Le discipline storico-giuridiche di
fronte alla crisi delle scienze umane [1]
Università di Bergamo
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Alle origini della crisi. – 3. La crisi delle scienze. – 4. In Italia. – 5. Alla ricerca di un
significato. – 6. Le discipline storiche del diritto (e non
solo loro) in un mare tempestoso. – Abstract.
E’ certo non facile il
compito di discutere dello stato delle nostre discipline nel contesto presente.
Vorrei perciò premettere alcune precisazioni
sui limiti e sugli scopi del mio contributo che, come si vedrà, muove
da un punto di vista inusuale, almeno rispetto alla tradizione della
Società Disciplinare.
Vorrei di tentare, in primo luogo, di esaminare i problemi e i rischi che incombono nell'ambiente storico e sociologico nel quale si collocano le nostre discipline. La crisi di cui
parliamo, e della cui esistenza credo che nessuno di noi possa dubitare, viene
infatti da lontano e coinvolge tutte le scienze umane. Anzi, a dire il vero,
essa coinvolge anche le scienze sociali e perfino le scienze cosiddette «dure»,
anche se in modi diversi.
La
crisi investe infatti, interi modelli
educativi e per certi versi si potrebbe dire che essa riguarda il concetto stesso
di «ricerca scientifica».
Solo uno sguardo
complessivo, credo, può consentire una comprensione piena dei rischi che
gravano sulle nostre discipline, con le loro peculiarità e le loro specificità.
La crisi di cui stiamo
parlando è un fenomeno sovranazionale e l’Italia vi sta entrando con un certo
ritardo: per una volta, meglio così. Personalmente, non intravedo comunque
all’orizzonte nulla di tranquillizzante, per quanto si possa sperare che le
amare esperienze vissute altrove e che in molti casi hanno indotto una reazione
alla crisi, agiscano almeno in parte da anticorpo o da vaccino per il nostro
Paese.
Nel lessico aziendale e
finanziario si parla spesso di risks and opportunities. A dire il vero,
ho la sensazione che davanti a noi vi siano molti più rischi che opportunità.
Aggiungo
che non ho, né potrei avere soluzioni da offrire.
Inoltre, prego fin d’ora di scusarmi se non esporrò dotte disquisizioni sulle
fortune delle scienze storiche del diritto negli ultimi decenni, sui diversi
approcci adottati, sulle diverse scuole. Questo è un compito che spetta ad
altri – e che da altri è stato già egregiamente svolto[2].
Molto più modestamente desidero
in questa sede tentare di tratteggiare un quadro del contesto nel quale le
nostre discipline debbono oggi situarsi: il mio intento, lo chiarisco subito, è
dunque in senso lato politico e motivato dalla speranza che le nostre comunità
disciplinari sappiano confrontarsi nel modo più efficace con i pericoli che le
circondano.
Non si può comprendere la situazione attuale senza rivolgere lo
sguardo al passato: un passato indubbiamente recente ma che per molti versi
appare lontanissimo.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sarebbe stato assai
difficile sentir parlare di crisi delle scienze umane. A partire dagli anni
novanta dello scorso secolo, invece, hanno iniziato a comparire – non tanto in Italia – quanto all’estero e specialmente
nel mondo anglosassone, saggi e volumi dedicati a questo tema. Negli anni duemila, la letteratura in
materia ha assunto dimensioni
estremamente rilevanti[3]. Che cosa, dunque, è
accaduto, nel volgere di poco più di una cinquantina di anni? Per rispondere,
occorre distinguere due aspetti, che tuttavia sono fra di loro strettamente
correlati.
Da un canto, gli anni della Seconda Guerra Mondiale hanno
portato ad un profondo ripensamento del sistema educativo: la vittoria contro
il nazifascismo, in particolare – ma non solo – negli Stati Uniti, è apparsa
anche come il frutto di una superiorità tecnologica, culminata infine con la
costruzione e l’uso dell’arma nucleare.
E’ in questo contesto che un ingegnere elettronico, dotato di
notevoli capacità gestionali e di una non comune preveggenza elaborò l’idea
della necessità del massiccio sostegno pubblico alla ricerca scientifica.
Vannevar Bush, che aveva lavorato in ambienti legati alla Difesa ed aveva avuto
un ruolo non secondario nel Progetto Manhattan, nel suo rapporto del 1945
indirizzato al Presidente degli Stati Uniti e intitolato significativamente Science, The Endless Frontier, si faceva
promotore di una politica di investimenti pubblici nella ricerca scientifica
quale volano dello sviluppo economico, politico e sociale del paese. Lo scritto
di Bush, tutt’ora disponibile sul sito della NSF[4], è opera di una persona
accorta e ben consapevole dei pericoli che la ricerca scientifica può
incontrare sulla sua strada: per questo egli richiamava l’importanza della
ricerca di base anche se – come è noto – essa costituisce un investimento a
rischio, soggetto a possibili fallimenti. Così pure, egli riaffermava come
principio irrinunciabile la libertà di ricerca.
Naturalmente, nel quadro postbellico sono soprattutto le
discipline mediche e quelle di ambito ingegneristico ad essere oggetto
dell’interesse di Bush. Egli
però raccomandava che il potenziamento delle scienze dure non scalfisse in
alcun modo le scienze umane: «It would be folly to set up a program under which
research in the natural sciences and medicine was expanded at the cost of the
social sciences, humanities, and other studies so essential to national
well-being»[5].
Con Bush nasce dunque quella che poi sarà chiamata knowledge economy. Non che, già nel XIX
secolo, fosse mancata la consapevolezza dell’importanza della ricerca
scientifica per il progresso delle nazioni; ma i modi di produzione e di disseminazione della ricerca,
e la stessa formazione degli scienziati, erano ben diversi da quelli
disponibili negli anni ’40 dello scorso secolo.
Come dicevo, Bush
difendeva l’importanza delle scienze umane e sociali per il benessere della
società; in ciò egli era certamente influenzato anche dalla consolidata tradizione
di liberal education tipica dei college americani da ben più di un
secolo[6]. Era chiaro però che il
grosso dei finanziamenti pubblici sarebbero stati indirizzati verso le
cosiddette scienze dure, più bisognose di fondi per sostenere un’attività di ricerca
vieppiù costosa a causa di macchinari, laboratori e così via: non a caso Bush
si esprime in difesa delle humanities con un paragrafo intitolato A note of warning. Egli doveva essere
consapevole del rischio che – in periodi di crisi economica – le risorse a
favore delle scienze umane e sociali fossero drenate a favore delle scienze
dure.
D’altra parte, va osservato che anche grazie alla pur meritoria
opera di Bush, iniziò ad approfondirsi il solco fra scienze dure e scienze soft.
Poco più di un secolo prima di The endless frontier, il primo volume del Politecnico di Cattaneo, che pure si definiva quale Repertorio mensile di studi applicati alla
prosperità e coltura sociale[7], ospitava accanto ad
«applicazioni fisiche e matematiche, agraria, tecnologia, storia naturale,
medicina», le sezioni «arte sociale, studi economici, amministrativi, legali,
istorici» nonché «belle arti e belle lettere» e così via. In Cattaneo, e
probabilmente ancora in Bush, era presente una idea di sostanziale unità del
sapere – senza distinzioni al suo interno – che al giorno d’oggi appare
pressoché totalmente scomparsa. Per Cattaneo il sapere nel suo complesso era
«applicato alla prosperità e alla coltura sociale», tanto che uno scritto Sulla genesi e sull’officio della filosofia
morale o su Vico e l’Italia
trovava agevolmente posto accanto a scritti sul lantanio o sulla costruzione
delle caldaie a vapore. D’altra parte, una simile visione unitaria del sapere
animava nel XIX secolo l’attività delle Accademie, sorte in molte delle città
italiane, e dedite alla cura di “scienze e lettere”, sicché studiosi di diversa
provenienza, sia pure divisi in “classi” avevano frequente occasione di
incontro e di dibattito.
