ut propter pacem, cum inter se duces belli paciscantur»[65].
Rileggendo il Codice, la Glossa e la civilistica successiva, sulla
scorta dell’interdetto unde vi,
connettevano alla titolarità del dominio la possibilità di difenderlo ed
eventualmente recuperarlo anche avvalendosi dell’uso delle armi[66],
sia pure nei limiti del moderamen
inculpatae tutelae.
La Chiesa, dal canto suo, mentre ribadiva l’obbligo di
rispettare gli accordi facendo della ratio
pacis fractae un'autonoma fattispecie delittuosa[67],
non si stancava di rivendicare a sé il giudizio sulla liceità dell’uso della
forza: «nota crimen pacis fractae
et periuriis directe pertinere ad iudicium Ecclesiae» avvertiva
Innocenzo IV[68].
La canonistica ribadisce, perché la guerra sia justa, la necessità di alcuni requisiti.
Anzitutto la causa (propulsare hostes, repetere res, ulcisci
iniurias); quindi il
possesso del gladium sanguinis, vale a dire il potere di giustizia:«ut
videlicet publicae potestates bello presideant, principes scilicet apud quos
secundum iura belli committendi consilium et preceptum est»[69]; infine la dichiarazione di guerra e la
mancanza di un divieto circa l’essere soggetti attivi o passivi di violenza
bellica, perchè: «Militare aliis est licitum, aliis illicitum; illicitum ut
his quos in sacris ordinibus constat exsistere»[70].
Infatti: «Laicis
itaque ex justa causa, vel pro vindicta inferenda, vel pro iniuria propulsanda
militare non est peccatum, dummodo publice potestates bello gerendo presideant
indicto mandato sive permissa licentia a principibus...Clerici vero militare
non possunt, i.e. arma movere, sed in certis casibus aliis ut moveant iniungere»[71].
Nella sintesi che la dottrina tardomedievale opera fra jus canonicum e jus civile, se è a
Graziano – e in ultima analisi al Cicerone filtrato da S. Agostino – che ci si
rifà per la definizione di justum bellum, è dal Digesto che si trae il
concetto di hostis[72].
Il bellum iustum infatti: «...geritur
adversus eos qui hostes publice determinati sunt, vel quod fit propter res
repetendas quae vi ablatae sunt»[73]
L’hostis contro cui è
lecito muovere guerra è il popolo che ha mosso guerra contro il popolo romano o
contro il quale viceversa essa è stata dichiarata dal popolo romano tramite la
persona dell’Imperatore[74]:
ma con chi si identifica ora il popolo romano? Canonisti come
l’Ostiense(1210-1271) o Innocenzo IV(1195-1254) rispondono: la Christianitas.
Riassumendo i criteri che consentivano di distinguere la guerra
ingiusta dalla giusta, e sui quali si era ormai attestata la dottrina (la ratio
rei, ut si non est de repetendis rebus vel pro defensione patriae; poi
la ratio causae, ut si voluntarie non
necessario pugnet; l'animus,
seu quando fiat ad vindictam; la presenza o mancanza dell'auctoritas
principis; la ratio personae, ut puta quia
ecclesiasticus est[75]), essi ritenevano che si potesse così distinguere fra il bellum
inter fideles et infideles –
giusto dalla parte dei fedeli – e quello quod est inter fideles,
nel quale le parti – a norma della legge hostes – non potevano
essere considerati se non come latrunculi[76]. Ne conseguiva che in questo caso,
in quanto ingiusta, la guerra non
poteva costituire titolo[77]:
nel caso di bellum illicitum res captae
non sunt capientium[78].
Tuttavia, a mano a mano che avanza l’idea dello Stato assoluto,
avanza pure quella che una guerra legittima possa essere indetta anche a prescindere
dall’iniziativa dell’Imperatore o del Papa. La legge Hostes – dice Jacques de Révigny – potrebbe trovare applicazione: si esset imperator ad quem possent illi
potentes recurrere, set per defectum iudicis licet eis sua auctoritate ius
dicere. Secondo alcuni – prosegue questo giurista – si potrebbe ricorrere
al Papa[79]:
«..ut per eum iustitiam consequatur, si
potest vel eo auctoritate praestante bellum indicat»[80].
Ma ritenere obbligatorio il previo ricorso al Papa – dice il Revigny
– è inammissibile. Prima di tutto perché tale ricorso sarebbe molto costoso et isti nobiles non sunt pecuniosi. Poi
perché dalle more potrebbero derivare ingenti danni come incendi e occupazioni
del territorio[81].
Così pure l’Ostiense, nel commento alle Decretali, ammette che
può muovere una guerra giusta anche una civitas vel dominus terre imperi, che non abbia ottenuto risposta alla
propria domanda di giustizia[82].
In
realtà, il ricorso all’autorità religiosa[83]
per tentare la via della conciliazione era meno infrequente di quanto il
giurista orleanese lasci pensare. Gli Acta
pontificia juris gentium[84] documentano quanto spesso ci si imbatta
nell’opera pacificatrice del Vescovo di Roma, svolta sotto forma di buoni
uffici, mediazione o vero e proprio arbitrato. Fino alle soglie dell’età moderna si può dire che di questi
mezzi alternativi di soluzione delle controversie i potentati europei abbiano
ripetutamente usato: in alternativa agli esponenti del Clero, si ricorreva
talvolta all’opera di una potenza amica o di una personalità di riconosciuta
autorevolezza[85].
Già Bartolo aveva preso atto dell’esser venuta meno l’autorità
dell’Impero al quale si poteva ricorrere come a un giudice superiore[86],
spiegando così l’istituto delle rappresaglie: nei limiti dell'autodifesa, non
essendovi copia judicis, era lecito
per re, principi e città sibi ius dicere
propria authoritate, a maggior ragione ad
liberandam rem publicam, ad quam defendendam omnes admittuntur[87].
In effetti proprio la competenza di guerra era il nodo gordiano
nel quale si dibatteva la politica e il diritto pubblico medievale.
E finalmente Fulgosio afferma apertamente
che la guerra può essere giusta da ambo le parti:
Respondeo
quod quia incertum erat utra pars iuste bellum moveret, nec erat iudex communis
utrisque superior per quem id possit cetum civiliter effici, optima ratione
constituerunt gentes, ut eius rei iudex bellum foret: hoc est, ut quod in bello
vel per bellum caperetur, partis capientis fieret: quasi sibi adiudicatum a
iudice fuisset : ut inst. de off.
iudicis § finali iuxta illud Lucani. Utendum est iudice bello[88].
Requisito necessario del bellum è
ora che in un dissidium armatum si affrontino popoli liberi:
questa –vale a dire la mancanza di un superior
– è la conditio sine qua non perchè si abbia propriamente un bellum.
E’ proprio in forza della loro libertà che i popoli, i quali non
hanno giudice sopra di sé, sono costretti ad adottare questo mezzo come
soluzione delle loro controversie. Il popolo agisce attraverso il suo principe,
dunque è il principe che deve dichiarare la guerra («princeps est caput et primus et summus magistratus populi romani, et
populus dicitur indixisse cum princeps indixerit»)[89],
ma a tal fine vale anche chiunque regga la civitas.
L’esistenza di una justa causa belli
passa quindi in seconda linea rispetto a quella di un’auctoritas principis
non condizionata da nessun’altra autorità superiore, e quindi capace di
decidere autonomamente non solo chi sia hostis – dunque quali siano bella
e quali latrocinia, seditiones, bella civilia – ma anche se e
quando iniziare le ostilità.
In questa progressiva trasformazione,
la “diffida” nata dalla denunzia del contratto feudale in occasione della
faida, e staccatasene abbastanza presto, diviene sinonimo di “bellum
denuntiare” e il diffidare aliquem finisce con l’equivalere a “bellum
indicere”[90].
Nel modificarsi delle modalità di combattimento dovuta
all’introduzione di nuove armi[91],
muta peraltro anche la posizione dei non combattenti. Il danno che essi subiscono
trova una giustificazione nel riallineamento dei diritti naturali degli
individui, trasferiti nelle mani del sovrano[92].
Come nelle rappresaglie[93]
l’individuo si poteva soddisfare sui beni dei terzi, così ora i beni dei non
combattenti possono essere preda della violenza bellica in quanto sudditi del
nemico. Non la persona, però, perché si riteneva che questa non potesse essere
coinvolta che per responsabilità personale[94].
Il problema del rapporto fra la responsabilità del singolo e quella della universitas era stato infatti avvertito
fin dai primordi della scuola di Bologna. Se sulla base della personalizzazione
della civitas si ammetteva che questa
potesse delinquere[95]
ed essere ritenuta imputabile anche di azioni compiute dai suoi cittadini per
dolo o timore, quindi di delitti volontari[96],
si era però affermato che le due imputazioni non erano assimilabili[97].
Al tempo stesso si era venuti chiarendo non esser lecito distruggere ogni cosa
del nemico, ma solo l’indispensabile, per indebolirlo: non i monumenti sacri,
né i sepolcri[98].
