La funzione
giurisdizionale della giustizia costituzionale*
Università di
Sassari
SOMMARIO: 1. La
giustizia costituzionale e la custodia della costituzione. – 2. L’oggetto della questione di costituzionalità. – 3.
L’oggetto della dichiarazione d’incostituzionalità.
– 4. Gli effetti della dichiarazione d’incostituzionalità. – Abstract.
Kelsen sostiene che l’annullamento disposto dal tribunale costituzionale
non è diverso dall’abrogazione e che dunque il controllo di costituzionalità
della legge è una funzione legislativa (negativa)[1]. Per Hamilton[2], la cui dottrina è alla
base della sentenza Marbury contro Madison pronunciata nel 1803 dalla Corte
suprema statunitense, è invece una funzione giurisdizionale, che non implica
l’annullamento della disposizione incostituzionale, né lo presuppone. Il
giudice, infatti, deve applicare il diritto valido, la legge incostituzionale
non lo vincola e dunque la deve disapplicare quando sia in contrasto con la
costituzione.
Ma quella di Kelsen non è una teoria della giustizia
costituzionale. Kelsen ha elaborato non il giudizio sulla validità delle leggi
pronunciato nell’esercizio della giurisdizione, ma la difesa o la custodia
della costituzione assicurata da un organo legislativo organizzato come un
tribunale. Il progetto di affidare a un tribunale l’abrogazione della legge
incostituzionale è sostanziato dalla prognosi che la previsione
dell’annullamento scoraggi la prevaricazione maggioritaria e che comunque
l’eliminazione della legge irregolare ristabilisca la condizione di un corretto
rapporto compromissorio tra la maggioranza e la minoranza parlamentare. Dico
«irregolare» e non «incostituzionale» perché l’annullamento protegge la regola
che impone la procedura aggravata per approvare le leggi, la forma
costituzionale, piuttosto che quella costitutiva della legge; e ciò perché
quella forma costringe la maggioranza a compromettersi con la minoranza.
L’annullamento della legge deciso dal tribunale costituzionale è
legislazione come l’abrogazione deliberata dal parlamento. La differenza è che
il tribunale è imparziale rispetto alla maggioranza e alla minoranza
parlamentari. Sicché la sua politica legislativa non prende parte al conflitto
che coinvolge i diversi schieramenti parlamentari. Poiché questi sono
rappresentativi dei partiti politici, lo scontro parlamentare raffigura il
conflitto politico-sociale, il quale è così formidabile che minaccia la pace.
Il rimedio alla guerra sociale è il compromesso; e se la regola del compromesso
è violata, essa può essere ripristinata soltanto da un intervento esterno, da
un’autorità politica imparziale, che difende la costituzione; difende cioè la
regola della legislazione che imponendo il compromesso parlamentare evita il
cozzo devastante tra le classi sociali. La politica imparziale del tribunale
costituzionale dunque sta accanto alla costituzione e se necessario si
contrappone a quella parlamentare-maggioritaria, annullando la legge che abbia
leso i diritti della minoranza.
Il progetto di Kelsen mira alla custodia della costituzione come
quello di Schmitt. Entrambi si propongano la difesa della costituzione dallo scontro
distruttivo tra i partiti rappresentativi della borghesia e del proletariato.
Tuttavia sono profondamente differenti perché si basano su idee molto diverse
circa l’unità politica e di conseguenza su chi debba difendere la costituzione.
Schmitt alla custodia di un tribunale costituzionale oppone quella del capo
dello stato, di chi è legittimato dall’elezione diretta e con la sua persona
esprime l’unità del popolo; e ciò lo rende capace di un’azione politica
neutrale, che stabilisce l’unità sospendendo se necessario il normale
pluralismo politico[3].
La difesa della costituzione affidata a un organo imparziale
organizzato come un tribunale, secondo l’idea kelseniana, solleva la questione
importante che esso non è democratico. E’ la principale obiezione che le muove
Schmitt. E dopo di lui molti altri, dando luogo a un dibattito ampio e
impegnativo, che ha riguardato impropriamente il controllo accentrato di
costituzionalità europeo e il judicial review statunitense.
Impropriamente perché il giudizio di costituzionalità delle leggi effettuato
dai giudici è giurisdizione dei diritti e non difesa politica della
costituzione. La discussione così impostata verte essenzialmente su quale sia
la specifica funzione politica dell’annullamento della legge incostituzionale,
sulla legittimazione di questa politica e sui vantaggi che offre rispetto a
quella della democrazia parlamentare; in breve su argomenti difficilmente
dominabili con l’apparato concettuale giuridico. E ciò ha acuito lo smarrimento
del confine della politica dalla giurisdizione.
In Italia, in più, la difesa della costituzione è stata
tematizzata come garanzia costituzionale, che è un concetto vago, i cui
contorni sono definiti più in negativo che in positivo attraverso la sua
contrapposizione alla funzione di indirizzo politico. Tanto è vero che
comprende pure le competenze del Presidente della Repubblica, all’esercizio
delle quali concorre il Governo e quindi sono latamente governative. Pertanto,
il controllo di costituzionalità delle leggi inteso come garanzia della
costituzione è distinguibile dalla politica della maggioranza
parlamentare-governativa essenzialmente per il fatto che non è attività di
indirizzo politico. In questo modo, la giustizia costituzionale, trascinata nel
vortice dei discorsi fluidi sulla forma di governo – discorsi spesso
giuridico-politologici dall’incerto statuto scientifico –, sospesa tra la
politica e la giurisdizione, è divenuta giuridicamente misteriosa. Non solo.