L’avvento della cosiddetta società di massa, lo sviluppo di un
sistema produttivo sempre più specializzato, insieme alla serrata competizione
tecnologica per la superiorità militare determinata dalla Guerra Fredda erano
per forza destinate a tracciare un solco fra scienze dure e scienze soft, o per usare un altro termine, fra scienze
e discipline più o meno utili (useful
science)[8].
Non a caso, uno dei primi volumi dedicati alla crisi delle
scienze umane risale al 1964 [9]; il curatore, J.H. Plumb,
osserva come a fronte di un crescente interesse collettivo per le discipline
umanistiche e sociali, ben visibile al livello della comunicazione di massa, il
sapere umanistico si trovi di fronte a una sorta di crisi di identità,
intrappolato nell’incapacità di adattarsi alle mutate condizioni economiche e
sociali[10].
Per secoli la ricerca scientifica si era sviluppata
autonomamente, non senza incidenti ed errori di percorso, ma sulla base di
regole proprie e spesso sul fondamento di una quasi totale gratuità
dell’attività di ricerca: ars gratia
artis. Solo a partire dal XIX secolo si iniziò a comprendere l’importanza
della ricerca per la prosperità delle Nazioni, avviando un processo culminato
nella seconda metà del secolo XX[11].
Dal momento in cui la scienza tutta è divenuta oggetto di
interesse della politica economica dei governi, essa non poteva che subire
alcuni significativi contraccolpi. Entrano allora in gioco alcune categorie,
come produttività, utilità, rendimento, che in stretta correlazione al
massiccio finanziamento pubblico[12],
non possono che contribuire a ridisegnare il panorama delle scienze stesse.
Non solo: le nuove dinamiche della sociologia della scienza,
innescate dal crescente sviluppo – a tutti i livelli e in tutte le aree – della
conoscenza scientifica, rinviano sempre di più a una specializzazione e
parcellizzazione dei saperi, che anch’esse contribuiscono ad accentuare la
separazione fra scienze dure e scienze soft,
e non da ultimo ad allontanare le scienze umane e sociali dal discorso pubblico[13].
Il punto di svolta in questo processo evolutivo è probabilmente
da individuare nel governo di Margaret Thatcher; la futura Baronessa, infatti,
non esitò a marchiare lo studio delle humanities
nelle università britanniche quale segno di uno snobismo elitista capace di
consumare indebitamente e senza adeguato rendimento le risorse pubbliche[14]. Le politiche del governo
inglese in materia di educazione terziaria, fatte soprattutto di tagli di fondi
e di promozione delle discipline cosiddette STEM (science, technology, engineering and mathematics) generarono
rapidamente un clima di conflitto che vide tra l’altro l’Università di Oxford
negare una laurea ad honorem in
diritto civile all’allora primo ministro: la quale rispose seccamente,
peraltro, che dal mancato conferimento non era per nulla toccata[15].
In realtà, le politiche educative di Margaret Thatcher
riflettevano cambiamenti economici e sociali che già avevano cominciato a
prendere piede: l’intervento della finanza pubblica nella formazione e nella
ricerca universitaria rendeva necessario rendere conto ai cittadini
contribuenti di come le loro tasse erano spese e di quale rendimento avevano generato[16].
Agli occhi dell’opinione pubblica, la produttività e i benefici
delle discipline STEM erano (e sono) ben evidenti; il che non si può dire per
le scienze umane e sociali, e in particolare per le prime. Inoltre, i
dipartimenti STEM erano spesso in grado di reperire ingenti finanziamenti
esterni per il loro funzionamento e per la loro onerosa attività di ricerca, a
differenza degli umanisti.
Insomma, le torri d’avorio, nelle quali erano pacificamente
vissuti per generazioni gli accademici inglesi, iniziarono ad andare
rapidamente in frantumi: ma il crollo era anche il frutto di un cambiamento
radicale nella formazione della popolazione del paese.
Iniziava ad affermarsi una università di massa e il diffondersi
della formazione universitaria, fino a pochi decenni prima appannaggio di una
piccola frazione della popolazione, comportava un mutamento degli obiettivi
della formazione stessa, necessariamente destinata ad adattarsi ai requisiti
del mercato del lavoro. Lo studio universitario, insomma, diveniva un fattore
nella produttività del capitale umano.
In questo quadro, iniziò a entrare in crisi il modello educativo
che per secoli era stato proprio delle classi dirigenti: un modello fondato
essenzialmente sullo studio delle lingue antiche, sulla lettura dei classici e
più in generale su di una educazione liberale incentrata sostanzialmente sulle humanities. Non più di quindici anni fa
Franco Cingano, all’epoca successore di Enrico Cuccia alla guida di Mediobanca,
ricordava in uno scritto apparso su Belfagor,
come le grandi istituzioni finanziarie della City preferissero reclutare
laureati in discipline umanistiche, e specialmente classics, piuttosto che matematici[17]. Una tradizione antica –
basti pensare al banchiere George Grote, autore alla metà del XIX secolo di una
monumentale e pregevolissima History of
Greece – ma ormai destinata a un rapido e inesorabile declino: un declino,
peraltro, che si mostrerà assai più evidente nel Regno Unito e nel continente
europeo che negli Stati Uniti[18]. L’educazione umanistica,
insomma, non era più il requisito per far parte dell’upper class.
Del resto, la stessa Thatcher interpretava il conservatorismo
delle blasonate sedi di Oxford e Cambridge come un ostacolo alla sua visione
della formazione universitaria quale fattore di mobilità sociale[19].
In questo contesto di profondi mutamenti di natura sociologica,
si inserisce l’adozione del cosiddetto NPM (New
Public Management). Senza entrare in questa sede nel dettaglio di questo
stile di governance, importa qui
osservare che esso comporta una gestione dell’amministrazione per obiettivi,
fondata sulla misurazione dei risultati, oltre che sull’applicazione di
incentivi e disincentivi[20]. Anche gli atenei, per
questa via, si aprivano alla valutazione, parola ormai divenuta una sorta di
feticcio, ossia alla misurazione dei risultati conseguiti in funzione delle
risorse assegnate.
Nasceva così, nel Regno Unito, il RAE (Research Assessment Exercise), condotto dall’HEFCE (Higher Education Funding Council for England):
era l’anno 1986. L’esercizio nazionale di valutazione britannico prosegue
tuttora, anche se dal 2014 ha cambiato nome in REF (Research Excellence Framework).
L’adozione di un meccanismo di valutazione centralizzato delle
università fu un evento di capitale importanza, anche per l’accademia italiana,
poiché proprio al modello inglese si ispirò il legislatore e il Ministero nel
disegnare gli esercizi di valutazione nazionale, dalla VTR del 2006 alla VQR[21], la cui seconda tornata è
in procinto di avviarsi.
Si è detto più sopra delle cause della crisi delle humanities nel Regno Unito: i meccanismi
di valutazione, funzionali al NPM, erano destinati ad approfondire tale crisi
in un processo circolare e cumulativo[22].
Ma è corretto parlare di crisi delle sole humanities?
Quando nel 1986 prese avvio il RAE, non mancarono gli scettici
né le proteste; credo che tuttavia nessuno potesse immaginare, allora, le
conseguenze dell’«esperimento pilota» condotto nel Regno Unito. Il progressivo
affermarsi, in parte dei paesi europei, di strumenti di valutazione
centralizzati, era destinato a cambiare il panorama non solo delle scienze
umane, ma della ricerca scientifica in generale. Nel frattempo, gli Stati Uniti
seguivano un percorso diverso: in assenza di un sistema di welfare tipicamente europeo, la valutazione si caratterizzava come
prevalentemente ex ante (ossia per
valutazione di bandi competitivi) anziché ex
post. Non è questa la sede dove discutere pregi e difetti dei due modelli:
piuttosto, vorrei far notare che la valutazione della ricerca su larga scala è
operazione problematica.