All’inizio del XVI secolo la problematica
conosce una nuova fiammata d’interesse. Sullo sfondo stanno le guerre di
religione, la rinnovata minaccia turca[99],
la scoperta del Nuovo Mondo. Sebbene si ammetta ormai che la guerra può
essere giusta da ambo le parti, il problema della sua liceità morale non cessa
tuttavia di esigere risposta: affrontato da S. Tommaso nella famosa questio de bello, tale problema si riaccenderà
nella cosiddetta seconda scolastica, soprattutto in occasione delle conquiste
americane, effettuate a scapito di popolazioni che mai prima di allora si erano
rese responsabili di atti di violenza a danno della Christianitas e dei suoi soggetti[100].
I pubblicisti che si proposero di legittimare le conquiste spagnole nel Nuovo
Mondo, come Matias de Paz e Juan Lopez de Palacios Rubios, si servivano della
tesi dell’Ostiense, secondo il quale, dopo la venuta di Cristo, ogni potere
secolare legittimo era stato trasferito ai cristiani[101].
Tuttavia questa tesi non era affatto l’unica nè la più diffusa fra i canonisti,
che in maggioranza preferivano le opinioni più moderate di Innocenzo IV[102].
Anche uno dei più illustri, come il Covarruvias, in un lavoro dedicato a
Filippo II, scriveva in un consilium
dal titolo De bello adversus infideles che
il dominium degli infedeli è
legittimo[103]. Las
Casas insistè per tutta la vita che il dominium
dei nativi Americani era legittimo e giusto, e che gli Spagnoli non avevano
il diritto di usurpare ciò che quelli possedevano a giusto titolo[104].
Le guerre di religione, dal canto loro, spezzando l'unità della Christianitas mostrarono la necessità di
una autorità sovrana decisiva, il cui potere fosse capace di risolvere i problemi
posti dalla frattura sociale. Il sovrano, cioè, doveva assumere su di sé la
responsabilità della pace e della salvezza mondana e ultramondana, ma questa
assoluta responsabilità presupponeva il dominio assoluto. Molti diritti che
erano rimasti sin qui decentrati – lo jus
ad bellum come lo jus condendi leges
– dovevano ora essere accentrati nelle sue mani.
Già il doctor angelicus,
nel concetto di gladium sanguinis,
aveva distinto fra un gladio materiale – nel quale aveva compreso la
giurisdizione – e un gladio bellico, comprendente il vero e proprio jus ad
bellum, benchè poi, nella
sua concezione, entrambi derivassero dal dovere del principe di assicurare la
giustizia.
Il Caietano ne fa due funzioni distinte, cui corrispondono due
spade distinte[105]:
ai Principi è affidato il compito di mantenere l'ordine nel mondo (gubernare orbem)[106];
ma il potere del principe può non essere plenario e non ricomprendere lo jus
belli, che in effetti
compete solo alla respublica perfecta[107].
L’idea riecheggerà nel pensiero di
Vitoria, che pone chiaramente la piena competenza di guerra in rapporto con lo
Stato, vedendovi anzi il punto di raccordo naturale con la sovranità[108],
giacchè non può conservare il bene pubblico in modo soddisfacente una respublica che non può vendicare una
offesa e punire i nemici[109]:
lo ius ad bellum è insomma
caratteristica fondamentale delle res
publicae perfectae, vale a dire delle
istituzioni giuridicamente capaci di costituire e di far parte della comunità
internazionale[110],
ed è funzionale al mantenimento dell’ordine: come all’interno dello Stato il
principe non può punire i sudditi se non quando abbiano commesso un delitto,
così non può iniziare una guerra se non come executio iuris[111].
Cajetano parla di auctoritas vindicativa[112],
Vitoria di auctoritas indicendi et
gerendi bellum, vale a dire di quello che Calvino chiama droit de batailler[113].
Dunque Vitoria connette il concetto di respublica perfecta proprio con lo jus ad bellum. Tale
jus non è intaccato – a suo modo di vedere – dal fatto che la respublica
perfecta faccia eventualmente
parte di un
organismo associativo superiore quale l'Impero, mentre al contrario non si può
ammettere diritto di guerra per quell’organismo politico che faccia esso stesso
parte di una respublica perfecta.
Come il Caietano[114]
tuttavia, – sulla scorta di S. Tommaso – anche Vitoria ammette il diritto di
insorgere contro il tiranno. Il tirannicida commette un atto di guerra lecita,
derivante da un’autorizzazione pubblica tacita: anche questo rientra nel concetto di guerra giusta, concetto che
Vitoria non limita però alla vindicta,
cioè – nel senso medievale del termine – alla restaurazione dell’ordine
violato, ma estende in funzione della pace da instaurare[115].
Nella comunità di Stati anarchica che si va formando, il problema della pace
costituisce del resto il tema cui vengono ora dedicate molte opere
relativamente famose[116],
per non parlare dei progetti, più o meno utopici, di organizzazione
internazionale[117].
Che cos'è la guerra? – si chiede Erasmo - Un omicidio collettivo, di gruppo,
una forma di brigantaggio tanto più infame quanto più estesa[118].
Le voci decisamente contrarie alla guerra[119]
si inscrivono ancora una volta in una temperie di grandi trasformazioni. Mentre
l’orizzonte geografico si allarga, quello politico si restringe. Anticipato
dall’idea di "società perfetta" avanza il modello francese di Stato,
cui fa da supporto l’idea di sovranità propugnata da Bodin. II problema del bellum justum riguarda, ora più che mai,
la valutazione del sovrano. Non est Principi
in terris iudex. aut ille Princeps non est, supra quem capit
alius locum primum[120].
Per l’obbligo della indictio
belli tornano a pronunciarsi tanto Belli[121] quanto Gentili[122]
e Bruno (il quale avvicina la dichiarazione di guerra alla citazione
giudiziale)[123]; e l’esigenza sarà ribadita da Grozio il quale,
qualificando di solenne la guerra contra
hostes sostiene che non solo questa va dichiarata, ma ciò va fatto in
termini formali da una parte all’altra[124].
Anche per Pufendorf, che ricorda l’obbligo di stare pactis[125], l’ indictio belli – come richiesta sia dallo jus voluntarium sia dallo jus
naturale – è necessaria al bellum
solemne[126], cioè quello rivolto contro i nemici
esterni, mentre Huber ribadisce omnino
ad iniusta bella nullam esse obligationem[127].
Non sorprende perciò che Voet, cercando di definire il bellum iustum, ne
privilegi ormai l’aspetto formale: «justum esse censeo, quod suprema
majestas legitimis de causis indicit populo superiorem non agnoscenti[128].
Diximus ad belli justitiam requiri, ut
rite quisque illud denunciet, primumque petat, quicquid sibi debitum existimat
antequam ad arma ad ultimam convolet regum rationem»[129].
Dunque è necessario aver avviato, antecedentemente all’indire bellum, un
tentativo di soddisfare pacificamente le proprie pretese, che è altresì la condicio
sine qua non per cui la guerra così indetta possa essere qualificata come justa.
Già Alberico Gentili sosteneva: voluntario
compromisso antea est disceptandum[130].
Non solo: al fine di pervenire alla composizione della controversia, arbitratores possunt se extendere ad rem non
comprehensam in compromisso e come i
privati compelluntur ad pacem : etiam et
publici quodam modo[131].
Anche Wolff afferma rientrare nell’ambito del diritto naturale che, come gli
individui, anche gli Stati debbano cercare le vie della conciliazione ovvero
ricorrere alla transazione, alla mediazione o all’arbitrato, promovendo gli
incontri e le conferenze necessarie a risolvere i punti controversi; fermo
restando che, sottraendosi una parte ad ogni offerta ragionevole l’altra potrà
allora ricorrere alle armi[132].
Ma se Pufendorf, il discepolo e critico di Grozio, cercò di
avvalorare l’idea che uno Stato belligerante ha l'obbligo di accettare
l'offerta di mediazione che venga fatta da una potenza neutrale, e più ancora
che le potenze neutrali possono a buon diritto forzare una composizione nei
termini da loro stesse stabiliti, unendo le forze contro lo Stato renitente[133]
e anche Voet ribadisce l'obbligo del previo
esperimento degli strumenti di soluzione pacifica dei conflitti (è il previo
ricorso a tali mezzi a determinare una condizione oggettiva per cui la guerra
può essere considerata giusta)[134],
tale ricorso diventerà un suggerimento in Vattel[135]
e Bjnkershoek sosterrà che: «ut iniquum est principem invitum ad bellum
cogere, ita et ad pacem»[136],
mentre Textor, la cui «Sinopsis juris
Gentium» sarà pubblicata[137]
qualche anno dopo l’opera di Pufendorf, preciserà che nessuno Stato
belligerante può essere costretto ad accettare un’offerta di mediazione se ha
buone ragioni per non farlo, e il rifiuto della mediazione offerta non deve
essere considerato quale legittimo motivo per offendersi o per dichiarare una
guerra. Tuttora dipende dal buon volere dei neutrali offrire o no la propria
mediazione, come pure dipende dalla loro libera decisione l’acconsentire o no
alla mediazione loro richiesta. Analogamente, gli Stati in discordia sono
liberi di invocare o no l'intromissione di un terzo Stato, ed egualmente liberi
sono di accogliere o no l’offerta che un terzo Stato faccia della propria
mediazione per l'appianamento del conflitto[138].
