testatina-DInnovazione

 

 

La funzione giurisdizionale della giustizia costituzionale*

 

PIETRO PINNA

Università di Sassari

 

 

SOMMARIO: 1. La giustizia costituzionale e la custodia della costituzione. – 2. L’oggetto della questione di costituzionalità. – 3. L’oggetto della dichiarazione d’incostituzionalità. – 4. Gli effetti della dichiarazione d’incostituzionalità. Abstract.

 

 

1. – La giustizia costituzionale e la custodia della costituzione

 

Kelsen sostiene che l’annullamento disposto dal tribunale costituzionale non è diverso dall’abrogazione e che dunque il controllo di costituzionalità della legge è una funzione legislativa (negativa)[1]. Per Hamilton[2], la cui dottrina è alla base della sentenza Marbury contro Madison pronunciata nel 1803 dalla Corte suprema statunitense, è invece una funzione giurisdizionale, che non implica l’annullamento della disposizione incostituzionale, né lo presuppone. Il giudice, infatti, deve applicare il diritto valido, la legge incostituzionale non lo vincola e dunque la deve disapplicare quando sia in contrasto con la costituzione.

Ma quella di Kelsen non è una teoria della giustizia costituzionale. Kelsen ha elaborato non il giudizio sulla validità delle leggi pronunciato nell’esercizio della giurisdizione, ma la difesa o la custodia della costituzione assicurata da un organo legislativo organizzato come un tribunale. Il progetto di affidare a un tribunale l’abrogazione della legge incostituzionale è sostanziato dalla prognosi che la previsione dell’annullamento scoraggi la prevaricazione maggioritaria e che comunque l’eliminazione della legge irregolare ristabilisca la condizione di un corretto rapporto compromissorio tra la maggioranza e la minoranza parlamentare. Dico «irregolare» e non «incostituzionale» perché l’annullamento protegge la regola che impone la procedura aggravata per approvare le leggi, la forma costituzionale, piuttosto che quella costitutiva della legge; e ciò perché quella forma costringe la maggioranza a compromettersi con la minoranza.

L’annullamento della legge deciso dal tribunale costituzionale è legislazione come l’abrogazione deliberata dal parlamento. La differenza è che il tribunale è imparziale rispetto alla maggioranza e alla minoranza parlamentari. Sicché la sua politica legislativa non prende parte al conflitto che coinvolge i diversi schieramenti parlamentari. Poiché questi sono rappresentativi dei partiti politici, lo scontro parlamentare raffigura il conflitto politico-sociale, il quale è così formidabile che minaccia la pace. Il rimedio alla guerra sociale è il compromesso; e se la regola del compromesso è violata, essa può essere ripristinata soltanto da un intervento esterno, da un’autorità politica imparziale, che difende la costituzione; difende cioè la regola della legislazione che imponendo il compromesso parlamentare evita il cozzo devastante tra le classi sociali. La politica imparziale del tribunale costituzionale dunque sta accanto alla costituzione e se necessario si contrappone a quella parlamentare-maggioritaria, annullando la legge che abbia leso i diritti della minoranza.

Il progetto di Kelsen mira alla custodia della costituzione come quello di Schmitt. Entrambi si propongano la difesa della costituzione dallo scontro distruttivo tra i partiti rappresentativi della borghesia e del proletariato. Tuttavia sono profondamente differenti perché si basano su idee molto diverse circa l’unità politica e di conseguenza su chi debba difendere la costituzione. Schmitt alla custodia di un tribunale costituzionale oppone quella del capo dello stato, di chi è legittimato dall’elezione diretta e con la sua persona esprime l’unità del popolo; e ciò lo rende capace di un’azione politica neutrale, che stabilisce l’unità sospendendo se necessario il normale pluralismo politico[3].

La difesa della costituzione affidata a un organo imparziale organizzato come un tribunale, secondo l’idea kelseniana, solleva la questione importante che esso non è democratico. E’ la principale obiezione che le muove Schmitt. E dopo di lui molti altri, dando luogo a un dibattito ampio e impegnativo, che ha riguardato impropriamente il controllo accentrato di costituzionalità europeo e il judicial review statunitense. Impropriamente perché il giudizio di costituzionalità delle leggi effettuato dai giudici è giurisdizione dei diritti e non difesa politica della costituzione. La discussione così impostata verte essenzialmente su quale sia la specifica funzione politica dell’annullamento della legge incostituzionale, sulla legittimazione di questa politica e sui vantaggi che offre rispetto a quella della democrazia parlamentare; in breve su argomenti difficilmente dominabili con l’apparato concettuale giuridico. E ciò ha acuito lo smarrimento del confine della politica dalla giurisdizione.

In Italia, in più, la difesa della costituzione è stata tematizzata come garanzia costituzionale, che è un concetto vago, i cui contorni sono definiti più in negativo che in positivo attraverso la sua contrapposizione alla funzione di indirizzo politico. Tanto è vero che comprende pure le competenze del Presidente della Repubblica, all’esercizio delle quali concorre il Governo e quindi sono latamente governative. Pertanto, il controllo di costituzionalità delle leggi inteso come garanzia della costituzione è distinguibile dalla politica della maggioranza parlamentare-governativa essenzialmente per il fatto che non è attività di indirizzo politico. In questo modo, la giustizia costituzionale, trascinata nel vortice dei discorsi fluidi sulla forma di governo – discorsi spesso giuridico-politologici dall’incerto statuto scientifico –, sospesa tra la politica e la giurisdizione, è divenuta giuridicamente misteriosa. Non solo. Pure la complessiva disciplina costituzionale della forma di governo è sfuggita all’interpretazione giuridica.