Intendiamoci: fin dall’antica Grecia gli studiosi si valutano
fra loro e disputano sulla bontà delle loro tesi; l’ambiente accademico è da
sempre un ambiente intrinsecamente competitivo, nel quale la valutazione
reciproca è elemento centrale. Per certi versi si potrebbe dire che perfino le
“rivoluzioni scientifiche” o i “cambi di paradigma” che mettono in crisi –
nella teoria di Kuhn – la cosiddetta scienza normale[23], siano il frutto della
valutazione, ma intesa come esito
di uno scontro tutto interno alle comunità scientifiche. In effetti, per secoli
la scienza – e intendo con essa tutto il dominio del sapere – è progredita da
sé, legata strettamente alle dinamiche più o meno conflittuali degli adepti di
questa o quella disciplina.
Il discorso cambia
nel momento in cui la ricerca scientifica è sussidiata dallo Stato, ed è
sussidiata per ottenere scopi di evidente rilevanza pratica. Quali le
conseguenze? Come si è già detto, inizia a porsi la insidiosa distinzione fra scienza “utile” e “inutile”: il
governo della cosa pubblica non è – spesso – paziente a sufficienza, né
sufficientemente lungimirante, per intravedere l’utilità di un filone di
ricerca che magari rivelerà tutta la sua importanza nel torno di uno o più
decenni, o forse più[24].
Per questa ragione la ricerca scientifica tutta è un investimento rischioso: non è detto che essa abbia successo, non è detto che essa
fornisca i “guadagni” sperati. Per secoli, sono stati i singoli individui,
eventualmente insieme ad istituzioni solo modestamente finanziate dallo Stato,
a fare questa sorta di investimento a rischio: mettendo in gioco la loro
reputazione e la loro stessa esistenza. Si trattava quindi di un affare essenzialmente privato, anche se tutt’altro
che privo di ricadute pubbliche.
Con gli anni ’80 dello scorso secolo, l’avvento del NPM e delle
procedure di valutazione, tutto cambia. Occorre valutare la qualità della ricerca, per decidere
l’allocazione di ingenti fondi pubblici. Ma cosa significa valutare la qualità
della ricerca? E soprattutto, a quali obiettivi risponde la valutazione della
qualità della ricerca? Si tratta di obiettivi che devono essere selezionati e
individuati in primo luogo dai policy
makers, sempre che essi siano in
grado di farlo. Per esempio, è ovvio che la ricerca medica o aeronautica ha delle
ricadute rilevanti sull’economia del Paese, sulla salute dei suoi cittadini,
sulle sue capacità militari e di difesa. Meno ovvia l’utilità di studi
etnografici, storici e antropologici che tuttavia – al di là del loro indubbio
valore intrinseco – hanno sempre costituito un oggetto di interesse da parte
delle potenze imperiali o aspiranti tali: basterebbe a questo proposito pensare
alla serie Indo-Tibetica di Giuseppe
Tucci, largamente finanziata dal Regime negli anni trenta. O al ruolo anche
politico e diplomatico delle missioni e delle scuole archeologiche all’estero,
così come degli istituti di cultura, non a caso largamente sottovalutati dagli
ultimi governi del nostro Paese.
Il problema, a mio parere,
sta nel fatto che nel mondo del NPM gli stessi policy makers non sono in grado di prendere decisioni informate,
sicché la valutazione della ricerca si è andata spostando essenzialmente su
misure apparentemente oggettive di produttività e impatto nell’arco del tempo:
il ben noto publish or perish. E tuttavia,
qualità, produttività e impatto non sono categorie necessariamente coincidenti.
Non solo: a questo punto interviene un ulteriore fattore, almeno altrettanto
importante dei precedenti, che combina in sé ragioni economiche e di sociologia
della scienza.
Infatti, è difficile smentire che il più antico – e dunque più
sperimentato – strumento di valutazione della qualità della ricerca sia la peer
review. E’ certo vero che da quasi quarant’anni si discute
dell’affidabilità di questo metodo, messo in crisi non solo da quella che si
usa ormai definire “soggettività”[25],
ma anche dalla progressiva specializzazione di un po’ tutti gli ambiti
disciplinari[26]. Una specializzazione
che se da un canto non si può negare che abbia portato maggior profondità nella
ricerca scientifica, d’altro canto ha finito per rendere incomunicabili fra
loro persino discipline assai vicine, o addirittura
parti di una stessa disciplina.
In questo quadro, l’incremento esponenziale dell’attività di
revisione richiesta da riviste e collane editrici – frutto peraltro della
crescita esponenziale della produzione scientifica mondiale[27] – ha contribuito a
sollevare molti dubbi sull’efficacia di questa antica e nobile pratica[28], che nonostante tutto
personalmente ritengo ancor oggi l’unica praticabile non solo per una autentica
valutazione sul piano qualitativo, ma perché si possa sostenere davvero il
progresso scientifico[29]. Questo l’aspetto sociologico.
Per quanto riguarda il piano economico, se l’intento dei
meccanismi di valutazione – a tutti i livelli, da quello nazionale a quello
locale, a quello del reclutamento individuale – è di massimizzare il rendimento
dell’investimento fatto, appare evidente che una valutazione troppo costosa può
finire per rivelarsi controproducente, in quanto capace di sottrarre al sistema
più risorse di quante ne assicuri[30]. Di qui, in particolare
per la valutazione di grandi strutture o per esercizi nazionali, il successo
dell’analisi bibliometrica, i cui costi sono nettamente inferiori rispetto a
quelli della revisione dei pari, poiché le operazioni di calcolo possono essere
in larga parte – anche se non del tutto – automatizzate.
Tuttavia l’analisi bibliometrica citazionale – nata, come ben
noto per scopi biblioteconomici[31] – non è e probabilmente
non sarà mai in grado di fornire una misura di qualità, ma semmai di impatto[32]. Sembra forse banale
dirlo, ma credo sia bene ricordare che l’impatto misura la eco di una ricerca
nella comunità scientifica[33]. Ora, non sono pochi, sia
nelle scienze umane e sociali che nelle scienze “dure” gli studi che – pur di
altissimo livello qualitativo – hanno avuto per lungo tempo un impatto scarso,
quando non nullo[34].
Inoltre questa eco può essere positiva così come negativa, e soprattutto la eco
tende a essere tanto maggiore quanto più l’orientamento della ricerca è
allineato a filoni dominanti (mainstream)
o “alla moda”. Peggio ancora, l’impatto può essere accresciuto artificialmente
attraverso accordi di consorterie,
quando non con mezzi al limite dell’illecito[35].
L’analisi bibliometrica rischia dunque di pervertire lo sviluppo
della ricerca scientifica: i ricercatori di oggi non sono gli scienziati del
XIX secolo. Ovunque attraversano una sorta di proletarizzazione e se i loro
destini sono fatti dipendere dai loro punteggi bibliometrici essi
inevitabilmente si adegueranno alle regole del gioco, o se si preferisce si
adatteranno alla loro nuova nicchia ecologica, di fatto minando alle fondamenta la libertà della ricerca scientifica,
sacrificandola in cambio dell’utile personale e riducendo così la
“biodiversità” del panorama scientifico[36].