Ma l’idea che andasse punito lo Stato responsabile dell’opzione bellica fu alla
base delle trattative che portarono agli accordi di pace successivi tanto alla
prima quanto alla seconda guerra mondiale.
All’inizio del ‘900, le due Conferenze dell’Aja hanno cercato di
regolamentare convenzionalmente l’uso preventivo di strumenti di soluzione
delle controversie internazionali alternativi all’uso della forza. Ma nonostante ne fosse stato espressamente
sancito dalla seconda – 1907 – l’obbligo[139],
l’attacco di Pearl Harbour non fu preceduto da alcuna dichiarazione di guerra.
Anzi, le due guerre mondiali e le innumerevoli guerre locali che sono seguite,
hanno avuto ragione della maggior parte delle illusioni che quelle conferenze
prima, e la successiva istituzione della Società delle Nazioni e
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite poi avevano generato.
[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza,
rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi
presentati. Per questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati
oggetto di valutazione “in chiaro” da parte dell’organizzazione scientifica
delle “Conferenze Romanistiche Sassaresi” (anno 2015 – MMDCCLXXVIII dalla
fondazione di Roma); d'intesa con la direzione di Diritto @
Storia]
[1]
Il messaggio evangelico è chiaramente e apertamente contrario non solo alla
guerra ma a qualsiasi violenza. Bastino alcune citazioni: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non uccidere”; chi avrà ucciso sarà sottoposto a
giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello sarà
sottoposto a giudizio» MATTEO, 5.21-22; «Voi avete udito che fu detto:
"Occhio per occhio e dente
per dente". Ma io vi dico:
non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra,
porgigli anche l'altra; …Voi avete udito che fu detto: "Ama il tuo prossimo e odia il tuo
nemico". Ma io vi dico: amate i
vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» MATTEO, 5.38-45
(Cfr. LUCA 6.27-36); «Rimetti la spada
nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada»
MATTEO, 26.52.
[2]
Tertulliano torna spesso su questi temi. Vedi ad es. Apologeticum adversus gentes XXXVII.5, in MIGNE, P.L.,I,1, col. 525: «Cur bello non idonei, non prompti fuissemus,
etiam impares copiis, qui tam libenter trucidamur, si non apud istam
disciplinam magis occidi liceret quam occidere?». Ibidem, L, coll. 598-599: «Proelium
est nobis quod provocamur ad tribunallia ut illic sub discrimine capitis pro
veritate certamus. Victoria est pro quo certaveris obtinere...ergo vincimus cum
occidimur».
[3]
Da Ciprano la Cristianità è qualificata come una societas,
la cui natura richiama alla mente la cognatio
quaedam del giureconsulto Fiorentino (D. I.1.3): «Ad nos spectant quae a nobis vicissim spondentur pro nostra pacti
baptismalis parte praestanda». Vedi Dissertatio
tertia ad Sancti Cypriani, in MIGNE, P.L.,
V, coll. 65-66. Sugli ulteriori sviluppi di questo concetto, vedi P. BELLINI, Il gladio bellico. Il tema della guerra
nella riflessione canonistica dell'età classica, Torino 1989, 41 ss.
[4]
Vedi E. PUCCIARELLI, I Cristiani e il servizio
militare. Testimonianze dei primi tre secoli, Firenze 1987, 224, anche per
una rassegna delle posizioni patristiche riguardo alla guerra. Anche Seneca (ep. 95) riteneva la guerra in contrasto
con il diritto naturale, e denunciava la contraddizione per cui, da un lato
viene condannato e punito l’omicidio, dall'altro esso viene lodato se commesso
in guerra. L’argomento diventerà un topos
del pensiero pacifista.
[5]
LATTANZIO, Divinae Institutiones, VI.12
(ma vedi anche V.18) in MIGNE, P.L., VI,
coll. 604-609: «Divini juris ignarus
gentis suae leges tamquam verum ius amplectitur, quas non utique iustitia, sed
utilitas reperit: cur unaquaeque gens id sibi sanxit quod putavit rebus suis
utile? Quantum autem a iustitia recedat utilitas, populus ipse romanus docet,
qui per fetiales bella indicendo et legitimas iniurias faciendo semperque
aliena capiendo atque rapiendo possessionem sibi totius orbis comparavit ...
Num idcirco iusti erunt, qui parent institutis hominum, qui ipsi aut errare aut
iniusti esse potuerunt, sicut illi XII Tabularum conditores qui certe publicae
utilitati pro condicione temporis servierunt.
Aliud est igitur
civile jus, quod pro moribus ubique
variatur, aliud vera iustitia». Cfr.
GAUDEMET, Le droit romain dans la littérature
chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle, Mediolani
1978, 59 n. 336, 53, n. 288.
[6]
Se tutti gli uomini devono considerarsi figli di Dio, ne consegue l'esistenza
di un legame fraterno fra tutti i Cristiani e quindi l'obbligo di rispettarsi vicendevolmente
e mantenere nei propri rapporti l'ordine e la concordia. Il nesso supremo deve
essere ora l'unità della fede piuttosto che, secondo l'idealità stoica, il
riconoscimento di un diritto valido per tutta l'umanità. Su ciò E. BESTA, Il diritto internazionale nel mondo antico,
in Comunicazioni e Studi dell'Istituto di
diritto internazionale e straniero dell'Università di Milano, II, Milano
1946, 18.
[7]
AMBROSIUS MEDIOLANENSIS, De officiis
ministrorum, c. XXXV.175-177, in MIGNE, P.L.,
vol.16, col. 75.
[8]
Voce Militia, in Totius latinitatis lexicon Aegidi Porcellini, Prato 1968, IV, 122
n. 12. A. MORISI, La guerra nel pensiero
cristiano dalle origini alle crociate, Firenze 1963, 35 ss., rileva come
negli ultimi anni del I secolo Clemente Romano esortasse la Comunità di
Corinto, che minacciava uno scisma, a prendere ad esempio la perfetta
organizzazione gerarchica dell’esercito romano e la sua tradizionale
disciplina. Il vocabolario militare era tuttavia usato per contrappporre alla militia Caesaris fondata sulla violenza,
la militia Christi fondata sull’amore
e caratterizzata da aspetti sconosciuti alla mentalità pagana. Su ciò E.
PUCCIARELLI (a cura di), I Cristiani e il
servizio militare. Testimonianze di tre secoli, Firenze 1987, 29.
[11]
c.3, C.XXIII, q.1. Il passo agostiniano recita: «Nam et ego homo sum sub potestate constitutus, habens sub me milites,
et dico huic, Vade, et vadit; et alii, Veni, et venit; et servo meo, Fac hoc,
et facit: de quo et Dominus, Amen dico vobis, non inveni tantam fidem in Israel
(Matth. VIII.8-10). In his erat et ille Cornelius ad quem missus angelus dixit,
Corneli, acceptae sunt eleemosynae tuae, et exauditae sunt orationes tuae: ubi
eum admonuit ut ad beatum Petrum apostolum mitteret, et ab illo audiret quae
facere deberet; ad quem apostolum, ut ad eum veniret, etiam religiosum militem
misit (Act. X.4-8). In his erant et illi qui baptizandi cum venissent ad
Joannem, sanctum Domini praecursorem et amicum sponsi, de quo Dominus ipse ait,
In natis mulierum non surrexit major Joanne Baptista (Matth. XI.11), et quaesiissent ab eo quid
facerent; respondit eis, Neminem concusseritis, nulli calumniam feceritis;
sufficiat vobis stipendium vestrum. Non eos utique sub armis militare
prohibuit; quibus suum stipendium sufficere debere praecepit». S. AURELII
AUGUSTINI, Ep. CLXXXIX.4, in MIGNE, P.L., XXXIII, coll 855-856. (Estratto dalla versione integrale di
Patrologia Latina Database pubblicato da Chadwyck-Healey Ltd). All’ultimo passo
evangelico citato (LUCA III.14) si richiamerà anche Abelardo, Sic et non, l.
XVIII, cap. III, in MIGNE, P.L., 178,
col.1608C.
[12]
ARISTOTELE, Politica, VII.1333b-1334a
: «L'esercizio delle armi,poi, non si
deve praticare per assoggettare coloro che non lo meritano, ma per non cadere
nella servitu' altrui; poscia per ottenere l'egemonia rivolta a vantaggio dei
sudditi, non per un dispotismo fine a se' stesso, insomma per dominare su
coloro che meritano di essere dominati. E proprio i fatti convalidano i
ragionamenti per la tesi che il legislatore debba spiegare la sua azione nelle
cose di guerra e in tutti gli altri rami dell'attivita' politica pel
conseguimento della pace, poichè la maggior parte di siffatte città guerreggiando
si salvano, ma, appena hanno conseguito
l'egemonia, vanno in rovina, perdendo come il ferro la tempera appena si
trovano in pace» (trad. V. Costanzi, Bari 1925, 249-250).
