Università di Cagliari
Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza
LA VENDETTA COME OFFICIUM PIETATIS*
La vendetta, intesa come atto
finalizzato a reintegrare l’equilibrio di una situazione di fatto
alterata da un illecito, è riconosciuta necessaria dall'ordinamento
arcaico di Roma che la permette, e, a volte, la esige, riconoscendole la funzione
di ripristino dell'ordine sociale interno, specie quando il corpo sociale
appare ancora imperniato, più che sulle relazioni interindividuali,
sulle dinamiche tra i gruppi minori. Davanti agli illeciti di sangue, infatti,
essa è perciò deferita ad agnati e gentiles , perché riconosciuta dalla civitas come esercizio di un ineliminabile dovere di
solidarietà (officium pietatis)
del gruppo parentale. Siffatto dovere mantiene un ruolo rilevante anche con il
definitivo consolidamento del monopolio pubblico della repressione criminale,
configurandosi come causa accusationis
idonea a fondare una prevalenza del suo portatore nella scelta dell'accusatore
pubblico e divenendo, infine, obbligo giuridico all'iniziativa criminale
incombente sull'erede dell'ucciso. Al legislatore e alla giurisprudenza di
età imperiale, infine, la nozione di ultio
come officium pietatis perviene (e da
quelli viene utilizzata) non solo come portato delle forme assunte in Roma
dalla Blutrache indogermanica, ma
altresì come prodotto della riflessione di retori e filosofi formati
all'insegnamento della media Stoa, nel cui sistema di pensiero quei concetti si
collocano assumendo - specie sotto il profilo di elementi dello ius naturae - una configurazione del
tutto originale.
Vendetta
è infatti composizione o, meglio, ricomposizione, sia quando appare
unilaterale e libera nelle modalità esecutive e nella
“misura” della retribuzione, sia quando è invece guidata da
norme finalizzate alla tenuta di una compagine sociale politicamente e
giuridicamente organizzata[1].
Soprattutto
nelle società arcaiche essa è infatti il dente per dente,
l’occhio per occhio, il sangue per il sangue.
Siamo
abituati a collocare le locuzioni ora utilizzate all’interno della
nozione di talio, di taglione, che esprime esattamente la retribuzione,
la sinallagmaticità propria della vendetta, prima e più naturale
forma di reazione contro il torto arrecato all’individuo[2].
Ancora
tra sesto e settimo secolo d.C., infatti, dall’erudizione di Isidoro di
Siviglia si ottiene la seguente definizione di talio connessa
esattamente e direttamente a quella di vendetta:
Isid. Orig.
5.24: Talio est similitudo vindictae,
ut taliter quis patiatur, ut fecit. Hoc enim et natura et lege est institutum,
ut ledentem similis vindicta sequatur.
Il
taglione, dunque, essendo similitudo uindictae ne rappresenta la sua
proiezione pratica, cioè la sua giusta misura, derivando da ciò
che ogni reazione al torto che non sia talio (cioè ut taliter
quis patiatur, ut fecit) necessariamente non è natura et lege […]
institutum, ma altro, inidoneo alla composizione e, anzi,
all’inverso destinato ad essere a sua volta compensato con
l’ulteriore esercizio di un’azione vendicatoria[3],
affinché, in definitiva, ledentem similis uindicta sequatur[4].
E
ciò è, per Isidoro, fondato tanto sulla natura quanto sulla
legge; quest’ultima pertanto riproducente, sul piano del diritto
positivo, un precetto dell’altra.
Se
questo è vero, però, significa la conferma, anche per la
cultura giuridica romana, della
tesi che colloca lo sviluppo della nozione di vendetta all’interno di un
fenomeno storico e culturale che prevede come fatto costitutivo di una
qualunque compagine statuale quello che determina l’esproprio della
vendetta dalla disponibilità dei privati e dei gruppi per avocarla a
sé[5].
Sebbene
a siffatta soluzione si dovrebbe giungere analizzando la definizione festina di
talio, che alla sola lex, cioè alla sola norma di diritto
positivo, rimette la fissazione della regola della retribuzione riequilibrante
(Fest. [L. 496] s.v. Talionis …. talio esto. neque id quid significet,
indicat, puto quia notum est; permittit enim lex parem uindictam), non deve
escludersi che, come può ricavarsi dalla definizione isidoriana,
quell’esproprio – che pur non può non riscontrarsi in una
determinata fase dello sviluppo di qualsiasi “diritto penale
statuale” – sembra essere in origine finalizzato non ad escludere
la vendetta come naturale reazione all’illecito ma invece a permetterla e
cioè, riconoscendola necessaria al fine di ripristinare
l’equilibrio che il torto commesso aveva in precedenza spezzato, a
moderarne gli impatti sul corpo sociale, normativizzando il conflitto –
inteso come inevitabile – tra individui o tra formazioni sociali
intermedie composte da quei medesimi individui.
Ciò
significa però anche ripercorrere la strada, certamente non ignota agli
studiosi, che va dalla vendetta alla pena, e cioè la strada che va dalla
libera determinazione affidata agli individui e ai gruppi di bilanciare il
torto con l’azione riequilibratrice, al riconoscimento della
necessità di quel riequilibrio che un ente statuale sovraordinato opera
attraverso l’imposizione di una norma che a quel bilanciamento e a porre
limiti nei quali quel bilanciamento deve avvenire si indirizza[6].
Facendo
perno sulla cultura arcaica romana, viene in aiuto a quanto si afferma
già l’etimo dei termini utilizzabili per esprimere vendetta e
pena:
Per
vendetta, accanto al lemma generalmente utilizzabile – “ultio,
ulcisci” – v’è infatti il sinonimo “vindicatio/vindicare”
che esprime in sé insieme vendetta e rivendicazione, e cioè
potenza ed effetto, pretesa e insieme necessità del riequilibrio del
torto subito[7].
D’altra
parte, nel termine poena sono espresse insieme la nozione di
«prestazione in funzione riparatoria» e quella di «pagamento
del prezzo del sangue»[8].
Pretesa
e insieme necessità del riequilibrio del torto subito (vindicatio/vindicta),
si diceva, ma anche “prestazione in funzione riparatoria” e
“pagamento del prezzo del sangue” (pena). Vendetta e pena tendono
dunque a equivalersi quanto agli effetti sull’offensore e
sull’offeso e a sovrapporsi, l’una (la vendetta) assumendo le forme
dell’altra (la pena statuale) in quanto permessa dalla norma positiva,
l’altra (la pena) avvalendosi, nella sua funzione di emenda,
dell’azione vendicatrice in quanto necessitata dalla norma di natura che
la impone.
Se vi
è, in questa fase, una differenza tra pena e vendetta, questa è
data solo – e quanto però questa distinzione sia rilevante, viene
subito agli occhi – per ’intervento della norma statuale che fissa
le modalità con le quali la pretesa al riequilibrio (sia essa esazione
del sangue o meno) viene introdotta e soddisfatta. È la norma statuale
che limitando e “modalizzando” pretesa ed effetti della vendetta, e
cioè individuando i soggetti legittimati alla pretesa della vendetta e
quelli legittimati ad eseguirla – subordinandola all’accertamento
del se e del quanto sia effettivamente necessario per la retribuzione del torto
commesso – ottiene il risultato di “procedimentalizzare” la
vendetta per trasformarla in pena.
2.
– In definitiva può dirsi che, circa la fase nella quale
può affermarsi coesistente e/o coincidente la poena statuale con
la vendetta privata (vista la prima come diritto e la seconda come dovere,
entrambe riconosciute al gruppo di appartenenza della vittima)
l’esperienza del diritto arcaico romano si presenta, rispetto ad altre[9],
singolare proprio per le modalità di formazione della norma imperativa e
della compagine statale stessa, uniche e peculiari della civitas.