Kelsen teorizza l’equivalenza dell’incostituzionalità all’abrogazione, sollevando così la questione se l’abrogazione giudiziaria sia preferibile a quella legislativa. Il problema non si pone se l’incostituzionalità è un giudizio pronunciato per decidere una controversia secondo il diritto e non un atto potestativo produttivo di diritto e rivolto a difendere l’unità costituzionale. Indago dunque la validità della legislazione assumendo il punto di vista giurisdizionale, cioè di chi interroga la legge per stabilire quale sia la regola valida di un caso controverso. Non mi curo della questione di più ampia portata e spessore se la decisione politica del legislatore (l’abrogazione della legge) debba prevalere su quella giudiziaria (la dichiarazione di incostituzionalità), ammesso che la tutela legislativa sia fungibile con quella giudiziaria dei diritti e che quindi si possa e si debba scegliere tra l’una o l’altra[4].

Il controllo di costituzionalità accentrato europeo è ispirato alla teoria kelseniana: è esercitato da un apposito tribunale costituzionale che decide (soltanto) circa la costituzionalità della legge e la sua sentenza di incostituzionalità ha l’effetto di annullamento della legge illegittima. Pertanto non si sa se sia una funzione giurisdizionale o legislativa o di altro tipo, ad esempio, di garanzia costituzionale come molti credono in Italia.

Peraltro il sistema accentrato di giustizia costituzionale si è evoluto così tanto che somiglia poco o nulla al suo modello teorico elaborato da Kelsen e alla sua prima realizzazione austriaca negli anni venti del Novecento. Il tratto saliente dell’evoluzione è l’integrazione accentuata tra la funzione esercitata dal tribunale costituzionale e la giurisdizione comune che è stata determinata dalla pregiudizialità della questione di costituzionalità nel sindacato in via incidentale. Infatti, il tribunale costituzionale è chiamato a pronunciarsi su un problema relativo alla determinazione del diritto applicabile nel giudizio comune. I giudici, dunque, sono diversi, ma la giurisdizione è la stessa ed è, in ultima analisi, una giurisdizione non sulla costituzionalità della legge, ma sul diritto preteso da chi ha agito in giudizio. Tuttavia, la caratterizzazione in senso giurisdizionale del controllo di costituzionalità accentrato richiede che alcuni profili cruciali di questo sistema siano inquadrabili all’interno della funzione giurisdizionale. Sono: l’oggetto della questione, l’oggetto e l’efficacia della sentenza d’incostituzionalità.

Il giudizio di costituzionalità può essere instaurato in via incidentale, nel corso di un processo comune, o diretta, col ricorso proposto da un individuo – in Spagna, Austria e Germania (amparo, Bescheidbeschwerde, Individualbeschwerde, Verfassungsbeschwerde) che impugna una legge o una sentenza, un ente (stato, federazione, regione, Land) o un organo potere dello stato che impugna una legge, una sentenza o un atto amministrativo. Qui di seguito mi occupo del controllo di costituzionalità incidentale italiano. Tuttavia, molte delle conclusioni cui pervengo possono essere estese al sindacato di costituzionalità accentrato in genere, non soltanto a quello italiano e neppure al solo procedimento incidentale.

 

 

2. – L’oggetto della questione di costituzionalità

 

La questione di costituzionalità in via incidentale sorge perché un giudice ritiene di dover applicare una norma che è perlomeno di dubbia costituzionalità. Per risolverla prima bisogna stabilire se l’interpretazione della disposizione è corretta, perché la costituzionalità della legge dipende dal modo in cui essa è interpretata, oltre ovviamente la disposizione costituzionale parametrica. Il problema di costituzionalità si sovrappone dunque a quello interpretativo della legge. Al giudice costituzionale spetta risolvere il primo e non il secondo ed essi sono difficilmente distinguibili. Le interpretazioni incostituzionali, infatti, sono sbagliate e non si può giustificare una sentenza col diritto incostituzionale, quindi non possono comparire in una sentenza. Tuttavia, il giudice comune è vincolato dalle disposizioni legislative, anche quando queste siano invalide. Il vincolo deriva non dalla sua soggezione alla legge – art. 101 Cost. –, poiché la costituzione è senza dubbio una legge, bensì dalla disposizione – art. 134 Cost. – che attribuisce alla Corte costituzionale la competenza a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi. Sicché, quando dall’enunciato legislativo si possono trarre solamente norme incostituzionali il giudice non può disapplicare la legge e utilizzare la costituzione, ma deve sollevare la questione di legittimità costituzionale. Deve fare altrettanto quando sia invalida la deliberazione dell’enunciato legislativo: pure in questo caso è impossibile, evidentemente, dedurne alcuna norma legittima.