[13] «Cum autem justum bellum susceperit, utrum
aperta pugna, utrum insidiis vincat, nihil ad justitiam interest. Justa autem
bella definiri solent, quae ulciscuntur injurias, si qua gens vel civitas, quae
bello petenda est, vel vindicare neglexerit quod a suis improbe factum est, vel
reddere quod per injurias ablatum est. Sed etiam hoc genus belli sine dubitatione justum est, quod Deus imperat, apud quem non est iniquitas, et novit quid cuique fieri debeat. In quo bello ductor exercitus
vel ipse populus, non tam auctor belli, quam minister judicandus est». S. AURELII AUGUSTINI, Quaestionum in Hept. liber sextus, X, in MIGNE, PL, XXXIV, coll. 780-781.
[14]
Si tratta del c. 12 Antigonus, che
sarà incluso da Bernardo da Pavia nel Breviarium
extravagantium e poi da Raimondo di Peñafort nella Compilazione di Gregorio
IX (c.1, X, I, 25): «Unde, aut inita
pacta suam obtineant firmitatem, aut conventus, si se non cohibuerit,
ecclesiasticam sentiat disciplinam. Dixerunt universi: pax servetur, pacta
custodiantur».
[19]
G. PICASSO, G. PIANA, G. MOTTA (a cura di), A
pane e acqua. Peccati e penitenze nel Medioevo. Il “Penitenziale” di Burcardo
di Worms, Bergamo 1986, 70 ss.
[20] In tema vedi, M.G.
MARÇAIS Mahomet et l’expansion de l’Islam,
in C. DIEHL - M.G. MARÇAIS, Le monde
oriental de 365 a 1081, Paris 1944, 158 ss.
[21]
Il termine significa non solo espatrio, ma anche ripudio della città natale e
contrapposizione ad essa. Vedi H. LAMMENS, L'Islam croyances et institutions,
Beyrouth 1926, 25; T.W. JUYNBOLL, Manuale
di diritto musulmano: secondo la dottrina della scuola sciafeita con una
introduzione generale (trad. Barrera), Milano 1916, 212.
[23]
Vedi M.G. STASOLLA, Guerra e gihàd nel
pensiero islamico, alcune riflessioni, in Diritto @ Storia, 4-2005- memorie < http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Stasolla-Guerra-gihad-islam.htm
>.
[24]
Vedi il commento di S. Noja a AL BUHARI,
Detti e fatti del profeta dell’Islam, a cura di V. Vacca, S. Noja,
M.Vallaro, Torino 1982, LVI, (eBook 2013): «Il gihàd che i nostri padri,
guardando più alla pratica che alla grammatica, resero con “guerra santa” suona
tradotto letteralmente “lo sforzo”, cui si deve sottintendere aggiunto: “sulla
via di Dio”. La definizione di un dottore dell’Islam è la seguente: il
combattere che fa il Musulmano contro l’infedele col quale non abbia alcun
patto (perciò non col djmmi finchè rimane fedele al patto) allo scopo di
esaltare la parola di Dio altissimo, cioè la fede musulmana riassunta nelle
parole della professione di fede: “Non v’è altro dio che Iddio e Maometto è
l’inviato di Dio” quindi non allo scopo di fare bottino, al quale secondo
alcuni non deve partecipare se nel combattere ha avuto questo scopo».
[25] R.C. MARTIN, War, Peace and Statecraft in Islam, in Just War and Jihad, historical
and theoretical perspectives on war and peace in western and islamic traditions (a cura di J. Kelsay - J.T. Johnson), New
York-Westport-London 1991, 97.
[26] Il termine harb significa sia combattimento, sia stato di guerra, e anche
nelle relazioni intertribali dell'Arabia pre-islamica indicava l'esercizio
della vendetta e della rappresaglia. Vedi M. Khadduri,voce
Harb, in Enciclopédie de l’Islam, ( a cura di P.J. Bearman, Th. Bianquis,
C.E. Bosworth, E. van Donzel, et W.P. Heinrichsvol) III, 184-185. Cfr. AL BUHARI, Detti e fatti, LVI; cfr.
G. DE SANTILLANA - H. von DECHEND, Il
mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, 8a ed.,
Milano 1983.
[29]
Può essere rilevante ricordare che nel puro Islam la concezione del diritto è
puramente monista: qui diritto è solo il fiqh,
cioè quella parte della legge divina (shariah)
che regola l’attività esterna del credente. Altre sfere che a noi sembrerebbero
giuridiche ne restano al di fuori, così il reggimento della cosa pubblica che
resta affidato (in modo non contraddicente alla shariah), al prudente arbitrio del sovrano. Cfr. A. D’EMILIA, Il diritto musulmano comparato con il
bizantino dal punto di vista della tipologia del diritto, in IDEM, Scritti di diritto musulmano (a cura di
F. Castro), Roma 1976, 194.
[30]
Il
Caetani inseriva già il fenomeno dell’ espansione dell’Islam nel più ampio
quadro del moto della civiltà dell’Arabia teso a sfuggire alle sempre più
infauste condizioni climatiche. Le
conquiste arabe sarebbero state quindi, per tale studioso, una vera emigrazione
armata, resa possibile dalla teocrazia fondata da Maometto. Vedi L. CAETANI, Studi di storia orientale, I, Milano
1911, 277.
[31] Nel secolo scorso, tuttavia, vi è stato chi ha negato
ogni rapporto fra potere e sacralità nell’Islam sostenendo che vi sarebbe invece
ammessa la distinzione dello spirituale e del temporale. La tesi, proposta da Shaykh Ali Abdal Razik, sarebbe
secondo questo studioso abbastanza diffusa e, in contrasto con l’insegnamento
corrente, tenderebbe ad affermare che il messaggio originario dell’Islam
sarebbe unicamente di natura religiosa e che tale voleva essere la sola
missione del Profeta. Il potere temporale si sarebbe organizzato solo dopo la
sua morte. Su ciò vedi M. El SHAKANKIRI, Sacralité, Pouvoir et Droit dans l'Histoire
juridique de l'Islam, in Diritto @ Storia, N. 2 – Marzo 2003
< http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/Shakankiri.htm >. La tesi viene avallata anche da A. MECHERGUI, L’emergenza dell’istituzione politica nella storia islamica, in Diritto @ Storia, N. 2 – Marzo 2003 <
http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/MECHERGUI.htm
>. Per il Merchegui, quando i primi
musulmani hanno proclamato Abù Bakr come califfo (khalifa: cioè vicario del profeta o suo successore) sarebbe chiaro
che essi non pensavano che si trattasse di un vicario religioso o di una
successione nella funzione profetica, bensì semplicemente di una trasmissione
dei carichi secolari o temporali.
[32] Già sotto i primi
Califfi, nel periodo che va dal 633 al 640, gli Arabi conquistarono l’Impero
persiano, e gli ex possedimenti romani in Siria ed Egitto. Sotto gli Omayyadi,
l’impero arabo comprese parti del subcontinente indiano e dell'Asia centrale,
il Medio Oriente, il Nordafrica, e penetrando nel Mediterraneo si spinse in
Italia meridionale e nella Penisola iberica, fino ai Pirenei. Il diffondersi
dell’Islam seguì, al seguito del geniale comandante Khalid ibn al-Walid,
l’espansione delle sue vittoriose insegne di guerra. Vedi L. CAETANI, Studi di storia orientale, III, Milano
1914, 387. Cfr. I.M.N. AL-JUBOURI, Islamic
thought. From Mohammed to September 11, 2001, 2010.
[33] CORANO, 3.169; 61.4; 4.77; 9.36.123;
47.4; 8.60. «The moral requirement to
strive (jihad) in the path of God is a fundamental notion in Islam; closely
related to it is the injunction to “command good and combat evil»; così R.C. MARTIN,
War Peace and Statecraft, cit., 93.
[34] I
testi apocalittici, anche nei Paesi cristiani, erano quasi dei manifesti
politico-religiosi: su ciò J. FLORI, L’Islam
et la fin des temps. L’interprétation profétique
des invasions musulmanes dans la Crétienté médiévale,
Paris 2007, 141.
[35] F.M. DONNER, op. cit., 45. Che l’Islam stesso fosse originariamente un movimento apocalittico è stato sostenuto da più d’uno studioso, a cominciare da P.
CASANOVA, Mahomet et la fin du mond: étude critique sur
l’Islam primitif, Paris 1911, 24; cfr. A. GÖRKE, Eschatology, History and the common
Link, in H. Berg (a cura di), Method and Theory in the Study of Islamic Origins, Leiden-Boston 2003,
181.
[36]
Anche qui, vi è stato chi ha sostenuto che avrebbe fornito elementi di
ispirazione la mitzva dell’antico Israele
contro i popoli della terra promessa. Cfr. A.J. WENSINCK, The Oriental
Doctrine of the Martyrs, Amsterdam 1921, 22; M. CANARD, La guerre sainte dans le monde islamique et
dans le monde chrétienne, in Revue
Africaine, 1936, 5 (dell'estr.)