Se
infatti non può assumere carattere di particolarità il fatto che
in una qualsiasi esperienza giuridica venga in esistenza una norma, qualunque
norma, destinata a compiere l’operazione di rendere rilevanti sul piano
di un diritto statuale precetti che si radicano invece assai più
profondamente, direi naturalmente, su un piano pre o extra giuridico[10]
(che, affermandosi come precetti di “doverosità”,
nell’articolazione dei rapporti interpersonali in una società
storicamente e culturalmente definita, possono essere ricondotti, anche o prima
di collocarsi nel diritto “positivo”, a una sfera etico-religiosa)[11],
c’è anche da dire che, nell’esperienza romana arcaica si ha
la possibilità – particolare – di conoscere di siffatte
norme consistenza e portata e di dedurne le rispettive collocazioni
cronologiche, anche riconoscendo le possibili rispondenze che tali norme
“statuali” mostrano rispetto alle “norme” regolanti
realtà sociali sub o pre statuali.
È
noto infatti che la civitas nasce da un fenomeno federativo non di
soggetti ma di gruppi organizzati collettivisticamente, le gentes,
portatori di un’organizzazione politica e giuridica interna, articolata
sui mores come regole consuetudinarie di convivenza, che si subordinano,
nel momento federativo, alla potestà normativa, nuova e autonoma, della civitas,
produttrice di prescrizioni idonee a regolare con un grado sovraordinato i
rapporti tra quei gruppi e, solo di conseguenza, tra i soggetti che ne fanno
parte.
Orbene,
benché non riesca a risultare ancora particolarmente chiara la relazione
che, sui singoli rapporti oggetto di regolamento, sia intercorsa tra i mores
gentilizi e quelli cittadini, o meglio quanto siano difficilmente
riconoscibili le tracce che dei primi (almeno in relazione alle singole gentes)
possono rinvenirsi nei secondi – premesso, tuttavia, che «i mores
manifesterebbero un ordinamento insito nelle strutture stesse della
società civica e precivica […] che corrispondeva […] alla
natura delle cose»[12]
– riesce difficile negare che la vendetta fosse tra gli oggetti
plausibili dei mores maiorum (secondo la definizione di De Francisci[13])
quali ordinamento giuridico delle gentes, «primitiva forma di
controllo sociale dei comportamenti individuali pericolosi per il gruppo»
e che esistesse dunque un insieme di norme, assunte, pertanto, come
preesistenti alla civitas, «quasi mai peculiari ad una sola gente,
a un solo villaggio, ma […] un patrimonio comune che, in misura crescente
veniva saldando insieme in una struttura culturale omogenea più villaggi
e più gruppi originariamente distinti», divenendo, quindi, in
larga misura, «con il sinecismo cittadino […] il sustrato di tutta
la città»[14].
Su
questo sfondo, è di grande interesse la testimonianza del grammatico
Prisciano che, tra quinto e sesto secolo d.C., ricordando le Origines di Catone, riferisce di una norma
del tutto anomala nel panorama di quelle normalmente richiamate per la
repressione originaria dell’iniuria:
Priscian., Gramm., 6.13.69 (Hertz, II, 254): Cato tamen os protulit in IIII originum:
“Si quis membrum rupit aut os fregit talione proximus cognatus
ulciscitur”.
La norma
ricordata differisce notevolmente da
XII Tab. 8.2
(S. Riccobono, FIRA, I, 2a ed., 53): Si
membrum rup[s]it, ni cum eo pacit, talio esto[15]
e da
Gai 3.223: Poena
autem iniuriarum ex lege XII tabularum propter membrum quidem ruptum talio
erat; propter os uero fractum aut conlisum trecentorum assium poena erat, si
libero os fractum erat; at si seruo, CL; propter ceteras uero iniurias XXV
assium poena erat constituta. et uidebantur illis temporibus in magna
paupertate satis idoneae istae pecuniae poenae esse[16].
Non
soltanto, infatti, in Prisciano la talio è retributiva tanto del membrum ruptum (come in Gellio, in Verrio
Flacco/Festo e in Gaio) quanto dell’os fractum – cui, invece, per Gaio (e Paolo), che cita(no) le XII
tavole, non è connessa quella sanzione, risarcendosi l’offeso con
la pena pecuniaria fissa – ma altresì è dato non al (solo?)
soggetto leso, ma (anche?) al cognatus proximus, il diritto di
pretendere (o eseguire) il taglione a fronte dell’uno e dell’altro
illecito e senza che sia prevista, nemmeno in caso di membrum ruptum, la
possibilità stessa della pactio.
Se la
prima delle due anomalie presenti nel passo di Prisciano/Catone qualche
interesse ha suscitato in dottrina[17],
scarse mi risultano le reazioni degli studiosi rispetto alla seconda, per noi
qui, invece, assai più rilevante.
E
tuttavia, già l’analisi della prima parte della norma riferita da
Prisciano indirizza verso una soluzione che non può non far sì
che si legga quella norma in una logica di anticipazione cronologica rispetto a
quella riferita alle XII tavole[18].
Poiché può supporsi con ragione che la pena pecuniaria, prevista
per l’os fractum, sia stata preceduta da una sanzione per
quell’illecito esclusivamente imperniata sulla talio[19]
e poiché, come s’è detto, la stessa pactio non
è nominata in caso di membrum ruptum, può ben darsi che la
norma si collochi in quella fase dei rapporti tra vendetta e pena nella quale
la prima è l’unica forma retributiva prevista o, al limite,
l’unica tollerata e permessa da un nascente e gracile ordinamento
statuale[20]. In
quest’ottica di successione cronologica tra le norme, rappresentative di
fasi di sviluppo sociale e ordinamentale, viene a chiarirsi meglio il
riferimento al cognatus proximus che talione ulciscitur, presente
in Catone/Prisciano ed espressivo dell’imputazione al gruppo parentale
della pretesa al risarcimento sotto forma di vendetta di sangue (il richiamo
alla cognatio, come l’uso di ulcisci, mi sembrano,
perciò, fortemente significativi), che si contrappone all’impersonale
talio esto di XII tab. 8.2, rappresentativo, a mio avviso,
dell’evoluzione di una società civile ormai centrata per lo
più sull’individuo che, quando offeso, può, anche senza la
mediazione del gruppo d’appartenenza, addivenire alla pactio o, in
mancanza, esigere (o eseguire) la talio[21].
3.
– Aggiungendo ancora una notazione filologica, e cioè che
permarrà ancora per secoli – in Cesare, Livio e Petronio –
un valore vindicatorio/risarcitorio del verbo “parentare”[22],
può dedursi che per l’originario diritto romano, in similitudine
con la quasi totalità degli antichi diritti mediterranei,
l’iniziativa alla vendetta sia prima del gruppo intermedio, della gens,
del clan, della tribù e solo poi dell’individuo.
Della
rilevanza del gruppo nella retribuzione vendicatoria è ovviamente
assunto paradigmatico la repressione dell’omicidio, non a caso riferita
dagli annalisti a due delle prime norme prodotte da Roma come compagine
statuale e attribuite al secondo dei leggendari re di Roma, Numa Pompilio, il
re legislatore, il quale così avrebbe composto i possibili conflitti tra
i gruppi. Questo apparato normativo verrebbe così a rappresentare, per
ormai consolidata dottrina, «un momento di decisivo progresso
nell’evoluzione del diritto criminale romano, […] in quanto apre
[…] la strada all’avocazione allo stato della persecuzione
dell’omicidio»[23].
L’affermazione
è ovviamente per larga parte condivisibile e tuttavia merita, anche alla
luce di quanto finora si è sostenuto, una qualche veloce rivisitazione.
Si afferma
ormai tralatiziamente che con la prima di tali norme
Fest. (Paul. Diac.) s.v. parrici<di> quaestores [L.
247]: […] nam parricida non
utique is, qui parentem occidisset, dicebatur, sed qualecumque hominem
indemnatum. ita fuisse indicat lex Numae Pompili regis his composita uerbis:
“si qui hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas esto”
si punisca
l’omicida volontario – colui che ha agito dolo sciens – con
la sanzione del “paricidas esto” e cioè, secondo
quella che ormai è lezione dominante tra i romanisti, con il “sia
parimenti ucciso”, dietro la quale sembra palesarsi
l’autorizzazione della città a che si svolga, senza legittima
opposizione del gruppo d’appartenenza[24],
l’esazione per vendetta del sangue dell’uccisore da parte dei
parenti dell’ucciso, impedendo, di conseguenza, (o comunque non
considerando la possibilità) che nella situazione di impurità
derivante dal sangue versato essi si appagassero di una compensazione
pecuniaria[25].