Il fatto che un giudice non sia riuscito a dedurre dalla disposizione di legge una norma legittima per il caso su cui è chiamato a pronunciarsi non significa che questo sia impossibile; un altro giudice potrebbe riuscirci, per lo stesso caso e per uno analogo. Sennonché, seguendo la dottrina del diritto vivente, la Corte costituzionale italiana, per evitare conflitti con i giudici comuni e soprattutto con la Cassazione, si pronuncia sulla costituzionalità della disposizione sulla base non dell’interpretazione che essa considera esatta, ma di quella consolidata nella pratica, principalmente giurisprudenziale, ossia sulle norme effettivamente ricavate dalla disposizione, soprattutto dai giudici. Il giudizio di costituzionalità concerne, dunque, non tutte le norme logicamente ricavabili dalla disposizione, la legge non astratta ma concreta, secondo il significato che le è effettivamente attribuito nel momento applicativo. Solamente se un diritto vivente non si è ancora affermato, la Corte costituzionale propone una propria interpretazione, diversa da quella di dubbia costituzionalità accolta dal giudice rimettente; e in questo caso il suo ruolo non è diverso da quello del giudice comune, poiché la sua interpretazione ha valore meramente persuasivo. In conclusione, il giudizio di costituzionalità considera l’applicazione della legge ai casi concreti sottoposti alla giurisdizione e in particolare quello del giudizio a quo, cioè disposizioni interpretate, norme; e ciò lo inserisce all’interno della giurisdizione, in quanto funzionale, strettamente funzionale, in ragione della pregiudizialità che lo rende ammissibile, all’individuazione del diritto applicabile alla concreta controversia pendente davanti al giudice che lo ha introdotto.

 

 

3. – L’oggetto della dichiarazione d’incostituzionalità

 

La dichiarazione d’incostituzionalità pertanto potrebbe riguardare solamente la norma rilevante nel giudizio a quo, senza toccare la disposizione da cui è stata ricavata, lasciando così la possibilità che se ne possano dedurre altre legittime; possibilità che evidentemente non può essere mai esclusa con certezza. È una previsione: è probabile o improbabile l’evento che qualcuno scopra un’interpretazione costituzionalmente legittima della stessa disposizione. Ma la dichiarazione d’incostituzionalità non si può fondare su una prognosi, sulla previsione azzardata che nessuno interpreterà la disposizione in modo legittimo. Del resto, la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale serve a sciogliere dal vincolo che impedisce al giudice di decidere secondo il diritto costituzionale; e questo vincolo è la disposizione e non la sua interpretazione. La dichiarazione d’incostituzionalità presuppone dunque la valutazione secondo cui l’enunciato legislativo consente soltanto l’interpretazione incostituzionale, a prescindere dal fatto che molti o pochi, costantemente o occasionalmente ne hanno ricavato norme incostituzionali. Se la disposizione può esprimere una norma legittima, allora non è incostituzionale; e l’interpretazione che le attribuisce un significato conforme alla costituzione è corretta, le altre sbagliate. Insomma, quando è logicamente e giuridicamente possibile dedurre una norma conforme alla costituzione, la questione di costituzionalità è infondata perché è causata da un errore interpretativo.

La Corte costituzionale sostiene che il giudizio di costituzionalità ha ad oggetto la norma, mentre la sentenza riguarda la disposizione[5]. Tuttavia, pronuncia sentenze interpretative, le quali presuppongono la non corrispondenza tra la norma e la disposizione, cosicché da essa si possono ricavare norme sia costituzionali sia incostituzionali e la dichiarazione d’incostituzionalità colpisce chirurgicamente soltanto la norma illegittima, lasciando che la disposizione esprima quella legittima. Rispetto a questa pratica c’è da chiedersi perché il giudice abbia bisogno dell’intervento della Corte costituzionale per disapplicare la norma incostituzionale. Niente gli impedisce di preferire l’interpretazione costituzionale, quindi quella corretta. Capita ovviamente che la disposizione sia interpretata in modo incostituzionale, quindi sbagliato. Ma non spetta al giudice delle leggi correggere le interpretazioni errate. Inoltre non si dichiara l’incostituzionalità di una disposizione perché qualche giudice ne ha ricavato norme incostituzionali, come asserisce la stessa Corte costituzionale[6]. Cambia poco o nulla quando l’interpretazione incostituzionale è diritto vivente, propria di molti giudici e soprattutto di quelli superiori. La verità o la falsità delle interpretazioni non si stabilisce a maggioranza, né d’autorità. Oltretutto la Corte costituzionale impone ai giudici di praticare l’interpretazione conforme, cosicché la questione di costituzionalità è ammissibile soltanto quando sia accertato che dalla diposizione cui essa si riferisce non è deducibile una norma legittima pertinente. E questo accertamento è una questione non di fatto ma di diritto, concerne l’individuazione dell’interpretazione corretta della legge. In proposito non ci sono limiti: tutti i giudici, compresa la Corte costituzionale, sono assoggettati alla legge, alla disposizione non alla sua interpretazione. Pertanto, il giudice costituzionale deve dichiarare l’incostituzionalità della legge che ritenga non interpretabile in modo conforme alla Costituzione e non di quella che sia stata interpretata in maniera incostituzionale.