[37] J. JOMIER, The
Bible and Koran, New York 1964, 102-103; F. M. DONNER, The Sources of Islamic Tradition of War, in Just War and Jihad, cit., 37.
[38]
CORANO, XVII.16; Cfr. I. GUIDI (a cura di) Il «Mukhtaṣar» o Sommario del diritto malekita di
Khalīl
ibn Isḥāq al-Jundī, I, Giurisprudenza religiosa ("'Ibādāt"), Milano
1919, 388.
[40]
CORANO, XXII, 38; II, 190-193; A. Bausani,
L’Islâm, Firenze 1978, 62. D.
SANTILLANA, Istituzioni di diritto
musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, I, Roma 1926,
68 ss.
[42] M. KHADDURI, voce Harb, in Encyclopédie de l'Islam, III, Paris, 1966, 184 ss.; nonchè, dello stesso
A., War and Peace in the Law of Islam,
Baltimore, 1955; W. HEFFENING, Das Islamische Fremdenrecht,
Hanover1925.
[43] Benchè tale
trattato fosse stato violato nei tre anni successivi alla sua stipulazione, la
maggior parte dei giuristi si accordarono nel dire che il periodo massimo di pace
con il nemico non poteva passare i dieci anni, cioè la durata del trattato di
Hudaybiya, così come stipulato all'origine. Decennale sarà infatti la durata
prevista per l'armistizio connesso all'accordo
fra Federico II e Al-Kamil su Gerusalemme e i Luoghi Santi. Su ciò E.
KANTOROWICZ, Federico II imperatore,
(tr. it.), Milano 1976, 174; G. VISMARA, “Impium Foedus”. Le origini della “Respublica christiana”, Milano 1950, ora in Scritti di storia giuridica, 7, Comunità e diritto internazionale,
Milano 1989, 94-95. Ogni trattato con i non credenti è dunque una più o meno
lunga tregua.
[44] CORANO, XVI.9;
IX.4; in questo versetto, viene imposto al fedele di annunziare a quelli che
non credono un castigo doloroso, facendo eccezione per quelli, fra i
politeisti, coi quali è stato stretto un patto speciale e che non lo hanno in
alcun modo violato nè hanno prestato soccorso ad alcuno contro i fedeli.
[46]
D’altra parte, le vicende interne al mondo musulmano furono, sin dall’inizio,
assai aggrovigliate. Con l’assassinio del quinto califfo Ali (genero di
Maometto) nel 661, la funzione di guida dei Musulmani passò alla casa degli
Omaiadi, che fecero di Damasco la loro capitale. Quando il figlio di Ali,
Hussein – che nel 680, come nipote di Maometto, aveva avanzato la sua pretese
al Califfato – fu annientato a Kerbela (attuale Iraq) assieme ai suoi seguaci,
il partito di Ali ebbe i suoi martiri. Di qui ebbe inizio la Scia che, rinnegando tutti i Califfi
successivi ad Ali, finì con lo sviluppare – sotto l’influenza persiana – una
propria confessione religiosa all’interno dell’Islam. Col termine Sunnah, che si riferiva all’esempio dato
dallo stesso Maometto nel corso della sua vita, venne indicata la confessione
dei Musulmani “ortodossi” che non seguirono la Scia. Sulle diverse fonti del diritto musulmano vedi E. BUSSI, Principi di diritto musulmano, Bari
2004, 28 ss.
[47]
E’ lo amân, non un principio generale
teso a sancire la loro inviolabilità, che protegge gli ambasciatori, alla
stessa stregua dei mercanti. K.H. ZIEGLER,
Völkerrechtsgeschichte. Ein Studienbuch,
München 1994, 80.
[48]
Si veniva così a costituire uno stato di Hudna,
caratterizzato dall’astensione da ogni ostilità. Nel diritto musulmano il
termine richiama l'idea di un accordo internazionale il cui obiettivo era di
provocare un cessate il fuoco e fornire le condizioni preventive per la pace
fra Musulmani e non Musulmani senza che il territorio di questi ultimi
divenisse parte integrante del dâr-al-Islam.
La Hudna, infatti, «implique
une idée de calme, de paix … dont la signification générale en droit musulman
est que les parties intéressées s’abstiennent de toute hostilité entre elles.
Le processus conduisant à un traité de paix avec l’ennemi est appelé muhādana
ou muwādaʿa, mais l’instrument de la paix
est la hudna
(traité de paix)». Vedi M. KHADDURI, voce Hudna, in Encyclopédie de l’Islam. Brill Online, 2016. Reference. 24
February 2016 < http://referenceworks.brillonline.com/entries/encyclopedie-de-l-islam/hudna-SIM_2932 >. Cfr. G. WEIGERT, A
note on Hudna: Peacemaking in Islam, in War and Society in the Eastern Mediterranean
7th-15th Centuries, a cura di
Y. Lev, Leiden-New York-Köln 1997, 401.
[49] H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Bruxelles
1937, tr. it. Maometto
e Carlomagno, Roma-Bari, 1976, 153. Questa "chiusura" e
contrapposizione sarebbe la radice del costituirsi, in Occidente, di una nuova
Comunità di popoli, i cui membri si riconoscono sempre più, oltrechè per un
diverso e più elevato grado di associatività, anche per un complesso di norme
volte a definire i rapporti reciproci e destinate a costituire il crogiolo del
moderno diritto internazionale. Cfr. Vedi G.
Vismara, “Impium Foedus”, cit., 81; cfr., dello stesso A. Problemi storici e istituti giuridici della
guerra altomedievale, in Ordinamenti
militari in Occidente nell’alto Medioevo, Spoleto 1968, 496.
[50] «Dalla pace tutti traggono vantaggi: individui,
famiglie, popoli, l’intera famiglia umana. Risuonano ancora oggi severamente
ammonitrici le parole di Pio XII: "Nulla è perduto con la pace. Tutto
può essere perduto con la guerra" ...Nelle assemblee più alte e
qualificate considerino a fondo il problema della ricomposizione pacifica dei
rapporti tra le comunità politiche su piano mondiale: ricomposizione fondata
sulla mutua fiducia, sulla sincerità nelle trattative, sulla fedeltà agli
impegni assunti. Scrutino il problema fino a individuare il punto donde è
possibile iniziare l’avvio verso intese leali, durature, feconde». Lettera
enciclica Pacem in Terris del sommo
pontefice Giovanni PP XXIII (11 aprile 1963).
[51] «Tra i segni di speranza va pure annoverata
la crescita, in molti strati dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità
sempre più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra
i popoli e sempre più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma “non violenti”
per bloccare l'aggressore armato. Nel medesimo orizzonte si pone altresì la
sempre più diffusa avversione dell'opinione pubblica alla pena di morte anche
solo come strumento di “legittima difesa” sociale, in considerazione delle
possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il
crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l'ha commesso, non
gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi». Vedi Lettera enciclica
Evangelium Vitae
del sommo pontefice
Giovanni Paolo II (25
marzo 1995).
[52] «Omnium vestrum nosse volumus charitatem,
quoniam quisquis (quod non optantes dicimus) in hoc belli certamine fideliter
mortuus fuerit, regna illi coelestia minime negabuntur». Si tratta di una
lettera diretta all’imperatore Lodovico, nella quale il Papa scriveva anche: «Scire vos oportet, quod nunquam ab aliquibus
nostros homines sinimus opprimi; sed si necessitas illis incurrerit,
praesentialiter vindicamus; quia nostri gregis in omnibus ultores esse debemus,
et praecipui adiutores». Vedi Leonis
papae IV epistolae et decreta, Ep. I ad exercitum Francorum, in MIGNE, P.L., vol. 110, col. 669; J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Venetiis,
MDCCLXIX, XIV, col. 888. Il principio si sarebbe tradotto nel canone grazianeo
c.8, C.XXIII, q. VIII.
[53]Migne, P.L., CXXVI, col. 816; M.G.H., Epistole, V, 601; cfr. inoltre G. Vismara, Bisanzio e l'Islam: per una
storia dei trattati tra la cristianità orientale e le potenze musulmane, in
Scritti di storia giuridica, Milano
1987-1996, 7, 151; Idem, Impium Foedus,
cit., 62 ss.
[54]
Sesto Imam fatimide, dal 1003 afflisse cristiani ed ebrei con disposizioni vessatorie che giunsero sino
alla confisca di proprietà religiose e luoghi di culto, e ordinò – nel 1009 – la distruzione della Basilica del Santo Sepolcro.
[55]
In tema vedi J. FLORI, La guerre sainte. La formation de l'idée de croisade
dans l’Occident chrétien, Paris 2001; per la cronologia delle spedizioni
arabe in Sardegna vedi M.G. STASOLLA, Arabi
e Sardegna nella storiografia araba del Medioevo, in Studi Magrebini, XIV, 1982, 1-40.
[56]
E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, (Cagliari 1970 =) Milano 2002 (con introduzione di G.
Grasso); P. GROSSI, Le situazioni
reali nell’ esperienza giuridica medievale. Corso di Storia del Diritto, Padova
1968, 160 ss.; M. CARAVALE, Ordinamenti
giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, 157; A.J. GUREVIC, Le
origini del feudalesimo, Bari 1990, 56-57.