Trattasi
come può facilmente notarsi leggendo l’excerptum festino,
tuttavia, di deduzioni che discendono non dalla diretta interpretazione dello
scarno e criptico testo, ma esclusivamente dalla luce che su di esso getta,
secondo la dottrina maggioritaria, la seconda delle norme riferite a Numa,
quella che punisce l’involontaria uccisione di un uomo:
Serv. in Verg. buc., 4.43: sane in Numae legibus cautum est, ut, siquis inprudens occidisset
hominem, pro capite occisi et acnatis eius in cantione offerret arietem.
Benché
in entrambe le norme numane non si faccia espresso riferimento alla vendetta,
la lex sull’omicidio involontario, se letta nell’ottica
dell’antropologia della vendetta in Roma arcaica, risulta dotata di
maggiore perspicuità e interesse[26].
È un interesse che sorge indirettamente dalla difficoltà di
lettura nel manoscritto originario del commentatore di Virgilio nel quale una
locuzione, in cantione, non altrimenti provvista di senso, è
stata emendata, nel corso del tempo con le apparentemente più congrue in
cautione, in contione, in catlitione[27].
Ne
consegue che, per Numa, nel caso di imprudente uccisione di un uomo,
l’uccisore, in cambio del caput dell’ucciso, dovrà
offrire (anche[28]) agli
agnati di costui il sangue di un ariete, e ciò dovrà fare in
cautione, o in contione o in catlitione.
È
a ben vedere un felice dubbio quello che affligge i filologi e gli storici
circa l’effettivo contenuto della fonte, perché permette di
esemplificare, nei tentativi effettuati di ricomporre il testo nella sua
esattezza, tutti i significati della pena come sostituto statuale della
vendetta privata.
Se si
adotta la lettura di “in cautione”, infatti, si attribuisce
alla dazione dell’ariete la funzione di corrispettivo e di compensazione
che certamente essa deve aver avuto.
Funzione
che però non si perde anche se si leggessero nel manoscritto gli altri
due lemmi.
Se vi si
legge “in catlitione”, infatti, si mantiene come detto la
funzione compensativa dell’offerta dell’ariete in cambio del caput
dell’ucciso, ma si svaluta l’effetto “negoziale”
che è nella prima lettura.
Infatti
“catlitio” è il periodo dell’anno nel quale, a
parere di Tondo, nella Roma arcaica, si concentrava il culto dei morti, sulle
tombe dei quali era dovere dei parenti sacrificare animali. L’uccisore,
patendo la pena statuale di offrire l’ariete, sollevava gli agnati dalla
remissione economica conseguente all’adempimento dell’officium
pietatis, dal dovere della pietas per il defunto, di fatto
adempiendo in loro vece a quel dovere. Il sangue dell’ariete, così
sacrificato, sostituiva, per volontà della norma statuale, il sangue
dell’uccisore permettendo l’adempimento degli officia pietatis proprio
dei parenti di versare il sangue dell’omicida e, insieme, di sacrificare
sulla tomba del morto[29].
Insieme, si autorizzava l’omicida a sostituirsi ai parenti nel
(l’esborso necessario al) sacrificio, facendosi sostituire
dall’ariete nel sacrificio dovuto[30].
Il
pagamento del prezzo del sangue, proprio degli originari significati tanto di
vendetta quanto di pena, era contemporaneamente adempiuto.
Alternativa,
e ormai divenuta quasi tralatizia, è la lettura nel manoscritto del
termine “in contione”. Significherebbe intendere che
l’offerta dell’ariete avvenisse davanti al popolo riunito, appunto,
in contione, così che esso fosse testimone della compensazione
avvenuta, dello spargimento del sangue del sostituto nella pena,
l’ariete, della pacificazione tra i gruppi e dunque
dell’illegittimità di ogni altra residua reazione di un gruppo
sull’altro. Ma anche che fosse giudice nell’accertamento
dell’involontarietà del fatto, dunque della legittimità del
versamento della pena sostitutiva all’esazione del sangue
dell’omicida.
Ne
discende che, letta in ognuno dei modi suddetti e in particolare in forza
dell’ultima integrazione “in contione”, la norma
sull’omicidio involontario (e solo alla luce di questa quella sul paricidas)
manifesti l’avvenuto consolidamento del monopolio statuale nella
repressione dei crimini, di modo che l’esercizio della vendetta (o la sua
esclusione pattizia) da parte dei parenti della vittima si svolga sotto il
controllo della collettività, implicitamente limitandola, ma anche di
impulso o meglio di imposizione della vendetta di sangue, normativizzata,
qualora l’omicidio fosse ritenuto volontario[31].
Ma
proprio perciò non può escludersi la suggestione dell’antica
tesi di Lenel che, vedendo in paricidas il soggetto dell’apodosi,
lo rende come “Bluträcher” (o meglio, come, «der
die Blutrache gegen die Sippe des Mörders vollzieht») e traduce
l’intero imperativo come «es soll ein Bluträcher sein»[32].
Con il che non si nega che con paricidas esto si indichi la sanzione
della morte “parimenti” data, ma se ne esprime più
nettamente la funzione e la natura di vendetta, individuandone nel gruppo
parentale dell’ucciso l’esecutore e in quello dell’uccisore
(benché ovviamente nella persona di costui, ma come membro del gruppo)
l’esecutato. In definitiva, se con paricidas esto si esprime la
particolare forma di talio propria dell’omicidio, coinvolgente i
gruppi e la regolamentazione dei loro rapporti[33],
la norma che contiene quella sanzione può collocarsi in una fase
evolutiva dei rapporti tra vendetta e pena precedente a quella nella quale
può situarsi la norma sull’omicidio involontario, connotata,
all’inverso, dalla pactio e dall’evidente statualizzazione
della repressione[34].
Per
mezzo di quella norma, dunque, la compagine statuale, poiché e quando
inevitabilmente la recepisce, non vuole la scomparsa della vendetta, né
vuole sottrarla ai gruppi per esercitarla in nome della res publica, ma
vuole regolarla e graduarla, e in più esigerla e imporla, avendola
riconosciuta come dovere ineliminabile del gruppo parentale, perché
adempimento necessario alla ricostituzione della perduta purezza
dell’intera comunità[35].
In
conclusione l’apparato normativo “statuale” regolativo
dell’omicidio, le leggi di Numa, manifestano, nel loro insieme, al
massimo grado la normativizzazione e la procedimentalizzazione della vendetta
poiché la limitano al riequilibrio del torto e (qualora si accetti la lectio
facilior di leggere “in contione” nel testo corrotto di
Servio) la ancorano all’effettiva ponderazione di tipo processuale
– poiché si tratterebbe così di un accertamento pubblico di
cui il popolo intero è chiamato a giudice – del grado di
rimproverabilità della condotta omicidiaria.
Si
continua a riconoscere effettività al dovere solidaristico in capo ai
gruppi, ma lo si instrada verso la pacificazione tra i gruppi stessi. Lo
strumento usato a questo fine è il processo nel quale, quindi, quel
dovere di vendicare, quella solidarietà necessitata dal legame di
sangue, l’officium pietatis, nell’applicazione della
medesima norma statuale repressiva dell’omicidio, diviene insieme pretesa
alla pena ed esecuzione della pena stessa.
4.
– Anche con il definitivo consolidamento del monopolio pubblico
della repressione criminale, e, addirittura, a partire dalla tarda repubblica,
quando si afferma un sistema processuale criminale di tipo dichiaratamente
accusatorio, la vendetta di sangue, quale officium pietatis, mantiene un
rilevante valore, se non, certo, come esecuzione della pena, come pretesa alla
stessa.
Come ho
comunque già avuto modo di sostenere[36],
tale rilevante valore non può, però, essere esteso fino a rendere
la vendetta elemento strutturale delle forme processuali di età
repubblicana e, poi, imperiale. È di Kunkel, all’inverso, la tesi
che giunge ad identificare, appunto, nella vendetta privata la finalità
propria del processo criminale in ogni sua fase evolutiva, tanto da ridurlo a
«Instrument der Rache»[37]
e, sulla sua scia, è di Cantarella l’affermazione per la quale
«la permanente concezione del processo criminale come strumento della
vendetta è evidentissima»[38].