È vero, il giudizio di costituzionalità ha ad oggetto non la legge in astratto, cioè non tutte le norme logicamente deducibili dalla disposizione, ma la disposizione interpretata; e ciò non nel senso banale di significato della legge, dato che ovviamente per sostenere qualcosa a proposito di un testo bisogna attribuirgli un significato; ma nel senso pregnante che le parole della legge sono intese per applicarle al concreto e specifico caso della vita su cui si giudica nel processo comune nel quale sorge la questione di costituzionalità; in breve, nel senso di norma. Potrebbe apparire dunque incongruo far cadere la legge che inciampa una sola volta. Ma non è così, se consideriamo che la giurisdizione concerne singoli casi, stabilisce regole specifiche e concrete sulla base di enunciati ipotetici, quindi astratti più o meno: basta dunque un caso, un solo caso, nel quale la legge impedisca l’applicazione del diritto costituzionale, per giustificare la dichiarazione di incostituzionalità.  Insomma, l’enunciato legislativo va dichiarato incostituzionale quando obbliga ad applicare una norma incostituzionale a un caso, anche quando si possa ragionevolmente ipotizzare che questo è l’unico; e ciò innanzitutto perché questo è solamente un giudizio prognostico, che necessariamente si riferisce a un fatto, e su un fatto, quantunque probabile, non si può fondare un’interpretazione; in secondo luogo, perché il diritto del singolo, ciò che è tutelato dalla giurisdizione, non può essere sacrificato a vantaggio dell’interesse generale – della politica - alla conservazione della legge verosimilmente applicabile anche in modo costituzionale. Sarebbe sommamente ingiusto.

L’art. 136 della Costituzione e l’art. 30 della legge 87 del 1953 disciplinano gli effetti delle decisioni di accoglimento riferendoli testualmente alle «norme». Però la disposizione costituzionale prevede la perdita di efficacia; e ciò può riguardare solamente la disposizione e non la sua interpretazione. La legge del 1953, invece, dispone la disapplicazione, che è un effetto riferibile anche alla norma. Di ciò dirò ampiamente in seguito. Per il momento osservo che la disciplina costituzionale degli effetti delle sentenze di accoglimento del giudice delle leggi concerne le disposizioni; il che presuppone evidentemente che siano queste a essere dichiarate incostituzionali.

Inoltre, la dichiarazione d’incostituzionalità dell’interpretazione non tocca la relativa disposizione, dalla quale quindi i giudici possono trarre tutte le norme esprimibili dal testo legislativo, spingendosi forse fino al punto di sostenere l’interpretazione dichiarata incostituzionale[7].

Le sentenze additive, di accoglimento parziale, sostitutive hanno un dispositivo complesso: dichiarano l’incostituzionalità e aggiungono, sostituiscono o eliminano norme, lasciando inalterata la disposizione di riferimento. Peraltro se l’interpretazione della Corte fosse vincolante, sarebbe modificato l’enunciato legislativo, poiché andrebbe letto non tanto escludendo i significati dichiarati incostituzionali, quanto comprendendo o includendo le nuove ipotesi enunciate nella sentenza e precedentemente non contemplate o contemplate illegittimamente. Sennonché l’aggiunta o la sostituzione sono norme o enunciati di un’interpretazione[8] non vincolante.

La Corte costituzionale pronuncia l’addizione o la sostituzione soltanto se ‘a rime obbligate’, cioè se la nuova norma è già contenuta nell’ordinamento. Perciò essa estende o riduce la portata normativa di regole già vigenti: principalmente per rendere ragionevoli le equiparazioni o le differenziazioni operate dal legislatore, alcune fattispecie vengono assoggettate alla disciplina generale, eliminando la discriminazione irragionevole, oppure a quella più particolare, eliminando l’equiparazione irragionevole. Anche la sentenza sostitutiva, opera allo stesso modo: eliminando la norma particolare, consente l’espansione di quella generale, che regola il fatto al posto dell’altra cancellata.

Se queste sono operazioni interpretative, non si capisce perché non possano essere realizzate anche dai giudici comuni e neppure perché debbano essere vincolanti. In effetti, hanno un valore solamente persuasivo[9], come tutte le interpretazioni. Obbligatoria è la dichiarazione d’incostituzionalità della legge (rectius, della diposizione) che impedisce l’applicazione – eventualmente analogica – del diritto valido. Una volta eliminato l’impedimento, spetta al giudice comune stabilire quale sia la norma vigente e valida pertinente, ricorrendo a tutti i mezzi interpretativi.

Il discorso sarebbe diverso se la ‘nuova’ norma, indicata dalla Corte come quella pertinente, non fosse determinata dall’espansione analogica di una regola dedotta da una disposizione legislativa. È evidente, infatti, che essa deriverebbe dal testo aggiunto dal dispositivo della sentenza; e così la regola applicabile sarebbe data dall’interpretazione della legge integrata dalla Corte costituzionale. Sennonché è chiaramente insostenibile (e, in effetti, nessuno sostiene) l’ammissibilità di una simile funzione creativa di disposizioni e lo stesso giudice costituzionale ammette soltanto pronunce a ‘rime obbligate’, quindi che aggiungono norme, interpretazioni, conseguenti alla dichiarazione di incostituzionalità, all’ablazione di disposizioni.

Tutto ciò che si è detto a proposito della dichiarazione d’incostituzionalità di norme, non significa che questa dichiarazione sia vietata dal diritto costituzionale e neppure che sia inutile. La pronuncia di accoglimento interpretativa (semplice, additiva di regola o di principio, sostitutiva, ecc.), presuppone che la disposizione cui è riferita la norma incostituzionale possa esprimere una o più norme costituzionali; e come ho già detto, la legge è valida quando esprime una norma costituzionale, ancorché possa essere (o sia stata) interpretata anche in modo incostituzionale. Può darsi anche che sia utile, in quanto, secondo una linea di politica giudiziaria che ricerca la collaborazione dei giudici comuni per assicurare la costituzionalità delle leggi, la Corte gradua gli strumenti decisori e ricorre all’autoritativa sentenza di accoglimento della disposizione come extrema ratio, dopo il fallimento delle pronunce persuasive sulle norme[10].