[57]
L. BUSSI, Il problema della guerra nella
prima civilistica, in A Ennio
Cortese, Roma 2001, 129.
[58] E. BUSSI, Evoluzione storica, cit., 169-171, 176-177. Cfr. M. PRIETZEL, Kriegführung im Mittelalter. Handlungen,
Erinnerungen, Bedeutungen,
Paderborn – München - Wien - Zürich 2006, 27.
[60]
H. BERMAN, Diritto e rivoluzione. Le
origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna 2006, 292. P.
CONTAMINE, La guerra nel Medioevo,
tr. it., Bologna 1986, 117.
[62] Per l’esercizio e il diritto di faida vedi
O. BRUNNER, Land und Herrschaft, Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte
Oesterreichs in Mittelalter, 5a ed., Wien 1965, 59 ss.
[63] LL.FF, II.53, ed Lugduni 1558, 102. A edictali la Glossa precisava: «et ita videtur quod lex ista non habet locum
nisi inter illos qui ei subditi
sunt. Sed nunquid tenet francigenas et alios ultramontanos qui ei non sunt
subditi? Videtur quod non ex eo quod dicit nostro subiecti imperio etc. Sed
dicas quod eos similiter tenet quoniam licet ei non sint sacramento subditi,
sunt tamen ratione Imperii Romani sub quo esse debent, cum ipsi fuerint de
imperio Iustiniani…». Cfr.
E.M. MEIJERS, Les glossateurs et le droit féodal, in Études d’histoire du droit,
hrg R. Feenstra u. H.F.W.D.
Fischer, Leyden 1959, 3-148. Torna
qui il concetto avanzato già nel commento parigino della prima legge del Codice
(Cunctos populos quos clementiae nostrae
regit imperium) attribuito dal
Meijers a Carlo di Tocco: «hic nota quod
alios noluit ligare nisi subditos imperio suo». Vedi E.M. MEIJERS,
L’histoire des principes fondamentaux du
droit international privé à partir du Moyen Age spécialment
dans l’Europe Occidentale, Paris 1935, 52.
[66] C
VIII,IV,1. In tema vedi L. BUSSI, Il
problema della guerra, cit., 126. Sull’importanza della disciplina del dominium fornita dal Diritto Romano per
la sua rinascita medievale vedi M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici, cit., 308 ss.
[67] Così
ad esempio nel famoso episodio della Pace di Bourges, si vede l’arcivescovo
Aimone, promotore della pace, attaccare un castello vicino, in quanto il
signore del castello si era reso responsabile di rottura della pace. Vedi Les miracles de
Saint Benoit, ed. E. De Certain, Paris 1858, 196 ss. = https://archive.org/stream/lesmiraclesdesai00certuoft#page/196/mode/2up.
[68] Innocentii quarti Super Libros quinque Decretalium, II, I de
iudiciis, c.XIII, Novit ille, ed.
Francofurti ad Moenum, MDLXX, 193 v. Interessante in proposito l’inatteso
richiamo che un Rabano Mauro, sul finire dell’ottavo secolo, fa della
magistratura dei feziali di cui si doveva essere ormai quasi persa la memoria:
«Foedus est pax, quae fit inter dimicantes, vel a fide vel a fictialibus
[faecialibus], id est a sacerdotibus dictum: per ipsos enim fiebant foedera,
sicut per saeculares bella». Vedi
RABANO MAURO, De Universo, lib. XX, 1, De bellis, in P.L., III,
col.533-534.
[69]
Vedi Summa "Elegantius in jure divino" seu coloniensis, c. 3, pars
duodecima iterum, cap. 4, ed. Fransen, Città del Vaticano 1986, ed.
Fransen, Città del Vaticano 1986, 216.
[72]
Il quale dai giuristi romani era stato precisato sulla scia del concetto di postliminium:
perchè non si dava prigionia di guerra se non in costanza di un conflitto che
opponesse un nemico in senso tecnico, cioè un altro liber populus;
concetto, quest'ultimo, che sulla base del famoso passo di Proculo, viene
illustrato da Ulpiano con riferimento ai Germani e ai Parti. Al concetto di hostis
si contrappone, per distinzione, quello di praedo, latro, pirata. Così
Piacentino scrive: «Sunt autem
hostes quibus Romanus populus, vel Imperator, vel ipsi nobis bellum indixerunt:
caeteri latrunculi vel praedones appellantur». Vedi Piacentino, Summa Codicis, ad C.
VIII.54, de postliminio et redemptis ab hostibus, cit., 414. La glossa Quinque
sunt genera gentium (ad D. XLIX.15.24, vel praedones) utilizza il
testo di Ulpiano giustapponendo entità eterogenee e affiancando le categorie di
hostis populi romani e di latrones a quelle dei populi liberi
e degli alii cum quibus non habemus usum, cui si applica il postliminium
in pace. E' proprio tale sfasatura, tuttavia, che consente e denuncia
l'utilizzazione del concetto nella realtà medievale.
[74] Sul punto si esprime abbastanza chiaramente
Odofredo che nel suo commento alla l. hostes (D. 50.16.118) identifica
il bellum iuris gentium con il bellum iniziato o subito
dal popolo romano o dall'Imperatore.
[75]Vedi
Heinrici de Segusio Cardinalis Hostiensis (Ostiense), Summa aurea, I, rub. de
treuga et pace, par. quid sit iustum bellum, ed.Venetiis 1624,
col.356.
[76] «Lex autem asserit quod hi quibus populus
Romanus bellum indicit, vel ipsi populo Romano hostes proprie dicuntur, caeteri
latrunculi (ff. de captivis et postlim.) unde videtur quod bellum quod tota die
exercent principes nostri temporis est iniustum». Ostiense, Summa Aurea, I,
rub. de treuga et pace, par. quid sit justum bellum, ed. cit.,
col. 357.
[77] Ostiense, Summa Aurea, I,
rub. de treuga et pace, par. quid sit iustum bellum, ed. cit.,
col.359.
[78] Innocentii quarti, Super Libros quinque decretalium,
II.XXIII de jurejurando, c. XXIX Sicut
et infra, ed. cit., 288 v. La Glossa quinque
sunt genera gentium enumera le
principali condizioni giuridiche a cui la legge hostes fa riferimento:
oltre al populus romanus ed ai latrones vengono individuati anche
i populi liberi e quelli a cui si applica il postliminium anche
in pace. Quest’ultima categoria offre il modo di distinguere tra il bellum,
ossia una guerra formalmente dichiarata contro un nemico riconosciuto come hostis,
e un conflitto che comunque giustifica una risposta in termini difensivi. Di
particolare interesse la posizione di Odofredo è poi di particolare interesse
il suo commento alla lex del digesto relativa ai modo di acquisizione
del dominio. Uno dei modi di acquisizione del dominium riconosciuti
dallo ius gentium è l’occupazione, ed una condizione nella quale tale
acquisizione può verificarsi è la guerra. Orbene, in caso di occupazione
bellica, la legge hostes prevede che possano essere acquisiti solo i
beni dei nemici e che solo in presenza di nemici si possa attivare l'istituto
del postliminium. Sul punto vedi L. BUSSI, Il problema della guerra,
cit., 124-125.
[79]
X.2.2.10. Sul diritto del papa a dichiarare guerra agli infedeli, il da Legnano
parte dalla premessa che tutta la christianitas
è soggetta alla supremazia del pontefice, il quale ha giurisdizione sulla vita
spirituale di ogni individuo, così come l’imperatore la possiede su quella
corporale. Vedi GIOVANNI DA LEGNANO, De
Bello, De Represaliis et De Duello, ed. T.E. Holland (The Classics of International Law),
Oxford 1917, 91 = https://archive.org/stream/tractatusdebello00legnuoft#page/iv/mode/2up .
[81] C.H. BEZEMER,
A Repetitio by Jacques de Révigny
on the creation of the ius gentium, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis,
1981, 305.
[83]Spesso
richiesto di svolgere funzioni di arbitro, anche in ottemperanza a norme canoniche,
il Vescovo si preoccupava anzitutto di rappacificare le parti, cioè si
comportava da mediatore, da amichevole compositore e solo in un secondo momento
come arbitro. «Studendum episcopo est ut
dissidentes fratres sive clericos sive laicos ad pacem magis quam ad iudicium
cohortentur, Statuta ecclesiae antiqua, c.
52, H.T. BRUNS, Canones
apostolorum et conciliorum veteres selecti, I, Berlino 1889, 144. M.R.
CIMMA, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a
Giustiniano, Torino 1989, 71 ss.
[84]
G. BALLADORE PALLIERI - G. VISMARA, Acta
pontificia juris gentium usque ad annum MCCCIV, Milano 1946.
[85]
L. BUSSI, Mediazioni e arbitrati fra
Medioevo ed età moderna, in Diritto @
Storia N.4 – 2005 – Memorie < http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Bussi-Mediazione-e-arbitrati.htm
>; K. BADER, Arbiter, arbitrator seu amicabilis compositor, in Zeitschrift
der Savigny Stiftung für Rechtsgeschichte, Kanonistische Abt., XLVI, 1960,
239 ss.