Difatti,
già dall’avvento del processo comiziale non v’era più
spazio per dubitare che ogni procedura finalizzata all’irrogazione di una
pena fosse pubblica. Il fatto che – con l’introduzione dei publica
iudicia – iniziatore del procedimento debba essere necessariamente il
quivis e populo (data l’assenza di un organo della pubblica accusa
nell’ordinamento processuale romano del periodo), non privatizza la
natura dell’azione introduttiva e del processo, nemmeno quando
all’accusa venga la vittima o il parente della vittima del crimen,
cioè quando si esercita la “vendetta” privata, come pretesa
processuale alla pena. E ciò anche quando trattasi di vendetta di sangue
– e in particolare nel caso del crimen di omicidio – attorno
alla cui persecuzione “privata” Kunkel articola la sua idea di un
«privates Kapitalverfahren» in età repubblicana[39].
Poiché,
nella quasi totalità delle procedure ex legibus iudiciorum publicorum,
tanto la vittima quanto i parenti di questa vengono alla postulatio dell’accusa
in qualità di quivis e populo, l’interesse (privato) di
ciascuno di questi all’iniziativa processuale, concorrendo con quello pubblico
(essendo anche il soggetto leso, in quanto civis, “Gemeindevertreter”[40]),
viene solo valutato dal magistrato che presiede il tribunale in termini di
possibile prevalenza del suo portatore su tutti i terzi che si propongano in
alternativa.
Viene
così a collocarsi la vendetta tra le causae accusationis (suis
iniuriis o ulciscendi gratia, rei publicae o patrocinii
causa[41]),
ponderabile con le altre nella divinatio destinata alla scelta del
più idoneo tra gli aspiranti accusatori[42].
Considerando,
però, che anche il dichiararsi portatore di una causa accusationis diversa
dall’ultio, comporta di per sé il lamentarsi comunque
soggetto passivo di un’iniuria, direttamente come parte lesa o
indirettamente come civis offeso dalla stessa commissione del crimen,
mi sembra che si possa ancora dire che la comparazione tra le iniuriae subite
dai diversi postulanti in sede di divinatio si dimostri null’altro
che la ponderazione tra differenziate istanze di vendetta.
In
questo senso è ben possibile che il consenso e l’approvazione che
riscuoteva sul piano sociale e culturale[43]
rafforzava, in quella fase preprocedimentale di selezione, la già
esposta possibile prevalenza dell’ultio, sempre ribadita nelle
fonti giuridiche e retoriche del periodo quale plausibile garanzia per la
migliore soddisfazione dell’interesse pubblico alla punizione del reo.
Attribuita
la funzione di pubblico accusatore a qualsiasi cittadino, cioè,
l’ordinamento tende generalmente a riconoscere prevalenza
nell’aspirazione a quel ruolo a chi sia maggiormente interessato
all’irrogazione della pena, obiettivo primario dell’ordinamento, e
con ciò, ad ampliare l’area di costoro oltre a quella di chi
intende vendicarsi, con il processo, del torto subito con la commissione del
reato per cui si accusa, fino ad includervi quella di chi intende vendicare in
tal modo un qualsiasi torto subito in precedenza e addirittura dissapori
fondanti consolidate e risalenti inimicizie familiari[44].
Solo in
questi limiti, (e, cioè, tenendo conto che è definito ultor anche
chi accusa per un crimen non di sangue per cogenti doveri morali –
officia – che trovano fonte nelle regole proprie di rapporti
interpersonali non necessariamente connessi alla famiglia[45])
può concordarsi con Yan Thomas circa l’esistenza di un
collegamento funzionale tra accusatio e vendetta, per cui
l’accusa, rappresentando il momento di «laïcisation des
pratiques vindicatoires»[46],
si presenta come una semplice modalità della vendetta, tanto da essere
configurata come una «vengeance reglée sur une procedure»[47],
da affidare dunque preferibilmente al parente più stretto.
Nell’ambito
di quanto fin qui detto deve effettivamente considerarsi «theoretische
Äusserung über die Rache»[48]
l’assunto espresso in
Cic. de inv. 2.66: […] ‘vindicationem’, per quam vim et
contumeliam defendendo aut ulciscendo propulsamus a nobis et nostris, qui nobis
esse cari debent, et per quam peccata punimur.
La
necessità di vendicare un torto subito è radicata nel desiderio
di ritorcerlo contro il reus. La vendetta, ora solo processuale,
è legittima sia quando si sono direttamente subìte le conseguenze
di un illecito, sia quando si difendono le ragioni di un soggetto racchiuso in
una cerchia più o meno ampia di persone collegate da vincoli di sangue o
più latamente etici con colui che se ne fa carico (i nostri, qui
nobis esse cari debent).
Ciò
significa altresì, che, quando la vindicatio si sostanziasse in
un’accusa pubblica, essa si indirizzerebbe a soddisfare un interesse
personale diretto (vendicando un torto personalmente subito) o di uno indiretto
di ripagare l’offensore della sofferenza patita dai nostri.
Che in
quest’ultimo caso si tratti di un dovere cui il civis è
chiamato, sta già nel “debent” utilizzato da Cicerone
nello specificare l’area di chi è necessario defendere e ulcisci;
che, poi, si tratti effettivamente di un officium e che tale officium
sia sostanziato dalla pietas che si nutre per chi è racchiuso
in quall’area di soggetti, si deduce da quanto immediatamente precede nel
discorso ciceroniano:
Cic. de inv. 2.66 […] ‘pietatem’ quae ergo patriam aut
parentes, aut alios sanguine coniunctus officium conservare moneat.
Così
lo stesso Cicerone, pur difendendo Celio da un’accusa di omicidio, scusa
l’accusatore Atratino, figlio del defunto, perché «si
voluit accusare, pietati tribuo»[49].
Ed è sempre lo stesso Arpinate che, ancora una volta quale difensore (di
Aulo Cluenzio Abito) in una causa di veneficium, giustifica con la pietas
l’accusa del suo avversario, il giovane Abbio Oppianico, finalizzata
anch’essa a vendicare la morte del padre[50].
È l’adempimento dell’antico officium pietatis sotteso
alla vendetta che spinge cioè i giovani ad accusare[51]:
ingiustamente per il retore, ma riconoscendo loro in entrambi i casi la
medesima iusta causa accusationis che aveva loro permesso di ottenere da
parte dell’autorità giudicante l’autorizzazione a rivestire
il ruolo di accusatore in quella controversia.
Sebbene,
dunque, non possa ammettersi – visto il regime di legittimazione diffusa
cui si conforma la stessa lex Cornelia de sicariis et veneficis –
che fosse prevista una riserva d’accusa a favore dei parenti
dell’ucciso al fine di soddisfare il loro «Racheanspruch»[52],
l’officium di solidarietà familiare (“pietate”),
il cui adempimento, come s’è visto, tende prevalentemente a
motivare l’accusa d’omicidio[53],
può effettivamente essere visto come la traccia residua di una
situazione primitiva che, «mentre al cittadino apre la possibilità
dell’accusa, ai congiunti del defunto tale accusa impone, sia pur con
obbligo derivante dalla semplice solidarietà di gruppo, e sprovveduto
come tale di pratica sanzione»[54].
Ciò in virtù di una deduzione imposta, appunto, dalla struttura
del processo per quaestiones, il quale, richiedendo l’attivazione
di un privato nelle vesti di accusatore, avrebbe, come detto, vieppiù
permesso – quando e nei limiti nei quali fosse previsto dalle norme di
legittimazione delle leggi regolative dei publica iudicia – che il
cittadino si facesse promotore della vendetta del parente.
5.
– L’officium pietatis incombente sul civis di
esercitare l’ultio mortis del congiunto e, pertanto, ratio tendenzialmente
prevalente nelle divinationes di età repubblicana a proposito
delle accusationes di omicidio, definito correttamente da Luzzatto quale
“obbligo sprovvisto di pratica sanzione”, è trattato,
dunque, ancora dall’ordinamento come un semplice dovere morale[55],
perché non espresso in una norma giuridica.