Pure la complessiva disciplina costituzionale della forma di governo è sfuggita
all’interpretazione giuridica.
Kelsen teorizza l’equivalenza dell’incostituzionalità
all’abrogazione, sollevando così la questione se l’abrogazione giudiziaria sia preferibile
a quella legislativa. Il problema non si pone se l’incostituzionalità è un
giudizio pronunciato per decidere una controversia secondo il diritto e non un
atto potestativo produttivo di diritto e rivolto a difendere l’unità
costituzionale. Indago dunque la validità della legislazione assumendo il punto
di vista giurisdizionale, cioè di chi interroga la legge per stabilire quale
sia la regola valida di un caso controverso. Non mi curo della questione di più
ampia portata e spessore se la decisione politica del legislatore
(l’abrogazione della legge) debba prevalere su quella giudiziaria (la
dichiarazione di incostituzionalità), ammesso che la tutela legislativa sia
fungibile con quella giudiziaria dei diritti e che quindi si possa e si debba
scegliere tra l’una o l’altra[4].
Il controllo di costituzionalità accentrato europeo è ispirato
alla teoria kelseniana: è esercitato da un apposito tribunale costituzionale
che decide (soltanto) circa la costituzionalità della legge e la sua sentenza
di incostituzionalità ha l’effetto di annullamento della legge illegittima.
Pertanto non si sa se sia una funzione giurisdizionale o legislativa o di altro
tipo, ad esempio, di garanzia costituzionale come molti credono in Italia.
Peraltro il sistema accentrato di giustizia costituzionale si è
evoluto così tanto che somiglia poco o nulla al suo modello teorico elaborato
da Kelsen e alla sua prima realizzazione austriaca negli anni venti del
Novecento. Il tratto saliente dell’evoluzione è l’integrazione accentuata tra la
funzione esercitata dal tribunale costituzionale e la giurisdizione comune che
è stata determinata dalla pregiudizialità della questione di costituzionalità
nel sindacato in via incidentale. Infatti, il tribunale costituzionale è
chiamato a pronunciarsi su un problema relativo alla determinazione del diritto
applicabile nel giudizio comune. I giudici, dunque, sono diversi, ma la
giurisdizione è la stessa ed è, in ultima analisi, una giurisdizione non sulla
costituzionalità della legge, ma sul diritto preteso da chi ha agito in
giudizio. Tuttavia, la caratterizzazione in senso giurisdizionale del controllo
di costituzionalità accentrato richiede che alcuni profili cruciali di questo
sistema siano inquadrabili all’interno della funzione giurisdizionale. Sono:
l’oggetto della questione, l’oggetto e l’efficacia della sentenza
d’incostituzionalità.
Il giudizio di costituzionalità può essere instaurato in via
incidentale, nel corso di un processo comune, o diretta, col ricorso proposto
da un individuo – in Spagna, Austria e Germania (amparo, Bescheidbeschwerde, Individualbeschwerde, Verfassungsbeschwerde) –
che impugna una legge o una sentenza, un ente (stato, federazione, regione, Land)
o un organo – potere dello stato – che impugna una legge, una sentenza
o un atto amministrativo. Qui di seguito mi occupo del controllo di
costituzionalità incidentale italiano. Tuttavia, molte delle conclusioni cui
pervengo possono essere estese al sindacato di costituzionalità accentrato in
genere, non soltanto a quello italiano e neppure al solo procedimento
incidentale.
La questione di costituzionalità in via incidentale sorge perché
un giudice ritiene di dover applicare una norma che è perlomeno di dubbia costituzionalità.
Per risolverla prima bisogna stabilire se l’interpretazione della disposizione
è corretta, perché la costituzionalità della legge dipende dal modo in cui essa
è interpretata, oltre ovviamente la disposizione costituzionale parametrica. Il
problema di costituzionalità si sovrappone dunque a quello interpretativo della
legge. Al giudice costituzionale spetta risolvere il primo e non il secondo ed
essi sono difficilmente distinguibili. Le interpretazioni incostituzionali,
infatti, sono sbagliate e non si può giustificare una sentenza col diritto
incostituzionale, quindi non possono comparire in una sentenza. Tuttavia, il
giudice comune è vincolato dalle disposizioni legislative, anche quando queste
siano invalide. Il vincolo deriva non dalla sua soggezione alla legge – art.
101 Cost. –, poiché la costituzione è senza dubbio una legge, bensì dalla
disposizione – art. 134 Cost. – che attribuisce alla Corte costituzionale la
competenza a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi. Sicché,
quando dall’enunciato legislativo si possono trarre solamente norme
incostituzionali il giudice non può disapplicare la legge e utilizzare la
costituzione, ma deve sollevare la questione di legittimità costituzionale.
Deve fare altrettanto quando sia invalida la deliberazione dell’enunciato
legislativo: pure in questo caso è impossibile, evidentemente, dedurne alcuna
norma legittima.