[86] BARTOLI a
Saxoferrato, Commentaria, Tractatus represaliarum, ed. Venetiis MDCXV, 120 ss.: «Represaliarum materia nec frequens nec quotidiana
erat tempore quo in statu debit Romanum vigebat imperium: ad ipsum vero tamquam
ad summum monarcham habebatur regressus
et ideo hanc materiam legum doctores et antiqui iuris interpretes minime
pertractaverunt. Postea vero peccata nostra meruerunt quod Romanum Imperium
prostratum iaceret per tempora multa et reges et principes ac etiam civitates,
maxime in Italia, saltem de facto in temporalibus dominum non agnoscerent,
propter quod de iniustitiis ad superiorem non possunt haberi regressus,
caeperunt represaliae frequentari et sic effecta est frequens et quotidiana
materia».
[87]
D. QUAGLIONI, Politica e diritto nel
Trecento italiano. Il «De tyranno» di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357). (Con
l’edizione critica dei trattati «De Guelphis et Gebellinis», «De regimine
civitatis» e «De tyranno»), Firenze
1983, 138: «Primum probatur quia licitum est sibi ius dicere propria auctoritate
quando non habetur copia judicis, ut C. de Judeis l. nullus; ff que in fraudem
creditorum, l. ait pretor, § si debitorem; et XXIII, q. ii c. Dominus. Si ergo hoc licet pro singulari
commodo, multo magis ad liberandam rem publicam, ad quam defendendam omnes
admittuntur, ut ff de novi operis nunciatione, l. de pupillo, § finali et l.
sequenti. Preterea, si hoc permittitur cuilibet contra depopulatorem agrorum
vel desertorem militie, multo magis debet permitti contra eos, qui ipsam rem
publicam et eius statum depopulantur et redigunt sub iugo servitutis».
[88] RAFFAELE FULGOSIO, Super prima digesti veteris parte, in D.
1,1,5 ex hoc iure, ed. Lugduni
1654, 8.
[90] Ciò
che si vede chiaramente in BALDO, di cui si confronti il commento al Digesto (In Dig. Vet. Ad D.1,1,5 n25) con il
commento al Codice (ad C 3,36,2
n.76).
[91]
Della cui liceità si interroga la dottrina. Vedi C. ZENDRI, Alberico Gentili
e il De iure belli. Metodo e fonti, in Justice
et armes au XVIe siècle, 10, 2010, 45-63.
[92] «Et hinc patet quod multo magis ex arbitrio principis iuste bellantis pendet continuatio belli…Quarto
de damnis ex bello illatis scito quatuor. Primo quod
damna omnia ex iusto bello illata non solum repugnantibus, sed cuilibetmembro reipublicae contra quem est iustum
bellum absque peccato sunt: nec ad restitutionem tenetur qui intulerunt, etiam si innocentes contigat per accidens damnificari…quia presumitur tota hostis et totam habet pro hoste: et propterea totam damnat ac
diripit». Vedi Summula Caietani reverendissimi Thomae de Vio caietani cardinalis, Venetiis
1551, 43. = https://books.google.it/books?id=qFv8E7KAsDEC&pg=PA689&lpg=PA689&dq=summula+Cajetani&source=bl&ots=5vXiuCGPv7&sig=nhaLDlrUTkvtTIZkFeXpQ7jyJJw&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiG4J69i8LKAhVBtxQKHbuyCEQ4ChDoAQhfMAk#v=onepage&q=summula%20Cajetani&f=false
.
[93]
In tema di rappresaglie vedi G.S. Pene
Vidari, Rappresaglia (storia),
in Enciclopedia del diritto, xxxviii,
403 ss.
[94] P.
HAGGENMACHER, Grotius et la doctrine de
la guerre juste Paris 1983, 306.
[95]
Tali affermazioni venivano fondate su D. 10.4.7,3 e D. 41.2.2. Cfr. ALBERTO DA GANDINO, Tractatus de Maleficiis, rubr. De homicidiariis et eorum pena §13,
ed.H. Kantorowicz, Albertus Gandinus und
das Strafrecht der Scholastik, Berlin 1907, 289: Item pone questionem sepe contingentem de facto. Commune seu
Universitas alicuius castri vel ville commisit homicidium vel aliud delictum,
pro quo singularis persona deberet, si commisisset, personaliter condemnari;
vel eadem, villam, vel castrum combuserunt, ex quibus quis singularis
personaliter coerceretur, ut ff. eod. l. III.§ legis D. 48,8,3,5) et ff. de incendio, ruina,
naufragio, l. qui edes (D. 47,9,9) et ff. de penis l. capitalium § nonnunquam
v. qui ob inimicitias (D. 48,19,28,12).
[96]
Per i problemi connessi al possesso vedi E. BUSSI,
La formazione dei dogmi di diritto
privato nel diritto comune, I, Padova 1937, 93.
[97]
Si invocava in tal senso il dettato di D. 3.4.7: «Si quid universitati debetur, singulis non debetur».
[99]
E’ nota la posizione negativa di Lutero in proposito: la lotta armata contro i
Turchi era destinata a rimanere vana perché equivaleva a combattere uno
strumento scelto da Dio per punire la Cristianità. Vedi MARTINUS LUTHER, Resolutiones disputationum de indulgentiarum
virtute, Conclusio V, in Werke,
Weimar 1883, 1, 534 ss.; la replica alla critica espressa dal Papa con la Bolla
Exurge Domine, in IDEM, Assertio omnium articulorum M. Lutheri per
Bullam Leonis X novissimam damnatorum, ivi, 7, 140-141.
[100]A
porre il problema è un nominalista scozzese J. Mair (o Mayor, ), il quale lo
risolve in funzione della legittimità della evangelizzazione, e del diritto dei
popoli più civilizzati di dominare quelli meno civilizzati. Cfr. P. LETURIA, Maior y Vitoria ante la conquista de America, in Estudios eclesiasticos, XI, 1932, 44-82
(anche in Anuario de la Asociation Fr. de
Vitoria, III, 1930-31). Mentre i nativi Americani consideravano gli europei
quasi come delle divinità, ne venivano considerati quasi non umani: su ciò A.A.
CASSI, Ius Commune tra vecchio e nuovo mondo.
Mari, terre, oro nel diritto della conquista (1492-1680), Milano 2004, 35.
[101]HENRICUS
DE SEGUSIO, In quinque decretalium libri
commentaria, nonchè In sextum
decretalium librum, Venetiis 1581, II, fol. 128 v. X 3.34.8: Mihi tamen videtur quod in adventu Christi
omnis honor et omnis principatus, et omne dominium, et iurisdictio de iure et
ex causa iusta...omni infideli subtracta fuerit et ad fideles translata.
[102]
Per il quale non est quis compellendus ad
fidem. Innocentii quarti Pont. Maximi Super
Libros quinque Decretalium commentaria, III, 34, De voto et voti
redemptione, c.8 Quod super his (c. 8, X, 3, 34), ed. Francofurti ad
Moenum, MDLXX, 429 v.
[104]
A.A. CASSI, Ius Commune tra vecchio e
nuovo mondo, cit., 59 ss e bibliografia ivi citata; K. PENNINGTON, Bartolomé de Las Casas and the Tradition of
Medieval Law, in Popes, Canonists,
and Texts 1150 - 1550 (Collected Studies Series 412) = http://faculty.cua.edu/pennington/Law508/LasCasas2.html.
[105] «Tanta differentia est inter auctoritatem
movendi gladium bellicum et gladium privatum, quanta differentia est inter rem
publicam et privatam in defensionem».
Vedi Sancti Thomae Aquinatis doctoris
angelici opera omnia, VIII, Secunda
secundae Summa Theologiae cum commentariis Thomae de Vio Caietani cardinalis,
Roma 1895, 40, 1, n. 3, 313. = http://archive.org/stream/operaomniaiussui08thom#page/313/mode/1up.
[108] «Principes non solum
habent autoritatem in suos sed etiam
parata victoria et recuperatis
rebus, et pace etiam et securitate
habita, licet vindicare iniuriam ab hostibus acceptam et animadvertere in hostes et punire illos pro iniuriis illatis. Pro cuius probatione notandum quod
principes non solum habent auctoritatem in suos sed etiam in extraneos,
ad coercendum illos, ut abstineant se ab iniuriis; et hoc
jure gentium, et orbis totius auctoritate». F. DE VITORIA, De jure belli, n. 19, ed. Salmanticae MDLXV, 184. = https://books.google.it/books?id=vhyZBkpPXQcC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false.
[109] «Sed respublica habet authoritatem non solum defensionis
sed etiam vindicandi se et suos. Et probatur quia ut Aristoteles tradit (3
Politicorum) respublica debet esse sibi sufficiens. Sed non posset suficienter
servare bonum publicum, si non posset vindicare iniuriam et animadvertere in
hostes. …Pro quo notandum quod perfectum est cui nihil deest, et imperfectum
cui aliquid deest; quod totum est perfectum quid. Est ergo perfecta communitas
aut respublica quae est per se unum totum, in qua non est alterius reipublicae
pars, sed quae habet proprias leges, proprium concilium et proprius
magistratus, quale est Regnum Castellae et Aragoniae et alii similes». F.