La dichiarazione d’incostituzionalità – che produce gli effetti giuridici previsti dalla Costituzione – riguarda dunque la disposizione. Del resto questa è la conseguenza necessaria di un sistema che vieta al giudice di disapplicare la legge. La Corte costituzionale che decide sulla costituzionalità delle interpretazioni della legge funziona come un giudice supremo, che peraltro non ha gli strumenti per far prevalere la propria interpretazione, giacché non si pronuncia sulle controversie e non può cassare le sentenze fondate su interpretazioni incostituzionali. In conseguenza, non esercita giurisdizione, né può influire su di essa: non ha ‘l’argomento’ dell’eliminazione delle disposizioni da cui si traggono norme incostituzionali per convincere a seguire l’interpretazione costituzionale delle leggi.

La giurisdizione costituzionale di questo tipo, dell’interpretazione costituzionale, ha un senso, e quindi è giustificata, se il diritto costituzionale è parallelo a quello legislativo, cosicché essa e quella comune sono non sovrapposte ma giustapposte e ciascuna con un proprio ruolo: l’una al servizio della costituzione e l’altra della legge. Sennonché questa idea del diritto e della giurisdizione costituzionale cozza con la realtà degli ordinamenti contemporanei democratici e pluralisti, le cui costituzioni contengono regole di primo grado, che si applicano direttamente ai cittadini, quindi dispongono il diritto che può essere preteso in giudizio. Sicché rendere giustizia secondo il diritto comporta l’applicazione della costituzione e della legge ovvero della legge ordinaria e costituzionale. Pertanto, tutti i giudici sono soggetti a queste leggi.

La questione se la costituzione contenga norme sostanziali o incorpori principi morali, oltre che procedurali o di secondo grado, si colloca sul piano diverso della teoria della costituzione e del diritto, del concetto di costituzione e di diritto. È un problema concettuale inerente alla costituzione intesa in senso materiale, kelseniano, cioè come regola fondativa (presupposta logicamente, secondo la dottrina pura, o praticata socialmente, secondo la dottrina della norma di riconoscimento) che stabilisce cosa sia il diritto di un ordinamento. Perciò la sua soluzione non può offrire alcuna indicazione utile a chi intenda stabilire quale sia il diritto costituzionale in vigore, perché è una spiegazione della validità costituzionale e non un’interpretazione di ciò che la costituzione prescrive. I ragionamenti intorno a ciò che rende valida la costituzione sempre e dovunque e a ciò che prevede una determinata costituzione in vigore, deliberata e valida come legge, quantunque superiore, stanno su piani differenti e non possono essere confusi, come i discorsi inerenti alla norma di riconoscimento o alla Grundnorm vanno distinti da quelli intorno alla costituzione positiva.

 

 

4. – Gli effetti della dichiarazione d’incostituzionalità

 

La dichiarazione d’incostituzionalità accerta l’invalidità e provoca l’inefficacia della disposizione. L’annullamento della legge è non l’implicazione dell’accertamento giudiziario dell’invalidità, ma l’effetto di una espressa previsione della costituzione. Giustifica l’accentramento del controllo presso un giudice che svolge soltanto questa specifica funzione. I giudizi introdotti con ricorso – giudizio in via principale o di azione diretta individuale (amparo, Bescheidbeschwerde, Individualbeschwerde, Verfassungsbeschwerde) – hanno carattere giurisdizionale: si pronunciano su controversie devolute alla competenza esclusiva del tribunale costituzionale. Quelli instaurati in via incidentale, inerenti alla costituzionalità della legge, non sono giurisdizionali in quanto tali, poiché non decidono sulla pretesa del diritto avanzata nel processo. Tuttavia si inseriscono in modo particolare all’interno della giurisdizione, concorrendo alla definizione del diritto pertinente alla controversia sottoposta al giudice che ha sollevato la questione. La decisione sulla costituzionalità della legge, infatti, è un pezzo della motivazione della pronuncia di questo giudice, un passaggio logico dell’interpretazione su cui si basa il dispositivo della sua sentenza, sebbene sia stato stabilito non da lui ma da un altro giudice. La sentenza di accoglimento della Corte costituzionale, nonostante abbia un effetto generale, è la soluzione della particolare questione di costituzionalità, senza la quale il giudice a quo non può decidere la controversia che gli è sottoposta.

Insomma è una questione pregiudiziale che è decisa da un giudice diverso da quello della controversia. Non è un procedimento anomalo: è simile, ad esempio, a quello della cassazione con rinvio che fissa il principio di diritto cui si deve attenere il giudice al quale è rimessa la decisione[11]. A questa idea del controllo di costituzionalità incidentale come parte della funzione giurisdizionale si oppone la perdita di efficacia della legge dichiarata incostituzionale valevole per il futuro, non retroattiva e quindi interessante soltanto i fatti successivi alla pubblicazione della sentenza. La pronuncia di accoglimento, in definitiva, ha la stessa efficacia dell’abrogazione, come proposto da Kelsen. Del resto, la Costituzione austriaca usa proprio l’espressione «abrogazione» per dire quale sia l’effetto della dichiarazione d’incostituzionalità.