Decenni di analisi citazionale applicati in particolare alle
scienze biomediche stanno già mostrando i loro effetti: si moltiplicano i casi
di comportamenti non etici e di frodi[37], e qualcuno inizia a
chiedersi perfino se le capacità di avanzamento della scienza moderna non
stiano in realtà calando, a causa del prevalere di filoni di ricerca “orientati
alle citazioni”[38]. E’ una
forma particolarmente perniciosa di “Effetto S. Matteo”, che scoraggia dal
percorrere sentieri inesplorati, perché scarsamente redditizi in termini
bibliometrici, e che rischia di avere un effetto specialmente negativo in
particolare sulla cosiddetta scienza di base, che dovrebbe essere liberamente
guidata dalla curiosità del ricercatore: è questo un meccanismo che si sostiene
da sé e che amplifica i suoi effetti, perché sono i filoni di ricerca con
maggiore impatto a essere più
finanziati e ad attirare l’interesse dei ricercatori, in quanto maggiori
finanziamenti significano maggiori possibilità di carriera. D’altra parte, è in
atto un movimento dalla qualità alla quantità, per effetto di questo tipo di
valutazioni, che in alcuni paesi europei sta già colpendo le scienze umane,
incluse quelle giuridiche. Ad
esempio, nel Leuwen Law Research Report
si legge: «We feel it is vital to move “beyond quantity” and to re-focus on
quality. For that we need to look at the individual piece of work (IPW) itself
and get out of both the quantity madness and pure formal indicator imperialism
of ranking journals and presses, impact factors and citation index»[39].
A questo punto qualcuno si starà chiedendo che c’entri tutto ciò
con le discipline storiche del diritto. Io credo che la questione sia centrale,
e per questa ragione chiedo ancora qualche istante di pazienza.
Nel nostro paese, al di fuori delle scienze biomediche, l’analisi
bibliometrica e citazionale è rimasta per molti anni materia per pochi. Tuttora
molti ignorano la struttura dei principali indicatori bibliometrici, così come
i loro pregi, i loro difetti e il dibattito internazionale in materia. Gli
esperti italiani di scientometria sono ancora un numero molto esiguo e la
disciplina come tale non è insegnata nei nostri atenei ed è raramente oggetto
di ricerca. Ciò è un bene e un male allo stesso tempo. E’ un bene, perché per
lungo tempo la ricerca italiana, con l’eccezione dell’area biomedica, è stata
al riparo dalle distorsioni indotte dagli indicatori bibliometrici. E’ un male
perché la mancata conoscenza di questi ultimi la espone ad accettare
passivamente ciò che altrove è vivacemente discusso, quando non esplicitamente
rifiutato.
La situazione ha iniziato a cambiare drasticamente nel 2009, con
l’emanazione del D.M. 28 luglio 2009 n. 79, in attuazione della l. 1/2009. Il
decreto, destinato a regolare le procedure di reclutamento dei ricercatori,
all’art. 3 prevedeva in modo esplicito, anche se «limitatamente all’ambito dei
settori scientifico-disciplinari nei quali ne è riconosciuto l’uso», il ricorso
all’analisi bibliometrica nella valutazione delle pubblicazioni presentate dai
candidati. Il decreto, non più vigente, ha peraltro lasciato una traccia
profonda in alcuni settori, tanto che sovente le commissioni giudicatrici si
richiamano all’elenco – peraltro piuttosto incoerente – di indicatori là
previsti. Sia detto per inciso, il D.M. provocò un significativo contenzioso
amministrativo e in qualche caso i Tribunali Amministrativi non si
pronunciarono contro l’uso di tali indicatori anche nelle scienze umane e
sociali[40]. Si era comunque aperto
un varco: nel giro di pochi anni seguirono la prima VQR (esercizio nazionale di
valutazione della qualità della ricerca), relativa agli anni 2004-2010; proprio
in questo torno di tempo sta per avviarsi la seconda edizione dell’esercizio.
La VQR ha consacrato la
distinzione dei settori e delle aree disciplinari
fra “bibliometrici” e “non bibliometrici”, impiegando per i primi in modo
estensivo una “valutazione della qualità” basata essenzialmente su indicatori
bibliometrici.
Credo che gli artefici della prima VQR si aspettassero una
significativa discrepanza fra valutazione dei pari e analisi bibliometrica; ciò
perché sospettosi del fatto che la revisione dei pari, eventualmente
influenzata da consorterie e cordate accademiche, si sarebbe rivelata meno
severa dell’analisi bibliometrica. Proprio per questa ragione la scheda per i
revisori VQR delle aree sottoposte a revisione dei pari fu costruita in modo da
appiattire verso il basso le valutazioni, attraverso ponderazioni le cui
implicazioni suppongo siano in buona parte sfuggite ai revisori stessi[41].
Morale: la stessa ANVUR – o per meglio dire gli stessi GEV
(gruppi di esperti di valutazione) hanno dovuto riconoscere che in più
occasioni l’analisi bibliometrica si è dimostrata alquanto più generosa della peer review[42].
E’ questo un punto importante, sul quale occorrerà tornare fra breve.
A tutto ciò si sommavano le prime due tornate dell’Abilitazione
Scientifica Nazionale (ASN), poi sospesa a seguito del D.L. 90 del 2014, poi
convertito in legge con la l. 11 agosto 2014 n. 114. La sospensione fu motivata
dall’esigenza di modificare le procedure di abilitazione, che si erano
dimostrate non solo poco fluide, per usare un eufemismo, ma specialmente
foriere di contenzioso amministrativo – i cui esiti finali per alcuni settori
concorsuali ancora non si sono visti. Tuttavia, non è questo che interessa in questa sede: occorre piuttosto
rilevare come l’ASN abbia anche essa diviso il sapere scientifico in due
categorie: le discipline “bibliometriche” e quelle “non bibliometriche”. Al di
là della rozzezza di tale distinzione[43],
l’ASN ha sdoganato l’utilizzo – seppur non vincolante, almeno per quanto
riguarda la selezione dei candidati – di indicatori bibliometrici per la
selezione individuale[44].
Non voglio ora entrare negli aspetti critici delle procedure di abilitazione,
né intervenire sui problemi – assai gravi – che lascia intravedere la nuova
bozza del D.M. relativo ai criteri e parametri per l’ASN, che sembra semmai
irrigidire le strutture di un edificio già fragilissimo e dunque esposto a
sgretolarsi in sede giudiziaria[45]. Vorrei piuttosto considerare gli effetti di
quanto recentemente accaduto per le
scienze umane in Italia e arrivare, infine, alla situazione
peculiare delle discipline storiche del diritto.
Già negli anni ’60 dello scorso secolo Plumb e i coautori del
già citato volume osservavano come le scienze umane sembrassero soffrire di una
sorta di crisi di identità. Taluni giustamente osservavano come la storia o la
letteratura antica per la prima volta nella storia dell’umanità fossero in
grado di raggiungere milioni e milioni di curiosi lettori. Tutto questo mentre
gli studiosi di quelle discipline faticavano, nella crisi dei modelli
educativi, a darsi una ragione e un senso della propria missione[46]. Negli ultimi 50 anni la
situazione non pare certo migliorata: si è tentato di escogitare una pluralità
di argomenti per giustificare la necessità delle humanities, in modo quando più quando meno abile. Ad esempio, sono
stati scritti elogi dell’inutile[47] – ad avviso di chi scrive
con argomentazioni piuttosto deboli – e con maggiori ragioni si è sostenuto il
ruolo fondamentale delle scienze umane per il buon funzionamento delle
democrazie moderne[48]. Questi non sono che due
esempi di una rassegna di argomenti a giustificazione della sopravvivenza delle
scienze umane, che potrebbe essere assai più lunga ed articolata[49]. Non vorrei però qui soffermarmi su questo tema, se non per
segnalare che il problema, in quanto è stato posto in una assai vasta
letteratura, esiste.