Il fatto che un giudice non sia riuscito a dedurre dalla
disposizione di legge una norma legittima per il caso su cui è chiamato a
pronunciarsi non significa che questo sia impossibile; un altro giudice
potrebbe riuscirci, per lo stesso caso e per uno analogo. Sennonché, seguendo
la dottrina del diritto vivente, la Corte costituzionale italiana, per evitare
conflitti con i giudici comuni e soprattutto con la Cassazione, si pronuncia
sulla costituzionalità della disposizione sulla base non dell’interpretazione
che essa considera esatta, ma di quella consolidata nella pratica,
principalmente giurisprudenziale, ossia sulle norme effettivamente ricavate
dalla disposizione, soprattutto dai giudici. Il giudizio di costituzionalità
concerne, dunque, non tutte le norme logicamente ricavabili dalla disposizione,
la legge non astratta ma concreta, secondo il significato che le è effettivamente
attribuito nel momento applicativo. Solamente se un diritto vivente non si è
ancora affermato, la Corte costituzionale propone una propria interpretazione,
diversa da quella di dubbia costituzionalità accolta dal giudice rimettente; e
in questo caso il suo ruolo non è diverso da quello del giudice comune, poiché
la sua interpretazione ha valore meramente persuasivo. In conclusione, il
giudizio di costituzionalità considera l’applicazione della legge ai casi
concreti sottoposti alla giurisdizione e in particolare quello del giudizio a quo, cioè disposizioni interpretate,
norme; e ciò lo inserisce all’interno della giurisdizione, in quanto
funzionale, strettamente funzionale, in ragione della pregiudizialità che lo
rende ammissibile, all’individuazione del diritto applicabile alla concreta
controversia pendente davanti al giudice che lo ha introdotto.
La dichiarazione d’incostituzionalità pertanto potrebbe
riguardare solamente la norma rilevante nel giudizio a quo, senza toccare la disposizione da cui è stata ricavata,
lasciando così la possibilità che se ne possano dedurre altre legittime;
possibilità che evidentemente non può essere mai esclusa con certezza. È una
previsione: è probabile o improbabile l’evento che qualcuno scopra
un’interpretazione costituzionalmente legittima della stessa disposizione. Ma
la dichiarazione d’incostituzionalità non si può fondare su una prognosi, sulla
previsione azzardata che nessuno interpreterà la disposizione in modo
legittimo. Del resto, la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale
serve a sciogliere dal vincolo che impedisce al giudice di decidere secondo il
diritto costituzionale; e questo vincolo è la disposizione e non la sua
interpretazione. La dichiarazione d’incostituzionalità presuppone dunque la
valutazione secondo cui l’enunciato legislativo consente soltanto
l’interpretazione incostituzionale, a prescindere dal fatto che molti o pochi,
costantemente o occasionalmente ne hanno ricavato norme incostituzionali. Se la
disposizione può esprimere una norma legittima, allora non è incostituzionale;
e l’interpretazione che le attribuisce un significato conforme alla
costituzione è corretta, le altre sbagliate. Insomma, quando è logicamente e
giuridicamente possibile dedurre una norma conforme alla costituzione, la
questione di costituzionalità è infondata perché è causata da un errore
interpretativo.
La Corte costituzionale sostiene che il giudizio di
costituzionalità ha ad oggetto la norma, mentre la sentenza riguarda la
disposizione[5].
Tuttavia, pronuncia sentenze interpretative, le quali presuppongono la non
corrispondenza tra la norma e la disposizione, cosicché da essa si possono
ricavare norme sia costituzionali sia incostituzionali e la dichiarazione
d’incostituzionalità colpisce chirurgicamente soltanto la norma illegittima,
lasciando che la disposizione esprima quella legittima. Rispetto a questa
pratica c’è da chiedersi perché il giudice abbia bisogno dell’intervento della
Corte costituzionale per disapplicare la norma incostituzionale. Niente gli
impedisce di preferire l’interpretazione costituzionale, quindi quella
corretta. Capita ovviamente che la disposizione sia interpretata in modo
incostituzionale, quindi sbagliato. Ma non spetta al giudice delle leggi
correggere le interpretazioni errate. Inoltre non si dichiara
l’incostituzionalità di una disposizione perché qualche giudice ne ha ricavato
norme incostituzionali, come asserisce la stessa Corte costituzionale[6]. Cambia poco o nulla quando
l’interpretazione incostituzionale è diritto vivente, propria di molti giudici
e soprattutto di quelli superiori. La verità o la falsità delle interpretazioni
non si stabilisce a maggioranza, né d’autorità. Oltretutto la Corte
costituzionale impone ai giudici di praticare l’interpretazione conforme,
cosicché la questione di costituzionalità è ammissibile soltanto quando sia
accertato che dalla diposizione cui essa si riferisce non è deducibile una
norma legittima pertinente. E questo accertamento è una questione non di fatto
ma di diritto, concerne l’individuazione dell’interpretazione corretta della
legge. In proposito non ci sono limiti: tutti i giudici, compresa la Corte
costituzionale, sono assoggettati alla legge, alla disposizione non alla sua
interpretazione. Pertanto, il giudice costituzionale deve dichiarare
l’incostituzionalità della legge che ritenga non interpretabile in modo
conforme alla Costituzione e non di quella che sia stata interpretata in
maniera incostituzionale.