Medesima
configurazione è mantenuta alla vendetta (ricompresa nel più
ampio genere dell’interesse personale all’accusa) nelle procedure (causae
cognitiones) di età imperiale finalizzate alla scelta
dell’accusatore[56]:
D. 48.2.16 (Ulp.
2 de off. cons.) Si plures existant, qui eum in publicis iudiciis
accusare volunt, iudex eligere debet eum qui accuset, causa scilicet cognita aestimatis
accusatorum personis vel de dignitate, vel ex eo quod interest, vel aetate vel
moribus vel alia iusta de causa.
Ove la
vendetta (“processuale”, ancora suddivisa nella duplice partizione
ciceroniana del defendere aut ulcisci nos et nostros) gioca un ruolo
totalmente innovativo[57]
del sistema è nel fungere da esplicita (perché probabilmente
oggetto di una previsione normativa in proposito introdotta con la lex Iulia
iudiciorum publicorum[58])
causa di legittimazione straordinaria per gli incapaci altrimenti esclusi
dall’accusa[59].
La
regola sarà compendiata, in età severiana, da Macro in
D.48.2.8 (Macer 2
de publ. iud.) Qui accusare
possunt, intellegemus, si scierimus, qui non possunt. itaque prohibentur accusare
alii propter sexum vel aetatem, ut mulier, ut pupillus: alii propter
sacramentum, ut qui stipendium meret: alii propter magistratum potestatemve, in
qua agentes sine fraude in ius evocari non possunt: alii propter turpem
quaestum, ut qui duo iudicia adversus duos reos subscripta habent nummosve ob
accusandum vel non accusandum acceperint: alii propter condicionem suam, ut
libertini contra patronos». (eod.) 11 pr. hi tamen
omnes, si suam iniuriam exequantur mortemve propinquorum defendunt, ab accusatione
non excluduntur.
Quando,
poi, trattasi del solo mortem propinquorum defendere, l’ultio diviene
causa di espressa esenzione dalla poena calumniae di tutti coloro
(capaci o meno) che intraprendono un’accusatio fondata su quella ratio[60].
E si ha così l’esatta manifestazione della rilevanza dell’officium
pietatis, cioè della doverosità della vendetta processuale,
nell’ordinamento processualcriminale imperiale. Questo, infatti, è
riconosciuto e recepito sul piano del diritto positivo (trasformandosidunque da
imperativo etico in dovere giuridicamente rilevante), poichéquesto non
può sottacere la necessità cui risponde quel dovere: solo infatti
chi è tenuto da un dovere ad agire, da un obbligo etico irrinunciabile e
apprezzato dalla compagine sociale, quale la vendetta, può essere
esentato dalle eventuali conseguenze negative derivanti dall’esercizio di
quel compito.
Natura
di obbligo giuridico in senso stretto[61],
tuttavia, l’officium pietatis – ultio mortis ottiene, ancora
in età imperiale, con l’introduzione della sanzione dell’ereptio
dei bona hereditaria che colpiva l’erede che avesse omesso di
vendicare, attraverso l’esercizio di un’accusa, la morte del de
cuius.
Per la
necessità di tenere distinti obblighi giuridici sanzionati e doveri
morali (quand’anche questi avessero assunto giuridica rilevanza)[62],
diversamente da quanto si è invece da altri sostenuto, tale sanzione non
può essere configurata come l’estensione di una pena
precedentemente irrogata, per le medesime ragioni, al congiunto[63],
in capo al quale, come si è già detto, l’adempimento
dell’officium di vendetta produce gli effetti di legittimazione
straordinaria all’accusa, per l’incapace, o, anche quando capace,
di esenzione dal periculum calumniae, ma mai, invece, di costrizione ad
un’azione processuale che resta, anche per il parente, assolutamente
facoltativa.
L’accusa
coattiva dell’erede sembrerebbe, pertanto, il riflesso sul piano
dell’ordinamento di un officium (pietatis[64])
– definito nelle fonti «debitum officium»[65]
perché chi non lo assolve è «ingratum»[66]
– parallelo ma di natura diversa rispetto a quello esercitato dal
parente con l’accusatio volontaria[67].
L’adempimento sotto forma di accusatio sia dell’uno che
dell’altro officium risulterebbe così pienamente funzionale
al sistema processuale romano dei publica iudicia, fondato
sull’esclusiva iniziativa del civis poiché strutturalmente
sprovvisto di organi pubblici preposti all’esercizio dell’azione
penale.
Le due
diverse tipologie di ultio necis processuale che così vengono ad
affiancarsi, quella obbligatoria e sanzionata[68],
motivata dall’esercizio dell’officium heredis, e quella
libera e volontaria con la quale si esplica l’officium pietatis del
congiunto, – con la prima costringendo all’accusa, con la seconda
ampliando l’area di coloro i quali a quell’accusa possono accedere
– si rendono parimenti strumenti del primario interesse
“statuale” alla punizione del reo; interesse soddisfatto attraverso
il riconoscimento che l’ordinamento attribuisce alla necessità (e
perciò giustificandosi anche la sanzione dell’ereptio,
segno del disvalore anche sociale per l’omissione) della soddisfazione
del “naturale” (e privato) ancestrale diritto-dovere alla vendetta
di sangue.
6.
– Vien dunque da concludere, quale sintesi del nostro veloce (e
sicuramente non esaustivo) excursus sul ruolo giocato dalla vendetta
nello svolgersi secolare dell’esperienza giuridica dei romani, affermando
che l’ultio si origina forse già negli ordinamenti
precivici come dovere di solidarietà di gruppo per trasformarsi, procedimentalizzandosi,
in ratio rilevante nella scelta dell’accusatore –
cioè del “vendicatore pubblico” – nella procedura
criminale tardorepubblicana, per poi, infine, assumere (o tornare ad assumere)
definitiva rilevanza giuridica, allo stesso scopo, in quella di età
imperiale.
Deve
però aggiungersi, poi, che l’esercizio della vendetta, nelle
testimonianze più antiche, sembra rimesso al gruppo quale che sia
l’iniuria patita da un suo componente, laddove, invece, per
l’evidente ragione del dissolversi degli antichi legami gentilizi e della
conseguente individualizzazione dei rapporti sociali, tende successivamente ad
articolarsi nella rivendicazione che il soggetto può avanzare a che si
ritorca contro l’offensore il torto (qualunque torto) personalmente subito
e in quella che può esercitare per l’offesa subita dal parente.
Mentre la
prima delle due tipologie di vindicatio è tuttavia riconosciuta
quale legittima pretesa al risarcimento dal diritto penale privato e, insieme,
quale causa idonea (e, talvolta, esclusiva) a rivestire il ruolo di
rappresentante della pretesa “statuale” alla repressione
dell’illecito nel processo penale pubblico, la vendetta dei nostri,
per le medesime ragioni, tende a configurarsi inevitabilmente come residuale,
trovando esclusiva estrinsecazione nella pretesa alla poena per quegli
illeciti per la cui repressione non può agire il soggetto leso: il
“mortem propinquorum defendere” di Macro in D.48.2.11pr.
esprime di quanto ora detto una pratica (se non totalmente esaustiva[69])
sintesi. La vindicatio si specifica così in ultio necis che
entra in questa forma, come si è visto, nello strumentario del
legislatore e dei giuristi, che vi attribuiscono giuridica rilevanza anche per
l’evidente strumentalità che l’esercizio di quella tipologia
di vendetta ha per alcuni scopi dell’ordinamento, e in particolare per
quelli propri del processo criminale. Ma ciò fanno perché i
valori sociali ed etici sottostanti alla vendetta di sangue che entrano in
risonanza con quelle finalità ordinamentali palesano radici profonde
nella storia dei costumi e nella cultura romane.
In
definitiva, al legislatore e alla giurisprudenza di età imperiale la
nozione di ultio (e ancor più quella di officium pietatis)
non perviene esclusivamente per mezzo della mera ricognizione della persistenza
sociale o etica delle forme arcaiche assunte in Roma dalla Blutrache indogermanica,
ma è loro lasciata in dote dal lavorio di retori e filosofi formati
all’insegnamento della media Stoa, nel cui sistema etico, anzi, essi collocano
quelle nozioni ottenendo originali risultati.