Personalmente, ritengo che sia giunto il momento di abbandonare
forme di introspezione dirette alla ricerca di una “utilità” delle scienze
umane, da contrapporre alla useful
science nei confronti della quale tanti umanisti soffrono una sensazione di
inferiorità. La scienza e il
pensiero scientifico sono – o dovrebbero essere – un corpo unitario e credo che
ogni pretesa di netta separazione, di eccessiva frammentazione, di isolata
specializzazione costituiscano i primi sintomi di una malattia destinata a
danneggiare gravemente tanto le scienze dure quanto le scienze umane e sociali.
Non ho in questo una pretesa di universalismo che facilmente potrebbe essere
bollata come antiquata o irrealizzabile; credo semplicemente che vi siano
innumerevoli possibili punti di contatto fra discipline diverse e anche
diversissime, e che un’organizzazione della ricerca scientifica che sottovaluta piuttosto che favorire
tali punti di contatto, sia dannosa per le scienze tutte.
Tutto ciò premesso, vorrei ora segnalare come anche all’interno
della macro-area delle scienze umane e sociali si stiano producendo fratture.
Le crepe sono numerose e non è qui possibile elencarle tutte: un caso eclatante
è però quello delle discipline economiche (e in parte di quelle sociologiche e psicologiche).
Tradizionalmente lo studio dell’economia è sempre stato una
disciplina con molti punti in comune con la filosofia morale, con l’etica, con
la scienza politica, e ciò – se mi è consentita la provocazione – anche in tempi
ben più recenti di quelli di Aristotele. Come ha osservato Donald Gillies,
alcune scuole di pensiero economico hanno manifestato negli ultimi anni una
decisa tendenza ad assimilarsi
alle “scienze dure”[50]: in particolare gli
economisti neoclassici hanno adottato un linguaggio matematico che ha
senz’altro le proprie origini nelle dinamiche scientifiche delle scienze
economiche, ma che di fatto ha finito per traslare le discipline economiche da
un ambito non bibliometrico a uno decisamente bibliometrico. Detto in altri
termini, il mainstream economico,
anche per ragioni ideologiche, si è orientato verso l’imitazione delle scienze
dure adottando una sorta di retorica matematica, uno stile del discorso che in
più occasioni pare del tutto discutibile, poiché maschera un ragionamento
eminentemente politico dietro l’apparenza di una sorta di oggettività numerica[51].
Al di là della complessa questione dello statuto epistemologico
delle discipline economiche, è significativo notare come una parte delle
scienze umane e sociali si sia distaccata, nelle pratiche disciplinari, dal
gruppo al quale originariamente apparteneva per accostarsi alle scienze dure.
Fenomeni analoghi sono visibili anche nell’area sociologica, così come nelle
discipline psicologiche e linguistiche.
Si tratta per lo più di dinamiche interne alle singole
discipline che qui non è il caso di indagare oltre: quello che mi preme
segnalare è che una parte
ormai rilevante delle scienze sociali (e forse anche una certa parte delle
scienze umane) si stia orientando verso modelli tipicamente anglosassoni[52]. In effetti, profondi
mutamenti stanno incidendo sulla tipologia delle pubblicazioni, sui criteri di
valutazione delle stesse e dei loro “contenitori” e alla fin fine sui filoni
ricerca, sulle metodologie, sulle stesse comunità scientifiche, sempre più
portate a privilegiare una produttività che talvolta con la qualità della
ricerca ha ben poco a che fare. A questo proposito, vale la pena di dire
qualcosa anche in relazione al concetto di internazionalizzazione, ormai
onnipresente nei documenti relativi alla valutazione della ricerca: credo che
nessuno potrebbe mai affermare che l’internazionalizzazione sia di per sé un
male; l’apertura all’esterno delle comunità scientifiche, in particolare con i
mezzi oggi a disposizione, consente non solo una più rapida circolazione delle
informazioni, ma anche un indubbio arricchimento del sapere nel suo complesso.
Tuttavia, nel momento in cui la internazionalizzazione diventa numero,
indicatore, utilizzato magari per l’attribuzione di fondi o il reclutamento, le
cose possono iniziare a cambiare. La ricerca dell’internazionalizzazione può
diventare meramente strumentale, con il risultato di inaridire interi filoni di
ricerca che per la loro stessa natura sono intrinsecamente locali[53]: è questo un problema
particolarmente acuto per le scienze giuridiche, ma anche per quelle economiche
e sociologiche. Il cosiddetto impatto locale non è di per sé un male e se si
rinuncia ad esso per collocare papers
in lingua inglese su riviste a diffusione internazionale, si finirà per
danneggiare profondamente le capacità di governo, politiche e gestionali,
separando l’accademia dalla vita reale del Paese.
Tutto ciò premesso vorrei tornare alla questione di fondo: non
esiste alcuna buona ragione per la quale le scienze umane e sociali debbano
sentirsi in crisi, o alla ricerca di un loro nuovo significato. Per meglio
dire, la crisi dovrebbe essere una condizione frequente del sapere scientifico,
agendo come motore e stimolo per il suo sviluppo. Il problema sta, credo, più
all’esterno che all’interno delle nostre discipline: detto in altri termini, si
è consentito che si generasse un
contesto (penso alle politiche dell’università e della ricerca, alla governance degli atenei, ad alcuni
luoghi comuni presenti nell’opinione pubblica) modellato su logiche aziendali
che non sono adatte alla ricerca scientifica ed anzi la mortificano. Logiche
che peraltro sono ormai messe in discussione anche nell’ambito specifico della
gestione aziendale[54].
Vi è modo di reagire a tutto questo? Non mi sento in grado di
dare una risposta a questa domanda. Osservo solo che senza un’adeguata presa di
coscienza da parte degli accademici e dei ricercatori del contesto nel quale
ormai operano e senza una decisa spinta verso l’unità delle comunità, vi sarà
assai poco da fare.
Ho solo una certezza: percorrere la strada della valutazione
bibliometrica (ai fini della valutazione della ricerca o del reclutamento),
costituirebbe per le nostre discipline un vero e proprio suicidio.
Mi limiterò a un esempio. Da alcuni anni le classifiche
internazionali[55] non
mancano di raggiungere le prime pagine dei giornali, e talvolta sono
sbandierate con grande enfasi anche da qualche rettore. Al di là dei numerosi
aspetti critici che affliggono tali classifiche, la cui attendibilità è nella
migliore delle ipotesi scarsa[56], segnalo che vi sono due
modi sicuri per guadagnare posizioni: chiudere i dipartimenti di scienze umane,
togliere di mezzo i sociologi e gli economisti non bibliometrici e procedere ad
accorpamenti di atenei. Infatti, si tratta di classifiche nelle quali
l’elemento dimensionale e il “peso” in termini citazionali costituiscono
elementi determinanti.
Come ho accennato in precedenza, a mio parere l’aspetto più preoccupante per le scienze umane e
sociali e per le nostre discipline in particolare, è costituito dal tentativo
di risolvere la propria “crisi di identità” attraverso una sorta di
assimilazione alle scienze dure. La reazione dell’Agenzia di valutazione alla
già accennata discrepanza fra valutazione bibliometrica e revisione dei pari, è
stata di avviare riflessioni e sperimentazioni sulla possibilità di applicare
l’analisi bibliometrica a tutte le scienze umane e sociali, sia attraverso
progetti propri, sia seguendo con attenzione i progetti pilota attivati dalle
principali banche dati commerciali internazionali, per un censimento
citazionale delle monografie[57]. Si tratta naturalmente
di progetti di lungo termine, non destinati ad avere immediata attuazione, ma
che preoccupano in quanto potrebbero trasferire i danni già causati alle
scienze dure nell’ambito delle nostre discipline.