È vero, il giudizio di costituzionalità ha ad oggetto non la
legge in astratto, cioè non tutte le norme logicamente deducibili dalla
disposizione, ma la disposizione interpretata; e ciò non nel senso banale di
significato della legge, dato che ovviamente per sostenere qualcosa a proposito
di un testo bisogna attribuirgli un significato; ma nel senso pregnante che le
parole della legge sono intese per applicarle al concreto e specifico caso
della vita su cui si giudica nel processo comune nel quale sorge la questione
di costituzionalità; in breve, nel senso di norma. Potrebbe apparire dunque
incongruo far cadere la legge che inciampa una sola volta. Ma non è così, se
consideriamo che la giurisdizione concerne singoli casi, stabilisce regole
specifiche e concrete sulla base di enunciati ipotetici, quindi astratti più o
meno: basta dunque un caso, un solo caso, nel quale la legge impedisca
l’applicazione del diritto costituzionale, per giustificare la dichiarazione di
incostituzionalità. Insomma, l’enunciato
legislativo va dichiarato incostituzionale quando obbliga ad applicare una
norma incostituzionale a un caso, anche quando si possa ragionevolmente
ipotizzare che questo è l’unico; e ciò innanzitutto perché questo è solamente
un giudizio prognostico, che necessariamente si riferisce a un fatto, e su un
fatto, quantunque probabile, non si può fondare un’interpretazione; in secondo
luogo, perché il diritto del singolo, ciò che è tutelato dalla giurisdizione,
non può essere sacrificato a vantaggio dell’interesse generale – della politica
- alla conservazione della legge verosimilmente applicabile anche in modo
costituzionale. Sarebbe sommamente ingiusto.
L’art. 136 della Costituzione e l’art. 30 della legge 87 del
1953 disciplinano gli effetti delle decisioni di accoglimento riferendoli
testualmente alle «norme». Però la disposizione costituzionale prevede la
perdita di efficacia; e ciò può riguardare solamente la disposizione e non la
sua interpretazione. La legge del 1953, invece, dispone la disapplicazione, che
è un effetto riferibile anche alla norma. Di ciò dirò ampiamente in seguito.
Per il momento osservo che la disciplina costituzionale degli effetti delle
sentenze di accoglimento del giudice delle leggi concerne le disposizioni; il
che presuppone evidentemente che siano queste a essere dichiarate
incostituzionali.
Inoltre, la dichiarazione d’incostituzionalità
dell’interpretazione non tocca la relativa disposizione, dalla quale quindi i
giudici possono trarre tutte le norme esprimibili dal testo legislativo,
spingendosi forse fino al punto di sostenere l’interpretazione dichiarata
incostituzionale[7].
Le sentenze additive, di accoglimento parziale, sostitutive
hanno un dispositivo complesso: dichiarano l’incostituzionalità e aggiungono,
sostituiscono o eliminano norme, lasciando inalterata la disposizione di
riferimento. Peraltro se l’interpretazione della Corte fosse vincolante,
sarebbe modificato l’enunciato legislativo, poiché andrebbe letto non tanto
escludendo i significati dichiarati incostituzionali, quanto comprendendo o includendo
le nuove ipotesi enunciate nella sentenza e precedentemente non contemplate o
contemplate illegittimamente. Sennonché l’aggiunta o la sostituzione sono norme
o enunciati di un’interpretazione[8] non vincolante.
La Corte costituzionale pronuncia l’addizione o la sostituzione
soltanto se ‘a rime obbligate’, cioè se la nuova norma è già contenuta
nell’ordinamento. Perciò essa estende o riduce la portata normativa di regole
già vigenti: principalmente per rendere ragionevoli le equiparazioni o le differenziazioni
operate dal legislatore, alcune fattispecie vengono assoggettate alla
disciplina generale, eliminando la discriminazione irragionevole, oppure a
quella più particolare, eliminando l’equiparazione irragionevole. Anche la
sentenza sostitutiva, opera allo stesso modo: eliminando la norma particolare,
consente l’espansione di quella generale, che regola il fatto al posto
dell’altra cancellata.
Se queste sono operazioni interpretative, non si capisce perché
non possano essere realizzate anche dai giudici comuni e neppure perché debbano
essere vincolanti. In effetti, hanno un valore solamente persuasivo[9], come tutte le
interpretazioni. Obbligatoria è la dichiarazione d’incostituzionalità della
legge (rectius, della diposizione)
che impedisce l’applicazione – eventualmente analogica – del diritto valido.
Una volta eliminato l’impedimento, spetta al giudice comune stabilire quale sia
la norma vigente e valida pertinente, ricorrendo a tutti i mezzi
interpretativi.
Il discorso sarebbe diverso se la ‘nuova’ norma, indicata dalla
Corte come quella pertinente, non fosse determinata dall’espansione analogica
di una regola dedotta da una disposizione legislativa. È evidente, infatti, che
essa deriverebbe dal testo aggiunto dal dispositivo della sentenza; e così la
regola applicabile sarebbe data dall’interpretazione della legge integrata
dalla Corte costituzionale. Sennonché è chiaramente insostenibile (e, in
effetti, nessuno sostiene) l’ammissibilità di una simile funzione creativa di
disposizioni e lo stesso giudice costituzionale ammette soltanto pronunce a
‘rime obbligate’, quindi che aggiungono norme, interpretazioni, conseguenti
alla dichiarazione di incostituzionalità, all’ablazione di disposizioni.
Tutto ciò che si è detto a proposito della dichiarazione d’incostituzionalità
di norme, non significa che questa dichiarazione sia vietata dal diritto
costituzionale e neppure che sia inutile. La pronuncia di accoglimento
interpretativa (semplice, additiva di regola o di principio, sostitutiva,
ecc.), presuppone che la disposizione cui è riferita la norma incostituzionale
possa esprimere una o più norme costituzionali; e come ho già detto, la legge è
valida quando esprime una norma costituzionale, ancorché possa essere (o sia
stata) interpretata anche in modo incostituzionale. Può darsi anche che sia
utile, in quanto, secondo una linea di politica giudiziaria che ricerca la
collaborazione dei giudici comuni per assicurare la costituzionalità delle
leggi, la Corte gradua gli strumenti decisori e ricorre all’autoritativa
sentenza di accoglimento della disposizione come extrema ratio, dopo il fallimento delle pronunce persuasive sulle
norme[10].