Non a
caso, Cicerone tratta, nei modi sopra visti, di vindicatio e pietas (cioè
le componenti e i fondamenti dell’ultio necis come officium)
quali elementi dello “ius naturae”, la cui cogenza innata
non ammette discussioni[70].
E altrove, sempre nel de inventione, connette pietas e officium:
Cic., de inv., 165: pietas, per quam sanguine
coniunctis patriaeque benivolum officium et diligens tribuitur cultus.
Del
pari, si afferma in
Rhet. ad Her. 2.19: Natura
ius est, quod cognationis aut pietatis causa observatur; quo iure parentes a
liberis, et a parentibus liberi coluntur.
Pietas
e ultio, che
pure non appartengono allo strumentario tipico dei filosofi del Portico (dai
quali la cultura della tarda repubblica e del principato mutua il sistema dei
doveri interpersonali e sociali nel quale ha posto rilevante l’officium
pietatis) specificano e finalizzano, quali esigenze prettamente romane, la
nozione stoica di officium[71],
riversandovi contenuti estranei a quella nozione ma propri della storia e della
cultura di Roma, senza, però, corromperne la natura o negarne il
fondamento che si rinviene nello ius naturae[72].
Non
senza resistenza, però, ciò avviene, né contraddizioni.
Difatti
l’inserimento dell’idea di vendetta nel sistema morale stoico si
perfeziona nel pensiero romano tra Cicerone e Seneca, cioè tra
l’ultima generazione della repubblica e le prime due del principato[73].
Mentre
infatti ancora nel pensiero del primo non è chiarito fino in fondo il rapporto
tra l’esigenza di ulcisci mortem (che porta ancora con sé
le tracce dell’originaria Blutrache) e la filantropia universale
cui risponde l’etica stoica[74],
in Seneca la soluzione si colloca senza dubbio sul piano dell’officium-kaqÁkon, e dunque dell’“utilità”
della vendetta[75]:
l’officium di defendere parentes, liberos, amicos e cives,
è necessitato dalla pietas e guiderà l’uomo iudicans
e providens, non colui, però, il quale sarà “affectus
vindicandi cupior”[76].
In
definitiva, tra il Cicerone del de inventione e il Seneca del de ira,
passa il momento della compiuta elaborazione di pensiero che permette la
definitiva recezione della vendetta tra le regole del diritto positivo, dopo
che la sua giustificazione tra le regole dei doveri eticosociali discendeva per
l’Arpinate da una rivisitazione in chiave “romana”,
dell’o„ke…wsij stoica[77]:
se, per il pensiero stoico, la legalità differisce dall’etica,
così che la legge deve essere commisurata ad una norma che sta al di
sopra di essa e che decide del suo valore e della sua intima
obbligatorietà[78],
collocare vindicatio e pietas (quali elementi fondativi di un officium)
sul piano dello ius naturae, costringe il diritto positivo a conformarsi
a quei valori, pena l’“invalidità” della norma che sia
creata da legislatori che non agiscano in base alla loro conoscenza della
grande legge universale (il Logos) e in quanto non partecipino della
divina ragione universale[79].
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[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione “in chiaro” da parte dell’organizzazione scientifica delle “Conferenze Romanistiche Sassaresi” (anno 2015 – MMDCCLXXVIII dalla fondazione di Roma); d'intesa con la direzione di Diritto @ Storia]
* Saggio pubblicato anche in G. Lorini - M. Masia (a cura di), Antropologia della vendetta,
[Università di Cagliari. Pubblicazioni del Dipartimento di
Giurisprudenza. Serie II, 4] Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015,
11-38.
[1] Non a caso, il tema della vendetta,
ampiamente frequentato in passato da penalisti e processualpenalisti,
soprattutto come referente storico nello sviluppo del diritto e del processo
criminale, ha riacquisito assai di recente capacità di attrarre l’attenzione
anche di sociologi e filosofi del diritto, in particolare per il collegamento
che esso mostra di avere con la giustizia retributiva e cioè offrendosi,
da un lato, come referente indispensabile nella messa a punto tecnica e,
più latamente, nell’“ideologia” stessa, della
conciliazione-mediazione (vd. Bouchard -
Mierolo 2005, 1 ss. e, ora, Cosi
2014, 1 ss.) e, dall’altro, come esperienza fondativa della più
recente tendenza nordamericana della “restorative justice”,
utilizzata, tanto per il diritto interno, quanto per quello internazionale (e
specificamente per la persecuzione dei crimini contro l’umanità),
dai cultori teorici e pratici di common law criminale (per tutti, da
ultimo, vd. Haque 2005, 273 ss.
Già così Cantarella
2009, 134 ss.).
[2] Sul termine talio, quale
significante di vendetta, nella cultura arcaica romana, vd. Milani 1997, 12 ss. (cui si rinvia per
tutti i riferimenti alla letteratura sugli etimi).
Per l’esperienza veterotestamentaria (immediato
referente comparativo tra le culture antiche), specialmente in Ex. 21.22-27; Lev. 24.17-22; Deut.
19.15-21 (che si riflettono in Mt. 5.38-42), vd. da ultimo Davis 2005, 37 ss., ove precedente
esaustiva letteratura.
[5] In
termini di estrema sintesi vd., da ultimo, Whitman
1995, 46: «Stage one is the stage of the state of nature. This is the
stage of ordered vengeance and vendetta. In the first stage, clans and/or
individuals exact vengeance, in a systematic and rulegoverned way, when injured
by other clans and/or individuals; in particular, they exact talionic
vengeance, seeking, in the famous biblical phrase, “an eye for an eye, a
tooth for a tooth”. In stage two, the early state emerges. This early
state does not, however, attempt to prevent violence. Rather, it sets out to
supervise the existing system of engeance. Thus, the early state assumes a kind
of licensing power over acts of talionic vengeance, requiring that injured
parties seek formal state sanctions before avenging themselves. In stage three,
the early state itself begins to function as enforcer, taking vengeance on
behalf of injured clans; in Weber’s phrase, the early state of stage three
monopolizes the legitimate use of violence. Only in stage four does the early
state at last move to eliminate private violence».
[7] Vd. Noailles
1940/41, 15; D’Avino 1962,
87 ss. e soprattutto Milani 1997,
13 ss. (ove ancora esaustiva ricognizione di studi e riferimenti etimologici).
Altre osservazioni sull’utilizzazione, nella lingua letteraria
tardorepubblicana, dei termini ultio/ulcisci e vindicare/vindicatio,
in Thomas 1984, 68 e 92 nt. 38.
[10] Così Cantarella 1991, 321: «la regola del taglione
può derivare da una pratica sociale spontanea, e tradursi in una regola
consuetudinaria che limita la vendetta ancor prima che lo Stato sia
nato». Vd. ibidem, 333.
[11] Non a caso, proprio la vendetta di
sangue è individuata da Gernet
2000, 4 ss., come uno dei principali assi su cui costruire la sua (suggestiva
ma controversa e forse non del tutto utile) teoria del “prédroit”,
attagliata alla particolare dimensione degli arcaici diritti greci e articolata
proprio sulla dialettica tra un prima e un dopo, rappresentati dalle pratiche
procedurali magico-religiose e dal sorgere di un diritto sostanziale.
Così per il nostro tema «lo stadio anteriore della
città», come lo definisce l’A., è caratterizzato
anche nel suo «tratto più evidente, se non quello rivelatore
» dal fatto «che i gruppi familiari, opposti l’uno contro
l’altro, regolano i loro conflitti mediante l’intervento di
un’autorità sovrana: è il regime della vendetta di
sangue». Il processo, che risolve il conflitto, è, pertanto,
guerra, laddove (e il richiamo agli sviluppi giuridici anche nel mondo romano
sono notevoli) «la pace è connessa con il contratto (pax-pactum)».
[17] Vd. Herdlitczka
1932, 2070 s., (che, pur tra molti dubbi, giunge a considerare membrum
ruptum come «die schwereren Fälle des os fractum» e
dunque a vedere perciò giustificata l’equiparazione catoniana di os
fractum al più grave caso e la sua riconduzione alla lex talionis);
Mommsen 1899, 115; 809 nt. 2; Kaser 1949, 210 nt. 214 (entrambi fanno
riferimento a un «latinisches Stadtrecht»); Amirante 1991, 64 s.; Diliberto 1992, 210 s.