DE VITORIA, De jure belli, 5, ed.
cit., 180 v.
[110] «Alii reguli sive principes qui non praesunt
reipublicae perfectae, sed sunt partes alterius reip. non possunt bellum
inferre». F. DE VITORIA. De iure
belli, 9, ed cit., 181.
[111] «Item non maiorem authoritatem habet princeps
supra extraneos, quam supra suos, sed si in suos non potest gladium stringere,
nisi fecerint iniuriam,: ergo neque in extraneos». F. DE VITORIA,De iure belli, 13, ed. cit., 182 v.
[114] Commentarios ad S. T., in
II,II, 64,3, ed. cit., 9, 70 https://archive.org/stream/operaomniaiussui09thom#page/70/mode/1up
[115]
HAGGENMACHER, op. cit., 172; VITORIA,
De iure belli, n. 13: «unica est et sola causa iusta inferendi
bellum iniuria accepta” e richiama S. Agostino; Ibidem, n. 18: “Non solum
haec licent, sed ulterius etiam progredi potest princeps iusti belli quantum
scilicet necesse est ad parandam pacem, et securitatem ab hostibus».
[116]
T. MORO, De optimo reipublicae statu sive
de nova insula Utopia, (Glasguae MDCCL = https://archive.org/details/deoptimoreipubli00more),
trad, ingl. Utopia, (London MDCLXXXIV, https://archive.org/details/utopia1684more)
; JEAN LUIS VIVES De concordia et discordia in humano genere und Liber de pacificatione (Brügge 1529); S. FRANCK Das Kriegsbuechlein des Friedens,
Basel 1539.
[117]
Per es. T. CAMPANELLA, De Monarchia
hispanica (Amstelodami MDCXL) = https://archive.org/details/imageGXIII431MiscellaneaOpal);
IDEM, De monarchia Messiae (Aesii
1633); EMERIC CRUCE', Le Nouveau Cynée (Paris MDCXXIII).
[119]
ERASMO DA ROTTERDAM, Il lamento della pace, a cura di Luigi Firpo, Utet,
Torino 1967 (con la ristampa dell'editio princeps stampata da Froben,
Basilea 1517; riedita anche da Tea, Milano 1993); L'educazione del principe
cristiano in La formazione cristiana
dell'uomo, a cura di Orlandini Traverso, Rusconi, Milano 1989. Sulla
diffusione del pensiero di Erasmo in Spagna, vedi il classico libro di M.
BATAILLON, Erasmo y España. Estudios sobre la historia espiritual del siglo
XVI, Mexico-Buenos Aires 1966.
[120]
A. GENTILI, De iure belli libri tres, I,
III, ed. T.E. Holland, Londini
1877, 14. (= http://www.archive.org/details/dejurebellilibriOOgent ). Vedine la traduzione
italiana a cura di D. Quaglioni: Alberico Gentili il diritto di guerra. (De
jure belli libri III, 1598). Introduzione di Diego Quaglioni. Traduzione di
Pietro Nencini. Apparato critico a cura di Giuliano Marchetto e Christian
Zendri, Milano 2008.
[121]
Nel De re militari et bello tractatus. La
dichiarazione di guerra può essere omessa solo contro i pirati, contro coloro
che il Papa o l’Imperatore hanno dichiarato pubblici nemici e contro i vassalli
federati o alleati del nemico se gli hanno prestato soccorso. Su ciò R.
VENDITTI, Il diritto penale militare nel
pensiero di Pierino Belli, in Un
giurista tra principi e sovrani. Pietrino Belli a 500 anni dalla nascita, Atti
del convegno di studi (a cura di R. Comba e G.S. Pene Vidari), Alba 2004, 46; cfr. G.S.PENE VIDARI, Guerra
e diritto nel pensiero di Pietrino Belli, in Diritto @ Storia 4,
2005 = http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Pene-Vidari-Guerra-Diritto-Pietrino-Belli.htm .
[122] Et itaque scriptum ab interpretibus illud quoque est, proditorie eum agere, qui non indictum movet bellum. A.
GENTILI, De iure belli, II, I, ed
cit., 124.
[123] «Quin et
monitio quaedam bellum praecedere debet,quam nostri diffidationem
vocant. Ea est: praeambula belli adverfario facta significatio et velut citatio
quaedam, qua qui bellum illaturus est, aduerfarium fuum, de bello à se
inferendo, certiorem facit: et ius fuum,ad quod constituto iudicio pervenire
non potest, armis se persequturum testatur. Etenim ut iudiciorum conflictus
sine citatione non constitit: bella quœ non prœcedit diffidatio,ex insidijs
potius quam iure intentata uidentur». Conradi Bruni De legationibus libri quinque, Magonza 1548, 117.
[124]
H. GROTII, De jure belli ac pacis, l.III,
III, V, ed J. Brown Scott, The Classics
of International Law, Washington 1913 (= ed. 1646), 450 (https://archive.org/stream/hugonisgrottiide010grotuoft#page/450/mode/1up) .
[125] S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium libri octo, cit. l. III, cap. IV, § 2, Francofurti et Lipsiae 1744, 359 = https://archive.org/stream/gri_33125011257405#page/n443/mode/2up
, § 8, 6, 9, 15.
[127] Aveva ancora spazio l’idea che non si dovessero stringere alleanze con gli infedeli: «…non utique illis quae
ad benefaciendum infidelibus
nec iis quae ad mutuam utilitatem pertinent aut ad opem ab illis implorandam, nec commixtio nimis arcta cum impiis contagium animis adferat; ne potentia infidelium nimis promoveatur; multo minus ne auxiliis illorum ad nocendum Christianis, quod toties, cum opprobrio Christianae religionis fit, utamur». Vedi U. HUBER, De jure civitatis libri tres, 1684, libro III, sec. IV, cap. III, 619. = https://archive.org/stream/ulricihuberideju00hube#page/620/mode/2up.
[132] Vedi Principes du droit de la nature et des gens
extrait du grand ouvrage de m. DE WOLFF par M. FORMEY, Amsterdam 1758,
libro IX, cap. VI, §§ IV, V; 294 = https://archive.org/stream/principesdudroi01wolfgoog#page/n303/mode/2up
[133] PUFENDORF, De Jure Naturae et Gentium, libro V cap. XIII,
7, ed. cit., 850. https://archive.org/stream/gri_33125011257348#page/n896/mode/1up
[134]
J. VOET, De jure militari, cap I §
VI, 5-6 «Tertium denique, quod ad belli
requiro substantiam est ut rite indicatur, seu ut consilio prius, quam armis
omnia experiamur...» cfr. cap I § XI «Verum
prius omnes, quibus absque vi publica ad sarciendum damnum, aut injuriae
ultionem compelli posse creduntur adversarii, tentandas esse vias» cfr. cap
I § XXV «Caeterum si subsecuto foedere
sublata semel fuerit ac sopita justa belli causa, aut transactum sit de
negotio, quod armorum praebere forte potuisset ansam, liberum cuiquam non
amplius est ex obsoleta illa atque antiquata causa de novo bellandi quaerere
occasionem».
[136]
C. van BYNKERSHOEK, Quaestionum Juris
Publici libri duo, l. I, 25, n. 10, ed. Lugduni Batavorum 1737, 185.
[138]
Cfr. G. ARANGO-RUIZ, voce Controversie
internazionali, in: Enciclopedia del Diritto,
vol. X, Milano 1962, 398-399. cfr. anche W.
SCHÜCKING, Das völkerrechtliche Institut
der Vermittlung, Kristiania MCMXXIII, 18. Anche nella
Convenzione dell’Aja del 18 Ottobre 1907, art. 2, il ricorso alla mediazione è
lasciato ad un apprezzamento discrezionale: «en tant que les circonstances le permettront». Naturalmente un
dovere giuridico di ricorrere a questa intromissione o di chiederla per evitare
un conflitto armato o per mettervi fine può sorgere da speciali disposizioni di
trattati. D. ANZILOTTI, Corso di diritto
internazionale, Padova 1954, 33.
[139]
Così la IIIa Convenzione
conclusa alla Conferenza per la pace all’Aia, del 1907: «Art. 1 Le Potenze contraenti
riconoscono che le ostilità fra esse non devono cominciare senza un
avvertimento preliminare e non equivoco, che avrà sia la forma d’una
dichiarazione di guerra motivata, sia quella di un ultimatum con dichiarazione
di guerra condizionale. Art. 2 Lo stato di guerra dovrà essere notificato
senza indugio alle Potenze neutrali e non produrrà effetto nei loro
riguardi che dopo ricevutane notificazione che potrà esser fatta anche
col telegrafo. Tuttavia le Potenze neutrali non potrebbero invocare la mancanza
di notificazione, se fosse stabilito in modo non dubbio ch’esse conoscevano di
fatto lo stato di guerra».