Tanto più che va osservato come le comunità scientifiche
appartenenti alle scienze dure abbiano alcune caratteristiche specifiche: un
amplissimo numero di componenti, l’uso precipuo della lingua inglese, uno stile
di pubblicazione centrato sul journal
paper e una velocità di circolazione dei prodotti di ricerca che spesso è
inversamente proporzionale alla loro “durata” (ossia al numero di citazioni
ricevute nel tempo)[58]. Tutto ciò non vale per
le nostre discipline e per buona parte di quelle della macroarea delle scienze
umane e sociali: le comunità sono sovente numericamente ridotte, il che priva
l’analisi citazionale di qualsiasi significato, riducendolo a rumore statistico[59]. Inoltre, crescono
esponenzialmente i rischi di comportamenti non etici o antiscientifici, poiché
risulta molto più facile organizzare reti citazionali[60]. Ancora, la lingua
inglese non è prevalente, poiché per antica tradizione si fa ricorso a una
pluralità di lingue nazionali, dominano le pubblicazioni monografiche o i
contributi in volume oltre a un’ampia varietà di altri generi letterari.
Infine, la velocità di circolazione dei prodotti di ricerca è solitamente
piuttosto lenta, se raffrontata a quella delle scienze dure, così come né è più
lunga la vita. Naturalmente si può discutere sull’opportunità di modificare
questo assetto tradizionale, ma occorre valutare con attenzione i gravi rischi
di snaturamento delle discipline.
A questo proposito, vorrei fare un cenno anche all’ormai annoso
problema delle classifiche o rating di riviste. Di fronte alle difficoltà, se
non all’impossibilità di introdurre l’analisi citazionale in larga parte delle
scienze umane e sociali, si è reagito con l’adozione di liste di riviste;
nell’intenzione dell’Agenzia di valutazione si sarebbero dapprima dovute
individuare le riviste meritevoli di essere considerate scientifiche, quindi
liste speciali di riviste di eccellenza (“di fascia A”). Inutile dire che
questa operazione mirava a sopperire alla mancanza di indicatori bibliometrici,
quali l’impact factor (IF), per
censire le riviste.
Tutta la procedura è stata mal progettata, mal condotta e
scarsamente condivisa con le comunità scientifiche: fra le riviste scientifiche
sono state censite numerose pubblicazioni dubbie. D’altro canto l’assegnazione
dell’ambita fascia A è stata determinata secondo un processo opaco se non, talora,
del tutto discrezionale: non a caso ne è sorto un contenzioso di un certo
rilievo e non ancora terminato, davanti al giudice amministrativo[61]. Non solo: si è scelto di
limitare la scientificità di una rivista all’area disciplinare, e la fascia A
al settore concorsuale. Una scelta ovviamente esiziale per la ricerca inter e
multidisciplinare: come può una rivista essere scientifica per giurisprudenza e
non esserlo per sociologia? Come può una rivista di storia del diritto essere
di fascia A per il proprio settore e non per diritto romano o filosofia del
diritto? L’Agenzia si è accorta tardivamente del pasticcio e ha così dovuto
riformulare gli elenchi, basandosi sulle pubblicazioni dei docenti censite da
CINECA, tanto che ora fra le riviste di fascia A per diritto romano troviamo
inopinatamente Banca Borsa e Titoli di
Credito, mentre fra quelle di storia del diritto si trovano Agricoltura, Istituzioni, Mercati e la British Tax Review. Si tratta di solo
pochi esempi, ma che bastano a dare un’idea della situazione. Situazione che
sarebbe ridicola se non fosse in realtà tragica: da un canto, infatti,
l’adozione di classifiche di riviste è largamente criticata nel dibattito
scientometrico internazionale[62]. Le ragioni sono tutto
sommato ovvie: si consolidano determinati ambiti di potere accademico,
favorendo la ricerca mainstream e
sopprimendo quella di nicchia. Esse, in buona sostanza, determinano un
impoverimento del panorama scientifico, così come di quello editoriale: non a
caso, sono uno strumento amato per lo più dalle business schools britanniche. Inoltre, come si è detto, esse minano
le relazioni fra discipline, irrigidiscono il sistema e orientano gli studiosi
più giovani non certo per il meglio: poiché essi dovranno darsi molto da fare
per compiacere direttori e comitati editoriali delle riviste di eccellenza,
senza discostarsi dall’orientamento dominante e semmai dimostrando – a suon di
citazioni – di aderirvi.
Da questo punto di vista, le classifiche di riviste aprono la
strada agli aspetti peggiori della bibliometria citazionale.
Sarebbe stato certamente meglio limitarsi alla redazione di
elenchi di riviste scientifiche, identificate sulla base di parametri chiari e
oggettivi, e che fossero tali per tutte le discipline. Invece, si continua a
procedere sul sentiero intrapreso, senza neanche accorgersi che esso diviene
via via più scivoloso. Si sta infatti consolidando un circolo vizioso di
procedure di valutazione rigidamente amministrativizzate che non potranno che
sfociare in ulteriore contenzioso[63]. Basti pensare a quanto
prescritto dalle nuove regole relative alla VQR, che prevedono che la classe di
appartenenza delle riviste sia appunto rivista sulla base degli esiti VQR.
Tutto questo mentre la bozza del nuovo D.M. in materia di criteri e parametri
per l’abilitazione scientifica nazionale richiede il superamento di soglie
rigide e inderogabili sia per gli aspiranti commissari che per i candidati,
soglie computate esclusivamente sul numero di monografie e sul numero di
articoli, appunto, di fascia A.
Tutto ciò accade, peraltro, in un contesto di perdurante
sfiducia da parte dell’opinione pubblica e della dirigenza politica nei
confronti delle comunità scientifiche, tanto che limitarne la discrezionalità
sembra essere diventato un obiettivo primario del policy maker: ma discrezionalità non è o non dovrebbe essere
arbitrarietà. Eppure, anche recenti orientamenti del giudice amministrativo
sembrano andare in questa direzione, poiché in alcune occasioni sia il TAR che
il Consiglio di Stato sembrano aver voluto intervenire limitando la
discrezionalità tecnica delle commissioni sulla base di una ricostruzione
dell’Abilitazione nella quale un ruolo specialmente ampio spetta ad automatismi
fondati su indicatori numerici[64].
Per questo aspetto, credo che la nostra comunità disciplinare e
scientifica debba adoperarsi attivamente, al fine di difendere la propria
autonomia e le proprie peculiarità disciplinari.
E’ certo vero che viviamo in un perdurante periodo di
ristrettezze, segnato da tagli profondi delle
risorse finanziarie e dalla riduzione consistente del personale docente
e ricercatore. Inoltre, le nuove regole in materia di accreditamento dei
dottorati sono estremamente restrittive e ciò ha comportato una drastica
riduzione dei dottorati dedicati ai nostri settori disciplinari: questo è un
fatto particolarmente grave, poiché mina alla base la possibilità di perpetuare
le discipline. D’altro canto, il malfunzionamento cronico delle procedure di
reclutamento e i tempi estremamente dilatati nelle progressioni di carriera,
hanno reso la carriera accademica una scelta che spesso i migliori laureati non
vogliono seguire, preferendo orientarsi verso altri e più gratificanti
percorsi.
Ancora, la scarsità di risorse spinge le discipline a divorarsi
fra loro, all’interno delle strutture: c’è da augurarsi che non prevalga la
tentazione di ricercare la sopravvivenza, come naufraghi fra le onde,
attraverso il cannibalismo. E’ questo peraltro un fenomeno che coinvolge anche
i dipartimenti di uno stesso ateneo e gli atenei fra loro. Se fra i
dipartimenti, gli Atenei, le discipline, si dovesse affermare il principio del mors tua vita mea, cosa della quale vi
sono già stati segnali negli scorsi anni[65], ci avvieremmo verso un
ulteriore, drastico ridimensionamento del nostro patrimonio scientifico e
culturale, con conseguenze significative sul Paese tutto.