[20] Völkl
1984, 23 ss. suggerisce conclusioni analoghe a quelle in testo sulla base anche
della considerazione che, poiché Gellio, fonte primaria della
ricostruzione del testo di XII tab. 8.2, certo cultore della letteratura
repubblicana, non utilizza il passo catoniano al fine della ricostruzione del
versetto decemvirale (forse invece ricavato da Labeone: Diliberto 1992, 211), è legittimo che si dubiti che
«Cato auf das Recht der Zwölftafeln bezog».
[21] Non v’è riferimento alcuno
nelle norme (né in quella ricordata da Prisciano, né in quelle
riferibili o riferite alle XII tavole) che la controversia relativa al membrum
ruptum o all’os fractum si risolvesse in un
“processo”. Certo, non può negarsi una qualche
plausibilità alla deduzione di Cantarella
1991, 322, che accertamento dell’iniuria e retribuzione
vendicatoria dovessero (potessero?) svolgersi sotto il «controllo
pubblico». Questo, a parere dell’A. sarebbe stato
«duplice», un primo solo eventuale finalizzato
all’asseveramento della fondatezza delle ragioni di chi si lamentava leso
– qualora l’offensore negasse l’addebito – e un secondo
inevitabile per verificare che la vendetta si limitasse alla misura del
taglione.
[22] Caes. B.G., 7.17.7; Liv. 29.21.2;
Petr., Satyr. 81, su
cui vd., tra gli altri, Voci 1967,
57 nt. 153 e Thomas 1984, 71 e 93
nt. 63.
[23] Così Santalucia 1998, 16 ss. ove altresì esatta e esaustiva
ricognizione della principale dottrina sul tema (assai frequentato da romanisti
e filologi classici).
[24] È su questo punto, io credo, che
si gioca la più rilevante possibilità di vedere la norma numana
(prima ancora, cioè, che per le altre ragioni che considererò
oltre) come rappresentativa di un principio espressivo di una fase precedente a
quella della compiuta formazione della civitas. Ciò vale,
cioè, quando si consideri, sulla scorta del classico saggio di De Visscher 1947, 27 ss., che il
delitto di sangue, nel quale vittima e offensore appartenessero a gruppi
differenti, è naturalmente idoneo a generare conflitto tra questi
ultimi, mossi da contrapposti doveri solidaristici verso i soggetti coinvolti
nel fatto. Tale solidarietà, che comporta responsabilità
ricadente sul gruppo (dell’offensore) nel suo complesso e sui singoli
componenti dello stesso – così come ciascun membro del gruppo
dell’offeso può (anzi deve) rendersi solidaristicamente esecutore
della vendetta –, può, anzi deve, spezzarsi con un atto che
avrebbe i caratteri dell’“abbandono nossale” del colpevole.
Per le ragioni di ripristino dell’equilibrio politico e religioso cui
tende la vendetta e senza che la regola che così viene in rilievo
importi di per sé l’esistenza di alcuna relazione giuridica tra i
due gruppi, cioè il loro appartenere al medesimo ordinamento
politico-giuridico (poiché siffatta idea è inevitabilmente
«familière à tous les clans»), la «livraison
effective du coupable à
la victime ou à ses parents» o, forse, il semplice
allontanamento dell’offensore dal gruppo, «apaise les vengeurs
et facilite la reprise des relations pacifiques des deux clans» e
«épargne au clan de l’offenseur […] la souillure
que lui inflige la présence funeste du coupable», nel mentre
che trasforma la responsabilità solidale del gruppo in
responsabilità individuale del singolo. Sui possibili rapporti tra
allontanamento dal gruppo del colpevole, la sua qualificazione come homo
sacer, la notazione di Fest s.v. Sacer mons [L. 424], per la quale
chi uccide quest’ultimo “parricidi non damnatur”, vd. Garofalo 1997, 20 ss. e ntt.; Fiori 1996, 61 ss., ove è
discussa la precedente letteratura.
[27] Per il testo del commentatore di
Virgilio, vd. G. Thilo-H. Hagen, Servii
grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, B.G. Teubneri,
Lipsiae 1887, viii ss. Per le diverse recensioni dello stesso vd., diffusamente,
Tondo 1973, 110 ss. e,
sinteticamente, Fiori 1996, 14
nt. 54.
[28] Tondo
1973, 112 s. e nt. 68, cioè non solo ai sui, ma in mancanza di
questi anche agli agnati. Starebbe qui la ragione per la quale Servio fa
rifermento agli agnati in caso di omicidio e Prisciano/Catone ai cognati
per la membri ruptio e l’ossis fractio.
[34] E ciò senza tener conto della
ulteriore testimonianza di Serv. in Verg. georg. 3.387: apud maiores
homicidii poenam noxius arietis damno luebat: quod in regum legibus legitur,
in forza della quale la sanzione della dazione dell’ariete (dunque una
sanzione, in fin dei conti, solo patrimoniale; ma, sul punto, vd. le notazioni
di Fiori 1996, 15 e, contra,
di Tondo 1973, 113 s. e ntt.)
sembrerebbe essere (divenuta?) generale poena homicidii, senza
specificare se essa corrispondesse o meno all’involontarietà del
fatto delittuoso. Il che risulterebbe logico accettando l’ipotesi di Pagliaro (1960, 70 ss.), per il quale
l’uccisione dell’offensore sarebbe stata legittimata solo dal
mancato accordo risarcitorio tra le parti. D’altra parte, l’intera
argomentazione in testo è – come la quasi totalità di
quelle che sul tema si sono finora succedute in dottrina – totalmente
dipendente dalla convenzionale asserzione di riferibilità
all’età regia delle norme di Numa, i cui testi, invece – e
in particolare le locuzioni che in essi esprimono l’elemento soggettivo
dell’illecito di omicidio – si fanno più facilmente
collocare in una temperie culturale assai più tarda. Deve infatti
convenirsi con Magdelain 1984,
568, che, da un lato, l’omicidio involontario risulta regolamentato
– con attribuzione a Numa – in forma generale e astratta, laddove
lo stesso principio (comprensivo della sottoposizione alla stessa sanzione)
è invece espresso nelle XII tavole, secondo plurime testimonianze
ciceroniane (Top. 17.64; pro Tull. 21.51; de or. 3.39.158),
con un «cas d’espèce»: XII tab. 8.24a (S. Riccobono, FIRA, I, 62):Si telum
manu fugit magis quam iecit, aries subicitur; mentre dall’altro, la
norma sul paricidas risulta “sospetta” per l’uso
proprio di dolo sciens, «clausule qu’ils ignorent
qu’on retrouve rajeunie sous la forme sciens dolo malo dans les lois des
derniers siècles de la République». Al di là del
problema del testo, tuttavia, e pur con la consapevolezza che siano perlomeno
lacunose le informazioni pervenuteci circa la riflessione giuridica
sull’elemento soggettivo dell’omicidio nell’intera esperienza
del diritto romano, risulta difficile togliere ogni verisimiglianza
all’arcaicità perlomeno dei “principi” espressi nelle
leggi attribuite a Numa, il che, per gli scopi “antropologicogiuridici”
che qui ci si è prefissi, spero sia sufficiente.
[40] Colui il quale esercita l’accusa
assume, per Mommsen 1899, 366,
una «quasimagistratische Gemeindevertretung». Il processo
accusatorio si fonda, cioè, sulla rappresentanza, assunta «nicht
von Amtswegen, sondern aus freiem Entschluss», da parte di un civis,
di un torto subito dalla comunità. L’accusa del cittadino, quindi,
«nicht sein Interesse vertritt, sondern das der Gemeinde», e
ciò perché il civis-accusatore si rende portatore
dell’interesse pubblico alla persecuzione del reo (ibidem, 189 nt.
6; 192 e nt. 4, ove l’accusator è definito «freiwilliger
Staatsanwalt»: vd. Cic. in Caec. divin., 16.50:
l’accusatore è «de populo subscriptor»), sia
esso interessato o meno: è, quindi, comunque gestore di un interesse
alieno e tale interesse è qualificabile come pubblico.