La dichiarazione d’incostituzionalità – che produce gli effetti
giuridici previsti dalla Costituzione – riguarda dunque la disposizione. Del
resto questa è la conseguenza necessaria di un sistema che vieta al giudice di
disapplicare la legge. La Corte costituzionale che decide sulla
costituzionalità delle interpretazioni della legge funziona come un giudice
supremo, che peraltro non ha gli strumenti per far prevalere la propria
interpretazione, giacché non si pronuncia sulle controversie e non può cassare
le sentenze fondate su interpretazioni incostituzionali. In conseguenza, non
esercita giurisdizione, né può influire su di essa: non ha ‘l’argomento’
dell’eliminazione delle disposizioni da cui si traggono norme incostituzionali
per convincere a seguire l’interpretazione costituzionale delle leggi.
La giurisdizione costituzionale di questo tipo,
dell’interpretazione costituzionale, ha un senso, e quindi è giustificata, se
il diritto costituzionale è parallelo a quello legislativo, cosicché essa e
quella comune sono non sovrapposte ma giustapposte e ciascuna con un proprio
ruolo: l’una al servizio della costituzione e l’altra della legge. Sennonché
questa idea del diritto e della giurisdizione costituzionale cozza con la
realtà degli ordinamenti contemporanei democratici e pluralisti, le cui
costituzioni contengono regole di primo grado, che si applicano direttamente ai
cittadini, quindi dispongono il diritto che può essere preteso in giudizio.
Sicché rendere giustizia secondo il diritto comporta l’applicazione della
costituzione e della legge ovvero della legge ordinaria e costituzionale.
Pertanto, tutti i giudici sono soggetti a queste leggi.
La questione se la costituzione contenga norme sostanziali o
incorpori principi morali, oltre che procedurali o di secondo grado, si colloca
sul piano diverso della teoria della costituzione e del diritto, del concetto
di costituzione e di diritto. È un problema concettuale inerente alla
costituzione intesa in senso materiale, kelseniano, cioè come regola fondativa
(presupposta logicamente, secondo la dottrina pura, o praticata socialmente,
secondo la dottrina della norma di riconoscimento) che stabilisce cosa sia il
diritto di un ordinamento. Perciò la sua soluzione non può offrire alcuna
indicazione utile a chi intenda stabilire quale sia il diritto costituzionale
in vigore, perché è una spiegazione della validità costituzionale e non
un’interpretazione di ciò che la costituzione prescrive. I ragionamenti intorno
a ciò che rende valida la costituzione sempre e dovunque e a ciò che prevede
una determinata costituzione in vigore, deliberata e valida come legge,
quantunque superiore, stanno su piani differenti e non possono essere confusi,
come i discorsi inerenti alla norma di riconoscimento o alla Grundnorm vanno distinti da quelli
intorno alla costituzione positiva.
La dichiarazione d’incostituzionalità accerta l’invalidità e
provoca l’inefficacia della disposizione. L’annullamento della legge è non
l’implicazione dell’accertamento giudiziario dell’invalidità, ma l’effetto di
una espressa previsione della costituzione. Giustifica l’accentramento del
controllo presso un giudice che svolge soltanto questa specifica funzione. I
giudizi introdotti con ricorso – giudizio in via principale o di azione diretta
individuale (amparo, Bescheidbeschwerde, Individualbeschwerde, Verfassungsbeschwerde)
– hanno carattere giurisdizionale: si pronunciano su controversie
devolute alla competenza esclusiva del tribunale costituzionale. Quelli
instaurati in via incidentale, inerenti alla costituzionalità della legge, non
sono giurisdizionali in quanto tali, poiché non decidono sulla pretesa del
diritto avanzata nel processo. Tuttavia si inseriscono in modo particolare
all’interno della giurisdizione, concorrendo alla definizione del diritto
pertinente alla controversia sottoposta al giudice che ha sollevato la
questione. La decisione sulla costituzionalità della legge, infatti, è un pezzo
della motivazione della pronuncia di questo giudice, un passaggio logico
dell’interpretazione su cui si basa il dispositivo della sua sentenza, sebbene
sia stato stabilito non da lui ma da un altro giudice. La sentenza di
accoglimento della Corte costituzionale, nonostante abbia un effetto generale,
è la soluzione della particolare questione di costituzionalità, senza la quale
il giudice a quo non può decidere la
controversia che gli è sottoposta.
Insomma è una questione pregiudiziale che è decisa da un giudice
diverso da quello della controversia. Non è un procedimento anomalo: è simile,
ad esempio, a quello della cassazione con rinvio che fissa il principio di
diritto cui si deve attenere il giudice al quale è rimessa la decisione[11]. A questa idea del
controllo di costituzionalità incidentale come parte della funzione
giurisdizionale si oppone la perdita di efficacia della legge dichiarata
incostituzionale valevole per il futuro, non retroattiva e quindi interessante
soltanto i fatti successivi alla pubblicazione della sentenza. La pronuncia di
accoglimento, in definitiva, ha la stessa efficacia dell’abrogazione, come
proposto da Kelsen. Del resto, la Costituzione austriaca usa proprio
l’espressione «abrogazione» per dire quale sia l’effetto della dichiarazione
d’incostituzionalità.
In effetti, la perdita di efficacia della disposizione
dichiarata incostituzionale non è diversa dall’abrogazione. Peraltro l’abrogazione
è cosa diversa dall’annullamento della legge incostituzionale, riguardo al
fondamento e ai presupposti; ma l’effetto è lo stesso: l’abrogazione è
legislazione, innovazione del diritto, mentre l’annullamento è la conseguenza
dell’accertamento dell’invalidità della legge secondo il diritto vigente e ha
la funzione conservativa perlomeno delle regole che disciplinano la produzione
del diritto.