In effetti, la perdita di efficacia della disposizione dichiarata incostituzionale non è diversa dall’abrogazione. Peraltro l’abrogazione è cosa diversa dall’annullamento della legge incostituzionale, riguardo al fondamento e ai presupposti; ma l’effetto è lo stesso: l’abrogazione è legislazione, innovazione del diritto, mentre l’annullamento è la conseguenza dell’accertamento dell’invalidità della legge secondo il diritto vigente e ha la funzione conservativa perlomeno delle regole che disciplinano la produzione del diritto.

Le disposizioni dichiarate incostituzionali sono abrogate per l’espressa previsione dell’art. 136 della Costituzione e non possono essere utilizzate per risolvere controversie giudiziarie. La non ‘utilizzabilità’ però è la conseguenza non della perdita di efficacia disposta dalla Costituzione, che riguarda solamente il futuro, ma della dichiarazione di incostituzionalità. È l’effetto non dell’abrogazione, ma dell’accertamento giurisdizionale dell’invalidità della legge, che non innova ma dice qual è il diritto esistente. Dal punto di vista della giurisdizione, la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale ha dunque il valore dell’accertamento definitivo dell’incostituzionalità; e dalla legge incostituzionale non si possono dedurre le regole che giustificano la risposta alla domanda rivolta a un giudice.

Con questa precisazione si chiarisce la questione se debba essere obbedita la legge incostituzionale. Lasciando da parte le oziose questioni definitorie fin troppo dibattute, anche perché erroneamente considerate rilevanti per la definizione del modello di giustizia costituzionale accentrato, è un problema pratico e non teorico: si tratta di capire non che cosa sia e a cosa serva il giudizio di costituzionalità, ma se sia responsabile il pubblico funzionario che applichi leggi incostituzionali. Quindi di una domanda attinente alla disciplina della responsabilità dei pubblici dipendenti, che qui non interessa. Per il resto, in generale, nessuno è tenuto a obbedire o a disobbedire alla legge invalida e ciascuno stabilisce la propria condotta sulla base di ciò che ritiene sia il diritto valido pertinente, sopportandone il peso se sbaglia[12].

Le leggi invalide pertanto non sono efficaci, in questo senso non hanno vigore. Tuttavia, a questo punto, è abbastanza chiaro che l’atto abrogativo ha effetti costitutivi, mentre la pronuncia di incostituzionalità soltanto dichiarativi. Sicché la legge abrogata perde efficacia a causa dell’entrata in vigore di una nuova legge, mentre quella invalida è inefficace originariamente, non acquista vigore. A rigore, l’abrogazione è determinata non dalla nuova ma dalla legge precedente: più precisamente, quest’ultima descrive il fatto in presenza del quale la legge perde efficacia. Le condizioni di vigenza e di validità delle leggi sono stabilite dalle leggi, che logicamente e cronologicamente le precedono[13]. Pertanto, la perdita di efficacia delle disposizioni dichiarate illegittime è attribuibile alla sentenza di accoglimento per un’illusione ottica: come l’abrogazione avviene perché la legge precedente prevede come fatto abrogativo l’entrata in vigore della nuova legge, così l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale è la condizione fattuale per la quale si produce l’abrogazione prevista dall’art. 136. Questa previsione non rende la sentenza di accoglimento un fatto legislativo. Le leggi temporanee cessano di vigere a una certa scadenza; e non si può certo asserire che il tempo detti legge, se non retoricamente. Con ciò voglio dire che la sentenza di accoglimento non dispone la perdita di efficacia ex nunc della disposizione legislativa incostituzionale, ma dichiara, accerta l’incostituzionalità. La circostanza che la costituzione le attribuisca l’effetto abrogativo non trasforma l’accertamento dell’invalidità nella produzione di una nuova legge.

L’annullamento della legge, inoltre, non è la conseguenza logicamente necessaria del giudizio d’incostituzionalità. Accade quando è previsto da una regola che può disporre della vigenza della legge. La competenza a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi dunque non attribuisce implicitamente il potere di annullare le disposizioni incostituzionali. L’annullamento della legge è stabilito non dalla sentenza – che accerta soltanto l’invalidità – ma dalla previsione costituzionale[14], cosicché non si produrrebbe se non fosse espressamente disposto: la legge dichiarata incostituzionale non verrebbe eliminata, rimarrebbe vigente, quantunque verosimilmente inutilizzabile[15].

L’incostituzionalità è pronunciata nell’esercizio della competenza attribuita dall’art. 134 della Costituzione: nei procedimenti su ricorso è la soluzione della controversia devoluta alla giurisdizione del tribunale costituzionale; nel procedimento incidentale è un giudizio funzionale alla decisione della causa pendente davanti al giudice comune. È dunque ragionevole pensare che non sia il mero presupposto dell’annullamento ma che abbia un proprio valore, adatto alla competenza esercitata, quindi specificamente giurisdizionale.

Allora il giudicato costituzionale ha valore giurisdizionale e giustifica la disapplicazione della legge invalida. Nei casi in cui la Corte costituzionale è il giudice della controversia non si pone il problema dell’efficacia dell’accertamento: è evidente che esso è la premessa logica della sua decisione. Nel giudizio incidentale, invece, va fondato il vincolo della dichiarazione d’incostituzionalità nei confronti del giudice comune. L’annullamento è ex nunc, quindi per il rapporto sottoposto al giudice a quo, la disposizione dichiarata incostituzionale è vigente. Il giudice tuttavia la deve disapplicare. Non può dedurne alcuna norma per rivolvere la controversia pendente davanti a lui, perché la Corte costituzionale, decidendo la questione di legittimità costituzionale sollevata in quel processo, ha accertato che essa è incostituzionale. In altri termini, per quanto riguarda la controversia in cui è sorta la questione, l’incostituzionalità della disposizione pertinente è stata accertata definitivamente nel modo previsto, secondo le regole del procedimento incidentale. Perciò, sarebbe chiaramente viziata la sentenza che fosse motivata da una norma la cui incostituzionalità sia stata riscontrata nello stesso processo nel quale essa è stata pronunciata. Insomma, la disapplicazione nel giudizio a quo è una regola implicita all’instaurazione incidentale del giudizio di costituzionalità disposta dalla legge costituzionale n. 1 del 1948 [16].