Infine, l’assurda definizione di “materie culturali” – quasi che
il diritto o la procedura civile non fossero “cultura”, ma “pratica”, suona
particolarmente allarmante di questi tempi, poiché si va sempre più affermando
l’idea che le università non debbano insegnare solo scienza, ma anche
competenze. Dietro la pedagogia per competenze, come ha giustamente osservato
il compianto Giorgio Israel[66], stanno studi di
carattere aziendale risalenti agli anni ’60 dello scorso secolo, che di fatto
sono stati rielaborati ed introdotti nei sistemi educativi per assicurare una
più facile occupabilità dei giovani. Non voglio qui approfondire la questione,
estremamente complessa e che richiederebbe anche una riflessione sui cosiddetti
test standardizzati (Invalsi, Teco e così via). Osservo solo che anche questo
aspetto pone una sfida non piccola alle nostre discipline, la cui didattica,
peraltro, è al contempo resa sempre più difficile dalla sempre più scarsa
conoscenza delle lingue antiche da parte degli studenti: anche su questo punto
andrebbe forse avviata una riflessione.
Mi rendo conto, in ogni caso, di aver dipinto fin qui un quadro
piuttosto cupo.
Concludendo vorrei però tornare sui rischi e le opportunità
menzionati in apertura. Vi sono opportunità? In uno scritto apparso di recente,
Vincenzo Giuffré si dice preoccupato del fatto che «le nostre discipline, a
parole riverite dai Colleghi che professano diversi settori dello scibile
giuridico, nei fatti non sono più apprezzate. I nostri scritti non sono letti»[67]. Qualche anno fa si era
espresso in modo per certi versi analogo Sabino Cassese, rilevando che «gli
studi di diritto romano sono rimasti troppo a lungo chiusi in se stessi, poco
attenti ... a relativizzare l’oggetto del proprio studio e se stessi»[68]. Sono parole non certo
piacevoli ma che credo vadano sfruttate quale stimolo per continuare la
riflessione avviata dalla SISD nel corso di quest’anno. Le discipline storiche
del diritto hanno infatti racchiuso in sé un enorme vantaggio: esse sono per
natura adatte alla riflessione inter – e multidisciplinare. Sappiamo tutti, e
ne hanno discusso svariati colleghi, come vi siano una pluralità di interessi,
di approcci, di stili e di metodi[69].
E’ una pluralità che meriterebbe di essere riscoperta come ricchezza: solo le
nostre discipline, infatti, sono in grado di rivolgersi e dialogare agilmente
al contempo con le discipline storiche e filosofiche e d’altro canto con gli
studiosi di diritto positivo.
Da un canto, infatti, una conoscenza della storia o della
filosofia del passato (inclusa la filosofia politica) rimane monca senza
l’apporto della storia del diritto. D’altra parte, se è vero che il diritto è un
fenomeno storico, riesce difficile concepire un giurista (uso il termine nel
suo senso più pieno), che possa fare a meno della coscienza della dimensione
temporale della propria scienza: per questo aspetto non mancano di certo gli
spunti per avviare riflessioni comuni sui grandi temi della giustizia, del
pensiero giuridico, del diritto in genere, insieme a coloro che si occupano
dell’oggi. Si è molto discusso negli ultimi anni di crisi e trasformazioni del
diritto: dalla decodificazione, alla delegificazione, alla cosiddetta crisi
degli ordinamenti nazionali in un quadro sovranazionale che a dire il vero pare
essere anch’esso non in buona salute. Ma più in generale mutamenti importanti
stanno interessando aspetti strutturali delle democrazie occidentali – penso
alla cosiddetta crisi della rappresentanza – così come i rapporti fra cittadino
e Stato, nonché il ruolo e la funzione della pubblica amministrazione; questo
per citare solo alcuni esempi, poiché se ne potrebbero fare molti altri.
Autorevoli colleghi hanno espresso – pur in modi diversi – l’opinione secondo
la quale, in fasi di trasformazione come quella attuale, lo “sguardo” lungo
degli storici del diritto possa costituire un elemento non accessorio né
esornativo del dibattito, ma piuttosto un tassello essenziale per lo sviluppo
di una riflessione davvero ricca e approfondita e proprio per questo capace di
affrontare in modo efficace le trasformazioni del tempo presente[70]: è un’opinione che
condivido e credo che proprio questa sia la via da percorrere.
In conclusione, mi pare che le sfide che si presentano in questo
particolare momento storico possano essere affrontate in due modi che si
sostengono a vicenda: con una ricerca di unità e coesione, nei confronti dei
non pochi pericoli che incombono dall’esterno ed allo stesso tempo favorendo
un’apertura reciprocamente benefica verso gli altri saperi e le altre
discipline. Proprio per questo, credo sia importante che il dibattito apertosi
quest’anno continui a svilupparsi nei prossimi mesi.
The crisis of humanities and social sciences is also impacting history
of law. What are the origins of this phenomenon? What changes have occured in
the educational and research systems? What we can expect in the near future? In
the following pages I will try to answer these questions with a special focus
on the Italian situation.
[1] Sul presente testo si è basata la relazione
da me tenuta al Convegno annuale della Società Italiana di Storia del Diritto, il
19 novembre 2015, presso l’Università Cattolica di Milano. Ringrazio di cuore
per i commenti ed i suggerimenti i professori Eva Cantarella, Sabino Cassese,
Marco Miletti, Luisa Ribolzi.
[2] Penso in particolare agli interventi tenuti a
Roma il 16 ottobre 2015 da E. Stolfi, G. Pace, G. Santucci, A. Mazzacane, A.
Calore, D. Quaglioni, C. Masi Doria, P. Costa.
[3]
Cfr. ad es. i riferimenti bibliografici contenuti in E. Belfiore, A. Upcurch (cur.), Humanities in the Twenty-First Century. Beyond Utility and Markets,
New York 2013; J. Bate (cur.), The Public Value of the Humanities,
London 2011; H. Small, The Value of the Humanities, Oxford
2013.
[4] Science The Endless Frontier. A Report to the President
by Vannevar Bush, Director of the Office of Scientific Research and
Development, July 1945: https://www.nsf.gov/od/lpa/nsf50/vbush1945.htm.
[7] Il
Politecnico, Repertorio mensile di studj applicati alla prosperità e coltura
sociale, vol. 1, Milano 1839.
[8]
Cfr. J. Mokyr, The Gifts of Athena. Historical Origins of
the Knowledge Economy, Princeton 2002, 4 ss.
[12] Un fattore questo, a ben vedere
sostanzialmente assente nel passato più remoto, fatti salvi casi di occasionale
mecenatismo. Cfr. L. Ségalat, La scienza malata? Come la burocrazia
soffoca la ricerca, Milano 2010, 13 ss.; W.W. McMahon, Higher
Learning, Greater Good, Baltimore 2009, 32 ss.; P. Stephan, How Economics
Shapes Science, Cambridge (Mass.) 2012, 203 ss.
[15]
B. Luckin, The Crisis, the Humanities and Medical History, in Medical History 55,3 (2011), 283-287.
[16] R. Moscati, M. Regini,
M. Rostan, Torri d’avorio in frantumi? Dove vanno le università europee,
Bologna 2010, 31 ss.
[21] Cfr. A.
Banfi, G. Viesti, “Meriti” e
“bisogni” nel finanziamento del sistema universitario italiano, Working Papers Res 3/2015, 22 ss.
[22]
Cfr. A. McGettigan, The Great University
Gamble and the Future of Higher Education, London 2013, 55 ss.
[24] Si parla in proposito, con una felice
definizione di Donald Gillies di pink
diamonds. Cfr.
D. Gillies, How Research Should be Organized?, London 2008, 35 ss.
[25] Leggi appartenenza a consorterie, adesione
acritica alla “scienza normale” o mainstream
e così via.