Le disposizioni dichiarate incostituzionali sono abrogate per
l’espressa previsione dell’art. 136 della Costituzione e non possono essere
utilizzate per risolvere controversie giudiziarie. La non ‘utilizzabilità’ però
è la conseguenza non della perdita di efficacia disposta dalla Costituzione,
che riguarda solamente il futuro, ma della dichiarazione di incostituzionalità.
È l’effetto non dell’abrogazione, ma dell’accertamento giurisdizionale
dell’invalidità della legge, che non innova ma dice qual è il diritto
esistente. Dal punto di vista della giurisdizione, la sentenza di accoglimento
della Corte costituzionale ha dunque il valore dell’accertamento definitivo
dell’incostituzionalità; e dalla legge incostituzionale non si possono dedurre
le regole che giustificano la risposta alla domanda rivolta a un giudice.
Con questa precisazione si chiarisce la questione se debba
essere obbedita la legge incostituzionale. Lasciando da parte le oziose
questioni definitorie fin troppo dibattute, anche perché erroneamente
considerate rilevanti per la definizione del modello di giustizia
costituzionale accentrato, è un problema pratico e non teorico: si tratta di
capire non che cosa sia e a cosa serva il giudizio di costituzionalità, ma se
sia responsabile il pubblico funzionario che applichi leggi incostituzionali.
Quindi di una domanda attinente alla disciplina della responsabilità dei
pubblici dipendenti, che qui non interessa. Per il resto, in generale, nessuno
è tenuto a obbedire o a disobbedire alla legge invalida e ciascuno stabilisce
la propria condotta sulla base di ciò che ritiene sia il diritto valido
pertinente, sopportandone il peso se sbaglia[12].
Le leggi invalide pertanto non sono efficaci, in questo senso
non hanno vigore. Tuttavia, a questo punto, è abbastanza chiaro che l’atto
abrogativo ha effetti costitutivi, mentre la pronuncia di incostituzionalità
soltanto dichiarativi. Sicché la legge abrogata perde efficacia a causa
dell’entrata in vigore di una nuova legge, mentre quella invalida è inefficace
originariamente, non acquista vigore. A rigore, l’abrogazione è determinata non
dalla nuova ma dalla legge precedente: più precisamente, quest’ultima descrive
il fatto in presenza del quale la legge perde efficacia. Le condizioni di
vigenza e di validità delle leggi sono stabilite dalle leggi, che logicamente e
cronologicamente le precedono[13]. Pertanto, la perdita di
efficacia delle disposizioni dichiarate illegittime è attribuibile alla
sentenza di accoglimento per un’illusione ottica: come l’abrogazione avviene
perché la legge precedente prevede come fatto abrogativo l’entrata in vigore
della nuova legge, così l’accoglimento della questione di legittimità
costituzionale è la condizione fattuale per la quale si produce l’abrogazione
prevista dall’art. 136. Questa previsione non rende la sentenza di accoglimento
un fatto legislativo. Le leggi temporanee cessano di vigere a una certa
scadenza; e non si può certo asserire che il tempo detti legge, se non
retoricamente. Con ciò voglio dire che la sentenza di accoglimento non dispone
la perdita di efficacia ex nunc della
disposizione legislativa incostituzionale, ma dichiara, accerta
l’incostituzionalità. La circostanza che la costituzione le attribuisca
l’effetto abrogativo non trasforma l’accertamento dell’invalidità nella
produzione di una nuova legge.
L’annullamento della legge, inoltre, non è la conseguenza
logicamente necessaria del giudizio d’incostituzionalità. Accade quando è
previsto da una regola che può disporre della vigenza della legge. La
competenza a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi dunque non
attribuisce implicitamente il potere di annullare le disposizioni
incostituzionali. L’annullamento della legge è stabilito non dalla sentenza –
che accerta soltanto l’invalidità – ma dalla previsione costituzionale[14], cosicché non si
produrrebbe se non fosse espressamente disposto: la legge dichiarata incostituzionale
non verrebbe eliminata, rimarrebbe vigente, quantunque verosimilmente
inutilizzabile[15].
L’incostituzionalità è pronunciata nell’esercizio della
competenza attribuita dall’art. 134 della Costituzione: nei procedimenti su
ricorso è la soluzione della controversia devoluta alla giurisdizione del
tribunale costituzionale; nel procedimento incidentale è un giudizio funzionale
alla decisione della causa pendente davanti al giudice comune. È dunque
ragionevole pensare che non sia il mero presupposto dell’annullamento ma che
abbia un proprio valore, adatto alla competenza esercitata, quindi
specificamente giurisdizionale.
Allora il giudicato costituzionale ha valore giurisdizionale e
giustifica la disapplicazione della legge invalida. Nei casi in cui la Corte
costituzionale è il giudice della controversia non si pone il problema
dell’efficacia dell’accertamento: è evidente che esso è la premessa logica
della sua decisione. Nel giudizio incidentale, invece, va fondato il vincolo
della dichiarazione d’incostituzionalità nei confronti del giudice comune.