Gli altri giudici però non sarebbero vincolati a rispettare la pronuncia della Corte costituzionale. Per essi, infatti, l’incostituzionalità è soltanto la motivazione di una sentenza pronunciata in un diverso processo e non sono tenuti a seguirla. Sennonché la legge n. 87 del 1953 (art. 30) vieta l’applicazione delle norme dichiarate incostituzionali, quantunque vigenti. Pertanto sono invalide tutte le sentenze che applicano norme dichiarate incostituzionali. In questo modo, il giudicato costituzionale è efficace nei confronti del giudice del caso nel quale è sorta la questione di costituzionalità e di tutti gli altri giudici di analoghe controversie[17].

La Corte costituzionale sostiene che questo valore giurisdizionale del giudicato costituzionale è uno sviluppo della previsione dell’art. 136 Cost.[18]. Sbaglia: dalla perdita di efficacia (ex nunc) non se ne può inferire il divieto di applicazione di norme dedotte da disposizioni (che erano) vigenti quando si sono verificati i fatti, mentre è logico non applicare leggi giudicate invalide, ancorché vigenti. L’art. 30 della legge 87 del 1953 è semmai un coerente sviluppo dell’art. 134 della Costituzione, poiché vincola l’esercizio della giurisdizione all’accertamento dell’incostituzionalità spettante all’unico giudice delle leggi. La previsione dell’art. 136 invece obbliga il legislatore a non riprodurre le norme dichiarate incostituzionali. Va da sé, poi, che nessuno può ricavare norme da leggi non più efficaci perché colpite da una pronuncia di illegittimità.

Il divieto di applicazione riguarda chiaramente le norme, mentre la dichiarazione d’incostituzionalità colpisce la disposizione. Ma ciò non vuol dire che la sentenza di accoglimento ha due oggetti nei confronti dei quali agisce diversamente: l’uno disciplinato dalla Costituzione, la cessazione dell’efficacia della disposizione, l’altro dalla legge ordinaria, la disapplicazione della norma. La disapplicazione giudiziaria della legge, cioè della disposizione interpretata, è la conseguenza logica dell’accertamento dell’incostituzionalità. Tuttavia nei giudizi di costituzionalità instaurati in via incidentale il giudice che pronuncia l’invalidità è diverso da quello della controversia e non ha giurisdizione su di essa. Sicché, qui la disapplicazione è una conseguenza non logica ma giuridica: è imposta dalla regola del procedimento incidentale e da quella della legge 87/1953, che prescrive la disapplicazione di qualsiasi norma dedotta dalla disposizione dichiarata invalida.

La legge incostituzionale, dunque, quantunque vigente, non vincola i giudici quindi nessuno. Inoltre, cessa di vigere dopo la dichiarazione della sua illegittimità costituzionale. L’art. 136 della Costituzione – che del resto usa l’espressione «norme» come l’art. 30 della legge 87/1953, ma sicuramente in un senso tecnicamente impreciso – alla disapplicazione conseguente all’accertamento dell’invalidità costituzionale, infatti, aggiunge l’annullamento della legge, un effetto ulteriore rispetto a quello giurisdizionale. L’annullamento evidentemente riguarda l’enunciato: il testo è una cosa che esiste e che può essere creata e distrutta; il suo significato è un pensiero riguardo a ciò che si deve o non si deve fare, una regola che si applica o non si applica.

 

 

Abstract

 

L’essai veut montrer que le contrôle centralisé de constitutionnalité est une fonction judiciaire. Il est donc incompatible avec la théorie de Kelsen que la justice constitutionnelle abroge les lois inconstitutionnelles et protège la constitution en préservant le compromis entre la majorité et la minorité du Parlement qui assure la paix sociale.

 

 



 

*Riassumo qui una tesi che ho illustrato diffusamente nel volume La disposizione valida e la norma vera, Milano 2015.

 

[1] H. KELSEN, Wer soll der Hüter der Verfassung, trad. it. in ID., La giustizia costituzionale, Milano 1981, 256.

 

[2] The Federalist, trad. it. Il federalista, Bologna 1980, 586.

 

[3] Cfr. C. SCHMITT, Der Hüter der Verfassung, Berlin 1931, trad. it. Il custode della costituzione, Milano 1981, 203 ss.

 

[4] L’idea che si debba stabilire la prevalenza della tutela giudiziaria dei diritti su quella legislativa o viceversa è contrastata di recente da O. CHESSA, I giudici del diritto, Milano 2014, 103 ss., il quale dimostra che nessuno in realtà ha l’ultima parola.