[27] Y. Gingras, Les dérives de l’évaluation de la recherche. Du bon usage del
bibliométrie, Paris 2014, 36 ss.
[28]
Cfr. fra i tanti Gillies, How Research Should be Organized?, cit.,
29 ss.; S.J. Ceci, D.P. Peters, Peer Review: a Study of Reliability, in Change 14.6 (1982), 44-48; R. Smith, Peer review: a flawed process at the heart of science and journals,
in Journal of the Royal Society of
Medicine, 99 (2006), 178-182.
[29]
G. Ietto Gillies, Open peer review, open access and a House of
Commons report, in Real-World
Economics Review 60 (2012), 74-91.
[30]
B.R. Martin, The Research Excellence Framework and the “impact agenda”: are we
creating a Frankenstein monster?, in Research
Evaluation, sept. 2011, 247-254; P. Dahler-Larsen,
The Evaluation Society, Stanford
2012, 183 ss.
[31] N. De Bellis, Bibliometrics and Citation Analysis, From the Science Citation Index to
Cybermetrics, Lanham 2009, 1 ss.
[32] A. Baccini,
Valutare la ricerca scientifica. Uso e
abuso degli indicatori bibliometrici, Bologna 2010, 37 ss.
[33]
Cfr. Gillies, How Research Should be Organized?, cit., 55 ss. Gingras, Les dérives de l’évaluation de la recherche, cit., 60 ss.; B. Cronin, The Hand of Science, Oxford 2005, 139 ss.
[35] Cfr. A. Banfi,
Impatto nocivo. La valutazione
quantitativa della ricerca e i possibili rimedi, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, II (2014), 361-384; Ségalat, La scienza malata?, cit., 66 ss.
[36] Cfr. ad es. F.M.
Paulus, L. Rademacher, T.A.J. Schäfer, L. Müller-Pinzler, S. Krach, Journal Impact Factor Shapes Scientists’
Reward Signal in the Prospect of Publication, in PLoS ONE 2015, 10(11): e0142537. doi:10.1371/journal.pone.0142537; Ségalat, La scienza malata?, cit., 113 ss.; F. Magris, La concorrenza
nella ricerca scientifica, Milano 2012, 29 ss.
[39]
A.L. Verbecke, Leuwen Law Research Classification and Evaluation
Model, LL RCEM Xmas 2013 draft
memo.
[40] Cfr. A. Banfi,
Aspetti problematici del reclutamento
accademico in Italia, in Ius Publicum
Network Review, I (2015).
[41] Maggiori dettagli in A. Banfi, Osservazioni sulla valutazione della ricerca nelle scienze umane e
sociali, in Astrid Rassegna,
155.6 (2012).
[42] Si vedano ad es. i rapporti finali di area 11
(p. 25) e 14 (p. 64), disponibili sul sito dell’Agenzia.
[43] A tutti i settori concorsuali, a rigore, sono
stati applicati criteri bibliometrici, sicché meglio sarebbe stato distinguere
settori citazionali e non citazionali.
[44] Infatti, per i settori bibliometrici era
richiesto il superamento di due mediane su tre, comprendenti il numero degli articoli su rivista
indicizzati sui maggiori database internazionali (ISI, Scopus/WOS), il numero di citazioni, l'indice H. Per i settori non
bibliometrici si richiedeva il superamento di almeno una mediana sui seguenti indicatori:
numero di articoli su rivista e capitoli di libro, numero di monografie, numero
di pubblicazioni su riviste di “fascia A”. Da segnalare che l’uso di indicatori
bibliometrici per la selezione di professori e ricercatori è ampiamente
contestato a livello internazionale. Si veda fra l’altro la S. Francisco Declaration on Research
Assessment, DORA (http://www.ascb.org/dora/).
[45]
Mi permetto di rinviare
ad A. Banfi, L’abilitazione scientifica nazionale: un edificio fragile, alla prova
del giudice, in Giornale di Diritto
Amministrativo, 5/2015, 605-612.
[46] M.I.
Finley, Crisis in the Classics, in J.H. Plumb
(ed.), Crisis in the Humanities
(cit.), 11 ss.
[48] M.C.
Nussbaum, Not for Profit. Why Democracy
Needs the Humanities, Princeton 2010, spec. 13 ss.
[49] Per indicazioni bibliografiche in tal senso
rimando in particolare a Small, The Value of the Humanities, cit., passim.
[50]
D. Gillies, The Use of Mathematics in Physics and Economics: a Comparison, in D. Diecks, W.J. Gonzalez, S. Hartmann, M.
Stöltzner, M. Weber (edd.), Probabilities,
Laws and Structures, Heidelberg 2012, 351-362; Y. Gingras, Les dérives
de l’évaluation de la recherche, cit., 39 ss.
[56]
Cfr. ad es. Gingras, Les dérives de l’évaluation de la recherche,
cit., 98 ss.; J.C. Billaut, Should you believe in the Shanghai ranking?,
in Scientometrics 84 (2010), 237-263;
M. Osterloh, B. Frey, Academic rankings between the "republic of science" and
"new public management", in The Economics of Economists 2014,
77-103; N. Adler, A. Harzing, When Knowledge Wins: Transcending the Sense
and Nonsense of Academic Rankings, in Academy
of Management Learning & Education 8.1 (2009), 72-95.
[57] Cfr. M. Cammelli,
Anvur, data base bibliometrica italiana
aree umanistiche e sociali: note a margine, in Astrid Rassegna 194.1 (2014); P. Galimberti,
Valutazione e scienze umane : limiti
delle attuali metodologie e prospettive future, in Astrid Rassegna 191 (2013).
[59]
Cfr. A. Banfi, Qualche osservazione su valutazione della ricerca e scienze umane,
in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano V. Scialoja 106 (2012), 437 ss.
[61]
Su questi aspetti mi
permetto di rimandare al mio A. Banfi,
Il resistibile fascino delle classifiche
di riviste, in Rassegna Italiana di
Valutazione 51 (2011).
[62]
Cfr. fra i tanti M.Z. Fuchs, Bibliometrics: use and abuse in the
humanities, in AAVV., Bibliometrics:
Use and Abuse in the Review of Research Performance, Portland 2014,
107-116.
[63]
Cfr. S. Cassese, L’Anvur ha ucciso la valutazione. Viva la valutazione, in Il Mulino I (2013), 73 ss.
[65]
Cfr. Banfi, Viesti, “Meriti” e “bisogni” nel finanziamento del sistema universitario
italiano, cit., passim.
[66] G. Israel,
Sulla questione delle competenze, in Scuola Democratica, II (2011); cfr.
anche A. Del Rey, La tyrannie de l’évaluation, Paris 2013,
24 ss.
[68] S. Cassese,
Eclissi o rinascita del diritto?, in
P. Rossi (ed.), Fine del diritto?, Bologna 2009, 34;
cfr. anche A. Padoa Schioppa, Il giurista europeo, in Id., Ri-formare
il giurista. Un percorso incompiuto, Torino 2014, 165 ss.
[69] Cfr. in proposito, fra i tanti, il recente
scritto di M. Schermaier, From non-performance to mistake in
contracts: the rise of the classical doctrine of consensus, in B. Sirks (ed.), Nova Ratione. Change
of paradigms in Roman Law, Wiesbaden 2014, 107 ss.;
[70] Cfr.
ad es. L.
Capogrossi Colognesi, Una pluralità di soluzioni e di diritti come felice inizio, in
Rossi (ed.), Fine del diritto?, cit.,
11-28; A. Calore, Leggere il Digesto: un’introduzione, in Roma e America. Diritto romano comune 35
(2014), 175-182; A. Di Porto, Res in usu publico e “beni comuni”. Il nodo
della tutela, Torino 2013, XX ss. Una ricostruzione storica in M. Brutti, I romanisti italiani in Europa, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi 5 (2014),
211-254.