L’annullamento è ex nunc, quindi per
il rapporto sottoposto al giudice a quo,
la disposizione dichiarata incostituzionale è vigente. Il giudice tuttavia la deve
disapplicare. Non può dedurne alcuna norma per rivolvere la controversia
pendente davanti a lui, perché la Corte costituzionale, decidendo la questione
di legittimità costituzionale sollevata in quel processo, ha accertato che essa
è incostituzionale. In altri termini, per quanto riguarda la controversia in
cui è sorta la questione, l’incostituzionalità della disposizione pertinente è
stata accertata definitivamente nel modo previsto, secondo le regole del
procedimento incidentale. Perciò, sarebbe chiaramente viziata la sentenza che
fosse motivata da una norma la cui incostituzionalità sia stata riscontrata
nello stesso processo nel quale essa è stata pronunciata. Insomma, la
disapplicazione nel giudizio a quo è
una regola implicita all’instaurazione incidentale del giudizio di
costituzionalità disposta dalla legge costituzionale n. 1 del 1948 [16].
Gli altri giudici però non sarebbero vincolati a rispettare la
pronuncia della Corte costituzionale. Per essi, infatti, l’incostituzionalità è
soltanto la motivazione di una sentenza pronunciata in un diverso processo e
non sono tenuti a seguirla. Sennonché la legge n. 87 del 1953 (art. 30) vieta
l’applicazione delle norme dichiarate incostituzionali, quantunque vigenti.
Pertanto sono invalide tutte le sentenze che applicano norme dichiarate
incostituzionali. In questo modo, il giudicato costituzionale è efficace nei
confronti del giudice del caso nel quale è sorta la questione di
costituzionalità e di tutti gli altri giudici di analoghe controversie[17].
La Corte costituzionale sostiene che questo valore
giurisdizionale del giudicato costituzionale è uno sviluppo della previsione
dell’art. 136 Cost.[18]. Sbaglia: dalla perdita
di efficacia (ex nunc) non se ne può
inferire il divieto di applicazione di norme dedotte da disposizioni (che
erano) vigenti quando si sono verificati i fatti, mentre è logico non applicare
leggi giudicate invalide, ancorché vigenti. L’art. 30 della legge 87 del 1953 è
semmai un coerente sviluppo dell’art. 134 della Costituzione, poiché vincola l’esercizio
della giurisdizione all’accertamento dell’incostituzionalità spettante
all’unico giudice delle leggi. La previsione dell’art. 136 invece obbliga il
legislatore a non riprodurre le norme dichiarate incostituzionali. Va da sé,
poi, che nessuno può ricavare norme da leggi non più efficaci perché colpite da
una pronuncia di illegittimità.
Il divieto di applicazione riguarda chiaramente le norme, mentre
la dichiarazione d’incostituzionalità colpisce la disposizione. Ma ciò non vuol
dire che la sentenza di accoglimento ha due oggetti nei confronti dei quali
agisce diversamente: l’uno disciplinato dalla Costituzione, la cessazione
dell’efficacia della disposizione, l’altro dalla legge ordinaria, la
disapplicazione della norma. La disapplicazione giudiziaria della legge, cioè
della disposizione interpretata, è la conseguenza logica dell’accertamento
dell’incostituzionalità. Tuttavia nei giudizi di costituzionalità instaurati in
via incidentale il giudice che pronuncia l’invalidità è diverso da quello della
controversia e non ha giurisdizione su di essa. Sicché, qui la disapplicazione
è una conseguenza non logica ma giuridica: è imposta dalla regola del
procedimento incidentale e da quella della legge 87/1953, che prescrive la
disapplicazione di qualsiasi norma dedotta dalla disposizione dichiarata
invalida.
La legge incostituzionale, dunque, quantunque vigente, non
vincola i giudici quindi nessuno. Inoltre, cessa di vigere dopo la
dichiarazione della sua illegittimità costituzionale. L’art. 136 della Costituzione
– che del resto usa l’espressione «norme» come l’art. 30 della legge 87/1953,
ma sicuramente in un senso tecnicamente impreciso – alla disapplicazione
conseguente all’accertamento dell’invalidità costituzionale, infatti, aggiunge
l’annullamento della legge, un effetto ulteriore rispetto a quello
giurisdizionale. L’annullamento evidentemente riguarda l’enunciato: il testo è
una cosa che esiste e che può essere creata e distrutta; il suo significato è
un pensiero riguardo a ciò che si deve o non si deve fare, una regola che si
applica o non si applica.
L’essai veut montrer que le contrôle
centralisé de constitutionnalité est une fonction judiciaire. Il est donc
incompatible avec la théorie de Kelsen que la justice constitutionnelle abroge les
lois inconstitutionnelles et protège la constitution en préservant le compromis
entre la majorité et la minorité du Parlement qui assure la paix sociale.
*Riassumo qui una tesi che ho illustrato diffusamente nel volume
La disposizione valida e la norma vera,
Milano 2015.
[1] H. KELSEN, Wer
soll der Hüter der Verfassung, trad. it. in ID.,
La giustizia costituzionale, Milano
1981, 256.
[3] Cfr. C. SCHMITT, Der
Hüter der Verfassung, Berlin 1931, trad. it. Il custode della costituzione, Milano 1981, 203 ss.
[4]
L’idea che si debba stabilire la prevalenza della tutela giudiziaria dei
diritti su quella legislativa o viceversa è contrastata di recente da O.
CHESSA, I giudici del diritto, Milano
2014, 103 ss., il quale dimostra che nessuno in realtà ha l’ultima parola.