[41] Cic. de off., 2.49-50; Quintil. inst.
or., 12.7.1-3 (ove l’esercizio dell’accusa è definito officium).
Sulle causae rationales, o causae accusationis, vd.
principalmente, Mantovani 1989,
102 ss. e Botta 1996, 124 ss..
[42] Cic.
part. or., 98; Cic. div., in Q. Caec., 3.10; Quintil. inst. or.,
7.4.32-33; Gell. noct. att., 2.4.5. Vd., per tutti, Venturini
1979, 421 nt. 54.
[53] Vd. ancora Cic. de domo, 49:
accusa di Elio Ligo contro Sesto Properzio per la morte di M. Papirio, fratello
del primo. Cfr. David 1992, 212
ss.
[55] Mera «religiös-moralische
Pflicht» per Kunkel
(1962, 127) che trova «la sua migliore sanzione nella morale e nel
costume prima che nel diritto» (così Cancelli 1957-58, 368).
[57] Sull’inderogabilità delle
incapacità all’accusa in età repubblicana, Botta 1996, 233 ss. ove precedente
letteratura.
[59] Vd. D. 48.2.1 Pomp. 1 ad Sab. (donne);
D. 48.2.2 Pap. 2 de adult.; D.43.29.3.11 Ulp. 71 ad ed.; C.
9.1.12 Impp. Diocl. et Maximian. (a. 293) (donne e pupilli); D. 48.2.4
Ulp. 2 de adult. (infami); D. 48.2.12 Ven. Sat. 2 de iud. publ.;
C.9.1.16 Impp. Diocl. et Maximian. (a. 294) (plurimo accusatore); C. 9.1.8 Imp.
Gordianus (a. 238); C. 9.1.10 Imp. Gordianus (a. 239) (milites): vd. Botta 1996, 239 ss., 297 ss.; 329 ss.
(sull’uso di “rem suam” o “propriam iniuriam
exequi”); 371 ss. (sull’uso
di “suas suorumque iniurias persequi”). Sulle
incapacità all’accusa (e, in particolare, di quella di donne e
impuberi), ora, attentamente, Pellecchi
2012, 23 nt. 25; 89 ss. e ntt.; 95 e nt. 120. Vd., anche, Resina 1996, 50 ss.
[60] Vd. generaliter Macer 2 publ.
iud. D. 47.15.4 e D. 48.16.15.2; specificamente, poi, D. 48.1.14 (Pap. 16
resp.); C. 9.46.2 pr. (Imp. Alexander [a. 224]); C. 9.46.4 (Impp.
Carus Carinus et Numerian. [a. 284]). Per le donne, inoltre, parrebbe vigere l’esenzione anche
dalla pena del SC Turpilliano, onde potessero desistere citra abolitionem quando
accusassero “suam suorumque iniuriam” (D.48.1.16.10 Marcian.
l. sing. ad Sc Turpill.), ma vd. anche D. 48.16.4 pr. (Pap. 15
resp.).
[61] Kunkel 1962, 129: «Die
Verpflichtung des Erben, die Ermordung des Erb - lassers durch gerichtliche
Verfolgung des Mörders zu rächen […] nicht nur eine
religiös-moralische, sondern zugleich auch eine Art Rechtspflicht war»;
nt. 468; Nardi 1937, 169 nt. 2:
«l’ultio necis va considerata un obbligo che fa il suo
ingresso in campo giuridico con la natura di officium verso il defunto
garantito da un’ereptio fiscale».
[63] Salvo che costui, ovviamente, non fosse
anche erede dell’ucciso. D’altronde, «solo col conferimento
dell’eredità si ha un quid che può essere vindicato
al fisco». Così Luzzatto
1934, 565. Contra, non sempre limpidamente, Oliviero 1999, 87 ss.
[64] C. 6.35.1 pr. Impp. Severus et
Antoninus (a. 204). Vd. Voci 1960, 57 s.; Botta 1996, 278 ss.; 284 e nt. 101 (ove
precedente letteratura). Ibidem, 289 nt. 109, sui problematici rapporti
tra obbligo di vendetta dell’erede e repressione ex SC Silaniano. Sul
punto, adde, ora, Torrent
2010/2011, 67 ss.
[67] C. 9.46.2.1 (Imp. Alexander a. 224) è
esplicita, ma le differenze si colgono anche raffrontando C. 6.35.9 (Impp.
Diocl. et Maximian. [a. 291] e 10 (Idem [a. 294]). Vd. Botta 1996, 285 ss. e ntt.
[68] Dato che «un vero obbligo di
vendetta non era possibile imporlo che a chi raccogliesse l’eredità
del de cuius»: Nardi
1937, 169.
[69] Deve
infatti aggiungersi all’accusatio per l’omicidio del
parente, evidentemente impossibilitato a vendicarsi da solo, quella per plagium
ex lege Fabia: «la meurtre et la detention comme esclave soient
les seuls cas où une femme puisse avoir recours aux publica iudicia pour
défendre ou venger les siens» (Beaucamp 1990, 42). Vd. C. 9.20.5 Impp. Valerian. et Gallien.
(a. 259) e cfr. Botta 1996, 383
ss.
[70] Cic. de
inv. 2.65: «ac ‘naturae’ quidem ‘ius’
esse, quod nobis non opinio, sed quaedam innata vis afferat, ut
‘religionem’ ‘pietatem’ ‘gratiam’
‘vindicationem’ ‘observantiam’
‘veritatem’».
[71] L’officium ciò che,
dal punto di vista del logos, è l’azione ragionevole,
conforme a natura e giustificabile con buoni motivi tÕ ¢pÒlouqon ™n b…wi (Frontone SVF III.493). Vd. Cic. de
off., 1.101. Cfr. Pohlenz
1959, I, 209. L’officium che incombe all’uomo comune
è ratio probabilis (Cic. de off. I.2.8 (eÜlogoj
¢polog…a).
Così anche per Sen. de ben. 4.33.2, cfr. Moreau 1983, 106), meglio, esso rappresenta in sé il
passaggio, quanto alla sfera etica, tra l’indifferente ed il probabile.
Sull’introduzione del concetto presso l’alto stoicismo se da
Teofrasto (cfr. Gell., N.A. 1.3.28) o Zenone (SVF I.230;
III.493), cfr. Pohlenz 1959, 263
ss. e nt. 15; sul suo sviluppo, 379 ss. (Antipatro, Archedemo ed il concetto di
télos); 409 ss. (Panezio).
[72] Sulla nozione ciceroniana di ius
naturae è probabile anche l’influenza dell’aristotelismo
(vd. Ritter 1961), ma
soprattutto, come detto, della media Stoa e in particolare di Zenone e dei suoi
allievi: Johann 1981; Thomas 1991, 201 ss. Il kaqÁkon
(l’officium)
è anzi l’obbligazione (morale) tipica del ius naturale (Cic.
de fin. 3.20; ad Att. 16.11.4; 16.14.3; Gell., N. A., 1.13.1)
perché è ciò che è preferibile per natura, ma che
può anche essere individuato a seconda della cogenza delle singole
circostanze di fatto, “kat¦ per…stasin” (Aristone SVF I.361).
[76] Sen. de
ira, 12. Vd. Pohlenz 1934, 68
nt. 44. Cfr. Sen., de
ben., 3.18.1: «officium esse filii, uxoris, earum personarum, quas
necessitudo suscitat».
[77] Cfr. Engberg-Pedersen
1986, 145 ss. L’o„ke…wsij è concetto cardine dell’intera filosofia stoica.
Oltre ai classici lavori di Pohlenz
1959, I, 232 ss. (ma cfr. anche Pohlenz
1940, 12 ss.), vd. Pembroke 1971,
114 ss.; Inwood 1984, 190 ss.; Engberg-Pedersen 1990; Radice 2000; Lee 2002; Zagdoun 2005, 319 ss.; Vimercati 2007, 573 ss.; Forschner 2008, 1, 169 ss. La compiuta
realizzazione teorica del modello sarà poi con Ierocle autore (forse
ancora nel II sec. d.C.) di una
'Hqik»
stoike…osij,
vd. Inwood 1984, 151 ss. e Isnardi Parente 1989, 2201 ss. Ora, Delle Donne 1995, 29 ss.