 

[5] Cfr. 84/1996: «In generale la disposizione – della cui esatta identificazione, al momento dell'ordinanza di rimessione, è onerato il giudice rimettente (sentenza n. 176 del 1972), non potendo egli limitarsi a denunciare un principio (sentenza n. 188 del 1995) – costituisce il necessario veicolo di accesso della norma al giudizio della Corte, che si svolge sulla norma quale oggetto del raffronto con il contenuto precettivo del parametro costituzionale, e rappresenta poi parimenti il tramite di ritrasferimento nell'ordinamento della valutazione così operata, a seguito di tale raffronto, dalla Corte medesima, la quale quindi giudica su norme, ma si pronuncia su disposizioni. Si disvela così, in tal caso, la funzione servente e strumentale della disposizione rispetto alla norma, sicché è la immutata persistenza di quest'ultima nell'ordinamento ad assicurare la perdurante ammissibilità del giudizio di costituzionalità sotto il profilo dell'inalterata sussistenza del suo oggetto (che costituisce altresì, sotto questo aspetto, ragione della sua persistente rilevanza), mentre l'eventuale successione di una disposizione ad altra rileva soltanto al fine di riversare correttamente l'esito del sindacato di costituzionalità nell'ordinamento. Sicché solo in senso figurato può dirsi "trasferita" la questione di costituzionalità, che viceversa rimane ancorata all'oggetto identificato nell'atto introduttivo del giudizio» (l’enfasi è mia).

 

[6] «In linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (356/1996).

 

[7] G. ZAGREBELSKY e V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, Bologna 2012, 384, sostengono che le sentenze interpretative di accoglimento «sono da considerare per tutti vincolanti (hanno “forza di giudicato”)»; ciononostante subito dopo aggiungono: «anche se, rimanendo immutata la formula legislativa, sarebbe astrattamente possibile immaginare che i giudici comuni, rivendicando a sé una piena capacità interpretativa delle disposizioni legislative, pretendano di trarre comunque tutti i significati che appaiono loro plausibili, dal testo immutato».

Allora la pronuncia interpretativa di accoglimento non vincola nessuno ed è misteriosa la sua «forza di giudicato». Al riguardo osservano che tuttavia «i giudici si assoggettano alle pronunce di incostituzionalità, ancorché interpretative». È evidente che questo dato di fatto non chiarisce in alcun modo quale sia la forza giuridica del giudicato.

 

[8] Lo sostengono F. MODUGNO, Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli 2008, 296, e A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Milano 2008, 267. Modugno peraltro ritiene che le decisioni di accoglimento sono vincolanti per tutti, «ma nella sola parte demolitoria – in quanto incidono, cancellandoli, sui testi – e non già anche in quella ricostruttiva» (ibidem, 297. Il corsivo è testuale).

 

[9] A. PUGIOTTO, Dottrina del diritto vivente e ridefinizione delle sentenze additive, in Giur. cost., 1992, 3670 ss.

 

[10] Cfr. G. ZAGREBELSKY, V. MARCENO, op. cit., 385 ss.

 

[11] Cfr. A. PIZZORUSSO, I sistemi di giustizia costituzionale: dai modelli alla prassi, in Quaderni costituzionali, 1982, 522 ss.

 

[12] G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, op. cit., 362, sostengono che l’accertamento dell’incostituzionalità ha portata innovativa o costitutiva nel senso che «fa cadere la possibilità che ciascuno aveva di prestare obbedienza alla legge e impone a tutti di considerarla priva di efficacia: per il futuro, causa di possibile responsabilità sarà difatti proprio l’obbedienza». Se si lascia da parte il problema della responsabilità di chi, in ragione del suo ufficio pubblico, ha particolari doveri di obbedienza, l’atto posto in applicazione di una legge invalida è semplicemente privo di un fondamento legale, sia prima che dopo l’accertamento dell’incostituzionalità. La pronuncia dell’incostituzionalità cambia qualcosa per quanto riguarda i giudici: prima non possono disapplicare la legge e devono sollevare la questione di legittimità costituzionale, poi la devono disapplicare, per i motivi di funzionamento del giudizio incidentale che illustrerò tra poco.

 

[13] Cfr. C. ESPOSITO, La validità delle leggi, Milano 1964, 64 ss.

 

[14] Cfr. G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, op. cit., 346: «Le sentenze che dichiarano l’incostituzionalità delle leggi possono considerarsi decisioni di accertamento che rimuovono uno stato di dubbio, sancendo definitivamente e “ufficialmente” un vizio preesistente, peraltro già prima riconoscibile da chiunque, nell’ambito dei propri comportamenti giuridicamente rilevanti. Gli effetti innovativi o costitutivi nell’ordinamento giuridico sono stabiliti, una volta per tutte, dall’art. 136 della Costituzione, ove all’accertamento e alla dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della legge da parte della Corte costituzionale si fa conseguire la sua perdita di efficacia».

 

[15] Ciò perché nessuno può dire che mai si scoprirà una sua interpretazione costituzionale.

 

[16] È la soluzione che C. ESPOSITO, Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, in La Costituzione italiana, Padova 1954, 269 ss., propone all’indovinello dell’instaurazione incidentale del giudizio di costituzionalità e dell’effetto ex nunc della sentenza di accoglimento che impedisce di utilizzare nel giudizio a quo la dichiarazione di incostituzionalità.

 

[17] Cfr. G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, op. cit., 351: «L’effetto della decisione della Corte costituzionale è (…) per il futuro un effetto sostanziale analogo all’abrogazione; per il passato, un effetto processuale il quale, però, si riflette naturalmente sul piano dei rapporti sostanziali in corso».

 

[18] Cfr. le sentenze 127/1966 e 49/1970.