[5] Cfr. 84/1996: «In generale
la disposizione – della cui esatta identificazione, al momento dell'ordinanza
di rimessione, è onerato il giudice rimettente (sentenza n. 176 del 1972), non
potendo egli limitarsi
a denunciare un principio (sentenza n. 188 del 1995) – costituisce il
necessario veicolo di accesso della norma al giudizio della Corte, che si svolge sulla norma quale oggetto del
raffronto con il contenuto precettivo del parametro costituzionale, e
rappresenta poi parimenti il tramite di ritrasferimento nell'ordinamento della
valutazione così operata, a seguito di tale raffronto, dalla Corte medesima, la quale quindi giudica su norme, ma si pronuncia su disposizioni. Si
disvela così, in tal caso, la funzione servente e strumentale della
disposizione rispetto alla norma, sicché è la immutata persistenza di
quest'ultima nell'ordinamento ad assicurare la perdurante ammissibilità del
giudizio di costituzionalità sotto il profilo dell'inalterata sussistenza del
suo oggetto (che costituisce altresì, sotto questo aspetto, ragione della sua
persistente rilevanza), mentre l'eventuale successione di una disposizione ad altra rileva soltanto al fine
di riversare correttamente l'esito del sindacato di costituzionalità
nell'ordinamento. Sicché solo in senso figurato può dirsi
"trasferita" la questione di costituzionalità, che viceversa rimane
ancorata all'oggetto identificato nell'atto introduttivo del giudizio»
(l’enfasi è mia).
[6] «In linea di
principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è
possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di
darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali»
(356/1996).
[7] G. ZAGREBELSKY e V.
MARCENÒ, Giustizia costituzionale,
Bologna 2012, 384, sostengono che le sentenze interpretative di accoglimento
«sono da considerare per tutti vincolanti (hanno “forza di giudicato”)»;
ciononostante subito dopo aggiungono: «anche se, rimanendo immutata la formula
legislativa, sarebbe astrattamente possibile immaginare che i giudici comuni,
rivendicando a sé una piena capacità interpretativa delle disposizioni
legislative, pretendano di trarre comunque tutti i significati che appaiono loro
plausibili, dal testo immutato».
Allora la pronuncia interpretativa di accoglimento non vincola
nessuno ed è misteriosa la sua «forza di giudicato». Al riguardo osservano che
tuttavia «i giudici si assoggettano alle pronunce di incostituzionalità, ancorché
interpretative». È evidente che questo dato di fatto non chiarisce in alcun
modo quale sia la forza giuridica del giudicato.
[8] Lo sostengono F.
MODUGNO, Scritti sull’interpretazione
costituzionale, Napoli 2008, 296, e A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Milano 2008, 267. Modugno
peraltro ritiene che le decisioni di accoglimento sono vincolanti per tutti, «ma nella sola parte demolitoria – in
quanto incidono, cancellandoli, sui testi – e non già anche in quella
ricostruttiva» (ibidem, 297. Il corsivo
è testuale).
[9] A. PUGIOTTO, Dottrina del diritto vivente e ridefinizione
delle sentenze additive, in Giur.
cost., 1992, 3670 ss.
[11] Cfr. A. PIZZORUSSO, I sistemi di giustizia costituzionale: dai
modelli alla prassi, in Quaderni
costituzionali, 1982, 522 ss.
[12] G. ZAGREBELSKY, V.
MARCENÒ, op. cit., 362, sostengono
che l’accertamento dell’incostituzionalità ha portata innovativa o costitutiva
nel senso che «fa cadere la possibilità che ciascuno aveva di prestare
obbedienza alla legge e impone a tutti di considerarla priva di efficacia: per
il futuro, causa di possibile responsabilità sarà difatti proprio
l’obbedienza». Se si lascia da parte il problema della responsabilità di chi,
in ragione del suo ufficio pubblico, ha particolari doveri di obbedienza,
l’atto posto in applicazione di una legge invalida è semplicemente privo di un
fondamento legale, sia prima che dopo l’accertamento dell’incostituzionalità.
La pronuncia dell’incostituzionalità cambia qualcosa per quanto riguarda i
giudici: prima non possono disapplicare la legge e devono sollevare la
questione di legittimità costituzionale, poi la devono disapplicare, per i
motivi di funzionamento del giudizio incidentale che illustrerò tra poco.
[14] Cfr. G. ZAGREBELSKY,
V. MARCENÒ, op. cit., 346: «Le
sentenze che dichiarano l’incostituzionalità delle leggi possono considerarsi
decisioni di accertamento che rimuovono uno stato di dubbio, sancendo
definitivamente e “ufficialmente” un vizio preesistente, peraltro già prima
riconoscibile da chiunque, nell’ambito dei propri comportamenti giuridicamente
rilevanti. Gli effetti innovativi o costitutivi nell’ordinamento giuridico sono
stabiliti, una volta per tutte, dall’art. 136 della Costituzione, ove
all’accertamento e alla dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della
legge da parte della Corte costituzionale si fa conseguire la sua perdita di
efficacia».
[16] È la soluzione che C.
ESPOSITO, Il controllo giurisdizionale
sulla costituzionalità delle leggi in Italia, in La Costituzione italiana, Padova 1954, 269 ss., propone
all’indovinello dell’instaurazione incidentale del giudizio di costituzionalità
e dell’effetto ex nunc della sentenza
di accoglimento che impedisce di utilizzare nel giudizio a quo la dichiarazione
di incostituzionalità.
[17] Cfr. G. ZAGREBELSKY,
V. MARCENÒ, op. cit., 351: «L’effetto
della decisione della Corte costituzionale è (…) per il futuro un effetto
sostanziale analogo all’abrogazione; per il passato, un effetto processuale il
quale, però, si riflette naturalmente sul piano dei rapporti sostanziali in
corso».